domenica 22 dicembre 2019

L'arte è finita - 22 dicembre 2019


Luca Romano “La vita di Pantasilea” Corriere della Sera Arte 20 euro 7,90
[A: 29/11/2016 – I: 24/06/2019 – T: 27/06/2019] - &&-----     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 392; anno 2012]
Ma domandiamoci pure che c’entra questo libro con l’assunto della collana? Si cita Benvenuto Cellini in poche pagine scarse e senza costrutto. Si parla di tal Marcello Corvini che forse, trenta anni dopo i fatti diventerà papa (e sarà l’ultimo che utilizzerà il proprio nome, facendosi chiamare Marcello II). Si parla, e molto, del sacco di Roma del 1527. Ma dov’è l’arte come romanzo? Boh! Se invece ci  asteniamo dal contesto, e cerchiamo di leggerlo come un romanzo a sé, pur nella considerazione che non lo avrei mai comprato, ha alcune parti che scorrono abbastanza. Altre meno, altre per nulla. Quello che esce fuori di positivo è un abbozzo della vita romana del 1500, incluse le vicende papali e imperiali. Si vede la vita dei vicoli, specie quelli dell’allora Borgo, mussolineamente distrutto ora. Si vede il castello dell’Angelo, il Passetto, Ponte Sisto, l’odierna via di Panico, ed altre bellezze centro-romane. Tra l’altro tutto centrato 426 anni prima della mia nascita. Quando i Lanzichenecchi, aiutati da mercenari di varia nazionalità, mettono a ferro e fuoco la città. Anche se in realtà, la storia narrata comincia due mesi prima, quando una delle amanti di Benvenuto Cellini, la giovane Pantasilea di Trastevere usciva dalla propria abitazione indossando un lungo abito elegante di taffettà ricoperto da una mantellina turchese che rivelava la sua condizione di cortigiana non ricca ma onesta, espressione che allora voleva dire colta e di buon gusto. La giovane sospetta di essere incinta e si avvia a pregare sulle reliquie di San Giuda, il santo delle cause disperate, nella Basilica di San Crisogono. Per non finire reietta da tutti, una donna senza onore, la sua speranza è di sposarlo. Ha messo da parte una dote quasi sufficiente, anche se il giovane Benvenuto Cellini (all’epoca ha 26 anni) sembra poco interessato a lei e al matrimonio. Anzi ha ceduto Pantasilea al suo amico pittore, il Bachiacca, per una prossima festa fra amici alla Locanda dell’Orso. Erano gli ultimi giorni del carnevale romano, ora più parco secondo il volere del parsimonioso Clemente VII Medici e di quella “sanguisuga” del suo camerlengo, il Cardinale Armellino. Il popolo romano abituato da sempre a principi e a imperatori, non poteva certo immaginare che i barbari fossero alle porte. Gli abitanti dell’Urbe non ci credevano, perché gli stranieri vanno e vengono, “noi siamo qui da due-mila anni e ci restiamo”. I barbari “morti di fame” di Carlo V acquartierati presso Bologna aspettavano solo un segnale per vilipendere, offendere, brutalizzare qualsiasi pietra e abitante di questa città considerata santa. Solo Brandano, il Cassandra di Roma, profeta di sventura, aveva intuito che il pericolo era imminente. Mentre si dirige verso la chiesa Pantasilea s’imbatta nella processione del cardinale Farnese, appena uscito dal suo palazzo ancora incompiuto. L’emerito cardinale rimane colpito dalle doti della cortigiana e, promettendole cento scudi d’oro, la invita a una «cena» con un giovane chierico «che avrà un grande futuro nella Chiesa». Una prospettiva allettante per Pantasilea, che deve completare rapidamente la sua dote e sposare Benvenuto. Una prospettiva che, tuttavia, deve fare i conti con l’esercito comandato da Carlo di Borbone che si avvicina inesorabilmente alla città. Da qui tutta la storia contorta della vita delle cortigiane a Borgo, dei rapporti tra Pantasilea e il futuro papa Marcello, e di questi con l’eretico Brandano. Nonché una serie di richiami a presunti diari germanici delle truppe in avanzamento e poi in Sacco di Roma. Pantasilea si salverà dal Sacco, e con l’aiuto segreto di Marcello potrà ambire ad una vecchiaia serena. Corvini diventerà papa. Brandano morirà quasi trent’anni dopo a Siena, in odore di santità. Cellini, con i soldi avuti (o forse rubati) a papa Clemente VII, continuò la sua carriera di orafo ed attaccabrighe, sino alla morte che avverrà una cinquantina di anni dopo in quel di Firenze. Ma tutta la parte romanzata mi ha lasciato freddino. Mentre ho trovato impagabili ed emozionanti, perché parte di una grande fetta della mia vita, tutti gli squarci descrittivi: la piazza in Agone (l’attuale Piazza Navona), la costruzione della chiesa della Santissima Trinità, la gigantesca Fabbrica di San Pietro, la Fabbrica di palazzo Farnese e Sant’Agostino nel rione Ponte, la Parrocchia preferita dalle cortigiane da quando alcuni anni prima era stata sepolta Fiammetta, la famosa amante cortigiana di Cesare Borgia. Insomma, un altro titolo di poco spessore per una collana dal destino migliore.
“È male prendere una decisione sbagliata, ma è peggio non prenderne alcuna.” (154)
“Chi è mal governato paga caro il malgoverno, mentre chi governa male ne gode dei frutti e di rado ne patisce. I mali del popolo sono interamente dovuti a governanti incompetenti o malvagi. E non può governare onestamente chi allo stesso tempo conduce una vita disonesta.” (e chi vuole intendere…) (237)
“Non è forse vero che … non esiste nulla di più scandaloso, velenoso, odioso della corte romana?” (243)
Maurizio Cohen “L’ombra di Artemisia” Corriere della Sera Arte 22 euro 7,90
[A: 13/12/2016 – I: 28/06/2019 – T: 29/06/2019] - &&--     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 330; anno 2012]
Le ultime letture della collana del Corriere stanno riservando delle sorprese negative una dopo l’altra. Soprattutto perché poco si parla di arte, o solo di sfuggita, o solo come pretesto per parlare d’altro. Qui troviamo Maurizio Cohen, per altro anche regista e sceneggiatore, che, nelle premesse, sembrava aver scritto un libro su di un interessante momento di arte, soprattutto romana. Infatti, speravo, dal titolo, in un’opera che ritornasse sulla bella figura di Artemisia Gentileschi, ed invece poco o nulla si parla dei suoi quadri, e molto ci si sofferma sul processo per stupro. Mah! Quello che in particolare mi ha disturbato è il fatto che, per l’appunto, Artemisia sia solo un pretesto. Per parlare di un film che viene girato sulla prima pittrice donna degna di questo nome (cioè del nome di pittrice). Poiché inoltre, parlare d’arte in un film non è facile, l’attenzione dell’autore del libro e del regista del film si concentra sull’episodio topico della vita di Artemisia Gentileschi. Donna e pittrice in un mondo maschile, si fa abbindolare per anni da un sodale del padre, che però è già sposato. Quando si ribella e lo accusa di stupro, il processo sarà tutto volto a scandagliare la vita irregolare di Artemisia, come era costume ed uso precipuo all’epoca. Non si parla dei rapporti pittorici con il padre Orazio. Non si parla della frequentazione con Caravaggio. Questo è il plot del film che la bella Jenny, alla sua prima esperienza cinematografica si appresta ad interpretare. Jenny, attrice e donna libera, che gira per Roma come tutte le donne dovrebbero fare, senza alcun timore. Jenny che si sente attratta da Alain, tenebroso regista del film. Jenny che pochi giorni dopo l’inizio della lavorazione del film, dietro piazza Navona, viene stuprata da tre bellimbusti romani di buona famiglia. Mi ero dimenticato di dire che Cohen alterna capitoli storici con Artemisia a capitoli attuali con Jenny, cercando sempre di tirar fuori paragoni, similitudini, somiglianze. D’altra parte, che la condizione della donna non sia migliorata di tanto negli ultimi 400 anni non è che sia un mistero. In particolare, dal punto di vista sessuale. È sempre lei che provoca, ed il maschio non può che arrendersi alle schermaglie delle streghe dell’altro sesso. Cercando di ottenere il proprio piacere, con le buone (poco) o con le cattive (purtroppo più spesso di quanto sembri). Così assistiamo al parallelo del processo allo smargiasso Agostino Tassi ed ai tre furbetti che hanno violentato Jenny. Ci mette tempo e spazio, ma alla fine, il nostro scrittore ci fa arrivare alla stessa conclusione. In entrambi i processi, la donna vince “de iure” e perde “de facto”. Non entro nelle dinamiche “artemisiane” del post processo, del matrimonio per fuggire, e di quant’altro succede alla nostra pittrice (che altrove e meglio sono descritti). Citando solo l’unico tentativo indiretto di vendetta, laddove, nel dipingere “Giuditta e Oloferne”, dà a quest’ultimo, decapitato, le sembianze del Tassi. Nel presente di Jenny, che occupa poi stabilmente tutta la seconda parte del libro, assistiamo alla “rinascita” dell’attrice dopo il buio delle violenze. All’aiuto che Alain le fornisce, sia privatamente, sia decidendo con lei di riscrivere la storia di Artemisia tutta ribasandola sulla violenza verso le donne. E nel percorso di approfondimento, Jenny conosce altre vittime dei tre cattivi e strafottenti (di cui non veniamo mai a sapere i nomi, ma i soprannomi che ci fornisce Jenny, derivanti dal loro odore durante la violenza: Whiskey, Sudore e Tabacco). Così Jenny conosce la storia di Michela e Caterina, quest’ultima suicida dopo lo stupro subito e la conseguente non condanna di Whiskey. Vediamo come il nuovo film sia accolto e con grandi onori. Vediamo come Michela si trasformi nella Giuditta del quadro. Altro non accenno, avendo già detto troppo. Ripeto, non capisco l’assunto di mettere un romanzo basato sulla descrizione di un film che si basa sullo stupro di una donna, che incidentalmente ha dipinto dei quadri, all’interno di una collana dedicata all’arte come romanzo. Una collana in cui ci si aspettava narrazioni di pittori, di vicende cromatiche ed altre amenità, vere o presunte. Laddove le ultime prove continuano a battere sentieri vicini all’arte ma non, purtroppo, agli artisti. Sinceramente speravo meglio. In ultimo, anche la scrittura di Cohen non è che sia un fulmine di coinvolgimento. Certo, si vede la capacità da sceneggiatore. Ma non sempre chi sceneggia ben romanza.
“L’amore è fatto di cose semplici che diventano straordinarie e talvolta addirittura miracoli.” (292)
Osvaldo Guerrieri “Schiava di Picasso” Corriere della Sera Arte 24 euro 7,90
[A: 02/01/2017 – I: 25/08/2019 – T: 27/08/2019] - &&&-     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282; anno 2016]
Il critico teatrale de “La Stampa”, Osvaldo Guerrieri riporta ad un buon livello una serie che ha vissuto alcuni momenti interessanti, ma anche tante prove poco convincenti. Con un discreto occhio scenico, ci porta sul teatro della vita di Picasso, visto e seguito attraverso una descrizione non puntuale ma ben seguibile degli anni che il grande pittore visse in un rapporto difficile e problematico con la fotografa croato-francese Henriette Theodora Marković, meglio nota con il suo nome d’arte Dora Marr. In effetti, quello che seguiamo è il percorso di Dora, piuttosto che quello di Pablo. E benché si respiri il profumo dell’arte, il romanzo è molto sulle persone, anche se queste sono artisti (uso il plurale maschile solo per comodità). Quando si incontrano Dora è appena uscita da un rapporto tormentato, dolorosa, devastante con Georges Bataille, lo scrittore e filosofo teorico dell’erotismo e della trasgressione. La scena iniziale, che poi ci darà tutto il senso del libro e della vita di Dora, si svolge nel celebre caffè parigino “Les Deux Magots”, dove Dora si accanisce in un gioco pericoloso: mette la propria mano guantata a ventaglio e con un coltello inizia a pugnalare a velocità sempre crescente lo spazio tra le dita. Ferendosi, a volte. Picasso la guarda, e le viene presentato dal comune amico, il poeta Paul Eluard. Picasso le chiede in dono il guanto, e le dà un appuntamento. Noi già sappiamo che il focoso spagnolo è sposato con l’ucraina Olga, da cui ha avuto il primo figlio Pablo. Ma l’ha anche lasciata, anche se non otterrà mai il divorzio, per mettersi con la modella francese Marie-Thérèse Walter, da cui ha avuto una figlia, Maya. Dora ha ventisette anni, ha un’interessante carriera di fotografa ben avviata. Ma è attratta dal grande genio. Ed il grande genio è attratto da tutte le donne, le vuole tutte, e le vuole tutte ai suoi piedi, ai suoi ordini. Dora, rispetto alla sola bellezza delle altre conquiste, ha anche una testa, permette a Picasso di confrontarsi con un altro da sé che non è solo supino ai suoi piedi. Forse per questo, sempre più crudele si fa il suo gioco. Dora gli trova una casa vicino alla sua, in Rue des Grands-Augustins. Lo frequenta, ne viene sedotta. Ma quando Picasso dipinge la caccia in malo modo. E poi, per non privarsi delle visite di Maya, consente a Marie di frequentare la sua casa, e costringe Dora a fare da spettatrice ai propri tradimenti. C’è solo un momento di grande arte, e di adesione alle idee della collana. Quando, e non torno sui come ed i perché, fin troppo noti, a Picasso viene commissionato un grande quadro per denunciare le stragi tedesche effettuate dalle incursioni aeree tedesche in aiuto della rivolta del generale Franco. Vediamo la nascita e la costruzione del grande quadro “Guernica”, che Dora vede nascere (anche perché fa da modella ad una delle facce). Poi Dora riprende la macchina fotografica, e comincia a scattare foto. Una documentazione fotografica della nascita di un capolavoro che rimarrà unica nel suo genere. Ma oltre all’amore di Dora per Pablo (e non si riesce mai a capire se Pablo ricambi o sfoghi solo la sua incontentabile sessualità), c’è nel libro tutta la descrizione dei un’epoca, la Parigi tra la fine degli Anni Trenta ed i primi Anni Quaranta. Ci sono i “cafè”, ed i loro habitué: Paul Éluard, Jacques Prévert, Man Ray, Jean Cocteau, tanto per citarne alcuni a memoria. Ci sono le fughe verso la Costa Azzurra, ritrovo della banda di amici, dei pittori, dei fotografi, dei liberi costumi. E sempre in mezzo, con le sue tristezze, le sue incomprensioni, le sue idee, le sue sottomissioni che “la madonna che piange” (così la chiama Pablo). C’è Dora, che andrà fuori di testa quando, accantonata Marie-Thérèse, e quando lei pensa dia ver campo libero, ecco affacciarsi Françoise, che si accompagnerà a Pablo per una decina d’anni, dandogli altri due figli (Paulo e Paloma). Dora invece entrerà in cura da Lacan, e ne uscirà. Anche discretamente. Visto che alla fine è l’unica donna che sopravvivendo a Picasso, non finirà per togliersi la vita (a parte la prima moglie Olga, morta di cancro). Così farà Marie-Thérèse a 68 anni, così farà Jacqueline, la seconda moglie, a 60 anni. Picasso, lasciandola, le regala una casa in cui vivere e dei quadri, che Dora conserverà per tutta la vita, fino alla morte avvenuta nel 1997, a 90 anni. E fino alla fine, a chi le chiedeva conto, lei ripeteva il suo mantra: “Non fui l’amante di Picasso. Lui era il mio padrone.” Per questo Guerrieri giustamente qui ci parla della “schiava”. Guerrieri ci ha fatto fare un bel viaggio, mi ha fatto ritornare in angoli della mia amata Parigi che ricordavo ma non veniva più fuori. Non si parla molto di arte, e si parla molto d’amore. Forse sono l stessa cosa.
“Non ci fu mai rottura, anche se lei gli ripeteva: ‘Sarai pure un grande artista, ma come uomo sei una merda’. … E Picasso non faceva che dirle: ’Non puoi lasciarmi, nessuna donna lascia Picasso’”. (261)
Antonio Forcellino “Raffaello. Una vita felice” Corriere della Sera Arte 31 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 11/09/2019 – T: 22/09/2019] - && +     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 284; anno 2006]
Speravo finalmente in un lavoro che, seppur romanzato, portasse acqua al mulino di un libro che facesse dell’arte una chiave di volta del racconto. Purtroppo, Forcellino, sicuramente mi si dice grande conoscitore dell’arte in genere e cultore del periodo gravitante intorno al 1500, non riesce a fornire una prosa scorrevole, un ritmo accattivante. Insomma, il libro si legge, è foriero di molte notizie, e di sicuro è analiticamente preparato sulla genesi e sul testo stesso dell’opera raffaelliana. Ma se questo doveva essere un’opera divulgativa, con l’intenzione di aprire anche agli ignoranti come me le porte del mistero del grande urbinate, devo dire che ha fallito sicuramente il compito. Probabilmente, chi già sa di Raffaello, della sua vita e delle sue opere, riesce a seguire meglio di quanto abbia fatto io il percorso personale ed artistico del pittore. Anche perché, idealmente, il libro si colloca mediano nella trilogia dedicata ai tre grandi che svoltarono quel quindicesimo centenario. Preceduto da “Michelangelo. Una vita inquieta” e chiuso da “Leonardo. Genio senza pace”. Ricordo ai meno attenti, che Leonardo (anzi Leonardo di ser Piero da Vinci)  nasce nel 1452 e muore nel 1519, e Michelangelo (Michelangelo di Ludovico Buonarroti) nasce nel 1475 e muore nel 1564. Raffaello Santi (nome poi storpiato in Sanzio, data l’abitudine del pittore di firmare le sue opere alla latina come “Sancti”) nasce in Urbino il 28 marzo 1483 (Venerdì Santo) e muore a Roma il 6 aprile 1520 (altro Venerdì Santo). Già in questa concordanza, l’autore avrebbe potuto trarre elementi di risonanza e di incroci cabalistici. Ma ciò non avviene, come non avviene un disvelamento di quanto le sue opere siano spesso state commissionate da donne e signore in genere. Che Raffaello era notoriamente un bel giovane, e sicuramente dedito a coltivare buoni ed intimi rapporti con l’altro sesso. Contrariamente a Leonardo, che si dice preferisse i giovani (e come si sa “non sono note relazioni di Leonardo con donne, non si sposò mai, non ebbe figli”) o a Michelangelo, che rimase austero per tutta la vita, sostenendo che le fatiche amorose, in ogni senso, lo privavano della forza di affrontare la sua arte (alcuni dicono tra l’altro che fosse affetto dalla sindrome di Asperger). Ma qui, sebbene passino e si vedano gli altri due grandi, ci si deve dedicare a Raffaello. Tuttavia, io, dal testo, non sono riuscito a seguirne bene né i movimenti, né le motivazioni. La madre muore che lui ha due anni, e non la ricorda. Il padre quando lui ne ha undici, e quindi si, il padre, pittore affermato, qualcosa gli ha di sciuro tramandato, ma non ha certo potuto avere gli influssi attribuitigli. Certo, rimane nella bottega paterna (cioè messa su dal padre) sino ai 16 anni, e lì apprende i rudimenti dell’arte che poi dispiegherà in maniera potente. Ed è probabile che molto ci fosse di un “dono” suo personale, anche quando passa a bottega dal Perugino. Conscio delle sue capacità, ha anche un altro elemento positivo. È capace di metterle a frutto, di sfruttare tutte le occasioni, e di sbaragliare sul campo i suoi avversari. Quando sa della presenza di Leonardo e Michelangelo a Firenze, nel 1504, abbandona le Marche e l’Umbria e lì si presenta per capire i grandi, e sfruttare le sue capacità. Ovviamente, con una lettera di presentazione firmata da una donna, Giovanna da Montefeltro. Lo stesso avverrà 4 anni dopo, che, capendo ormai il centro dell’arte gravitasse su Roma, sempre con i buoni uffici di Giovanna, e della di lei famiglia (che sposò un Della Rovere), lì si trasferisce, ottenendo, in virtù ovviamente delle sue capacità, prima una parte poi l’intera gestione delle “Stanze Vaticane” devote alla celebrazione del Papa Giulio II. Nella grande arena romana avrà modo poi di dispiegare tutta la sua arte, financo intervenendo, dopo il Bramante, nella Basilica di San Pietro. Non intendo addentrarmi oltre in questa disamina, sia perché meriterebbe la capacità almeno di mio cugino Alessandro per farvi capire quanto sia avvenuto in Vaticano, sia perché vorrei tornare a Forcellino. Terminando con il notare come la morte del trentasettenne pittore, secondo le fonti note, avvenne in seguito ad un sovraccarico di gesta amorose che lo avevano talmente prostrato da lasciarlo senza forze, anche perché la forte febbre venne curata da ingenti salassi che ho il sospetto ne accelerarono la fine. Dicevo Forcellino riesce, questo bisogna senza dubbio ammetterlo, a costellare la narrazione non lineare che ho cercato brevemente di riassumere, con la descrizione delle opere che hanno punteggiato tutti i momenti della vita di Raffaello. E poiché Forcellino è di sicuro un acuto conoscitore del periodo, riesce a descrivere queste opere con l’occhio acuto del critico. Ma sono tante, a me si confondevano l’una via l’altra, non riuscendo a tenere il conto delle Madonne, delle Pale, e poi anche dei palazzi e delle ville. Troppi dati generano rumore, questo mi disse un mio mentore informatico. Qui il rumore copre quella che sicuramente è stata una vita felice, piena di successi, piena di affermazioni, piena di donne. Una vita piena. Ma Forcellino non riesce mai a farmi capire se sia stata anche una vita appagante per Raffaello. Era questo che voleva? Era questa la gloria, la fama, cui ambiva? Come erano i suoi “giorni felici”? Mi è mancata questa parte della vita di Raffaello, lasciandomi alla fine più curioso che soddisfatto.
John North “Il segreto degli ambasciatori” Corriere della Sera Arte 33 euro 7,90
[A: 28/02/2017 – I: 22/11/2019 – T: 30/11/2019] - &&---    
[tit. or.: The Ambassadors’ Secret: Holbein and the World of the Renaissance; ling. or.: inglese; pagine: 380; anno 2002]
Con quest’ultimo libro abbiamo quindi finito il lungo viaggio attraverso due espressioni artistiche che in genere fanno funzionare i miei pur pochi neuroni. Il romanzo, espressione che tutti sanno essere tra i miei interessi di punta, e l’arte, che conosco solo di pancia, e che mi sembrava interessante poter esplorare meglio. Purtroppo, la collana non sempre ha risposto alle attese. Ci sono stati, nevvero, libri interessanti ed anche coinvolgenti, dove peraltro ci sono state molte, troppe prove al di sotto delle aspettative. Non è un caso, allora, che anche quest’ultimo si collochi nel solco negativo delle prove non esaltanti. Non perché in premessa non avesse un suo input di curiosità. Anche per quel sotto titolo che riporta “La nuova interpretazione di uno dei grandi enigmi della pittura”. È un peccato tuttavia, che non sia stata riportata nel titolo la menzione all’autore, ed al mondo in cui si è sviluppato il quadro, così come sapientemente riportava il titolo inglese: “Holbein ed il Mondo del Rinascimento”. L’autore era uno storico delle scienze inglese (era in quanto ci ha lasciato una decina di anni fa), che si è occupato nella sua lunga carriera accademica di matematica, filosofia, politica, economia nonché astronomia. Usando molti dei suoi dotti studi, nella massa dei suoi variegati scritti, qui si è dedicato ad un quadro e ad un periodo storico. Il libro, molto denso devo dire, ha una sua prima parte discretamente interessante, in cui si diletta nel narrarci del tempo della pittura, dell’autore e dei personaggi rappresentati. Purtroppo, questa parte, anche discretamente agile, viene poi annegata in una lunga e senz’altro dotta e documentata disamina di ogni minimo particolare del quadro, al fine di arrivare a quanto promesso dal sottotitolo italiano. Tuttavia, annegando il tutto in molte parti tecniche, questo benedetto segreto alla fine esce fuori un po’ malconcio. Il quadro viene dipinto nel 1533, ritraendo, a grandezza naturale, Jean de Dinteville, ambasciatore di Francesco I di Francia, ed il suo amico Georges de Selve, vescovo di Lavaur, recatosi a Londra in visita in  quel periodo. Per questo, il quadro prende nome de “Gli Ambasciatori”, uno, il Dinteville, della corte francese, l’altro, il de Selve, della corte papale. Holbein, facendo un passo indietro, è un pittore che nasce ad Augusta, nell’Impero Germanico, lavora molto a Basilea, per poi trasferirsi definitivamente a Londra, dove muore a 47 anni. Si intuisce subito che il quadro non può che contenere anche accenni al momento politico e religioso che l’Europa sta attraversando, essendo quegli gli anni dello scisma religioso inglese, con il re Enrico VIII alla testa del protestantesimo, sulla scia delle dottrine luterane coeve. Tra l’altro Holbein, in Svizzera, era stato sodale di Erasmo da Rotterdam, cui fece un famoso ritratto. Perché, per l’appunto, Holbein è fondamentalmente un ritrattista, e molti dei suoi quadri rimastici propongono cortigiani, proprietari terrieri, dotti, ed altre figure storiche (mentre pare sia andato perduto il suo ritratto di Anna Bolena). Quello che intriga, al di là della pesantezza del testo, è poi tutto quanto è rappresentato tra i due ambasciatori. Strumenti astronomici, quadranti, libri degli inni, un crocifisso, un liuto con una corda spezzata, un libro di calcolo aperto sulla pagina della descrizione di come effettuare una divisione, un teschio anamorfico. Senza entrare nella lunga e penso esatta disamina di North, il risultato della sua analisi (e di alcuni altri autori sulla sua scia), è interessante. Una serie di elementi astronomici fa collocare il tempo del quadro all’11 aprile 1533, il Venerdì Santo. Di certo un simbolo, visto che si colloca esattamente 1500 anni dopo il Venerdì Santo della Passione di Cristo. Non solo, tutta un’altra serie di elementi descrivono una configurazione celeste con un’altezza solare di 27°, praticamente la stessa della prima Pasqua cristiana. Inoltre, il 27 ricorre in molti punti del quadro stesso. Ad esempio, ponendosi a 27° lo spettatore sarebbe in grado di ricostruire il teschio alla base del quadro nelle sue esatte fattezze. Poi, 27 è, secondo l’iconografi cattolica, tre volte la Trinità. Con il Crocifisso che si pone al centro del quadro, a simboleggiarne una possibile unione tra politica e religione, contraddetta dal liuto con la corda spezzata, simbolo della discordia. Un ultimo elemento è il mappamondo rappresentato, che indica a chiare lettere dove verrà collocato il quadro, cioè a Polisy (espressamente dipinta) luogo natio di Jean de Dinteville, ma il quadro astrale è spostato su Roma, intendendo forse la centralità. L’analisi di North poi si addentra in altri segni misteriosi: la presenza di un esagramma che unisce una serie di simboli. E l’esagramma è simbolo sia giudaico (la stella di David) sia cristiano (la stella della Creazione). Infine, c’è il pavimento del quadro che riproduce il pavimento dell’abbazia di Westminster. Devo dire, che dopo l’iniziale interesse al contesto storico, il trasporto mentale per capire le capacità pittoriche di Holbein, tutta l’ultima parte, pur contenendo elementi geometrico-matematico-astronomici interessanti, è di un tale tecnicismo che alla fine fa perdere di vista il famoso segreto. Il cosiddetto messaggio che Holbein, secondo North, voleva inviarci. Io ho ritenuto a mente tanti particolari, ma alla fine mi sono perduto al quanto. Comunque, la prossima volta che andrò a Londra, cercherò di visitare la National Gallery per vederlo dal vivo.
Non so se riuscirò a produrre altre trame per questo 2019 intenso di tanti piccoli avvenimenti. Si preparano viaggi a medio e lungo raggio, per iniziare anche il nuovo decennio all’insegna di letture e viaggi. Che come mi ha etichettato un vecchio e gradito regalo. “Chi legge è un viaggiatore”. 

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