domenica 17 novembre 2019

Di tutto un po' - 17 novembre 2019


Ariel Magnus “Un cinese a Buenos Aires” Gran Via s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017– I: 17/06/2019 – T: 24/06/2019] - &&   
[tit. or.: Un chino en bicicleta; ling. or.: spagnolo; pagine: 264; anno 2008]
Ariel è un 44enne argentino, che si occupa di scrittura, e che, partendo da un fatto di cronaca, poco più che trentenne scrive questo romanzo-apologo. Mi avevano fin dall’inizio incuriosito, nell’omaggio dell’amico Fako: il nome dell’autore, il cognome dell’autore, l’editore, la copertina, il titolo. Poi verrà anche il testo ma… Intanto, Ariel, più che la Sirenetta disneyana, mi ricordava angeli custodi vari, e qualcosa di ebraico. Andando a fondo, si è proprio un nome ebraico, nonché uno degli antichi nomi di Gerusalemme. Il cognome, poi, mi riporta ad uno dei più grandi fumettisti italiani, Roberto Raviola in arte Magnus, ma non entra per nulla con argentinerie varie. Di “Gran Via” avevo già avuto contatti, che meritoria mi sembra l’idea di promuovere la letteratura di lingua spagnola in Italia. La copertina invece mi rimanda alle case della Boca, il quartiere più colorato e più italiano di Buenos Aires, quello con lo stadio del Boca Junior (cioè di Maradona, Batistuta e compagnia), anche se poi è solo uno specchio per le allodole, che mai ci si aggira per questo quartiere. Infine, ‘sto titolo appiccicato che, ovvio che stiamo a Buenos Aires, ma il titolo originale riguarda “Un cinese in bicicletta”, che ha senso anche con la storia stessa. Infatti, nel 2006 in diversi luoghi di Buenos Aires ci fu una serie di incendi, tutti in negozi di mobili, tutti nel cuor della notte, finché la polizia ha fermato un cinese in bicicletta che aveva con sé bidoni di benzina, fiammiferi e pietre per rompere le vetrine. Un colpevole perfetto, da prendere per spunto, per tirar fuori una storia di immigrazione e di rapporti tra strati sociali e culturali diversi. da qui, allora Ariel prende l’avvio per la sua narrazione. Retrodatandolo un pelino, alla notte del 2 settembre 2005. Ramiro, il protagonista, sta tornando da casa della fidanzata e si imbatte nell'arresto di Li, poi soprannominato Cerino perché accusato di essere il responsabile degli undici incendi di negozi di arredamento avvenuti tutti nella stessa zona di Buenos Aires e nel mese di agosto. Ma noi ci affacciamo al romanzo un anno dopo, un anno in cui al povero Ramiro accadono disgrazie una dopo l’altra. Non ultima la scoperta del tradimento della fidanzata con il suo migliore amico. Inoltre, il giorno in cui deve testimoniare al processo lo licenziano. Come se non bastasse, al processo Li viene condannato, e decide allora di scappare. Ovviamente usando come ostaggio il buon Ramiro. Ruba una volante, e dopo una carambolesca fuga, nasconde l’ostaggio in una bettola cinese, dall’augurale nome di "Tutti soddisfatti". Siamo nel quartiere Belgrano, una specie di Chinatown in Argentina. Ramiro, rinchiuso in due stanze insieme ad un anziano, una coppia e una sarta con suo figlio, mangia cibo cinese, ascolta dialoghi cinesi, guarda in televisione canali satellitari cinesi, sfoglia riviste cinesi. Cerca di superare la noia della prigionia inventando dialoghi immaginari. Pensa che qualcuno, i suoi amici, la polizia, lo stia cercando, ma nessuno sembra notare la sua assenza. Dopo due settimane di reclusione, insieme a Li comincia ad uscire, a scoprire il quartiere, nonché aiutare il suddetto Li a provare la sua innocenza. Detto che sarà il risultato finale positivo (almeno uno), Ariel approfitta di questa “estraneazione” per fare un po’ di antropologia sulla vita di una comunità all’estero, e sui giudizi e pregiudizi reciproci. Che poi in fondo è la cifra che Magnus voleva dare al testo. Tutta questa parte è forse la più divertente. Ad esempio, quando Ramiro è alle prese con una prostituta cinese, si lancia in questa riflessione: “Ammetto di averla tenuta un po' sotto osservazione anch'io, fino a quel momento non lo avevo mai fatto con un cinese, tuttavia la mia indagine durò pochi secondi, giusto il tempo di verificare che non ce l'hanno orizzontale”. E poi lo spaesamento quando, a contatto con un gruppo di cinesi: “feci uno sforzo di memoria e ricordai che era quello che aveva lasciato la stanza …  prima che ci entrassi io, quello che mi spaventò non fu tanto il fatto di incontrarlo lì, quanto piuttosto il rendermi conto che riuscivo a distinguere così bene un cinese da un altro da essere in grado di dire con certezza quando due erano lo stesso”. Il tutto collassa verso una fine annunciata, che Ramiro si trova talmente bene con i cinesi, che non solo aiuterà Li, ma si troverà una fidanzata con gli occhi a mandorla. Tuttavia, il romanzo non è bilanciato, e nella seconda parte è un po’ prolisso e scontato, Tanto che non si risolleva più ai fasti della scrittura iniziale. Al fondo, però, ci pone una domanda, che lui non risolve, ma che è giusto girare a tutti noi che viviamo in città con forti presenze asiatiche: quanto in realtà sappiamo e capiamo di questi immigrati? Che sono tra l’altro regolari. Se ne dovrebbe parlare.
“Provelbio cinese è: se hai ploblema che non ha soluzione, pelché ti pleoccupi? E se ha soluzione, pelché ti pleoccupi?” (162)
“Più lontano si viaggia meno si sa (Lao Tse)” (217)
“Non capisco perché ci sia bisogno di tutte queste coincidenze per raggiungere la felicità. - Hai mai pensato che noi non ci saremmo mai dovuti incontrare?” (264)
Michele Serra “Le cose che bruciano” Feltrinelli euro 15
[A: 13/05/2019 – I: 27/06/2019 – T: 28/06/2019] - 🕮🕮🕮--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2019]
In realtà sono rimasto leggermente spiazzato, che, erroneamente, pensavo si trattasse non dico di un saggio, ma quanto meno di un lungo elzeviro sulla vita moderna, così come Michele ci ha abituato da anni dalle pagine di Repubblica. Invece si tratta di un romanzo, anche se, ed è ovvio dato il personaggio, è un romanzo a tema. Un tema “minimale”, ma di certo interessante per essere dibattuto e commentato. Un politico in carriera incappa in un intoppo del suo brillante panorama. Si intestardisce, contro ogni evidenza, nel portare avanti una proposta di legge, pur interessante nella sua formulazione, ma anacronistica nel panorama attuale. Attilio, il protagonista, propone che tutte le scuole di ogni ordine e grado ritornino alle divise scolastiche di un tempo. in questo modo si potrebbero annullare gli effetti perversi dei giovani che si vogliono esibire, nel vestire, nel tatuarsi, nell’ostentazione di inutili differenze sociali. Idee non peregrina, ma inattuabile (lo capite bene tutti). Attilio, sconfitto, decide che poco altro ha senso, e si ritira in un mondo contadino, dove, giorno dopo giorno, amicizia dopo amicizia, riscopre valori fondamentali che la frenesia del mondo moderno aveva fatto sparire. La lentezza, la decrescita, la solidarietà. Insomma, una specie di summa laica del pensiero e delle opere di Don Milani. Si industria, trova anche un modo di convivenza con la moglie in carriera, che gira il mondo costruendo e guadagnando montagne di soldi di cui Attilio, pur con qualche riserva, attinge per vivere. Rovesciando il rapporto uomo – donna, con la donna che guadagna e l’uomo si casalingheggia. Attilio ha anche una diversa ossessione, rispetto ad una serie di eredità di parenti decedute: mobili, carte, tante cose inutili, di cui disfarsi, e di cui tenta di fare un falò (sono appunto le cose che bruciano). Qui arriva il punto di doppia svolta, nel rapporto con i suoi vicini amici, Severino e sua moglie, la Bulgara. Che Severino lo convince ad iniziare una coltivazione di zafferano, pianta assai redditizia, ma che va trattata con garbo e delicatezza. Non c’è macchinario per farne una raccolta efficace. Bisogna rimboccarsi le maniche e spaccarsi la schiena. Cosa che Attilio accetta di buon grado, quasi a punirsi della sua dissoluta vita precedente. E c’è la Bulgara, che, visiti i tentativi di falò abortiti di Attilio, lo convince a lasciare a lei i brutti divani e le poltroncine anacronistiche. Cui, con pazienza ed amore, fornisce nuova vita e nuova linfa, rigenerandole. L’apologo avrà una fine scontata, e forse a me poco piaciuta. Attilio, con pazienza e perseveranza, metterà in piedi una fiorente produzione di zafferano, diventando uno dei maggiori produttori italiani. Ci sono altri elementi di contorno, che servono a riempire le pagine, visto che i fatti narrati ne occuperebbero la metà. C’è la sorella di Attilio, Lucrezia, con la sequela di mariti ricchi da cui divorzia con cospicue libagioni. C’è Federico, il ragazzo fuggito dalla città per fare il pastore. C’è Saverio, il predicatore solitario, con il quale Attilio istaura un rapporto di discussione teologica, e che nominerà Attilio, anche se del poco che ha, uno dei suoi eredi. Insomma, un apologo sul ritorno al poco per ottenere il molto, che tuttavia non riesce a bucare la pagina. Non si ride di nulla. E si riflette un po’, ma in modo poco convinto. Non ci sono elementi nuovi, scatenanti, urgenti che vengono alla mente durante la lettura. Che alla fine passa, senza troppo colpo ferire. Rimangono solo due momenti di collegamento, personale, e forse poco interessanti, ma che vi riporto. A pagina 36, Attilio imita il verso del rigogolo, ripensando ad un orologio, non so da chi avuto, che scandiva le ore con i versi degli uccelli. Immagine che mi ha rimandato ad un libro di Danila Comastri Montanari e del suo Publio Aurelio Stazio, investigatore della Roma di Claudio, che appunto risolve un caso proprio per mezzo di un tale orologio. Che inopinatamente era stato fatto suonare due volte con lo stesso verso uccellifero, cosa che aveva consentito ad Aurelio di ricostruire le movenze di un assassinio. La seconda è invece più personale, che a pagina 61 Attilio si domanda “che fare delle decine di carte stradali d’Europa – le più recenti degli anni ottanta – che conservo in ricordo dei miei viaggi giovanili, tutte piegate male, bozzute … con una attendibilità ridotta allo zero”. Una riflessione che sottoscrivo, perché se apro il grande cassetto del mobile del salone, proprio decine di carte stradali inutili saltano fuori. Forse aspetto anch’io di ripensarle come ad una giovinezza trascorsa sulle strade francesi, o sui tornanti trentino-veneti. O forse aspetto di bruciarle. O che qualcuno, prendendomi per mano, mi faccia finalmente crescere. Come diceva Battiato, “quant’è difficile invecchiare senza diventare adulti”.
“Essere vivi non è un diritto, è un prodigio.” (80)
Ian McEwan “Miele” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 28/08/2017 – I: 01/07/2019 – T: 04/07/2019] - & +
[tit. or.: Sweet Tooth; ling. or.: inglese; pagine: 353; anno 2012]
Pur riconoscendo e sapendo che McEwan è un degno scrittore, nella mia biblioteca (e nelle mie letture) compare soltanto con due romanzi e due racconti. Essendo che da più di dieci anni non ne prendevo in mano un nuovo testo, ho accolto, seppur con i dovuti ritardi delle mie endemiche letture, il suggerimento dell’amico Roberto. Sperando che nessuno si dispiaccia (e sperando che il nipote di mio cugino Stefano si chiami Ian per altri omaggi, che so per Rankin ad esempio o tuttalpiù Fleming) devo dire che questo libro ribadisce il mio poco lusinghiero giudizio sull’autore. Il libro non mi è piaciuto, non mi ha preso, ed ho trovato involuto e poco amichevole nei confronti del lettore il finale che, pur conseguente alla scrittura, il nostro ci propina quasi come un colpo di genio. Intanto, come al solito mi domando il senso del cambio di titolo. Che in effetti, idiomaticamente, in inglese sta a significare “goloso di dolci”. Da dove salta fuori allora questo sdolcinato “Miele” che ci propinano gli editori italiani? Al solito rimarrà un mistero. Come molti acuti osservatori hanno fatto notare, la storia è (anche) una parafrasi con qualche licenza della vita stessa dell’autore. Che un po’ si nasconde sotto il fantomatico Tom Haley. Studi nell’Università del Sussex e non nelle prestigiose “Oxbridge”. Testi dei racconti narrati dall’io narrante Serena con molti punti di contatto con i primi testi di McEwan. Presenza, nel narrato, di persone realmente a contatto con il nostro: Martin Amis, ad esempio, ma soprattutto il mentore di McEwan, Ian Hamilton. Nonché, ed è questo l’elemento che credo abbia scatenato la voglia di scrivere. L’idea di ripercorrere i turbolenti inizi degli anni ’70, irti di difficoltà per il popolo britannico: guerra con l’IRA, problemi di equidistanza tra USA e URSS, crisi petrolifera, l’alternanza al potere tra Edmund Heath (tory) e Harold Wilson (Liberal). Tutta una congerie di cause che porterà pochi anni dopo al crollo del Labour ed alla ascesa al potere per tutti gli anni ’80 della Iron Lady, Margaret Thatcher. Inciso, l’unico elemento positivo, in un certo senso, che ricordi, è il fatto che fu proprio Wilson ha chiedere alla Regina Elisabetta II di nominare baronetti certi strampalati musicisti inglesi (Lennon, McCarthy, Harrison e Starr, per chi fosse di labile memoria). Venendo al testo, la prima difficoltà (mia) è che si imposta come un racconto in prima persona della sedicente signorina Serena Frome. Come già sapete, io diffido alquanto degli scrittori maschi che vogliono rappresentare il mondo visto dalla parte femminile. Il doppio inganno è poi capire se il testo che stiamo leggendo sia stato scritto (non pensato, ma materialmente svolto) da Ian che pensava come Serena o da Ian che pensava come Tom che avrebbe pensato come Serena. Un mini-mistero che lascio da risolvere a chi avrà la pazienza di leggerne. La trama, fatti i debiti tributi a quanto detto sopra, è linearmente complicata. Abbiamo la buona Serena, che vorrebbe dedicarsi alla Letteratura, essendo una lettrice onnivora quasi quanto me. Per una serie di vicende che tralascio, si laurea in Matematica, ma non segue l’istinto dei buoni numeri. Dopo aver passato del tempo con il buon Jeremy, che poi si rivelerà un simpatico gay, si innamora del maestro di Jeremy, Tony. Storia d’amore turbolenta, che, ma sapremo solo alla fine perché, Tony tronca, facendo però il regalo di inserire Serena nell’ambito ministeriale dei ranghi di basso livello dell’MI5 (i Servizi Segreti). Dove ha un piccolo penchant verso l’odioso Max, per poi entrare a capofitto nella storia con lo scrittore Tom, quando viene inserita nell’ambito del programma “Goloso di dolci (à Miele)”. Una sovvenzione nascosta per permettere a supposti promettenti scrittori di dedicarsi alla scrittura percependo un salario mensile da una fondazione dietro cui si celano i Servizi. Serena è incaricata di ingaggiare Tom. Cosa che fa, prima riraccontandoci i racconti scritti da Tom (ed è uno dei due punti interessanti del libro, una meta scrittura di un romanzo in cui si parla di un racconto), poi incontrando e venendo travolta dalla passione per Tom. Tutto fila liscio, sembra, con scrittura di libri, vincita di premi, ed amore corrisposto. Peccato che Serena viva nella menzogna, non avendo confessato il suo ruolo a Tom. Peccato che ci sia l’odioso Max che sembra voler mettere bastoni tra le ruote. Peccato che, alla fine, i giochi saltino fuori. Si scoprono gli altarini. I giornali pubblicano la storia. E tutto precipita. Ma che ruolo ha realmente Tom? E quanto l’amore Tom-Serena può essere più forte delle convenzioni esterne? McEwan ci fornisce elementi per risolvere il mistero, ma in un modo criptico, che, in un certo senso, lascia la decisione al lettore. Ed ogni lettore deciderà secondo le proprie sensibilità. Io trono solo su di un punto minore, unione di matematica e scrittura, quando Serena propone a Tom il problema di Monty Hall, e Tom ci costruisce sopra un racconto (che ritengo uno dei punti minori del libro). In poche parole, il problema è il seguente: “Supponi di partecipare a un gioco a premi, in cui puoi scegliere fra tre porte: dietro una di esse c'è un'automobile, dietro le altre, capre. Scegli una porta, diciamo la numero 1, e il conduttore del gioco a premi, che sa cosa si nasconde dietro ciascuna porta, ne apre un'altra, diciamo la 3, rivelando una capra. Quindi ti domanda: "Vorresti scegliere la numero 2?" Ti conviene cambiare la tua scelta originale?” Intuitivamente, si dice che le probabilità sono sempre le stesse. Analizzando il problema in termini rigorosi, invece, se all’inizio la probabilità di vincita sono 1/3, dopo la proposta del conduttore, cambiare porta conduce ad una probabilità di 2/3. Quindi, conviene cambiare. Piccola critica, il racconto che Tom imbastisce (dietro le porte ci sono adulteri e l’uomo deve capire quale porta aprire per cogliere la moglie in flagrante) è errato, perché una delle porte viene aperta dall’interno. Sarebbe stato più corretto, matematicamente, che una coppia salisse e scegliesse una porta, che quindi sa non essere occupata dai fedifraghi. Solo allora, l’uomo può decidere quale porta aprire per trovare moglie e amante. Se volete, ne riparliamo. Per quanto riguarda il testo, è inutilmente lento, anche se, per dar sugo al testo, i riferimenti agli anni Settanta sono tanti e corretti. Ma a me continua a non piacere.
“Se non avessi sprecato tre anni ad annaspare in matematica, magari avrei studiato letteratura ed imparato a leggere.” (122)
Graham Greene “Il fattore umano” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 4,75 euro)
[A: 09/05/2017 – I: 23/07/2019 – T: 26/07/2019] - &&& -
[tit. or.: The Human Factor; ling. or.: inglese; pagine: 325; anno 1978]
In realtà, non ricordo proprio perché ho comperato questo libro. Forse nella mania di possedere tutto di tutti gli autori. Pensavo fosse all’interno di qualche lista che nel tempo stilo, ma negativo anche quello. Comunque, l’ho letto. E, seppur non bellissimo, è quanto meno interessante. D’altra parte, Greene ha una scrittura di una lievità che taglia in profondo. Da studiare. Ed è forse solo per questa bravura dello scrivere che il libro risulta di una soddisfacente lettura. Che la storia in sé non decolla mai, non riesce a coinvolgere, anche se in vari punti ci sono elementi di entomologia scrivana di sicuro interesse. Come più volte accade negli scritti di Greene, siamo in un ambiente tipicamente, marcatamente inglese. Con personaggi che tipizzano diversi modi di essere. Soprattutto, poi, siamo negli ambienti dei Servizi Segreti, che nella mia testa hanno rimandato subito sia a quell’eponimo “Il nostro agente all’Avana”, sia a quel forse meno noto, ma sicuramente molto più forte, per me, “Un americano tranquillo”. Certo, qui non siamo più negli anni Cinquanta in Asia o Sessanta nei Caraibi. E si sente. Tutto si svolge nella tranquilla Londra, anche se i protagonisti hanno vissuto pesanti anni sudafricani, nel mezzo dei più duri forse dell’apartheid. La figura centrale è l’agente Castle, per diversi anni a Johannesburg, dove, in barba alle leggi razziali, si innamora di una donna di colore. Sta per essere incriminato dai funzionari del Partito al potere (per l’apartheid frequentare una donna di colore era un reato penalmente perseguibile), quando, con l’aiuto di un agente russo infiltrato, prima fugge in Mozambico (in particolare a Lorenço Marques, la capitale, ora rinominata Maputo), poi, raggiunto dalla bantu Sarah, con lei riesce a tornare a Londra. Dove gli viene affidato un lavoro d’ufficio, anche se sempre riguardante il sud emisfero africano. Si sposa con Sarah, riconosce il di lei figlio come proprio, e comincia una vita apparentemente tranquilla. L’azione ora si svolge sette anni dopo la fuga. Castel divide l’ufficio con l’esuberante Davis, ha una routine senza scosse con Sarah ed il figlio Sam, ha contrasti normali con la madre (un po’ cacacazzi), ha rapporti sereni con i superiori. Ma è tutta apparenza, che in realtà, per un debito d’onore con chi lo ha salvato dalle grinfie della polizia sudafricana, diventa un oscuro agente segreto russo. Passa una serie di informazioni ad un contatto, che non conosce, lasciando notizie di una banalità sconcertante, in improbabili nascondigli. Tutto potrebbe continuare all’infinto, se il nuovo capo sezione non subodorasse una fuga di notizie. Qui c’è tutta la descrizione dell’aristocrazia dei Servizi, quella scottata, e molto, da Philby e compagnia. Il capo dell’MI5, il patologo principe, i capi sezione, sono descritte, anche se brevemente, ma con un forte distacco. Sono persone abituate a giocare sulla scacchiera della vita, vanno alla caccia alla volpe, alla pesca alla trota, mangiano nei loro Club esclusivi. Proprio sulla scacchiera possono decidere di sacrificare un alfiere, per cercare di dare scacco matto all’avversario. Così, ipotizzata la fuga di notizie, decidono che il colpevole sia Davis, che viene presto eliminato. Crisi morale di Castle, che cerca di uscire dal gioco. Peccato che abbia sottomano un’ultima, nodale notizia. Decide di fare l’ultima trasmissione, ma sa che così dovrà uscire di scena. Che verrà scoperta l’innocenza di Davis, e, due più due fanno quattro, la sua colpevolezza. Ma in Castle l’onore può più dell’ideologia. Agisce, e deve sparire, lasciando però moglie e figlio a Londra. Tutta la parte finale è giocata sul filo della vita moscovita dei fuorusciti inglesi, e dai ricatti che in patria i Servizi Segreti fanno alla moglie ed al figlio. Riuscirà la famiglia a ricongiungersi? Riuscirà Castle a far capire la sua posizione? Ed altri analoghi temi. L’idea di Greene, in fondo, era semplice e duplice. Far vedere l’orrore quotidiano di un mondo che stava soccombendo all’idea che lo spionaggio fosse tutto “alla James Bond”. Anche Green aveva fatto parte di quel mondo, e ben sapeva che, per la maggior parte del tempo, era un lavoro di lettura intelligente di scartoffie, e di riordinamento delle stesse all’interno dei diversi scenari internazionali. L’altra freccia nell’arco dello scrittore è la volontà di criticare l’ipocrisia che il mondo occidentale stava utilizzando nei confronti delle misure segregazioniste sudafricane. Non a caso, pochi mesi prima della scrittura del romanzo, una trentina di nazioni africane non parteciparono alle Olimpiadi di Montreal per boicottare questo atteggiamento lassista verso il governo Vorster (uno dei più duri difensori del regime). Ma se questi propositi sono interessanti, la loro realizzazione nel testo riesce fino ad un certo punto. Rimane sospesa, non affonda, né verso il completo orrore, né verso l’assoluzione totale. Insomma, un libro che vaga nel limbo di quelli possibilmente ben riusciti, ma non completamente realizzati.
Come sapete, la terza settimana è dedicata alla ricerca della felicità, in qualsiasi libro si trovi. Ed anche se Ende non mi convince, c’è sempre qualche sprazzo di ombra da tenere in considerazione.
Che dire poi di una settimana in cui molte caselle sono andate al loro posto (nell’infinita lotta con tutte le aziende pubbliche di servizi), ed anche la campagna ha avuto il suo giusto spazio di riposo e di ricarica. Va bene così, anche se si viaggia poco fisicamente e molto mentalmente. Per questo abbraccio tutti, anche se in modo umido com’è questo tempo uggioso.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
NOVEMBRE 2019
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 2

LIBRI CITATI:
LA STORIA INFINITA di MICHAEL ENDE (1979)
“Momo” di Michael Ende (1973)

“L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafón (2002)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.

LA STORIA INFINITA di MICHAEL ENDE

Alcune storie ci catturano a tal punto da intrappolarci nel libro che stiamo leggendo. Alcune sono così coinvolgenti che vorremmo avere il potere di influenzarne gli eventi. Alcuni personaggi, poi, li sentiamo così vicini da desiderare di parlare con loro, consigliarli, aiutarli o chiedergli aiuto. Questo è esattamente quello che succede al protagonista de La storia infinita, metaromanzo a scatole cinesi e straordinaria metafora del piacere della lettura e del suo potere sulla nostra vita. Siamo oltre la semplice fantasia, siamo nel regno del fantasy. Anzi, siamo nel regno di Fantasia, un mondo fantastico minacciato dal Nulla, una forza misteriosa che lo sta lentamente inghiottendo. Le cose non vanno meglio nel mondo reale per Bastiano, un ragazzino con problemi a casa e a scuola che si sente una nullità. Dopo l’ennesimo maltrattamento da parte dei compagni, si rifugia in una vecchia libreria, dove la sua attenzione viene attratta da un misterioso libro: “La storia infinita”. Il ragazzo inizia a leggere e si ritrova coinvolto negli eventi, letteralmente chiamato in causa per aiutare il giovane guerriero Atreiu a salvare Fantasia e l’Infanta Imperatrice dall’inarrestabile avanzata del Nulla. Tra amuleti magici, creature fantastiche, luoghi misteriosi e personaggi incredibili che popolano un mondo magico che è una metafora dell’inconscio collettivo e individuale, Bastiano diventa protagonista di una straordinaria avventura iniziatica che lo trasforma in un eroe. E come ogni eroe, per sconfiggere il male che minaccia il regno e la vita dell’imperatrice, dovrà affrontare il suo lato oscuro, misurandosi con le sue paure e i suoi desideri, imparando a gestire entrambi.
Partiamo dal presupposto che questo classico della letteratura per ragazzi realizza il sogno di ogni inguaribile lettore: venire risucchiato in un libro appassionante e diventarne il protagonista. Di fatto ogni libro ben scritto è capace di assorbirci totalmente e se non siamo in grado di modificarne la trama, la trama ha il potere di modificare noi, influenzando il nostro modo di vedere le cose e aiutandoci a fare ordine nella nostra vita. Questo è ciò che succede a Bastiano. Nonostante il fantasy sia il genere letterario d’evasione per eccellenza e nonostante “La storia infinita” consenta una lunga e rigenerante vacanza dalla realtà, Michael Ende non vede nella fantasia una via di fuga dai problemi reali ma un mezzo con cui riuscire ad affrontare le proprie debolezze. Infatti, Bastiano, dopo aver corso il pericolo di rimanere intrappolato a Fantasia (la fantasia se mal gestita può effettivamente diventare una trappola), torna a casa, nel mondo reale. Ma torna cambiato, più sicuro di sé, coraggioso e forte.
Oltre a essere una bomba per contrastare lo scetticismo letterario, “La storia infinita” è un farmaco che cura i malesseri causati da una routine eccessivamente ripetitiva e prosaica ristabilendo i giusti livelli d’incanto e magia. Aiuta a spurgarsi dagli eccessi di razionalità, riscoprendo il valore della fantasia come fonte creativa generatrice di sogni, arte e libero pensiero con il quale recuperare la parte più autentica dell’essere umano. Rimedio efficace per ritrovare fiducia in sé stessi in caso di cali d’autostima provocati da amici, parenti, colleghi, datori di lavoro, insegnanti o compagni, “La storia infinita” è utile anche per ridare il giusto valore ai ricordi evitando di essere inghiottiti da un Nulla spesso scambiato per un frenetico Tutto dietro cui, in realtà, si nasconde un vuoto esistenziale. Eventuali vuoti e solitudini emotive possono essere curate anche con un altro capolavoro di Michael Ende, “Momo”. La piccola protagonista di questo romanzo di fantasia è una portatrice sana di empatia il cui contagio provoca un’incredibile e immediata sensazione di benessere incrementando la capacità di ascoltare, amare e accogliere.
La cura non può dirsi completa se non è coadiuvata dalla trasposizione cinematografica del romanzo, realizzata nel 1984 da Wolfgang Petersen. Diventato un classico proprio come il libro, nonostante le numerose differenze, “La storia infinita” è uno di quei film la cui mancata visione nella fase della crescita potrebbe provocare seri danni e carenze nell’età adulta. In un periodo in cui gli effetti speciali non erano solo digitali ma veri giochi di magia, è un’orgia d’immaginazione allo stato puro tra avventura, sogno e divertimento. Chi, dopo aver visto il film, non ha desiderato volare sul drago Falkor o indossare l’Auryn? Se vi considerate troppo grandi e seri per condividere questi desideri, vi avverto che difficilmente sarete immuni da un altro effetto collaterale della visione: canticchiare per un paio di giorni, come minimo (un lasso di tempo che vi sembrerà infinito), il famosissimo tema della colonna sonora: “Never Ending Story”. Letteratura, cinema e fantasia: fatevi coinvolgere in questo incredibile ménage à trois.
Un consiglio: se le storie di libri misteriosi e magici vi appassionano, lasciatevi coinvolgere dal groviglio d’intrighi che lo scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafón ha costruito ne “L’ombra del vento”. Quando il giovane protagonista viene condotto da suo padre nel Cimitero dei Libri Dimenticati ed entra in possesso di un misterioso volume, la sua vita non sarà più la stessa. Il desiderio di scoprire qualcosa di più sull’autore di quel libro “maledetto” lo condurrà in un labirinto di misteri inquietanti sullo sfondo di una Barcellona ferita dai postumi della Seconda guerra mondiale. Avvincente.

Commenti

Andando a riprendere notizie su Ende, ho scoperto che è sfortunatamente deceduto sin dal 1995. Io lessi la sua storia agli inizi degli anni ’80, una bella lettura, ma forse mi stavo già allontanando dalla fantasia e stavo lottando nella realtà, per cui mi lasciò poche sensazioni. E quindi non lessi, né allora né poi, il suo “Momo”. Mentre ho letto, e qui ne riporto, il libro spagnolo, interessante di certo, ma forse a volte un po’ sopravvalutato.
Carlos Ruiz Zafón “L’ombra nel vento” Mondadori euro 12 (pagato con sconto 10,20)
[pubblicato il 07 febbraio 2008]
Si legge finalmente anche Zafón, il caso spagnolo nato dal tam-tam dei lettori. E si legge d'un fiato. Una favola adolescente. Un libro di formazione, sul passaggio all'età adulta avendo uno scopo, un'idea che determinerà tutta la vita.  A Barcellona una mattina d'estate del 1945 il proprietario di un negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo segreto dove vengono sottratti all'oblio migliaia di volumi di cui il tempo ha cancellato il ricordo e chiede a Daniel di scegliere un libro che dovrà però impegnarsi a proteggere per il resto della sua vita, un libro di Juliàn Carax . Si mescolano diversi generi: thriller, romanzo (amore e passione), saga familiare e una riflessione sulla letteratura e sul ruolo dei libri nella vita delle persone. Volendo si scopre ben presto chi è Juliàn, ma forse è meno importante dei rapporti tra le persone. Tra genitori e figli, tra giovani amanti, tra amori della vita e sesso. C'è un lato a volte buonista che forse avrei ridotto. C'è la felicità di leggere una bella storia, con castagne e vino caldo.
“Sembri un altro uomo. - Lo sono. ... mi ha fatto desiderare di essere migliore di quello che sono ... per meritarla... Lei è nata per essere madre... e a me quella donna piace più delle pesche sciroppate”.

Finalino

Queste soluzioni di rapida felicità a volte sono così rapide che non lasciano neanche il tempo di un commento. Come ora, a parte il consiglio di non leggere altro di Zafón, che le altre sue prove non mi hanno convinto per nulla.

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