Già, questa
settimana abbiamo un bel confronto sul limitar dell’Oceano, come direbbe Conte,
purtroppo Atlantico. Un’opera leggibile, ma non entusiasmante, di Grisham, un
nuovo capitolo della saga di Harry Bosch di media fattura. Poi un vecchio
libro, ma di sicuro interessante, del teorico del poliziesco, S. S. Van Dine.
In mezzo a tutto, un polar (vecchio neologismo francese che sta per “policier
noir”) della mia amata Vargas, che di sicuro risale molti scalini che, per
motivi altri, aveva disceso.
John Grisham “The Whistler” Hodder
euro 9
[A: 20/07/2017
– I: 10/01/2019 – T: 19/01/2019] - &&
e ½
[tit.
or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 407;
anno 2016]
Come certo sapete, se no ve lo ricordo, la
maggior parte dei libri in lingua derivano da viaggi, da ricordi di viaggi, o
altre vagabondaggini. Così questo, pur non legato ad un territorio specifico, è
stato colto all’aeroporto di Muscat, al ritorno di un caldissimo viaggio in
Oman. Poiché non ho (ancora?) la capacità di leggere in arabo, e poiché non ho
trovato nessun autore omanita, a ricordo del viaggio stesso ho preso questo
libro di un autore che generalmente è per me di piacevole lettura. Lasciando quindi
il viaggio e tornando al libro, devo rilevare inizialmente una mia difficoltà
nel seguire la trama, non tanto per la lingua, che l’inglese di Grisham è
generalmente scorrevole. Quanto per la presenza di termini tecnici e legali
che, nelle traduzioni, vengono traposti con terminologie accessibili. Qui,
oltre a ricordi di altri libri (ad esempio i “diritti Miranda” relativi alle
dichiarazioni degli imputati durante il primo interrogatorio), ho dovuto
barcamenarmi anche con la rete, per capire che “subpoena” significa “citazione
giudiziaria”, ma soprattutto che “rico” non è il nome di uno spagnolo ma sta
per “Racketeer Influenced and Corrupt Organizations”, cioè una legge americana
per combattere le organizzazioni criminali, co-imputando un membro dell’organizzazione
nei reati commessi dalla stessa anche se non vi ha preso parte. Leggendone in
rete, mi sono poi ricordato che fu questo l’atto utilizzato per condannare
Silvia Baraldini a 20 anni di carcere. Fatti salvi questi ed altri equilibrismi
legislativi, il libro risulta alla fine meno avvincente delle sue premesse.
Come spesso in altri libri di Grisham, c’è un atto, un’azione criminale (o
simile) che viene combattuta da qualche persona di buona volontà. L’attrazione
in generale viene dalla debolezza dei buoni rispetto alla quasi onnipotenza dei
cattivi. Però, verso la fine, c’è qualche imprevisto, qualche momento di
difficoltà dei buoni che solo con qualche colpo di genio riescono poi a
vincere. Perché il buonismo finale dell’autore è quasi un marchio di fabbrica.
I buoni lavorano in favore del buon nome degli Stati Uniti, e nel nome di
America uber alles, tutto va al suo posto. Qui lo schema si ripete, ma manca
quella parte finale che fornisce del pepe alla storia. Certo, Grisham tenta di
mettere qualche bastone di traverso all’inizio, dato che, almeno per la prima
parte, il cattivo è una donna giudice che avrebbe, con le sue sentenze,
favorito dei criminali. E questo non mette certo in buona luce il sistema
giudicante americano. I tre assi su cui si poggia la trama sono poi (almeno in
qualche punto) interessante. Il primo è il BJC (“Board Of Judicial Conduct”),
un organismo che deve indagare e, quando giustificato, agire in merito ai
reclami contro i giudici. È quello cui fa parte la nostra eroina del libro, la
trentacinquenne Lacy. Un organismo con pochi poteri, ma che, per quei pochi che
ha, può essere di buon auspicio per mettere alla gogna i corrotti (e non
sarebbe male estenderlo anche qui). Il secondo è l’ambiente, che la maggior
parte dei crimini (almeno quelli di maggior spicco e per i quali nasce e si
sviluppa tutta la storia) è legato ai nativi americani ed alle concessioni
normative e fiscali che riescono a raggiungere. Ad esempio, i nativi possono,
nel territorio a loro assegnato, costruire casinò che non devono sottostare
alle leggi americane, e quindi sono praticamente esentasse. Nella fattispecie
ho controllato che ci sono quasi 500 luoghi per gioco d’azzardo gestiti dalle
250 tribù dei nativi. Questo è l’asse “forte” del romanzo, che i cattivi
utilizzano il giudice corrotto per poter costruire il loro piccolo impero di
gioco d’azzardo, compresa l’uccisione del capo degli oppositori. Ma questa è
una storia nella storia, poco coinvolgente anch’essa. Il terzo asse è quello
del titolo: “whistler”, tradotto in italiano “informatore”. Qui c’è qualcuno
che informa Lacy delle malefatte del giudice, fornendo nomi, date, fatti. Il
gioco complesso di Grisham è che l’informatore iniziale è solo il primo di tre
livelli, cioè nella fattispecie è un avvocato che conosce un tramite che
conosce il reale informatore. Tutta la storia si basa allora sulla ricerca di
Lacy e del BJC di trovare prove sufficienti per iniziare un atto giudiziario, e
sul tentativo dei cattivi di bloccarli, con le buone o con le cattive. Nel
corso del libro la trama si complica, qualcuno si fa male, qualcuno sparisce,
viene alla fine coinvolto anche l’FBI perché i crimini risultano più complessi
addirittura di quanto sembra inizialmente. Tuttavia, nella volata finale, c’è
poco di interessante, tutto scivola verso l’atteso finale. Con una serie di
notizie para-legali che riempiono anche l’epilogo di notizie poco rilevanti per
il succo del romanzo. Almeno per quello che poteva essere un buon thriller.
Infatti, ad esempio, non ho capito, forse perché magari legato ad eventi a me
ignoti, perché il terzo livello decide di intentare la causa. Avrà qualche
beneficio economico? Non lo so e non mi è chiarito dal libro. Che alla fine
quindi risulta abbastanza piatto. Con addirittura alcuni rami delle vicende che
mi sembrano morire senza una spiegazione convincente.
Fred Vargas “Quand sort la recluse” J’ai
lu euro 9,50
[A:
24/09/2018 – I: 05/06/2019 – T: 26/06/2019] - &&&
--
[tit.
or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 478;
anno 2017]
Se è vero che Frédérique
Audouin-Rouzeau in arte Fred Vargas scrive un libro ogni tre anni, è anche vero
che io ne leggo con lo stesso ritmo. Quindi, anche se del ’17, solo ora lo
prendo in mano (anche perché, per un mio tic personale ho deciso che i libri
della scrittrice li leggo in originale), quasi tre anni dopo la saga ambientata
nella mia cara Islanda. Tra l’altro il libro, come tutti i buoni seriali si
collega al precedente e comincia con il commissario Adamsberg ancora nell’isola
di ghiaccio (in particolare su di un’isola di fronte ad Husavik, dove vidi le
mie prime balene). Richiamato urgentemente a Parigi dal vice Danglard, in poche
battute risolve lo spinoso caso, dopo di che la sua mente comincia a perdersi
tra le nebbie, vagando con i suoi percorsi laterali, qua e là, connettendo
informazioni, chiedendo notizie apparentemente scollegate. Anche se tutta la
truppa (o quasi) del suo XIII arrondissement (quello con Place d’Italie e Gare
d’Austerlitz, per chi sa della città delle luci) è contenta del ritorno. Ritroviamo
i personaggi che abbiamo amato nelle nove precedenti uscite. Il sodale Veyrenc,
con cui rinverdire il passato pirenaico dell’infanzia, Froissy, la maga della
rete, Estalère con i suoi caffè, nonché sempre presente la giunonica Retancourt.
Solo Danglard sembra infastidito da qualcosa. E noi siamo pensieroso. Il colto
vice non piò mettersi contro il grande capo. Non è corretto. Ci sarà una
schermaglia neanche tanto sotterranea tra i due, che avrà anche momenti duri,
pur trovando uno sbocco soddisfacente verso la fine. Con il solito gusto delle
mescolanze, poi, non posso che compiacermi del cammeo che ci offre Mathias, l’archeologo protagonista del ciclo
di romanzi dei Tre Evangelisti. O delle cene sul filo dei ricordi pirenaici,
dove apprendiamo a conoscere la “garbure”, un piatto veramente di montagna, una
minestra con molte verdure (cavolo verde, fagioli, fagioli, patate, rape,
piselli, cipolle) ed insaporita da pezzi di carne (anatra, oca, stinco o collo
di maiale, ossi di prosciutto, salsiccia). Un piatto che serve a scaldare,
perché la trama “polar” (termine francese analogo al nostro “libro giallo”,
derivato dalla contrazione dei termini “policier” e “noir”) è fragilina.
Rovistando tra le nebbie sue e di Veyrenc, Adamsberg si imbatte nella
misteriosa morte di alcuni (per ora tre) ultraottantenni dovuta al morso di un
ragno. Appunto quello del titolo, che è sempre rintanato, ma quando esce, e
morde, provoca una particolare necrosi detta loxoscelismo (se volete maggior
dettagli, collegatevi alle ultime righe della trama). Il morso non dovrebbe
essere mortale, ma le persone sono anziane e debilitate. Le morti, all’inizio
scollegate, trovano via via dei punti di contatto, fino a restringersi ad un
gruppo di ragazzini ospiti di un orfanotrofio negli anni ’40. La banda aveva
bullizzato i compagni proprio con i ragni, provocando amputazione di arti o
impotenza permanente. Crescendo i bulli aveva anche approfondito le
“cattiverie”, dedicandosi anche a stupri, su maschi e femmine, purché
minorenni. Una volta messi sotto controllo i pochi rimasti, Adamsberg è colpito
dal fatto che, nonostante la protezione, le morti continuano. Non solo, ma
risulta a volte misteriosa anche la dinamica delle aggressioni. Il nostro
commissario approfondisce i suoi proto-pensieri ossessionato dal nome del ragno
(la reclusa bruna), la pratica stessa della reclusione soprattutto conventuale,
episodi giovanili, ed altre “lateralità”. Arrivando così al nodo finale, ed a
sbrogliare per sé, per i suoi e per noi, tutte le matasse presenti. Come in
tutti i suoi scritti, la Vargas non segue i soliti sentieri, ma cerca sempre
nuove strade. Non ci ossessiona con sesso e sangue, ma si (e ci) concentra su
trame, ragionamenti, intrecci, dialoghi, voli pindarici, battibecchi tra
poliziotti che sono, in tutto e per tutto, persone normali, anche se con una
etica molto elevata ed una moralità di fondo irreprensibile. Se dobbiamo fare
qualche osservazione, manca un po’ il rapporto di Adamsberg con il suo vissuto
privato, che ci aveva accompagnato nelle prime uscite. Manca inoltre una vera
tensione “noir”, dato che molto si sposta nei rapporti interpersonali tra
Adamsberg e Veyrenc, tra Adamsberg e Froissy e, soprattutto, tra Adamsberg e Danglard.
Gradevole ma mi aspetto sempre qualcosa in più. Per
finire, come è ovvio, c’è tutta una parte (anzi diverse, devo dire) dedicate ai
ragni, ed alla specie protagonista del libro, il Loxosceles Reclusa, che ha
buon gioco in francese dove si chiama “araignée recluse”, meno in italiano,
dato che è comunemente noto come “ragno violinista” o al massimo “ragno
eremita”. In effetti, in libreria, il testo della Vargas è uscito con il titolo
“Il morso della reclusa”, dando quindi per saltabili tutte le prime cinquanta
pagine, per arrivare direttamente alla comparsa del ragno. Se ci fosse un
aracnologo anche minimo, avrebbe miglio potuto suggerire un tiolo come “Quando
esce l’eremita”…
“Il est des lieux … qui accompagnent un voyage. Le
voyage s’achève et ce lieu s’en va avec lui.” [Ci
sono luoghi che accompagnano un viaggio. Il viaggio finisce ed i luoghi
finiscono con lui.] (477)
S.S.
Van Dine “Il caso del terrier scozzese” Newton Gialli 52 s.p. (regalo di Fako)
[A: 10/01/2019– I: 21/08/2019 – T:
22/08/2019] - &&&
[tit. or.: The Kennel Murder Case; ling. or.: inglese; pagine: 126; anno 1933]
La
confezione è poco invitante. Un vecchio Newton pubblicato nel 1993, nell’ambito
di una collana di gialli di buona fattura, ed essenzialmente già privi dei
diritti d’autore. Anche la stampa è di difficile lettura, pagine piene con una
linotype ombrata e non molto interlineata. Peccato perché Van Dine è un degno,
seppur datato, scrittore. Non solo, anche la trama, pur concentrata, ha un suo
sviluppo interessante e, come ci si sarebbe ben aspettato, seguendo abbastanza
fedelmente le venti regole della costruzione di un romanzo poliziesco. Intanto
ricordo che l’autore si chiamava in realtà Willard Huntigton Wright, ed era,
principalmente, un esperto d’arte. In genere, avendo letto molto di Van Dine,
si considerano “migliori” i romanzi scritti prima del 1930, quelle chiamati
della tetralogia dei “Murder Case”: Benson, Canary, Greene e soprattutto
Bishop. Era il periodo in cui Van Dine riuscì a disintossicarsi dalle
dipendenze da droghe varie. Voleva, dopo aver scritto gialli controvoglia,
tornare agli studi d’arte. Ma il “writing business” glielo impedì, continuò a
scrivere, riprese le droghe e morì nel ’39 a 52 anni. Secondo me, tuttavia,
questa, pur essendo degli anni ’30, ha una sua dignità, come ho detto. Intanto,
è uno dei più classici casi di “assassinio nella camera chiusa”. Il morto,
Arthur Coe, ha una ferita da arma da fuoco in testa, una pistola in mano, ed è
dentro una stanza chiusa all’interno da un catenaccio. Suicidio? Sul posto
intervengono i “soliti” personaggi del nostro scrittore: Philo Vance, il suo
“uomo ombra” Van Dine, ed il mentore delle indagini, il procuratore Markham. I
tre cominciano a disquisire sul presunto suicidio, che il dottor Doremus,
medico legale, sconfesserà dopo aver seguito le dritte di Vance. Prima si
trovano segni di colpi intesta. Poi il colpo fatale, una coltellata alla
schiena. Il tutto sempre dentro la stanza chiusa. Pian pianino entrano in scena
i vari attori della trama: Hilda, la nipote, farfallina e con qualche astio
verso lo zio che lesina i soldi, Raymond, collezionista e amico della famiglia
Coe nonché aspirante fidanzato di Hilda, Edmondo, l’italiano venuto a comprare
la collezione Coe e nel frattempo anche preso da Hilda, il cuoco cinese Liang,
nonché, ma solo per menzione, Brisbane, il fratello di Arthur, che si diletta
di letture di criminologia, stranamente in viaggio per Chicago. Stranamente,
perché poco dopo se ne scopre il cadavere in uno sgabuzzino. Colpito a morte
dallo stesso pugnale del colpo inferto ad Arthur. Entra anche in scena il
terrier scozzese del titolo italiano (non di quello inglese, che invece fa
riferimento a “kennel” cioè canile, e vedremo perché più avanti), un cane anche
lui colpito, questa volta da un’arma come del primo colpo inferto ad Arthur. Il
tutto ruota poi intorno alla collezione Coe, che Edmondo vuole acquistare,
fatta di molti pezzi cinesi, per la maggior parte rubati, trafugati e
sottopagati da Coe. Un motivo che tenderebbe a far convergere i sospetti sul
finto cuoco Liang, che scopriamo essere più un letterato, o intellettuale cinese,
interessato alle ceramiche rubate, che un vero cuoco. Il gioco letterario dello
scrittore prosegue a lungo per tutto il romanzo, con elucubrazioni del buon
Vance, inframmezzate da citazioni colte sulle ceramiche cinesi, da intermezzi
sulle genealogie canine, nonché da qualche divagazione culinaria. Inciso:
divagazioni che riprenderà il buon Rex Stout, grande ammiratore di Van Dine,
che collocherà il suo Nero Wolfe sempre nella zona Ovest di New York, come da
molte situazioni di Van Dine, esasperandone poi il lato culinario. Alla fine,
anche se spezzata in vari capitoli, abbiamo la ricostruzione degli avvenimenti.
Il colpevole affronta Arthur, gli dà una botta in capo con l’attizzatoio (primo
colpo), poi lo pugnala con un coltello cinese (tentativo di incolpare Liang),
che cerca di nascondere in una ceramica, purtroppo talmente esile da rompersi,
benché sporcandosi di sangue. Convinto della morte, se ne va. Peccato che
l’emorragia interna non sia fulminante, così che Arthur torna al piano di
sopra, comincia a svestirsi per andare a letto, ma dopo essersi messo la
vestaglia, muore. L’assassino ha visto la luce al primo piano, mentre il morto
doveva essere a pian terreno. Preso dal panico, ritorna nella casa. Nel
frattempo, Brisbane, che aveva programmato di uccidere il fratello per suoi
oscuri motivi, torna a casa, trova Arthur sulla poltrona, non si accorge che è
già morto, gli spara alla tempia, poi, con un trucco che Vance impiega due
lunghe pagine per spiegarci, chiude la stanza con il catenaccio all’interno. Il
cattivo intanto, entra dal cortile, lasciando la porta aperta da cui entra il
terrier, vede una persona camminare, pensa che sia Arthur, e lo pugnala di
nuovo, portandolo al buio nel vestibolo. Ovviamente il colpevole, il giorno
dopo, cade dalle nuvole vedendo Arthur morto in una stanza chiusa e Brisbane
morto al piano terra. La soluzione avverrà dai canili: scoprendo il
proprietario del terrier, Vance capisce come sia entrato ed uscito il colpevole
dalla casa per non lasciare traccia (anche se poteva essere e non ve lo rivelo,
uno degli stessi abitanti della casa). Scopre anche che il colpevole aveva un
doberman che maltrattava con ferocia. E proprio questo, unito al canile di cui
dicevo sopra, eseguirà la sentenza finale. Come detto, è un giallo di parole,
non succede nulla, se non una serie di dialoghi tra Vance ed il resto del
mondo, che consentono a noi lettori di avere le stesse informazioni degli
attori del dramma, con la scommessa su chi arriverà alla soluzione. Certo se
sapessimo le regole di Van Dine a memoria, la numero 11 (che non vi dico,
rimandandomi ad altri commenti di romanzi dello scrittore) ci avrebbe portato a
restringere talmente il cerchio dei possibili colpevoli, che forse, anche senza
le spiegazioni di Philo Vance, avremmo capito anche noi dove puntare il dito.
Personalmente, avevo pensato anche io, e sin dalla sua comparsa sulla scena,
che il colpevole fosse…
Michael
Connelly “La strategia di Bosch” Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a
9,30 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 15/09/2019 – T: 18/09/2019]
- && e ¾
[tit. or.: The Burning Room; ling. or.: inglese; pagine: 370; anno 2014]
Pur essendo,
secondo la bibliografia ufficiale, il 17° caso di Harry Bosch, nella mia
personale cronologia dell’opera di Connelly, questo dovrebbe essere il 20°
romanzo in cui il nostro eroe compare. Come potete immaginare dai numeri, ormai
Bosch le ha passate tutte, dai tempi “duri e puri” dei primi casi alla LAPD
(per i non addetti la “Los Angeles Police Department”) alle ultime uscite che
lo vedono verrebbe da dire relegato, ma non è proprio questo il termine, ai
“Casi Irrisolti” (o Cold Case o, come viene chiamato dal Dipartimento
“Open-Unsolved Unit”). Bosch, lo sapete, è uno dei miei pallini, che seguo da
anni, per due particolarità che ripeto: il nome e la musica. Il suo nome
completo è Hieronymus Bosch come il
famoso pittore olandese, detto Harry che se non è complicato. La musica è il
jazz, che gli serve di distensione e riflessione, soprattutto nel suo brano
preferito “Lullaby” del sassofonista Frank Morgan. Ma sul jazz farei una nota
(ah ah) più avanti. Secondo la cronologia ricostruita, Bosch dovrebbe essere
nato nel 1950, e quindi ora ha una sessantina d’anni, e si avvicina, neanche
tanto pericolosamente, alla pensione. Intanto gli viene affidato uno strano
caso “irrisolto”. Perché deve indagare sulla morte di un “mariachi”, un
suonatore da strada messicana, Osvald Merced, appena deceduto in seguito però
ad un colpo d’arma da fuoco che da dieci anni lo costringeva su di una sedia a
rotelle. Ora che muore, l’estrazione della pallottola fa riaprire il caso, sul
quale si getta Harry con la sua nuova partner, Lucia “Lucky” Soto, giovane
promettente, forse un po’ troppo pronta a sfoderare le armi, che Harry prende a
ben volere, e che pensa di istruire proprio per la sua vicina pensionabilità.
Il caso è complicato, perché Merced fu preso a simbolo dall’ex-sindaco che
sulla sua paraplegia ha costruito la fortuna per due mandati e che ora mira
anche alla carica di governatore. Si era pensato ad una banda e ad un colpo
casuale, dato che nulla nella vita di Merced porta a possibili episodi
delinquenziali. Dato che poco sfugge ad Harry, nel corso delle indagini capisce
che Lucia sta anche seguendo una sua personale indagine su di un incendio,
avvenuto venti anni prima, in cui morirono nove bambini. L’abilità di Connelly
è nel portarci, indizio dopo indizio, a capire meglio i due casi e ad
alternarne la narrazione, giocando su due diversi registri narrativi. Perché
l’incendio viene ben presto collegato con una rapina, quasi ne fosse stato un
diversivo. In tutti e due i casi si tratta di trovare collegamenti tra vari
pezzi di puzzle che si accumulano. Un’impiegata della banca rapinata abitava
nel palazzo bruciato. Un’impiegata che andava a letto con due pregiudicati
forse implicati nella rapina (o almeno uno dei due sembra implicato).
Un’impiegata che poi sparisce per comparire anni dopo in un Convento di suore,
e farsi missionaria in Sud America. Dall’altra parte uno dei mariachi della
banda di Merced scompare, e, ritrovato, confessa di essere stato l’amante di
una signora bene. Con marito altolocato e ben messo politicamente. Ma anche
focoso. Forse era il fuggiasco il vero bersaglio. Forse ci fu un errore di
mira. Purtroppo, quando si avvicinano troppo ai puntini finali, Harry e Lucia
trovano sempre qualche intoppo. Qualcuno che muore. Altri che spariscono. Molti
che mettono i bastoni tra le ruote. I due casi verranno comunque risolti, pur
se probabilmente senza processi e condanne. Notiamo solo che Bosch si comporta
sul filo del rasoio, per trovare prove. A volte al di là del rasoio, tanto che
tra pressioni politiche e sbavature varie, questa lunga doppia puntata finisce
con una sua diremo solita sospensione dal servizio. Vedremo nei prossimi libri
se e come Connelly deciderà di proseguire. Anche perché, come detto Bosch è
vicino alla pensione. Come spesso accade nelle ultime scritture, Connelly è
meno cupo del solito, riesce a gestire trame apparentemente complesse con una
buona mano. Portando avanti anche le storie di contorno. Carina la vicenda
personale di Lucia, che vedremo se avrà peso per restare nella serie.
Promettenti gli sviluppi di Bosch con la figlia Maddie, che vedremo se
deciderà, come sembra, di entrare anche lei in polizia, magari per farci
seguire le vicende di una Bosch 2. Infine, come detto all’inizio, da
sottolineare gli inserti jazz che in Connelly non mancano mai. A parte
l’immancabile Morgan di cui sopra, ad un certo punto Bosch va a sentire un
concerto jazz, dove suona una giovane sassofonista. Si tratta della
sino-americana Grace Chung Kelly, che all’epoca dello scritto aveva 22 anni. Si
esibisce al sassofono, in una versione di “Somewhere Over the Rainbow”, che
immagino di sicura presa (uno dei miei pezzi preferiti però nell’assolo di
Keith Jarrett al pianoforte). E Grace Kelly negli anni successivi avrà sicuro
successo e premi. Buon occhio Connelly, ed alla prossima.
Seconda
domenica di novembre, al solito, comunque, dedicata intimamente, ai miei morti
ed a quelli dei miei cari, ma anche, per voi lettori, con una puntata dedicata
ad uno dei piaceri della vita.
E
seppur si frequentano luoghi, spazi e persone, l’uggiosità del tempo non lascia
spazio a momenti sereni, ed a prospettive rilassanti nel breve orizzonte
temporale che riusciamo ad ipotizzare. Ma, come diceva qualcuno molti ma molti
anni fa: “Tirem innanz!”.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE 2019
Esiste una malattia simile? E perché
cercarne un rimedio? Misteri dell’uomo!
Sesso, fare troppo
Fay Weldon “Vita
e amori di una diavolessa”
Charles Bukowski “Donne”
Vitaliano
Brancati “Paolo il caldo”
Gabriel García
Márquez “Memorie delle mie puttane tristi”
Yasunari
Kawabata “La casa delle belle
addormentate”
Sì, è possibile
avere una sessualità eccessiva.
Gli uomini che
pensano di essere ossessionati dal sesso dovrebbero gettarsi addosso un secchio
d’acqua gelata sotto forma di “Vita e amori di una diavolessa” di Fay Weldon.
Quando Bobbo, il bel marito di Ruth, l’abbandona per la minuta e delicata Mary
Fisher - un cliché femminile preso direttamente dai romanzi rosa di successo
che la Fisher scrive - Ruth decide di abbracciare il proprio demone interiore.
Se la fa con chiunque, finché il sesso per lei non significa più nulla. Lo
utilizza allora per ottenere ciò che vuole: rovinare la vita a Bobbo e Mary, con
un aplomb devastante. Se siete sposati e tentati da un’avventura, con questo
romanzo ci penserete due volte. Sposati o no, rifletterete sulla conclusione
alla quale giunge Ruth, ovvero che le belle donne usano il sesso per
controllare i loro uomini. Dopo questo libro, un lungo periodo di stretto
celibato comincerà a sembrare altrettanto seducente di una strizzatina
d’occhio.
Le donne che
hanno bisogno di una doccia fredda la troveranno nelle pagine voraci di Charles
Bukowski. Il narratore, Henry Chinaski - liberamente ispirato allo stesso
Bukowski - è un cinquantenne perennemente arrapato e sempre in cerca di sesso.
Mezzo litro di whisky da vomitare prima di colazione e via dietro al prossimo
paio di blue jeans attillati, a baciare e a litigare - e a domandarsi se il
proprio stomaco reggerà al sesso orale. C’è dell’anima in queste pagine, e una
bellezza cruda e volgare che qualcuno troverà affascinante - soprattutto se ha
buon orecchio per la prosa poetica; di sicuro, però, vi farà venire voglia di
lasciare la biancheria sexy nel cassetto.
Se non vi siete
ancora risanati sarà necessario allora completare questo piccolo ciclo di
vaccinazione dai pericoli della lussuria con un ultimo richiamo. Oltre al
relativo girone dantesco (Inferno, canto V), leggetevi, se non l’avete ancora
fatto, le dolorose e illuminanti avventure di “Paolo il caldo”. La sensualità
dilagò in lui come una tetra ossessione da quando, sopra un tram catanese, lo
sfiorò il corpo di una donna. Aveva dodici anni. Da quel momento l’amore gli
timbrò il viso di un’inguaribile pallidezza. La sua lotta fu quella di cercare
di vedere la luce del mondo (che per lui era la luce della Sicilia) dalla parte
ridente ed “espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia”, dalla
quale derivano l’apprensione e la libidine. Ma il barone Paolo Castorini si
aggrovigliò sempre di più in sé stesso e nei propri esaurimenti nervosi “fino a
sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello”. Se neppure questo monito
vi condurrà a una vita sessuale più ragionevole, non resterà per voi che
aspettare la vecchiaia come una liberazione, magari tenendo sul comodino, non
si sa mai, le “Memorie delle mie puttane tristi” di Gabriel García Márquez e “La
casa delle belle addormentate” di Kawabata.
Bugiardino
Fay Weldon la lessi negli anni
Novanta, e non mi lascio né impressioni né eccitamenti. Kawabata, addirittura,
mi accompagnò che stavo ancora in casa di mamma e papà (e lascio a voi fare
calcoli). Di Brancati ho letto “Don Giovanni in Sicilia”, senza troppo
entusiasmo. Allora rimangono il solito eccessivo Bukowski, e l’ormai allora
anziano (ed ora purtroppo morto) Marquez.
Charles Bukowski “Donne” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[tramato il 1° novembre 2016]
Forse
vi sorprenderete nel vedere un così basso indice di gradimento in un libro di
cui, credo, parlerò in termini non dico elogiativi, ma sicuramente problematici
e propositivi. Ho letto altro di Bukowski, ho commentato “Post Office”, e
continuo a ripetermi: non riesco ad entrare nel suo mondo alcolico. Come non
riesco a sintonizzarmi con tutti i libri con elevati tassi di vini e liquori.
Non che sia astemio, ma ritengo sia qualcosa di genetico che mi blocca. Tanto
che, per ricordare qualcosa ai miei amati lettori, anche le letture di Harry
Hole di Jo Nesbo ad un certo punto mi son venute a noia. D’altra parte,
Bukowski è tutto un eccesso. Ovvio, non solo nel bere, anche se si ubriaca ogni
tre pagine e mezzo (e vomita ogni quattro). Ma anche nel sesso. E qui è un
panegirico di incontri sessuali, descritti più o meno esplicitamente. Crudi
anch’essi come le bevute. Come gli spinelli (pochi), la coca, ed altre droghe
più o meno pesanti. In un mondo vissuto sull’orlo sempre del baratro. Perché?
Forse posso capire il sesso. In fondo fa bene (e non solo in fondo), ma bevute
e stravizi che fanno sballare a cosa servono? Non credo che sballando s’impara.
Se avesse scritto il libro anni e anni dopo, avrei ben visto un titolo
ammiccante come “Bevi, scopa, ama”. Dove però l’amore non c’è mai, che Henry
Chinaski (il protagonista di “Donne” ed alter-ego di Bukowski) non ama nessuna.
E forse nemmeno sé stesso. Se poi fossimo colti ed esegeti, non potremmo che
ripensare al libro come ad una sua biografia, vera ed inventata allo stesso
tempo. Sicuramente, l’inizio e la fine ripercorrono due momenti fondamentali
della vita di Charles-Henry. Dopo aver lasciato le Poste Americane (vedi la
fine di “Post Office” in proposito), incontra ed inizia una turbolenta
relazione con Linda King (rinominata nel libro Lydia Vance), di venti anni più
giovane. Rapporto burrascoso per gli appetiti sessuali di Linda, per il suo
odio delle corse dei cavalli (passione fondamentale di Henry), per l’alcolismo
perenne di Henry, e per il suo attaccarsi a qualsiasi donna gli mostra un
minimo di apertura. Ed evitate di fare battutacce su questa frase infelice.
Tralasciando (non siamo qui per fare un elenco di prestazioni sessuali) tutte
le donne che seguono Linda, arriverà alla fine ad avere una relazione più
equilibrata con Linda Lee Beighle (ribattezzata Sara), che riuscirà anche a
fargli diminuire il tasso alcolico. Sara è una salutista, devota del santone
indiano Mehar Baba (uno strano tipo che dal 1925 alla morte nel 1969 rimase in
silenzio, comunicando a gesti con i suoi discepoli). Quello che emerge di
Chinaski è appunto il suo lasciarsi vivere. La sua filosofia sembra essere: se
accade, lasciamolo accadere. Come un bambino che non sa, non riesce a dire no.
Tanto che ad un certo punto, il giorno del Ringraziamento, si trova invischiato
in una situazione ingestibile: tre donne con cui ha fatto sesso vogliono
passare il giorno con lui. E Henry non sceglie, tanto che, giustamente, alla
fine lo passerà da solo. Non nego che alla fine, nei ricordi che lascia una
lettura quando chiudi il libro, di Bukowski-Chinaski mi resta in mente questa
parte (l’incapacità di decisione) e la spinta verso l’altro sesso. Una spinta
forte, come succede in tutte le persone. Ma dove la spinta delle possibilità è
mitigata dal bagno di realtà. Non si è più bambini che si può volere tutto.
Bisogna, imperativamente, fare delle scelte. Le scelte che il proprio modo di
vivere reputa consone al proprio essere. Ed io, quello del nostro pur grande
scrittore, non riesco a districarle dal grande ammasso di cose che non sono mie
e che quindi non capisco. Il giocare ai cavalli piuttosto che passare del tempo
a parlare con una donna. Bere sino a stordirsi, bere sino a vomitare ogni poche
pagine (anche perché, pur amando un sano bicchiere, ritengo che questo, come il
fumo, come le donne, vada preso per il piacere e non perché va bene tutto).
Scopare con tutte le donne che capitano a tiro, solo per soddisfare un bisogno
fisico, quando il sesso, pur esteso, pur grande deve essere anch’esso legato ad
un piacere. Per questo ho continuato a leggere il libro anche se non mi ha mai
preso, non mi ha mai coinvolto, come in genere succede in (quasi) tutti i libri
che leggo. Caro Bukowski, sei stato un grande, ma non un grande della mia scala
di valori. Non so se leggerò altro dei tuoi scritti. Con stima ma senza
affetto, arrivederci.
“Vivi per scrivere? No, mi limito ad
esistere. Poi cerco di ricordare e buttar giù un po’ di cose.” (201)
“Vivere fino alla morte è una gran fatica.”
(213)
Gabriel Garcia Marquez “Memoria delle mie puttane tristi” Mondadori
euro 10 (in realtà, scontato a 7, 05 euro)
[tramato il 18 giugno 2017]
Si
legge in un sospiro, rimane però dentro con qualche passaggio indimenticabile,
anche se alla fine ha una stentata sufficienza, o come direbbe l’autore, una
sufficienza triste. Perché l’impianto generale, ed almeno un passaggio, sono
una rivisitazione in salsa sudamericana del bellissimo “La casa delle belle
addormentate” di Kawabata Yasunari (scritto però più di 40 anni prima). È anche
l’ultimo romanzo scritto da Gabo, già quasi ottantenne. Poi niente più romanzi
negli ultimi dieci anni della sua lunga ed intensa vita. Qui appunto,
riprendendo l’idea giapponese di una casa di “signorine” (capite a me) che
dormono contemplate da persone (anziane o meno) che stanno al nadir della loro
virilità, ne fa un elemento cardine per l’avvio alla conclusione della propria
vita di un giornalista eccentrico novantenne, che in molti tratti ripercorre
momenti e modi della vita stessa del nostro amico colombiano. L’abilità,
indubbia, di Gabo è quella di restituirci l’immagine di un percorso che
inesorabilmente porta alla morte, con la delicatezza della descrizione di un
fiore. Anche con parole crude (come quelle del titolo), anche con richieste e
momenti che ci spiazzano. L’io narrante ha amato molte donne, e spesso, nelle
more dei suoi percorsi amorosi (che se volete ripercorrono in pochi tratti
quelle di Florentino da poche descritte) si ritrova a frequentare bordelli di
tutte le risme. Ed a questo si rivolge, questo della sua di poco più giovane
tenutaria Rosa, per chiedere di festeggiare il suo compleanno con una vergine.
Richiesta soddisfatta, ma la quattordicenne Delgadina dorme tutta la notte. Il
nostro giornalista però rimane affascinato dal corpo, dalle visioni, e sommerso
dai ricordi che un corpo nudo risveglia nel suo corpo anziano. Mentre procede
il rapporto con la sempre dormiente e sempre vergine Delgadina, affiorando
ricordi, seguiamo i brevi tratti della vita del protagonista. La vita felice
della gioventù, accanto alla tanto amata madre italiana. La crescita, la morte
dei genitori, la scrittura, soprattutto di piccoli elzeviri e di recensioni di
brani di musica classica. Le piccole storie più di sesso che d’amore. Le paure,
in particolare quella di mettere al mondo dei figli. Perché sarebbe disposto
anche a sposarsi, come sta per fare con la bellissima Ximena. Tuttavia,
bloccato dalla possibilità di procreare, anzi spaventato, non si presenta il
giorno delle nozze. Vediamo l’anziana Damiana, che lo avrebbe amato, ma di cui
lui si accorge solo perché lo accudisce ora che è sì vecchio e stanco. Poi le
baruffe per incomprensione con Rosa, l’allontanamento da Delgadina, ed il
definitivo ritorno, con quell’immagine in cui pensa di potersi mettere a
lavorare scarpette per neonati all’uncinetto. Certo, è un po’ tardi per
decidere di avere una progenie, quasi che potesse farlo solo ora che il tempo
tiranno non può più tollerarlo. Finisce così la cronaca di questo anno tremendo,
in cui allo zero dei novanta finalmente si sostituisce il primo numerale. Con
il protagonista che, pacificato nell’animo, guarda radioso al futuro, ed alle
sempre più vicina dipartita, circondato dall’amore di Delgadina (benché mai
consumato), dall’affetto di Damiana e da un gatto che pur vecchio anche lui non
verrà simbolicamente soppresso, ma rimarrà a fare da terzo incomodo nella casa
avita. Se tuttavia la storia è breve e lineare come consentono le poco più di
cento pagine del libro, Gabo riesce ad infiorettare dei momenti, da anziano,
che diventano in ogni caso, momenti eterni per tutti noi. Come le frasi che ho
sotto riportato. Come la descrizione di quella fotografia presa al giornale
quando aveva trenta anni, ed era uno dei momenti forti della stampa locale (per
qualche evento poco importante, ora). Con quelle crocette che qualcuno ha
segnato accanto alla testa di tutte le persone che in questi sessanta anni sono
morte. E lui guarda e ci dice che sono rimasti in quattro. O come la visita al
medico, nipote di quello che lo aveva visitato una volta nel volgere dei suoi
cinquanta. E che fisicamente ed anche operativamente risulta identico al nonno
medico, anche nella diagnosi che gli fornisce (“Lei è perfetto, rispetto
all’età che ha”). Di passaggio riporto anche altri due momenti di
ricongiunzione con lo scritto di Kawabata: entrambi constano di cinque capitoli
ed in entrambi, ad un certo punto, muore una persona all’interno del bordello
frequentato dal protagonista. Forse se non avessi notato tutte queste
rivisitazioni, poteva il libro avere più consistenza nella mia memoria? Non so,
di certo mi ha lasciato sconcertato, anche se, capisco, che, come qualcuno ha
scritto, tutti scrivono lo stesso libro: quello pieno delle parole che vogliamo
sentire. A volte ci accorgiamo delle similitudini, a volte no. Come direbbe
Borges.
“L’età non è quella che si ha ma quella che
si sente.” (75)
“Scrivevo … con la voce di un uomo di
novant’anni che non ha imparato a pensare come un vecchio.” (83)
“È impossibile non finire per essere come
gli altri credono che uno sia.” (117)
“Sto diventando vecchio … Il fatto è che non
lo si sente dentro, ma di fuori tutto lo vedono.” (120)
Conclusioni
Rimango sulla domanda iniziale. E
sulla risposta che non è mai “troppo”. Può essere tanto, ma soprattutto, deve
essere momento di felicità. Se, come Bukowski, vomito, forse è meglio fare
altro.
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