domenica 10 novembre 2019

Polar o crime fiction - 10 novembre 2019


John Grisham “The Whistler” Hodder euro 9
[A: 20/07/2017 – I: 10/01/2019 – T: 19/01/2019] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 407; anno 2016]
Come certo sapete, se no ve lo ricordo, la maggior parte dei libri in lingua derivano da viaggi, da ricordi di viaggi, o altre vagabondaggini. Così questo, pur non legato ad un territorio specifico, è stato colto all’aeroporto di Muscat, al ritorno di un caldissimo viaggio in Oman. Poiché non ho (ancora?) la capacità di leggere in arabo, e poiché non ho trovato nessun autore omanita, a ricordo del viaggio stesso ho preso questo libro di un autore che generalmente è per me di piacevole lettura. Lasciando quindi il viaggio e tornando al libro, devo rilevare inizialmente una mia difficoltà nel seguire la trama, non tanto per la lingua, che l’inglese di Grisham è generalmente scorrevole. Quanto per la presenza di termini tecnici e legali che, nelle traduzioni, vengono traposti con terminologie accessibili. Qui, oltre a ricordi di altri libri (ad esempio i “diritti Miranda” relativi alle dichiarazioni degli imputati durante il primo interrogatorio), ho dovuto barcamenarmi anche con la rete, per capire che “subpoena” significa “citazione giudiziaria”, ma soprattutto che “rico” non è il nome di uno spagnolo ma sta per “Racketeer Influenced and Corrupt Organizations”, cioè una legge americana per combattere le organizzazioni criminali, co-imputando un membro dell’organizzazione nei reati commessi dalla stessa anche se non vi ha preso parte. Leggendone in rete, mi sono poi ricordato che fu questo l’atto utilizzato per condannare Silvia Baraldini a 20 anni di carcere. Fatti salvi questi ed altri equilibrismi legislativi, il libro risulta alla fine meno avvincente delle sue premesse. Come spesso in altri libri di Grisham, c’è un atto, un’azione criminale (o simile) che viene combattuta da qualche persona di buona volontà. L’attrazione in generale viene dalla debolezza dei buoni rispetto alla quasi onnipotenza dei cattivi. Però, verso la fine, c’è qualche imprevisto, qualche momento di difficoltà dei buoni che solo con qualche colpo di genio riescono poi a vincere. Perché il buonismo finale dell’autore è quasi un marchio di fabbrica. I buoni lavorano in favore del buon nome degli Stati Uniti, e nel nome di America uber alles, tutto va al suo posto. Qui lo schema si ripete, ma manca quella parte finale che fornisce del pepe alla storia. Certo, Grisham tenta di mettere qualche bastone di traverso all’inizio, dato che, almeno per la prima parte, il cattivo è una donna giudice che avrebbe, con le sue sentenze, favorito dei criminali. E questo non mette certo in buona luce il sistema giudicante americano. I tre assi su cui si poggia la trama sono poi (almeno in qualche punto) interessante. Il primo è il BJC (“Board Of Judicial Conduct”), un organismo che deve indagare e, quando giustificato, agire in merito ai reclami contro i giudici. È quello cui fa parte la nostra eroina del libro, la trentacinquenne Lacy. Un organismo con pochi poteri, ma che, per quei pochi che ha, può essere di buon auspicio per mettere alla gogna i corrotti (e non sarebbe male estenderlo anche qui). Il secondo è l’ambiente, che la maggior parte dei crimini (almeno quelli di maggior spicco e per i quali nasce e si sviluppa tutta la storia) è legato ai nativi americani ed alle concessioni normative e fiscali che riescono a raggiungere. Ad esempio, i nativi possono, nel territorio a loro assegnato, costruire casinò che non devono sottostare alle leggi americane, e quindi sono praticamente esentasse. Nella fattispecie ho controllato che ci sono quasi 500 luoghi per gioco d’azzardo gestiti dalle 250 tribù dei nativi. Questo è l’asse “forte” del romanzo, che i cattivi utilizzano il giudice corrotto per poter costruire il loro piccolo impero di gioco d’azzardo, compresa l’uccisione del capo degli oppositori. Ma questa è una storia nella storia, poco coinvolgente anch’essa. Il terzo asse è quello del titolo: “whistler”, tradotto in italiano “informatore”. Qui c’è qualcuno che informa Lacy delle malefatte del giudice, fornendo nomi, date, fatti. Il gioco complesso di Grisham è che l’informatore iniziale è solo il primo di tre livelli, cioè nella fattispecie è un avvocato che conosce un tramite che conosce il reale informatore. Tutta la storia si basa allora sulla ricerca di Lacy e del BJC di trovare prove sufficienti per iniziare un atto giudiziario, e sul tentativo dei cattivi di bloccarli, con le buone o con le cattive. Nel corso del libro la trama si complica, qualcuno si fa male, qualcuno sparisce, viene alla fine coinvolto anche l’FBI perché i crimini risultano più complessi addirittura di quanto sembra inizialmente. Tuttavia, nella volata finale, c’è poco di interessante, tutto scivola verso l’atteso finale. Con una serie di notizie para-legali che riempiono anche l’epilogo di notizie poco rilevanti per il succo del romanzo. Almeno per quello che poteva essere un buon thriller. Infatti, ad esempio, non ho capito, forse perché magari legato ad eventi a me ignoti, perché il terzo livello decide di intentare la causa. Avrà qualche beneficio economico? Non lo so e non mi è chiarito dal libro. Che alla fine quindi risulta abbastanza piatto. Con addirittura alcuni rami delle vicende che mi sembrano morire senza una spiegazione convincente.
Fred Vargas “Quand sort la recluse” J’ai lu euro 9,50
[A: 24/09/2018 – I: 05/06/2019 – T: 26/06/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 478; anno 2017]
Se è vero che Frédérique Audouin-Rouzeau in arte Fred Vargas scrive un libro ogni tre anni, è anche vero che io ne leggo con lo stesso ritmo. Quindi, anche se del ’17, solo ora lo prendo in mano (anche perché, per un mio tic personale ho deciso che i libri della scrittrice li leggo in originale), quasi tre anni dopo la saga ambientata nella mia cara Islanda. Tra l’altro il libro, come tutti i buoni seriali si collega al precedente e comincia con il commissario Adamsberg ancora nell’isola di ghiaccio (in particolare su di un’isola di fronte ad Husavik, dove vidi le mie prime balene). Richiamato urgentemente a Parigi dal vice Danglard, in poche battute risolve lo spinoso caso, dopo di che la sua mente comincia a perdersi tra le nebbie, vagando con i suoi percorsi laterali, qua e là, connettendo informazioni, chiedendo notizie apparentemente scollegate. Anche se tutta la truppa (o quasi) del suo XIII arrondissement (quello con Place d’Italie e Gare d’Austerlitz, per chi sa della città delle luci) è contenta del ritorno. Ritroviamo i personaggi che abbiamo amato nelle nove precedenti uscite. Il sodale Veyrenc, con cui rinverdire il passato pirenaico dell’infanzia, Froissy, la maga della rete, Estalère con i suoi caffè, nonché sempre presente la giunonica Retancourt. Solo Danglard sembra infastidito da qualcosa. E noi siamo pensieroso. Il colto vice non piò mettersi contro il grande capo. Non è corretto. Ci sarà una schermaglia neanche tanto sotterranea tra i due, che avrà anche momenti duri, pur trovando uno sbocco soddisfacente verso la fine. Con il solito gusto delle mescolanze, poi, non posso che compiacermi del cammeo che ci offre Mathias, l’archeologo protagonista del ciclo di romanzi dei Tre Evangelisti. O delle cene sul filo dei ricordi pirenaici, dove apprendiamo a conoscere la “garbure”, un piatto veramente di montagna, una minestra con molte verdure (cavolo verde, fagioli, fagioli, patate, rape, piselli, cipolle) ed insaporita da pezzi di carne (anatra, oca, stinco o collo di maiale, ossi di prosciutto, salsiccia). Un piatto che serve a scaldare, perché la trama “polar” (termine francese analogo al nostro “libro giallo”, derivato dalla contrazione dei termini “policier” e “noir”) è fragilina. Rovistando tra le nebbie sue e di Veyrenc, Adamsberg si imbatte nella misteriosa morte di alcuni (per ora tre) ultraottantenni dovuta al morso di un ragno. Appunto quello del titolo, che è sempre rintanato, ma quando esce, e morde, provoca una particolare necrosi detta loxoscelismo (se volete maggior dettagli, collegatevi alle ultime righe della trama). Il morso non dovrebbe essere mortale, ma le persone sono anziane e debilitate. Le morti, all’inizio scollegate, trovano via via dei punti di contatto, fino a restringersi ad un gruppo di ragazzini ospiti di un orfanotrofio negli anni ’40. La banda aveva bullizzato i compagni proprio con i ragni, provocando amputazione di arti o impotenza permanente. Crescendo i bulli aveva anche approfondito le “cattiverie”, dedicandosi anche a stupri, su maschi e femmine, purché minorenni. Una volta messi sotto controllo i pochi rimasti, Adamsberg è colpito dal fatto che, nonostante la protezione, le morti continuano. Non solo, ma risulta a volte misteriosa anche la dinamica delle aggressioni. Il nostro commissario approfondisce i suoi proto-pensieri ossessionato dal nome del ragno (la reclusa bruna), la pratica stessa della reclusione soprattutto conventuale, episodi giovanili, ed altre “lateralità”. Arrivando così al nodo finale, ed a sbrogliare per sé, per i suoi e per noi, tutte le matasse presenti. Come in tutti i suoi scritti, la Vargas non segue i soliti sentieri, ma cerca sempre nuove strade. Non ci ossessiona con sesso e sangue, ma si (e ci) concentra su trame, ragionamenti, intrecci, dialoghi, voli pindarici, battibecchi tra poliziotti che sono, in tutto e per tutto, persone normali, anche se con una etica molto elevata ed una moralità di fondo irreprensibile. Se dobbiamo fare qualche osservazione, manca un po’ il rapporto di Adamsberg con il suo vissuto privato, che ci aveva accompagnato nelle prime uscite. Manca inoltre una vera tensione “noir”, dato che molto si sposta nei rapporti interpersonali tra Adamsberg e Veyrenc, tra Adamsberg e Froissy e, soprattutto, tra Adamsberg e Danglard. Gradevole ma mi aspetto sempre qualcosa in più. Per finire, come è ovvio, c’è tutta una parte (anzi diverse, devo dire) dedicate ai ragni, ed alla specie protagonista del libro, il Loxosceles Reclusa, che ha buon gioco in francese dove si chiama “araignée recluse”, meno in italiano, dato che è comunemente noto come “ragno violinista” o al massimo “ragno eremita”. In effetti, in libreria, il testo della Vargas è uscito con il titolo “Il morso della reclusa”, dando quindi per saltabili tutte le prime cinquanta pagine, per arrivare direttamente alla comparsa del ragno. Se ci fosse un aracnologo anche minimo, avrebbe miglio potuto suggerire un tiolo come “Quando esce l’eremita”…
“Il est des lieux … qui accompagnent un voyage. Le voyage s’achève et ce lieu s’en va avec lui.” [Ci sono luoghi che accompagnano un viaggio. Il viaggio finisce ed i luoghi finiscono con lui.] (477)
S.S. Van Dine “Il caso del terrier scozzese” Newton Gialli 52 s.p. (regalo di Fako)
[A: 10/01/2019– I: 21/08/2019 – T: 22/08/2019] - &&&
[tit. or.: The Kennel Murder Case; ling. or.: inglese; pagine: 126; anno 1933]
La confezione è poco invitante. Un vecchio Newton pubblicato nel 1993, nell’ambito di una collana di gialli di buona fattura, ed essenzialmente già privi dei diritti d’autore. Anche la stampa è di difficile lettura, pagine piene con una linotype ombrata e non molto interlineata. Peccato perché Van Dine è un degno, seppur datato, scrittore. Non solo, anche la trama, pur concentrata, ha un suo sviluppo interessante e, come ci si sarebbe ben aspettato, seguendo abbastanza fedelmente le venti regole della costruzione di un romanzo poliziesco. Intanto ricordo che l’autore si chiamava in realtà Willard Huntigton Wright, ed era, principalmente, un esperto d’arte. In genere, avendo letto molto di Van Dine, si considerano “migliori” i romanzi scritti prima del 1930, quelle chiamati della tetralogia dei “Murder Case”: Benson, Canary, Greene e soprattutto Bishop. Era il periodo in cui Van Dine riuscì a disintossicarsi dalle dipendenze da droghe varie. Voleva, dopo aver scritto gialli controvoglia, tornare agli studi d’arte. Ma il “writing business” glielo impedì, continuò a scrivere, riprese le droghe e morì nel ’39 a 52 anni. Secondo me, tuttavia, questa, pur essendo degli anni ’30, ha una sua dignità, come ho detto. Intanto, è uno dei più classici casi di “assassinio nella camera chiusa”. Il morto, Arthur Coe, ha una ferita da arma da fuoco in testa, una pistola in mano, ed è dentro una stanza chiusa all’interno da un catenaccio. Suicidio? Sul posto intervengono i “soliti” personaggi del nostro scrittore: Philo Vance, il suo “uomo ombra” Van Dine, ed il mentore delle indagini, il procuratore Markham. I tre cominciano a disquisire sul presunto suicidio, che il dottor Doremus, medico legale, sconfesserà dopo aver seguito le dritte di Vance. Prima si trovano segni di colpi intesta. Poi il colpo fatale, una coltellata alla schiena. Il tutto sempre dentro la stanza chiusa. Pian pianino entrano in scena i vari attori della trama: Hilda, la nipote, farfallina e con qualche astio verso lo zio che lesina i soldi, Raymond, collezionista e amico della famiglia Coe nonché aspirante fidanzato di Hilda, Edmondo, l’italiano venuto a comprare la collezione Coe e nel frattempo anche preso da Hilda, il cuoco cinese Liang, nonché, ma solo per menzione, Brisbane, il fratello di Arthur, che si diletta di letture di criminologia, stranamente in viaggio per Chicago. Stranamente, perché poco dopo se ne scopre il cadavere in uno sgabuzzino. Colpito a morte dallo stesso pugnale del colpo inferto ad Arthur. Entra anche in scena il terrier scozzese del titolo italiano (non di quello inglese, che invece fa riferimento a “kennel” cioè canile, e vedremo perché più avanti), un cane anche lui colpito, questa volta da un’arma come del primo colpo inferto ad Arthur. Il tutto ruota poi intorno alla collezione Coe, che Edmondo vuole acquistare, fatta di molti pezzi cinesi, per la maggior parte rubati, trafugati e sottopagati da Coe. Un motivo che tenderebbe a far convergere i sospetti sul finto cuoco Liang, che scopriamo essere più un letterato, o intellettuale cinese, interessato alle ceramiche rubate, che un vero cuoco. Il gioco letterario dello scrittore prosegue a lungo per tutto il romanzo, con elucubrazioni del buon Vance, inframmezzate da citazioni colte sulle ceramiche cinesi, da intermezzi sulle genealogie canine, nonché da qualche divagazione culinaria. Inciso: divagazioni che riprenderà il buon Rex Stout, grande ammiratore di Van Dine, che collocherà il suo Nero Wolfe sempre nella zona Ovest di New York, come da molte situazioni di Van Dine, esasperandone poi il lato culinario. Alla fine, anche se spezzata in vari capitoli, abbiamo la ricostruzione degli avvenimenti. Il colpevole affronta Arthur, gli dà una botta in capo con l’attizzatoio (primo colpo), poi lo pugnala con un coltello cinese (tentativo di incolpare Liang), che cerca di nascondere in una ceramica, purtroppo talmente esile da rompersi, benché sporcandosi di sangue. Convinto della morte, se ne va. Peccato che l’emorragia interna non sia fulminante, così che Arthur torna al piano di sopra, comincia a svestirsi per andare a letto, ma dopo essersi messo la vestaglia, muore. L’assassino ha visto la luce al primo piano, mentre il morto doveva essere a pian terreno. Preso dal panico, ritorna nella casa. Nel frattempo, Brisbane, che aveva programmato di uccidere il fratello per suoi oscuri motivi, torna a casa, trova Arthur sulla poltrona, non si accorge che è già morto, gli spara alla tempia, poi, con un trucco che Vance impiega due lunghe pagine per spiegarci, chiude la stanza con il catenaccio all’interno. Il cattivo intanto, entra dal cortile, lasciando la porta aperta da cui entra il terrier, vede una persona camminare, pensa che sia Arthur, e lo pugnala di nuovo, portandolo al buio nel vestibolo. Ovviamente il colpevole, il giorno dopo, cade dalle nuvole vedendo Arthur morto in una stanza chiusa e Brisbane morto al piano terra. La soluzione avverrà dai canili: scoprendo il proprietario del terrier, Vance capisce come sia entrato ed uscito il colpevole dalla casa per non lasciare traccia (anche se poteva essere e non ve lo rivelo, uno degli stessi abitanti della casa). Scopre anche che il colpevole aveva un doberman che maltrattava con ferocia. E proprio questo, unito al canile di cui dicevo sopra, eseguirà la sentenza finale. Come detto, è un giallo di parole, non succede nulla, se non una serie di dialoghi tra Vance ed il resto del mondo, che consentono a noi lettori di avere le stesse informazioni degli attori del dramma, con la scommessa su chi arriverà alla soluzione. Certo se sapessimo le regole di Van Dine a memoria, la numero 11 (che non vi dico, rimandandomi ad altri commenti di romanzi dello scrittore) ci avrebbe portato a restringere talmente il cerchio dei possibili colpevoli, che forse, anche senza le spiegazioni di Philo Vance, avremmo capito anche noi dove puntare il dito. Personalmente, avevo pensato anche io, e sin dalla sua comparsa sulla scena, che il colpevole fosse…
Michael Connelly “La strategia di Bosch” Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a 9,30 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 15/09/2019 – T: 18/09/2019] - && e ¾
[tit. or.: The Burning Room; ling. or.: inglese; pagine: 370; anno 2014]
Pur essendo, secondo la bibliografia ufficiale, il 17° caso di Harry Bosch, nella mia personale cronologia dell’opera di Connelly, questo dovrebbe essere il 20° romanzo in cui il nostro eroe compare. Come potete immaginare dai numeri, ormai Bosch le ha passate tutte, dai tempi “duri e puri” dei primi casi alla LAPD (per i non addetti la “Los Angeles Police Department”) alle ultime uscite che lo vedono verrebbe da dire relegato, ma non è proprio questo il termine, ai “Casi Irrisolti” (o Cold Case o, come viene chiamato dal Dipartimento “Open-Unsolved Unit”). Bosch, lo sapete, è uno dei miei pallini, che seguo da anni, per due particolarità che ripeto: il nome e la musica. Il suo nome completo è  Hieronymus Bosch come il famoso pittore olandese, detto Harry che se non è complicato. La musica è il jazz, che gli serve di distensione e riflessione, soprattutto nel suo brano preferito “Lullaby” del sassofonista Frank Morgan. Ma sul jazz farei una nota (ah ah) più avanti. Secondo la cronologia ricostruita, Bosch dovrebbe essere nato nel 1950, e quindi ora ha una sessantina d’anni, e si avvicina, neanche tanto pericolosamente, alla pensione. Intanto gli viene affidato uno strano caso “irrisolto”. Perché deve indagare sulla morte di un “mariachi”, un suonatore da strada messicana, Osvald Merced, appena deceduto in seguito però ad un colpo d’arma da fuoco che da dieci anni lo costringeva su di una sedia a rotelle. Ora che muore, l’estrazione della pallottola fa riaprire il caso, sul quale si getta Harry con la sua nuova partner, Lucia “Lucky” Soto, giovane promettente, forse un po’ troppo pronta a sfoderare le armi, che Harry prende a ben volere, e che pensa di istruire proprio per la sua vicina pensionabilità. Il caso è complicato, perché Merced fu preso a simbolo dall’ex-sindaco che sulla sua paraplegia ha costruito la fortuna per due mandati e che ora mira anche alla carica di governatore. Si era pensato ad una banda e ad un colpo casuale, dato che nulla nella vita di Merced porta a possibili episodi delinquenziali. Dato che poco sfugge ad Harry, nel corso delle indagini capisce che Lucia sta anche seguendo una sua personale indagine su di un incendio, avvenuto venti anni prima, in cui morirono nove bambini. L’abilità di Connelly è nel portarci, indizio dopo indizio, a capire meglio i due casi e ad alternarne la narrazione, giocando su due diversi registri narrativi. Perché l’incendio viene ben presto collegato con una rapina, quasi ne fosse stato un diversivo. In tutti e due i casi si tratta di trovare collegamenti tra vari pezzi di puzzle che si accumulano. Un’impiegata della banca rapinata abitava nel palazzo bruciato. Un’impiegata che andava a letto con due pregiudicati forse implicati nella rapina (o almeno uno dei due sembra implicato). Un’impiegata che poi sparisce per comparire anni dopo in un Convento di suore, e farsi missionaria in Sud America. Dall’altra parte uno dei mariachi della banda di Merced scompare, e, ritrovato, confessa di essere stato l’amante di una signora bene. Con marito altolocato e ben messo politicamente. Ma anche focoso. Forse era il fuggiasco il vero bersaglio. Forse ci fu un errore di mira. Purtroppo, quando si avvicinano troppo ai puntini finali, Harry e Lucia trovano sempre qualche intoppo. Qualcuno che muore. Altri che spariscono. Molti che mettono i bastoni tra le ruote. I due casi verranno comunque risolti, pur se probabilmente senza processi e condanne. Notiamo solo che Bosch si comporta sul filo del rasoio, per trovare prove. A volte al di là del rasoio, tanto che tra pressioni politiche e sbavature varie, questa lunga doppia puntata finisce con una sua diremo solita sospensione dal servizio. Vedremo nei prossimi libri se e come Connelly deciderà di proseguire. Anche perché, come detto Bosch è vicino alla pensione. Come spesso accade nelle ultime scritture, Connelly è meno cupo del solito, riesce a gestire trame apparentemente complesse con una buona mano. Portando avanti anche le storie di contorno. Carina la vicenda personale di Lucia, che vedremo se avrà peso per restare nella serie. Promettenti gli sviluppi di Bosch con la figlia Maddie, che vedremo se deciderà, come sembra, di entrare anche lei in polizia, magari per farci seguire le vicende di una Bosch 2. Infine, come detto all’inizio, da sottolineare gli inserti jazz che in Connelly non mancano mai. A parte l’immancabile Morgan di cui sopra, ad un certo punto Bosch va a sentire un concerto jazz, dove suona una giovane sassofonista. Si tratta della sino-americana Grace Chung Kelly, che all’epoca dello scritto aveva 22 anni. Si esibisce al sassofono, in una versione di “Somewhere Over the Rainbow”, che immagino di sicura presa (uno dei miei pezzi preferiti però nell’assolo di Keith Jarrett al pianoforte). E Grace Kelly negli anni successivi avrà sicuro successo e premi. Buon occhio Connelly, ed alla prossima.
Seconda domenica di novembre, al solito, comunque, dedicata intimamente, ai miei morti ed a quelli dei miei cari, ma anche, per voi lettori, con una puntata dedicata ad uno dei piaceri della vita.
E seppur si frequentano luoghi, spazi e persone, l’uggiosità del tempo non lascia spazio a momenti sereni, ed a prospettive rilassanti nel breve orizzonte temporale che riusciamo ad ipotizzare. Ma, come diceva qualcuno molti ma molti anni fa: “Tirem innanz!”. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE  2019
Esiste una malattia simile? E perché cercarne un rimedio? Misteri dell’uomo!
Sesso, fare troppo
Fay Weldon                 “Vita e amori di una diavolessa”
Charles Bukowski          “Donne”
Vitaliano Brancati          “Paolo il caldo”
Gabriel García Márquez  “Memorie delle mie puttane tristi”
Yasunari Kawabata        “La casa delle belle addormentate”
Sì, è possibile avere una sessualità eccessiva.
Gli uomini che pensano di essere ossessionati dal sesso dovrebbero gettarsi addosso un secchio d’acqua gelata sotto forma di “Vita e amori di una diavolessa” di Fay Weldon. Quando Bobbo, il bel marito di Ruth, l’abbandona per la minuta e delicata Mary Fisher - un cliché femminile preso direttamente dai romanzi rosa di successo che la Fisher scrive - Ruth decide di abbracciare il proprio demone interiore. Se la fa con chiunque, finché il sesso per lei non significa più nulla. Lo utilizza allora per ottenere ciò che vuole: rovinare la vita a Bobbo e Mary, con un aplomb devastante. Se siete sposati e tentati da un’avventura, con questo romanzo ci penserete due volte. Sposati o no, rifletterete sulla conclusione alla quale giunge Ruth, ovvero che le belle donne usano il sesso per controllare i loro uomini. Dopo questo libro, un lungo periodo di stretto celibato comincerà a sembrare altrettanto seducente di una strizzatina d’occhio.
Le donne che hanno bisogno di una doccia fredda la troveranno nelle pagine voraci di Charles Bukowski. Il narratore, Henry Chinaski - liberamente ispirato allo stesso Bukowski - è un cinquantenne perennemente arrapato e sempre in cerca di sesso. Mezzo litro di whisky da vomitare prima di colazione e via dietro al prossimo paio di blue jeans attillati, a baciare e a litigare - e a domandarsi se il proprio stomaco reggerà al sesso orale. C’è dell’anima in queste pagine, e una bellezza cruda e volgare che qualcuno troverà affascinante - soprattutto se ha buon orecchio per la prosa poetica; di sicuro, però, vi farà venire voglia di lasciare la biancheria sexy nel cassetto.
Se non vi siete ancora risanati sarà necessario allora completare questo piccolo ciclo di vaccinazione dai pericoli della lussuria con un ultimo richiamo. Oltre al relativo girone dantesco (Inferno, canto V), leggetevi, se non l’avete ancora fatto, le dolorose e illuminanti avventure di “Paolo il caldo”. La sensualità dilagò in lui come una tetra ossessione da quando, sopra un tram catanese, lo sfiorò il corpo di una donna. Aveva dodici anni. Da quel momento l’amore gli timbrò il viso di un’inguaribile pallidezza. La sua lotta fu quella di cercare di vedere la luce del mondo (che per lui era la luce della Sicilia) dalla parte ridente ed “espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia”, dalla quale derivano l’apprensione e la libidine. Ma il barone Paolo Castorini si aggrovigliò sempre di più in sé stesso e nei propri esaurimenti nervosi “fino a sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello”. Se neppure questo monito vi condurrà a una vita sessuale più ragionevole, non resterà per voi che aspettare la vecchiaia come una liberazione, magari tenendo sul comodino, non si sa mai, le “Memorie delle mie puttane tristi” di Gabriel García Márquez e “La casa delle belle addormentate” di Kawabata.

Bugiardino

Fay Weldon la lessi negli anni Novanta, e non mi lascio né impressioni né eccitamenti. Kawabata, addirittura, mi accompagnò che stavo ancora in casa di mamma e papà (e lascio a voi fare calcoli). Di Brancati ho letto “Don Giovanni in Sicilia”, senza troppo entusiasmo. Allora rimangono il solito eccessivo Bukowski, e l’ormai allora anziano (ed ora purtroppo morto) Marquez.
Charles Bukowski “Donne” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[tramato il 1° novembre 2016]
Forse vi sorprenderete nel vedere un così basso indice di gradimento in un libro di cui, credo, parlerò in termini non dico elogiativi, ma sicuramente problematici e propositivi. Ho letto altro di Bukowski, ho commentato “Post Office”, e continuo a ripetermi: non riesco ad entrare nel suo mondo alcolico. Come non riesco a sintonizzarmi con tutti i libri con elevati tassi di vini e liquori. Non che sia astemio, ma ritengo sia qualcosa di genetico che mi blocca. Tanto che, per ricordare qualcosa ai miei amati lettori, anche le letture di Harry Hole di Jo Nesbo ad un certo punto mi son venute a noia. D’altra parte, Bukowski è tutto un eccesso. Ovvio, non solo nel bere, anche se si ubriaca ogni tre pagine e mezzo (e vomita ogni quattro). Ma anche nel sesso. E qui è un panegirico di incontri sessuali, descritti più o meno esplicitamente. Crudi anch’essi come le bevute. Come gli spinelli (pochi), la coca, ed altre droghe più o meno pesanti. In un mondo vissuto sull’orlo sempre del baratro. Perché? Forse posso capire il sesso. In fondo fa bene (e non solo in fondo), ma bevute e stravizi che fanno sballare a cosa servono? Non credo che sballando s’impara. Se avesse scritto il libro anni e anni dopo, avrei ben visto un titolo ammiccante come “Bevi, scopa, ama”. Dove però l’amore non c’è mai, che Henry Chinaski (il protagonista di “Donne” ed alter-ego di Bukowski) non ama nessuna. E forse nemmeno sé stesso. Se poi fossimo colti ed esegeti, non potremmo che ripensare al libro come ad una sua biografia, vera ed inventata allo stesso tempo. Sicuramente, l’inizio e la fine ripercorrono due momenti fondamentali della vita di Charles-Henry. Dopo aver lasciato le Poste Americane (vedi la fine di “Post Office” in proposito), incontra ed inizia una turbolenta relazione con Linda King (rinominata nel libro Lydia Vance), di venti anni più giovane. Rapporto burrascoso per gli appetiti sessuali di Linda, per il suo odio delle corse dei cavalli (passione fondamentale di Henry), per l’alcolismo perenne di Henry, e per il suo attaccarsi a qualsiasi donna gli mostra un minimo di apertura. Ed evitate di fare battutacce su questa frase infelice. Tralasciando (non siamo qui per fare un elenco di prestazioni sessuali) tutte le donne che seguono Linda, arriverà alla fine ad avere una relazione più equilibrata con Linda Lee Beighle (ribattezzata Sara), che riuscirà anche a fargli diminuire il tasso alcolico. Sara è una salutista, devota del santone indiano Mehar Baba (uno strano tipo che dal 1925 alla morte nel 1969 rimase in silenzio, comunicando a gesti con i suoi discepoli). Quello che emerge di Chinaski è appunto il suo lasciarsi vivere. La sua filosofia sembra essere: se accade, lasciamolo accadere. Come un bambino che non sa, non riesce a dire no. Tanto che ad un certo punto, il giorno del Ringraziamento, si trova invischiato in una situazione ingestibile: tre donne con cui ha fatto sesso vogliono passare il giorno con lui. E Henry non sceglie, tanto che, giustamente, alla fine lo passerà da solo. Non nego che alla fine, nei ricordi che lascia una lettura quando chiudi il libro, di Bukowski-Chinaski mi resta in mente questa parte (l’incapacità di decisione) e la spinta verso l’altro sesso. Una spinta forte, come succede in tutte le persone. Ma dove la spinta delle possibilità è mitigata dal bagno di realtà. Non si è più bambini che si può volere tutto. Bisogna, imperativamente, fare delle scelte. Le scelte che il proprio modo di vivere reputa consone al proprio essere. Ed io, quello del nostro pur grande scrittore, non riesco a districarle dal grande ammasso di cose che non sono mie e che quindi non capisco. Il giocare ai cavalli piuttosto che passare del tempo a parlare con una donna. Bere sino a stordirsi, bere sino a vomitare ogni poche pagine (anche perché, pur amando un sano bicchiere, ritengo che questo, come il fumo, come le donne, vada preso per il piacere e non perché va bene tutto). Scopare con tutte le donne che capitano a tiro, solo per soddisfare un bisogno fisico, quando il sesso, pur esteso, pur grande deve essere anch’esso legato ad un piacere. Per questo ho continuato a leggere il libro anche se non mi ha mai preso, non mi ha mai coinvolto, come in genere succede in (quasi) tutti i libri che leggo. Caro Bukowski, sei stato un grande, ma non un grande della mia scala di valori. Non so se leggerò altro dei tuoi scritti. Con stima ma senza affetto, arrivederci.
“Vivi per scrivere? No, mi limito ad esistere. Poi cerco di ricordare e buttar giù un po’ di cose.” (201)
“Vivere fino alla morte è una gran fatica.” (213)
Gabriel Garcia Marquez “Memoria delle mie puttane tristi” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 7, 05 euro)  
[tramato il 18 giugno 2017]
Si legge in un sospiro, rimane però dentro con qualche passaggio indimenticabile, anche se alla fine ha una stentata sufficienza, o come direbbe l’autore, una sufficienza triste. Perché l’impianto generale, ed almeno un passaggio, sono una rivisitazione in salsa sudamericana del bellissimo “La casa delle belle addormentate” di Kawabata Yasunari (scritto però più di 40 anni prima). È anche l’ultimo romanzo scritto da Gabo, già quasi ottantenne. Poi niente più romanzi negli ultimi dieci anni della sua lunga ed intensa vita. Qui appunto, riprendendo l’idea giapponese di una casa di “signorine” (capite a me) che dormono contemplate da persone (anziane o meno) che stanno al nadir della loro virilità, ne fa un elemento cardine per l’avvio alla conclusione della propria vita di un giornalista eccentrico novantenne, che in molti tratti ripercorre momenti e modi della vita stessa del nostro amico colombiano. L’abilità, indubbia, di Gabo è quella di restituirci l’immagine di un percorso che inesorabilmente porta alla morte, con la delicatezza della descrizione di un fiore. Anche con parole crude (come quelle del titolo), anche con richieste e momenti che ci spiazzano. L’io narrante ha amato molte donne, e spesso, nelle more dei suoi percorsi amorosi (che se volete ripercorrono in pochi tratti quelle di Florentino da poche descritte) si ritrova a frequentare bordelli di tutte le risme. Ed a questo si rivolge, questo della sua di poco più giovane tenutaria Rosa, per chiedere di festeggiare il suo compleanno con una vergine. Richiesta soddisfatta, ma la quattordicenne Delgadina dorme tutta la notte. Il nostro giornalista però rimane affascinato dal corpo, dalle visioni, e sommerso dai ricordi che un corpo nudo risveglia nel suo corpo anziano. Mentre procede il rapporto con la sempre dormiente e sempre vergine Delgadina, affiorando ricordi, seguiamo i brevi tratti della vita del protagonista. La vita felice della gioventù, accanto alla tanto amata madre italiana. La crescita, la morte dei genitori, la scrittura, soprattutto di piccoli elzeviri e di recensioni di brani di musica classica. Le piccole storie più di sesso che d’amore. Le paure, in particolare quella di mettere al mondo dei figli. Perché sarebbe disposto anche a sposarsi, come sta per fare con la bellissima Ximena. Tuttavia, bloccato dalla possibilità di procreare, anzi spaventato, non si presenta il giorno delle nozze. Vediamo l’anziana Damiana, che lo avrebbe amato, ma di cui lui si accorge solo perché lo accudisce ora che è sì vecchio e stanco. Poi le baruffe per incomprensione con Rosa, l’allontanamento da Delgadina, ed il definitivo ritorno, con quell’immagine in cui pensa di potersi mettere a lavorare scarpette per neonati all’uncinetto. Certo, è un po’ tardi per decidere di avere una progenie, quasi che potesse farlo solo ora che il tempo tiranno non può più tollerarlo. Finisce così la cronaca di questo anno tremendo, in cui allo zero dei novanta finalmente si sostituisce il primo numerale. Con il protagonista che, pacificato nell’animo, guarda radioso al futuro, ed alle sempre più vicina dipartita, circondato dall’amore di Delgadina (benché mai consumato), dall’affetto di Damiana e da un gatto che pur vecchio anche lui non verrà simbolicamente soppresso, ma rimarrà a fare da terzo incomodo nella casa avita. Se tuttavia la storia è breve e lineare come consentono le poco più di cento pagine del libro, Gabo riesce ad infiorettare dei momenti, da anziano, che diventano in ogni caso, momenti eterni per tutti noi. Come le frasi che ho sotto riportato. Come la descrizione di quella fotografia presa al giornale quando aveva trenta anni, ed era uno dei momenti forti della stampa locale (per qualche evento poco importante, ora). Con quelle crocette che qualcuno ha segnato accanto alla testa di tutte le persone che in questi sessanta anni sono morte. E lui guarda e ci dice che sono rimasti in quattro. O come la visita al medico, nipote di quello che lo aveva visitato una volta nel volgere dei suoi cinquanta. E che fisicamente ed anche operativamente risulta identico al nonno medico, anche nella diagnosi che gli fornisce (“Lei è perfetto, rispetto all’età che ha”). Di passaggio riporto anche altri due momenti di ricongiunzione con lo scritto di Kawabata: entrambi constano di cinque capitoli ed in entrambi, ad un certo punto, muore una persona all’interno del bordello frequentato dal protagonista. Forse se non avessi notato tutte queste rivisitazioni, poteva il libro avere più consistenza nella mia memoria? Non so, di certo mi ha lasciato sconcertato, anche se, capisco, che, come qualcuno ha scritto, tutti scrivono lo stesso libro: quello pieno delle parole che vogliamo sentire. A volte ci accorgiamo delle similitudini, a volte no. Come direbbe Borges.
“L’età non è quella che si ha ma quella che si sente.” (75)
“Scrivevo … con la voce di un uomo di novant’anni che non ha imparato a pensare come un vecchio.” (83)
“È impossibile non finire per essere come gli altri credono che uno sia.” (117)
“Sto diventando vecchio … Il fatto è che non lo si sente dentro, ma di fuori tutto lo vedono.” (120)

Conclusioni

Rimango sulla domanda iniziale. E sulla risposta che non è mai “troppo”. Può essere tanto, ma soprattutto, deve essere momento di felicità. Se, come Bukowski, vomito, forse è meglio fare altro.

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