domenica 3 novembre 2019

Italia in maglia "noir" - 03 novembre 2019


Paolo Fiorelli “Pessima mossa, maestro Petrosi” Repubblica Italia Noir 26 euro 7,90
[A: 22/11/2016 – I: 25/05/2019 – T: 26/05/2019] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 361; anno: 2015]
Paolo Fiorelli è qui alla sua prima uscita da scrittore, da under 50 marchigiano che normalmente scrive di cinema su “TV Sorrisi e Canzoni”. Se quindi è ovvio che sappia del mondo in celluloide, da questo scritto, e dalle note sparse in rete, è di sciuro una persona che conosce gli scacchi, ed anche molto a fondo. Tant’è che, per molte parti, questo “forse” giallo si scopre manuale di descrizione delle battaglie sulle 64 caselle. Cosa che, se non ne avessi quanto meno un’infarinatura, mi avrebbe lasciato più storto di quanto in realtà non sia avvenuto. E che mi faceva pensare come fosse forse un libro più degno della lettura del mio amico Mauro. Peccato, che l’inizio era invitante. Si attende il conte Vitti, uno dei due finalisti del Grande Torneo di Scacchi. L’altro, il Grande Maestro Achille Petrosi, è arrivato, ha effettuato l’apertura ed avviato i cronometri di gara. Ovvio che l’attesa sarà lunga, e poi infinita, dato che il Conte viene trovato morto nella sua villa. Da qui, Petrosi, che seguiamo per tutte le 350 pagina del libro, incartarsi nella più semplice eppur complessa indagine, effettua la sua “pessima mossa” del titolo. Vuole trovare l’assassino, anche se polizia e magistrati vari non lo vorrebbero tra i piedi. Con una esasperante lentezza, fortunatamente intervallata da qualche lezione di scacchi, arriviamo così a comprendere chi sia Petrosi e chi sia il Conte. La vittima è stato tempo addietro una vedette scacchistica, poi si è lentamente ritirato nella sua villa. Scopriamo che trafficava pericolosamente con oggetti d’arte forse trafugati, con frequenti visite in Francia. Scopriamo che è probabilmente gay, con un ultimo compagno un po’ disturbato, un giovane scacchista ciclotimico. Scopriamo che è sodale di un grande esperto del gigante degli scacchi Alexander Alekhine, sodalizio che fa comperare al conte ed al professore due rottweiler quasi gemelli. Dal canto suo, anche Petrosi è affascinato dal campione del mondo degli anni Trenta, tanto che ne studia continuamente le partite. In questo andamento duale, approfondiamo anche la conoscenza del Grande Maestro. Divorziato da un’attrice che gli ha lasciato un figlio da crescere, o meglio che ha cresciuto, visto che il Gran Maestro è prossimo alla cinquantina, ed il figlio Nicola è sui venticinque anni. Figlio che odia profondamente il padre (senza che io ne abbia capito i motivi profondi), che però dal padre prende la passione scacchistica. Solo per fuggire da casa, e da campione italiano, trasformarsi in Gran Maestro Francese, anzi, più che Gran Maestro, visto che entra tra i primi dieci nella Classifica Mondiale. Achille ha anche una madre di una pallosità gigante, da cui non riesce a staccarsi, neanche quando va in trasferta al torneo di Cannes. Vediamo poi i sodali scacchisti del circolo italiano fulcro della vicenda. In particolare, l’albanese Daxa, irruento ma sempre pronto a dire una parola per far ragionare il mostro investigatore dilettante. E la giovane russa Alexandra Kostina, badante part-time, campionessa in potenza, ma soprattutto con un debole per Achille. Motivo per cui, a parte il giallo, per tutto il libro faccio il tifo affinché Aki si affranchi da tutte le pastoie, e posso sfruttare una buona apertura verso Ale. Come detto, è tutto anche farcito di scacchi questo libro, per cui, oltre a seguire alcune partite, descritte con la notazione usale degli scacchi (ma se una non ne sa molto, risultano pagine criptate), ci immergiamo in vari pezzi di bravura: difesa spagnola, gambetto di donna, arrocco lungo, difesa est indiana. Si potrebbe continuare, ma forse si va un po’ troppo sul tecnico. Fiorelli, invece, torna spesso su Alekhine, sulla sua storia (che meriterebbe una trama a sé), e sulla scacchiera con cui si allenava, e sulla quale si diceva avesse sviluppato il suo “Metodo”, una serie di mosse del giocatore con il Bianco, che consentirebbe appunto al Bianco di vincere sempre. Questo è il miraggio (o la realtà) che hanno offuscato gli ultimi anni del Conte, e che, in seguito ad un concatenarsi di elementi lo hanno portato alla morte. Petrosi capisce come si sono svolti i fatti proprio durante il torneo di Cannes, dove affronterà anche il figlio in una cruenta partita. Perché, come ci insegnano i manuali, se sparisce (manca o altro) il Difensore del Re, la partita è persa. Non mi addentro oltre nella trama, ricordando solo che, altro elemento di curiosità ed interesse, è la citazione e riproposizione a più riprese del cosiddetto “Caso Wallace”, dove uno scacchista degli Anni Trenta, usando come alibi anche una partita di scacchi, a forse ucciso, o forse no, la moglie. Fu un caso di gran risonanza, tanto che ne scrissero maestri della suspense come Raymond Chandler e P.D. James. Ma che, ad 80 anni dai fatti, non è stato ancora risolto. Il “caso Vitti”, invece viene risolto, ma la lettura è costata una grande fatica. Speravo decisamente meglio, laddove il punteggio di gradimento risale solo perché, in fondo, a me, gli scacchi, piacciono.
“Vivere come un bambino è una delle cose più profonde che un uomo possa fare.” (338)
Marco Ghizzoni “I peccati della bocciofila” Repubblica Italia Noir 32 euro 7,90
[A: 17/01/2017 – I: 31/05/2019 – T: 02/06/2019] & e ¾
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 317; anno: 2015]
Marco Ghizzoni, trentacinquenne o giù di lì cremonese, dopo aver sfornato un giallo (secondo la critica) di discreta ed ironica fattura, “Il cappello del maresciallo” (che né lessi né ho in mente di leggere), continua in questa sua seconda opera le gesta del maresciallo Nitto Bellomo. E se gli scrittori in genere hanno della coerenza, data questa lettura di poco spessore, continua anche a fare l’Andrea Vitali in salsa cremonese. Perché, come in una Bellano senza lago, continua a narrare avvenimenti ed intrecci vari che si susseguono nella cittadina di Boscobasso. Lo spunto è l’idea di portare la cittadina agli onori della cronaca provinciale facendole vincere il campionato provinciale di bocce. Per fare ciò bisogna allenarsi, ed allora il sindaco Ferraroni ed il suo braccio destro don Fausto decidono di costruire un bocciodromo. Ovviamente i punti salienti del bocciodromo, oltre alle bocce, sono il campione locale di bocce Dermille Valcarenghi, e la barista del bar annesso, nientedimeno che una brasiliana. Sposata, certo, ma sempre di brasiliana si tratta, con tutto ciò che tale mitologica figura rappresenta nell’immaginario collettivo maschile. Il maresciallo Bellomo, infatti, non si sbagliava nel prevedere tempi duri nel suo lavoro, basta poco per mettere in pericolo la pace del luogo. Il maresciallo si trova così costretto a indagare su vari casi che altrimenti non si sarebbero verificati: risse, la scomparsa di una persona, un avvelenamento. Tutti gli abitanti di Boscobasso sono coinvolti in qualche modo nelle varie vicende che mettono in fermento il paese, persino la perpetua Franca. Fin dall’inaugurazione capiamo che il bocciodromo sarà al centro degli avvenimenti. La bocciofila Alma Mater del locale oratorio ne ha bisogno per le qualificazioni provinciali. La squadra è capitanata dal 73enne sporcaccione e gran bevitore Dermille Valcarenghi, vedovo con due figlie zitelle e vergini, Grazia (47) e Cinzia (45). Il bar del nuovo impianto è gestito da due brasiliani, la 25enne Juliana, bruttina e in carne, molto simpatica e appariscente, col marito Adriano, secco e timido. Dermille si fa avanti, lei però è attratta dal bellissimo “tocco” Federico, ci scappa una rissa (chi era Fede e chi Cannizzaro). Ci scappa Juliana che scappa. Ci scapperà un tentativo di mettere fuori causa Dermille prima delle finali regionali. Tutto il paese vi gira intorno: il parroco e la perpetua, la figlia di lei e l’appuntato, il sindaco e il maresciallo, l’oste e il brigadiere. Il prete che vuole tenere alto il nome della cittadina, il sindaco pronto a tagliare il nastro davanti ad un a folla urlante che inneggia alla squadra  dell’Alma Mater pronta per la serie B, gli anziani ma gaudenti giocatori di bocce che affollano il bar della prosperosa brasiliana,  coloriti personaggi  che ricordano i tifosi del Borgo Rosso in un mitico film di Alberto Sordi, ma soprattutto somigliano incredibilmente alle persone comuni che chiunque di noi ha incontrano in un  qualsiasi paesino della provincia italiana. Alla fine, però c’è ancora qualcuno, come il parroco don Fausto, che farà i conti con la propria coscienza, domandosi se la bocciofila sia un dono di Dio o uno strumento del demonio e riflette se sia il caso di mettere in gioco l’anima dei suoi parrocchiani per vincere il campionato di bocce. In questo romanzo, noi che non abbiamo letto il primo, conosciamo i vari personaggi che vivono, indagano, vanno curiosando per il paese, come appunto il maresciallo dei carabinieri Nitto Bellomo che proviene da Agrigento, il brigadiere Mancuso, l’appuntato Cannizzaro che ama disperatamente Elena la più bella ragazza del paese, la madre Franca perpetua di don Fausto parroco del paese. Il punto poco felice della narrazione, che altrove sarebbe di forza, è la brevità dei capitoli, che finiscono senza dar modo di entrare nel corpo della vita reale della cittadina. Finiscono anche per non far risaltare i piccoli o grandi crimini commessi. Qualcuno avvelena Dermille o è solo indigestione? Federico Cannizzaro è solo un carabiniere tipico (quindi un po’ stolto) oppure, realmente innamorato di Elena, resisterà oltre ogni dire alle avance della brasiliana? La coppia sudamericana è connivente o consenziente? E quale sarà mai il rapporto tra la perpetua Franca e l’unico vero punto di ristoro del paese, prima che si aprisse il bocciodromo? Insomma, se peccati ci sono, sembrano assai veniali, e la scrittura di Ghizzoni, pur allegra e sul filo dell’ironia ben pensata, non riesce a risollevare le sorti di un romanzo che non è comico, non è un giallo. Insomma, non è e basta. Mi pare che troppi siano ultimamente gli epigoni di Camilleri che puntano su di una scrittura leggera, su piccoli equivoci, sulla localizzazione degli avvenimenti. C’è chi ci riesce, e chi no. Per ora, Ghizzoni è tra i secondi.
Daria Lucca “Distanza di sicurezza” Repubblica Italia Noir 33 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 28/06/2019 – T: 30/06/2019] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 441; anno: 2014]
Direi che sicuramente è un buon inizio di scrittura, questo della giornalista Daria Lucca, cronista giudiziaria di tante vicende, che cominciò a macinare processi e trame dal suo primo incarico come inviata del Manifesto sul luogo della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Inoltre, non è un caso che sia passata anche nelle fucine dell’Espresso, anche se il suo attuale approdo a “Il Fatto quotidiano” non mi prende più di tanto. Ma la lunga esperienza sui crinali tra lecito ed illecito le ha fatto vedere, come a molti di noi illuminati, le potenzialità dell’uso del giallo nella scrittura di intrecci socioeconomici sostenibili, piuttosto, o forse anche, per scenari politico antropologici di sicuro riflesso reale. Così, penna alla mano, idee, in testa, ha una illuminazione interessante. Il numero di morti per omicidi e affini è statisticamente paragonabili a quello dei decessi causati da incidenti stradali. Sarebbe allora possibile camuffare un omicidio in incidente stradale? Sopra questa idea, nasce la prima storia della vicequestrice (o vicequestore?) Amanda Garrone. Sul solco delle idee “manziniane” dei poliziotti “promoveatur ut amoveatur”, la nostra Amanda, dopo essere stata coinvolta, come dirigente della Mobile romana, in un mancato arresto di droga ad un onorevole ben in vista, viene spedita in purgatorio presso la Polizia Stradale di Aprilia. Dopo pagine e pagine di altro, la nostra scrittrice ci racconta anche per filo e per segno come e perché Amanda abbia preso una “toppa” nel cercare di incastrare un sottosegretario. Ma è un dilungarsi che non ha grosso impatto sul corpo centrale del racconto. Anzi, cerca di fornire spiegazioni e moventi che potevano rimanere tra il detto ed il non detto, con un sicuro aumento del fascino del personaggio. La cui vicenda centrale inizia un venerdì 17 dicembre alle ore 12:45. Dato che io sono uno che non lascia i punti in sospeso, visto che lo scritto è del 2014, l’azione deve svolgersi nel 2010, laddove appunto il 17 dicembre era un venerdì. In quella data, un praticante avvocato, Gaspare Santi Fanti, figlio di un notissimo principe del foro, investe l’imprenditore Corrado Brachetto, da sempre sospettato di fare “il cravattaro”, come si dice a Roma, ma mai incastrato. Per i non romani, spiego che il termine sta ad indicare chi presta denaro ad usura, per poi volerne la restituzione, lasciando senza soldi e senza fiato il ricevente. Come chi viene stretto al collo da una infelice cravatta. Torniamo però al testo, ed al suo vagare nell’area del Castelli Romani (cosa che di certo ha dato un pelino di giudizio in più, anche se parlare di Porchetta di Ariccia quando ben conosciamo la Porchetta di Soriano è una grande eresia). L’idea poco gialla dell’incipit del libro, per noi attenti ed un po’ maniaci, ci fa scatenare il panico. Se Gaspare telefona prima dell’omicidio, come mai, per tutto il libro nessuno, ripeto nessuno, fa un controllo sui tabulati telefonici? Ma questo toglierebbe tutto il piacere del testo, che invece, sulle orme di Amanda, ci consente di svelare, passo dopo passo, sia la vita dell’usuraio Brachetto, i suoi traffici, le sue soperchierie, e tutto il mondo di mezzo tra lecito e illecito. Mentre sull’altro piatto della bilancia si va poco avanti per comprendere le motivazioni del gesto di Gaspare. La scrittrice tenta, con un buon mestiere, di soffiarci fumo negli occhi, di presentare possibili moventi, scenari alternativi. Ma noi si era capito tutto al 90% dalle prime venti pagine. Non per questo, tuttavia, ci si lascia sopire dalle seguenti 400. Che fa comunque piacere, nell’ambito di quel discorso socioeconomico ed antropologico, scoprire i mondi di Amanda Garrone, il dolore-amore verso la figlia che decide di andare a vivere con il padre. Ed ovvio, che nell’ambito della nascita di un personaggio, si cerchi anche di delineare i contorni, le squadre in gioco. I poliziotti fidati, gli amici con cui si discetta intorno ad un buon mangiare. I rapporti con gli altri corpi dello Stato (magistrati, carabinieri, servizi di sicurezza) che si uniscono al gioco, cercando di complicare la trama principale. O magari qualche suo rivolo nascosto. Io, invece, con stringatezza e leggerezza torno al filone principale, che è interessante sia per l’assunto che dicevo prima, sia per quell’idea pazzariella che mi viene leggendo: ma c’entra qualcosa, nella mente di uccisioni “strane”, Marta Russo? Una domanda spero senza risposta. Perché la storia dell’usuraio si intreccia con festini di alto bordo che si perpetrano nelle ville aristocratiche dei dintorni romani. Una vicenda “quasi” parallela che metta a rischio anche l’incolumità della nostra bella Amanda, una storia che si intreccia anche con loschi traffici est-europei. Ma, sebbene servano a riempire il romanzo, poco apportano alla vicenda principale. Delineano meglio contorni altri. Tuttavia, aspetteremo, anche senza troppo ansia, che ci sia un seguito per capire se seguiremo il vicequestore Garrone.
Claudio Coletta “Il manoscritto di Dante” Repubblica Noirissimo 31 euro 7,90 (in realtà scontato a 5,25 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 28/07/2019 – T: 29/07/2019] & +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2016]
In realtà, non ho niente di particolare contro l’ottimo dottor Coletta, le sue storie e la sua scrittura. Tra l’altro, a parte questa ripubblicazione nelle collane di Repubblica, gli scritti del mio quasi coetaneo sono pubblicati da Sellerio, che è un marchio di generale garanzia per la scrittura, e quindi, per noi agenti passivi, per la lettura. Tuttavia, questo scritto, di veloce e poco impegnativa lettura, non prende, non coinvolge, non muove (quasi) nessun moto dell’animo, se non quanto riporto nel finale, ma per motivi altri dalla scrittura e dalla riflessione. Ipotizzo, non avendo letto gli altri due libri pubblicati prima di questo, che a tenere le fila sia una sorta di scrittura seriale. Immagino, cioè, che il poliziotto che segue le indagini e che risolve il caso, Nario Domenicucci, sia presente anche negli altri libri. Questo spiegherebbe che la sua presenza non sia introdotta da descrizioni, menzioni, rimandi. E spiega anche che non vengano motivati in altro modo la presenza di una moglie (Annelise), di un figlio down (Edoardo), l’ambiente genovese della vita cittadina di Nario, nonché la sua appartenenza all’Europol. Capisco che non si voglia appesantire la narrazione, ma i serial writer che si rispettino trovano il modo di far capire al povero lettore tutto quanto è accaduto prima della presente narrazione. Dato che è un po’ superbo presupporre che io lettore abbia già letto tutti i tuoi precedenti libri (a meno che quest’uno non sia il qui scrivente tramatore; in genere infatti leggo i libri cronologicamente, ma questo a partire da un punto di attacco, che non sempre, però, è il primo volume della serie). Detto questo dei personaggi, e lasciati in Italia quelli poco funzionali alla trama principale, il filo del giallo si snoda in una Parigi della memoria. Coletta tributa i dovuti omaggi al “maestro” Simenon, il Quai des Orfevres, alcuni paesaggi cittadini (il quai de la Rapée dove c’è l’Istituto di Medicina Legale, e fu teatro del romanzo “Maigret e il barbone”), birrerie e caffè, un giovane agente di nome Lapointe (“il giovane Lapointe”), ed un accenno al Popinga che guardava i treni. Poi cerca di imbastire una trama che si vuole sensata, ma che ci vogliono quasi cento pagine per capirne qualcosa. Viene trovata morta una ricca ed attempata signora, il segretario (giovane ed aitante italiano) scompare, il maggiordomo tuttofare Kowalski (spero un caso che si chiami come il pinguino della serie “Madagascar”) dice molto e forse tace molto. Si scopre la scomparsa di tre quadri: un Picasso, un Constable ed un appena arrivato Giorgione. Su questo (chissà perché) si appuntano le ricerche di Domenicucci. Si risale alla vendita, pilotata dall’avvocato della signora, tal Jalabert. Quadro sottoposto ad expertise, che ne attestava la presunta falsità, ma ugualmente acquistato per una cifra enorme dalla famiglia De Soissons, nobili in decadenza. Piccolo siparietto campestre nella magione dei nobili, comunanza di idee con la bella Eleonore de Soissons. E finalmente, quando anche io sono arrivato alla fine di queste note, ed anche alla fine della pazienza di un libro che dovrebbe avere qualche motivo per intitolarsi “Il manoscritto di Dante”, si scopre che il finto Giorgione serviva solo a far transitare nelle mani della ricca signora le uniche due pagine scritte di pugno dal poeta. Fiction grandissima, che si sa che nessun manoscritto dantesco della Commedia è a noi pervenuto (quello più accreditato è la versione di poco posteriore alla morte di Dante e redatto da Giovanni Boccaccio). Tra l’altro ci sono una quindicina di inutili pagine introduttive sulle vicende trecentesche di quelle due pagine, cadute casualmente nelle mani di tal Ludovico di Soissons (ecco il collegamento…). Il finale è convulso e poco credibile. Il segretario amante è ben presto tolto dai sospetti, avendolo trovato anch’esso morto. Jalabert scompare. Kowalski fa il misterioso. Domenicucci, dopo un lungo colloquio con Eleonore, capisce che ci deve essere altro sotto, entra furtivamente nella casa della morta, entra nella camera blindata dove trova il cadavere di Jalabert, rischia di morire nella stessa. Ma senza motivo alcuno viene salvato, e proprio da chi ha ucciso Jalabert, anche se è forse proprio Jalabert che ha ucciso la signora. O forse no? Fatto sta che questo salvataggio è un mistero, che porta anche al mistero perché il ladro ultimo si allontani con il manoscritto, e poi si getta con tutte le carte nella Senna. Così, e finalmente, anche le ultimi possibili copie de “l’amor che move il sole e l’altre stelle.” Scompaiono dal mondo. Insomma, Coletta si avvia su una strada, ne tira fuori un’altra per virare il racconto sul poliziesco, impiega cento pagine per ricollegare le due strade, e si affretta in un finale convulso a cercare di chiudere molte porte, ma lasciando tutto un po’ velocemente trattato. Tanto che, ad esempio, non si capisce chi sia il misterioso orientale visto con Jalabert, né verrà mi svelato. Dicevo sopra, veniamo al congiungimento mentale, unico elemento che mi ha svegliato da una lettura soporifera. Ad un certo punto, Domenicucci, solo a Parigi, va al cinema a vedere un film con Jeanne Moreau, dove si incuriosisce per una colonna sonora firmata M. Davis. E lì non dice altro. Ora, forse non sarò un cinefilo come alcuni miei illustri cugini, né un musicofilo attento, ma bastano questi due accenni per collocare il film nella sua giusta luce. Si tratta di “Ascensore per il patibolo”, primo film, e capolavoro, di Louis Malle, con la colonna sonora registrata dal vivo da Miles Davis. Un film ed un album capolavori. Solo nelle ultime pagine, Coletta butta lì il titolo del film. Ora, o Domenicucci è un alieno di film (anche se sembra un patito di James Bond) oppure questo è un tentativo di fare “il divertente”, assolutamente non riuscito. A prescindere da ciò, potete evitare di leggere il libro, ma andate a vedere, se vi capita, il film. Se ne dovrebbe parlare, è geniale!
Essendo agosto un mese di viaggi, spesso si legge meno. Come quest’anno, guidati in una bellissima Irlanda, ecco che ci rimangono otto libri letti, abbastanza piatti, a parte l’ottimo saggio di Carlo Rovelli sul tempo.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Ben Pastor
Kaputt Mundi
Sellerio
15
2
2
Ben Pastor
Il morto in piazza
Sellerio
15
3
3
Ben Pastor
La venere di Salò
Corriere della Sera Arte
7,90
2
4
Ben Pastor
La notte delle stelle cadenti
Sellerio
15
2
5
V. S. Naipul
La máscara de África
Debolsillo
s.p.
3
6
S.S. Van Dine
Il caso del terrier scozzese
Newton Compton
s.p.
2
7
Carlo Rovelli
L’ordine del tempo
Adelphi
14
4
8
Osvaldo Guerrieri
Schiava di Picasso
Corriere della Sera Arte
7,90
3

Salutando gli ottimi amici bolognesi di week-end romano, e sperando si riescano a concretizzare le idee estive (non è mai troppo presto), eccoci ad affrontare un novembre che si preannuncia caldo e piovoso. Niente viaggi in vista, ma tanti consolidamenti di affetti, di visite, di amicizie. 

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