lunedì 16 dicembre 2019

Per fortuna che c'è Ricciardi - 15 dicembre 2019


Fabiano Massimi “Il club Montecristo” Mondadori euro 6,50
[A: 12/07/2017 – I: 27/01/2019 – T: 28/01/2019] - &&&+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 191; anno 2017]
Ultimamente il famoso/famigerato Premio Tedeschi delle edizioni Mondadori non è che avesse riscosso molto successo tra le mie letture. Qui, invece, il vincitore del premio 2017 mostra una buona dose inventiva, un discreto intreccio ed una sicura tenuta di penna. Anche la trama si sostiene, con forse qualche calo verso il finale. Infine, tanto per mettere i puntini negativi tutti insieme, è troppo scontato il fatto che ci possa essere un seguito delle avventure degli Ammutinati. Intanto l’autore, con qualche “mistero”, risulta essere o essere stato editor per Einaudi, aver vissuto a Torino, mentre nel “risvolto” di Mondadori dice di dividersi tra Londra e Dubai, facendo però base a Modena. Di sciuro è uno che i libri li conosce, e li ama. Qualcuno ne saprà. Di sicuro Modena è al centro della trama, non con il suo nome ma con quello antico di Mutina, riservato ora ad una parte della città i cui scavi archeologici hanno fatto ritrovare l’insediamento etrusco del 183 a.C. Ma questa è una storia diversa. Quello che noi seguiamo è un’indagine svolta dagli appartenenti al club del titolo, che si riferiscono a sé stessi con il nome di Ammutinati. La caratteristica che li unisce è che sono ex-detenuti, che hanno ripreso una “retta” via, rimanendo in contatto come società di mutuo soccorso. La base del gruppo è nel retrobottega del Caffè Dantés, ed il capo di riferimento ha il nome di battaglia di Primo, essendo appunto il primo ad essere riuscito a rifarsi una vita. Il club si mobilita perché un carcerato in semi-libertà, Danilo, viene coinvolto nella morte, nell’uccisione di tal Viviana. Poiché gli ex non hanno tutte le competenze, uno degli ultimi usciti, Lans Iula, coinvolge il suo amico Marco, informatico di talento, nonché marito e padre un po’ scoglionato. Lans ha fatto sette anni di carcere per rapina, ma non ne veniamo a sapere molto di più. Prima era un promettente pittore ed amico inseparabile di Marco. Il quale però, lasciato a sé stesso, in questi anni si sposa con la danese Elsie, fanno due figli di 5 e 3 anni. Marco era invece il letterato, nonché informatico. Ora ne vediamo la routine familiare cui lui non si adatta, se non verso i figli, covando un rancore crescente verso Elsie. Comunque, Lans lo convince ad aiutarli, così che, tramite le competenze informatiche, un hackeraggio nascosto, ed altri piccoli interventi, veniamo a scoprire, pian pianino, i “misteri” di Viviana. Intanto è la figlia del direttore del carcere (qui chiamato Sant’Agnese mentre quello di Modena si chiama Sant’Anna, piccoli mascheramenti). È una pittrice di qualche talento, anche se non vuole vendere i suoi quadri, sempre campeggiati da una donna di spalle che guarda momenti di vita desolanti (ricorda lontanamente le idee del pittore assassino di Ernesto Sabáto). Ha una storia con tal Udo, anche lui artista, ma in special modo di nudi e trompe l’œil, e lavora nella galleria di Guy, forse stalker, sicuramente gay. Viviana ha anche storie tristi alle spalle: una madre suicida circa 18 anni prima, una sorella scomparsa e/o forse morta, abusi di droghe varie, da cui si è disintossicata (o forse no?). Inoltre, sembra essere dedita a puntate da escort, fino a che non si scopre che servono a coprire la sua amica Giorgia. Ma tutti sono dei potenziali assassini, il padre con cui ha rotto dal tempo delle droghe, Udo con cui ha fatto un furibondo litigio, Guy che la tempestava di telefonate, Giorgia o qualche cliente della stessa che potrebbe aver scoperto i giochi non certo pulitissimi delle due. I nostri Ammutinati (di cui man mano scopriamo appartenenti di sicuro interesse per le future puntate) indagano a tutto tondo, con l’unica certezza che Danilo è innocente, anche se il commissario capo Cassini lo vuole incastrare. Marco e Lans hanno un aiuto insperato da parte di Lana, anzi dell’ispettrice Lana, che lavora con Cassini, ma non è convinta della linea d’azione del suo capo. Inoltre, nasce un colpetto di fulmine tra Lana e Marco, in quanto entrambi lettori compulsivi, che si mandano messaggi trasversali attraverso libri e citazioni. Citazioni che aiuteranno anche Lans a decriptare tutto il mistero. Che alla fine i nostri risolvono il caso, Lans potrebbe riprendere a dipingere, Marco potrebbe riprendere a scrivere, e Lana potrebbe irrompere da amica o da amante nella vita di Marco. Tutti elementi che ci fanno ipotizzare in una seconda puntata interessante (come lo stesso Massimi confessa sul web di aver già quasi scritto). Ultima chicca personale (che credo non entri per niente nella storia). Mi ha dato sin dall’inizio un po’ di noia quel nome così poco usuale del co-protagonista. Utilizzando le magiche arti del mio amico Ennio, lo anagrammato in “Nulla Sai”, che ha un senso perché di lui, ora, in realtà, non sappiamo quasi nulla. Boh, saranno le mie solite elucubrazioni campate per aria.
Giovanni Cocco & Amneris Magella “Omicidio alla Stazione Centrale” TEA euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[A: 12/04/2017 – I: 22/09/2019 – T: 23/09/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 305; anno 2015]
Ogni tanto si pesca nella grande fucina delle selezioni di “mystery TEA”, di cui ho (quasi) la collezione completa. Escono fuori allora romanzi almeno interessanti, se non di più. Cito soltanto che sono quelli che mi hanno fatto scoprire due grandi nordici come l’islandese Arnaldur Indridason e lo svedese Hakan Nesser, nonché affezionarmi ai personaggi di Gianni Simoni. Ecco allora, che dopo due anni e passa di silente attesa sugli scaffali, anche questo romanzo esce fuori con alcuni spunti, ed altri passi invero meno interessanti, tanto per essere precisi. Giovanni Cocco inizia a scrivere in solitaria, vincendo anche un premio “Selezione Campiello”, per poi dedicarsi, circa dal 2013, alla scrittura a quattro mani con il medico legale Amneris Magella. Sfornando, ad ora, credo quattro romanzi incentrati sul commissario Stefania Valenti. Tutti comunque ambientati in quel di Como e dintorni, con frequenti passaggi (e questo libro ne testimonia assai) nel vicino Canton Ticino. Dispiace, per la mia mania dell’ordine, che questo sia il secondo romanzo della serie, così che troviamo i personaggi principali abbastanza delineati, magari con qualche punto che avrebbe avuto miglior delucidazione se fossimo passati per il primo libro (cito “Ombre sul Lago” che chissà…). Intanto, per la cronaca e magari per il gossip, vediamo, a lato del “giallo” vero e proprio, la storia personale del commissario Valenti, matura negli anni e con figlia (Camilla) adolescente, avere una storia intensa e un po’ LAT (“Loving Apart Together”) con il più giovane (di quasi 18 anni) Luca. Quasi a ricalcare il rapporto tra i due scrittori, separati dallo stesso lasso temporale, anche se non so né mi interessa sapere se hanno altri vincoli intercorrenti. Tuttavia, la passione della descrizione, e dei dubbi su di un rapporto apparentemente sbilanciato, lanciano piccoli sassolini. Così come sassi troviamo nel rapporto tra Stefania e Camilla. Sempre per rimanere nel contorno, come ogni buona stazione di polizia moderna, il commissario è contornato da due valenti aiuti: il sardo Piras ed il toscano Lucchesi, tipizzati nelle loro attività e comportamenti quotidiani. Il sardo con figlia piccola ed il toscano con una maniacale cura dei dettagli. Un cammeo inoltre viene fornito dal medico legale che analizza corpi e dettagli del ramo poliziesco della storia, dove non possiamo non notare le capacità di riportare, magari trasponendolo, il quotidiano della dottoressa Magella. Ma questi sono i protagonisti, anche discretamente simpatici che viene la voglia di rileggerne. Meno intensa, ed un po’ ingarbugliata è la trama, che nasce da un incidente automobilistico nei pressi del lago di Como. Ma i testimoni riportano di aver sentito colpi di arma da fuoco ed una moto che fugge. Quindi almeno tentato omicidio. La stranezza è che il colpito è da poco uscito di prigione, dopo aver scontato 20 anni per omicidio. Giampiero Colombo, infatti, aveva ucciso nel 1992 alla Stazione Centrale (da cui il titolo) un tizio noto come “Il Giocatore”. Perché, benché poliziotto e forse infiltrato, era un forte giocatore di poker, e Colombo, negli anni della Milano da bere, gestiva un locale molto “in”, il Metropolis. Un locale dove giravano tanti soldi, che Colombo gestiva in parte con la sua compagna. Soldi che spesso finivano in Svizzera (e forse ci sono ancora). Locale che era anche punto di incontro di personaggi loschi e di rampanti. Personaggi poi riciclatisi nello sciacquio generale del berlusconismo, e che ora sono alla ricerca di nuove speculazioni, di nuove fonti di denaro, ora che per Milano si avvicina il grande momento dell’Expo. La nostra “commissari” Stefania, con i fidi Piras e Lucchesi, ricostruisce (quasi) tutti i tasselli della vicenda. Che forse, e non sarebbe strano, non avrà tutte le soluzioni che merita, laddove la politica, di sicuro, avrà modo di farsi sentire. Intanto ci godiamo un bel contorno di trama, mentre la trama su Milano, la malavita e il malaffare sembra troppo scontata. Il contorno è fatto, oltre che dei personaggi di cui sopra, dei paesaggi, tra il lago, la città di Como (che non conosco) e la Svizzera italiana. In particolare, Lugano, le sue banche ed i suoi personaggi, lì fittizi, qui, nella nostra vita, ben reali, anche se, purtroppo, passati per altre fortune.
Autori Vari “Capodanno Nero” Todaro s.p. (prestito di Fako)
[A: 01/03/2017 – I: 20/10/2019 – T: 22/10/2019] && ---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 203; anno: 2000]
Un’operazione d’antan che grande alla ben fornita memoria bibliografia che mi fornisce l’amico Roberto con i suoi libri spesso introvabili, ci porta ad uno dei tanti tentativi di sfruttare il cambio di millennio con un libretto di racconti “a tema”. Purtroppo, nonostante siano presenti degne firme del giallismo italico, il risultato non è così interessante come sperato. Anzi, la maggior parte dei racconti non è che sia di fattura neanche sufficiente. Quello che resta maggiormente impresso, forse, sono considerazioni marginali. Da un lato i 13 autori e la curatrice, Tecla Dozio, che rappresentavano all’epoca uno degli elementi di punta del giallo italiano. Ora, quasi venti anni dopo, dobbiamo costatare che “La Tecla”, così come era conosciuta negli ambienti del giallo per la sua passione e la sua libreria (la Sherlockiana) è morta da tre anni, così come ci hanno lasciato Carlo Oliva (ah, i ricordi di “Radio Popolare”) e Andrea G. Pinketts (con quell’uso della frase ironica ed ammiccante che nascondeva sempre giochi di parole interessanti). Degli altri Bruno Gambarotta e Barbara Garlaschelli hanno sempre più dirottato verso altri interessi le loro scritture. Comunque, rimangono ben 9 autori che ancora scrivono di gialli, spesso con gli stessi personaggi di allora. C’è ancora Carlotto con il suo Alligatore, Colaprico con il commissario Binda, Danila Comastri Montanari con il senatore Publio Aurelio Stazio, Dazieri con il Gorilla, Lucarelli con tutti i suoi investigatori (De Luca, Coliandro, Grazia Negro), Solito con le sequenze di sherlockiana fattura, ed il decano, il grande Macchiavelli che ci delizia ogni tanto sia con il suo sodale Guccini che con le storie di Sarti Antonio, brigadiere. Rimangono infine due autori spuri ma a me sempre cari, il sardo Marcello Fois e la giallo-fantascientifica Nicoletta Vallorani. Uno degli elementi che rimangono di questo altrimenti inutile Capodanno è anche la mini-intervista inziale di Tecla agli scrittori, con alcune domande di rito (come vorresti il cenone o con chi vorresti passare la fine del Millennio), ed altre più interessanti. Come intitoleresti la tua autobiografia o di chi ti saresti innamorato. Delle prime vorrei ricordare quella di Carlo Oliva, che piacerebbe anche a me (”Non tutte le ciambelle”). Delle seconde, noto che un notevole numero di questi scrittori si sarebbe innamorato di Molly Bloom di Joyce. Per venire a dire qualcosa anche dei racconti, inizio con la solita dolenza. Non amo i racconti. In più, mentre a volte racconti mainstream si riesce a leggerne, i racconti gialli sono quasi totalmente inefficaci. Ricordo che solo alcune prove di Scerbanenco mi convinsero a suo tempo. quindi non sorprende che il miglior racconto sia per me quello di Colaprico, che è appunto un omaggio al grande maestro, che richiama nel titolo uno dei suoi migliori romanzi (“Traditore di tutti”, con al centro il grande Duca Lamberti). Gli altri sono talvolta scontati, talvolta poco utili. Scontata la storia della segretaria sexy-dark di Carlotto o delle finte implicazioni sataniche delle vergini di Fois. Potevamo dire la fine inversa già dopo le prime righe del raccontino di Gambarotta o le implicazioni culturali di un primo approccio tra la cultura cristiana e quella islamica nelle morti giovani di Solito. Dispiace poi l’inutilità della dimostrazione amicale della Garlaschelli (certo non un noir) o l’ironia meglio indirizzabile della mamma killer di Nicoletta Vallorani. Prevedibili i giochi di parole di Pinketts, che inscena una scena d’amore tra malavitosi, lui Silvestro e lei Titti (ah, i Looney Tunes). Scendiamo sempre più in basso, quando l’ottima Danila si sposta dalla Roma dei tempi di Claudio che sa maneggiare ad un anno 1000 che rimane appeso. Oppure quando Sandrone passa dal suo schizofrenico alter-ego ad un fruitore d’altri mondi attraverso inaspettati buchi neri. Impresentabile il libro assassino di Lucarelli. Mentre Loriano gioca con la memoria di Sarti Antonio per ricordarci la violenza della sua signora perbene (Guccini docet). Finisco con Oliva, che risale la china, collocandosi al secondo posto, giocando sulle differenze tra calendari giuliani e gregoriani. Una bella trovata, alfine. Sottolineo anche un piccolo refuso di stampa, laddove si indica con “Sansonite” una valigia che non poteva che essere una “Samsonite”. Beh, questo Capodanno poco atrabile (non è un refuso, uso questo termine desueto per la sua reminiscenza umorale) e poco nero è passato ormai da troppi anni. Ora ci avviciniamo ad uno nuovo, divertente nella sua ripetitività. Chissà cosa inventerà il mio amico Ennio per questo 2020!
Giovanni Ricciardi “Gli occhi di Borges” Fazi Editore euro 16 (in realtà, scontato a 13,60 euro)
[A: 25/07/2017 – I: 10/11/2019 – T: 12/11/2019] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238; anno 2016]
Come direbbe il buon recanatese: “E so legger di greco e di latino, / E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù”, (credo che il mio omonimo capisca) ecco che ritroviamo la scrittura spero amicale di Ricciardi, con il commissario Ponzetti, la sua famiglia, l’ispettore Iannotta e l’ex-avvocato Galloni con il suo cane cieco Socrate. Ritroviamo anche sia il buon sapore della Roma che entrambi amiamo, sia qualche sapore in più di cui si parlerà. Purtroppo, la prima parte riesce di difficile presa, decolla a fatica, rendendo il libro gradevole come mi aspettavo solo dalla metà in poi. Di certo è anche pieno di citazioni e di rimandi, di giochi intelligenti, ma questa volta ci si affatica, più del dovuto, con un ritorno di piacevolezza leggermente inferiore all’aspettato. Anche perché si comincia con due storie parallele, che probabilmente prima o poi convergeranno (se non che ci stanno a fare?). ma la storia della solitudine di Anita, delle sue incomprensioni con la figlia Vanessa, dell’odioso ex-marito, delle scappatelle di Anita per uscire dalla solitudine, del mutismo e dell’involuzione della una volta solare Vanessa, di David che cerca di rompere la corteccia (a suon di citazioni da “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij) non riesce a prenderci. Meglio l’alternanza con Ponzetti in primo piano. Tuttavia, l’idea risente di una certa stanchezza. Infatti, Ricciardi riprende il suo quarto libro (“Portami a ballare”) dove tal Angelo Perfetti uccide il suo sosia, il ballerino argentino Marcelo Morin, e fugge in Argentina. Il commissario viene chiamato a Buenos Aires per dirimere una complicata faccenda. Perché pare che Angelo sia diventato un ladro di libri rari, per cono di un simpatico libraio. Ma la polizia (e qui non si capisce perché) fa chiudere la libreria. Fuentes, il libraio, si rifugia a Ushuaia, dove c’è anche Angelo. Entrambi si mettono alla caccia della prima edizione del libro “Fervor de Buenos Aires” uscito in poche copie nel 1923 (in rete ne ho trovata una copia gratuita in un’università americana, così quel testo ora ce l’ho anche io). Caccia commissionata da un collezionista italiano. A far da tramite la poco chiara Evita (ma perché chiamare una ragazza con il nome del grande amore di tutti gli argentini?). Tra una ricerca a Buenos Aires, coadiuvato da un commissario locale di nome Belgrano (anche qui, poca fantasia, visto che Belgrano è un quartiere di Buenos Aires dedicato al patriota inventore della bandiera nazionale), ed un salto nella Terra del Fuoco, a colloquio con il buon Fuentes, Ponzetti si fa delle idee sugli avvenimenti, ma sente di essere messo in mezzo tra fuochi di cui non conosce la natura. Sarà in quel di Roma, tra Prati e Piazza Vittorio, che i nodi verranno al pettine e le storie, finalmente si completano. Vanessa, nell’ambito delle iniziative scuola-lavoro, ha fatto uno stage presso una rivista, “L’occhio di Borges”, che pubblica oroscopi intellettualoidi (sulla falsariga di quelli di Rob Brezsny pubblicati su “Internazionale”), scritti clandestinamente da Ramelli, un guru psichiatra radiato dall’albo. Ramelli ha plagiato Vanessa (per questo è sconclusionata, ma non si capiscono tutte le motivazioni), ed è lui, tramite Evita, che cerca i libri di Borges. Angelo sta al gioco, procura copie del libro, ruba l’unica autografa conservata nella Biblioteca Nazionale Argentina, e con questa carta cerca di uscire dal gioco infernale. Anche cercando (non si sa se con cognizione o solo per uscirne fuori) di far avere a Ponzetti notizie utili a riaprire il caso Morin. Alla fine, sarà il nostro buon Ottavio a comprendere i come ed i perché, ed a portarci verso il finale. Che non è scoppiettante, ma declina in sordina le idee dell’autore. Sulla giustizia, sulla redenzione, sull’amore e sull’amicizia. Nonostante il ritmo, e la poca presa della trama generale (mi è sembrata una forzatura riaprire il vecchio caso), leggo sempre con piacere gli scritti di Ricciardi, che non manca di fornirmi, tra gli altri, alcuni impagabili cammei. Il primo riguarda la storia di Gige e Candaule. Secondo Erodoto il re Candaule, per vantarsi della bellezza della moglie, riesce a farla vedere di nascosto alla sua guardia del corpo Gige. Ma la regina se ne accorge e convoca Gige imponendogli una scelta: o Gige si uccide per aver visto la regina nuda, o uccide Candaule. Ovvia la scelta di Gige, che uccide Candaule, sposa la regina e diviene re di Lidia, il primo della dinastia dei Mermnadi. Aneddoto che serve a Galloni per esemplificare la voglia di mostrare i propri tesori, peculiare dei possessori di grandi tesori nascosti. Il secondo mi ha portato con Oreste a Ushuaia, alle Terre della Fine del Mondo, alle storie degli “italiani d’Argentina” (citazione di Fossati), e dal mio viaggio di due anni fa in quelle terre, con tutte le storie (personali) che vi si sono intrecciate. L’ultimo (anche se prima ad essere incontrato) è l’accenno al mio quartiere, alle vie che secondo me sono ben segnate e ritrovabili, ma secondo Anita-Ricciardi ci si perde sempre intorno a via dei Gracchi. Soprattutto, però a quell’accenno al mitico Silvano Agosti ed al suo cinema “Azzurro Scipioni”. Un accenno, ma indimenticabile, anche perché è a 150 metri da casa mia. E lo conosco bene, il cinema e Silvano (anche per i buoni uffici del mio amico Emilio). Insomma, Ricciardi riesce sempre a muovere alcune mie corde personali, e non può che restarmi sempre caro.
“Quando uno è vissuto guardando l’oceano e l’immensità della pampa, non può desiderare di tornare uguale a sé stesso.” (170)
Terza trama ed allora, come sapete, parliamo di libri e felicità, anche se in modo veloce e di passaggio.
Mi scuso anche, verso i miei “aficionados”, ma questo dicembre non è molto lineare, ed al solito, piuttosto che anticipi, preferisco ritardi. Così intanto, s’è riparata una caldaia, e non è male. Poi, mancano dieci giorni al Natale, e tutti andiamo di fretta e (o) di regali. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
DICEMBRE 2019
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 3

LIBRO CITATO:STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI di MARKUS ZUSAK (2005)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
STORIA DI UNA LADRA DI LIBRI di MARKUS ZUSAK

Il «New York Times», nella cui classifica è rimasto per ben otto anni, ha definito questo super bestseller “Un libro che ti cambia la vita”. È proprio ciò che accade a Liesel, la piccola protagonista di questa intensa e originale storia. Affascinata dalle infinite combinazioni delle lettere e dalle incredibili possibilità delle parole, e una volta iniziata al piacere della lettura dall’amorevole guida del padre adottivo, Liesel non può più farne a meno. Inizia a salvare i libri dai roghi nazisti e poi a rubarli dalla fornitissima biblioteca della moglie del sindaco. Così, mentre gli orrori della guerra e le atrocità perpetrate dal nazismo seminano distruzione e orrore intorno a lei, Liesel trova nella lettura una protezione con cui difendere sé stessa e gli altri dal male e dal dolore, per infondere speranza e tenere in vita. A rendere originale il romanzo è la scelta di affidare il ruolo di narratore d’eccezione alla Morte: perseguitata dagli uomini, di cui ammira la capacità di reazione di fronte alle avversità, ma sconcertata dagli orrori che sono in grado di creare e stressata dal surplus di lavoro che le provocano, ha un’indole malinconica più che tetra, un certo “sense of humour” e soprattutto è dotata di un’umanissima parlantina che la rende una gran chiacchierona. Per assurdo è proprio la Morte a dimostrare come i libri possano essere una medicina per curare le ferite mortali dell’anima in momenti drammatici in cui vivere è sopravvivere. Incredibile a dirsi ma è lei a somministrare un rimedio (letterario) in grado di riportare alla vita. Grazie a questo inusuale punto di vista, anche il lettore può vedere le cose da un’altra prospettiva e si sa che cambiare posizione stimola la circolazione (di idee). Oltre a favorire la circolazione e quindi la capacità di continuare a muoversi quando gli eventi ci paralizzano, “Storia di una ladra di libri” risulta un buon integratore vitaminico per spiriti deperiti e afflitti, dimostrando chiaramente che la lettura nutre l’anima, alimenta la coscienza e, ravvivando l’immaginazione, rende più sopportabile la realtà. Il romanzo è, anche, un rimedio per esorcizzare la paura della morte, che nel libro è assai meno spaventosa e disumana dei nazisti. Dal momento che la protagonista è una bambina, il romanzo può essere somministrato con successo anche a giovani lettori. Il contesto drammatico della storia farà scoprire loro che spesso l’ignoranza è un nemico peggiore della morte, mentre un cervello attivo è sempre una risorsa per la sopravvivenza. I libri non servono ad alimentare il fuoco dell’intolleranza ma a renderci intolleranti verso ogni forma di potere che mira a bruciare la nostra mente e le nostre speranze.
Nel 2013 il romanzo di Markus Zusak è diventato un film per la regia di Brian Percival. Un po’ oleografico nella ricostruzione e nella narrazione, è meno vigoroso del romanzo e soprattutto manca di quell’ironia che è la chiave di successo del libro.

Commenti

La nostra Giulia Fiore cita un solo libro, in questo commento. Ed io quello ho letto, e quello vi riporto.
Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” Pickwick euro 14
[pubblicato l’11 marzo 2018]
Storia di un libro di successo, un po’ furbetto ed un po’ no, da cui mi aspettavo qualcosa in più. Certo, il libro stesso e l’autore sono acclamati e classificati come autori specifici per “young adults”, ma dal clamore di questo libro, che nel 2014 è risultato il più venduto in Italia, pensavo fosse una storia più innovativa. Invece, seppur non posso negare che per un pubblico giovanile possa avere degli “appeal”, alla fine risulta un po’ scontato. Innegabile, ovvio, che non si possa rimanere freddi e distanti rispetto ad un libro che parla di avvenimenti in Germania tra il 1939 ed il 1943. Ovvio che il pensiero vada all’autore stesso, australiano figlio di due emigrati di lingua tedesca, se colleghiamo nomi e quanto ci viene accennato di sfuggita (ma non proprio da lasciarmelo sfuggire) verso il finale del poderoso (in quanto a lunghezza) romanzo. Quindi, libro letto in anticipo in quanto successo editoriale, in quanto film (anche se il film ha avuto meno risonanza). Libro che ripeto è troppo giovanilista per essere avvincente. Pieno, infatti, di piccoli trucchi che prendono i teenagers, ma che forse, a noi smaliziati, lasciano più indifferenti. La storia si colloca nel solco delle belle storie (ovviamente virgolettando belle) che trattano di guerra, di ebrei, di nazisti e di campi di concentramento. La storia ha al centro Liesel, una ragazzina figlia di un comunista (ahi, ahi, siamo già nei guai) e per questo strappata alla sua famiglia e data in affido ad una coppia che vive nella periferia di Monaco. Liesel che a dieci anni vede morire di freddo e stenti il fratellino piccolo, che ha un trauma lunghissimo per questo (e ci credo), che al cimitero ruba il suo primo libro (un’ottima lettura per chi vuole iniziare a leggere: il “Manuale del Necroforo”!!). Liesel che ha subito un buon rapporto con il padre adottivo Hans. Che rolla le sigarette, che lavoricchia, che suona la fisarmonica. Liesel che impiegherà molto tempo ad accettare la sua burbera madre adottiva Rosa. Che urla sempre, che tratta tutti rudemente, che ha un cuore grande. Liesel che, di tanto in tanto, si troverà in mano dei nuovi libri. Una decina in tutto, ma solo un adolescente può categorizzarla come “ladra di libri”. Comunque, i libri servono a Liesel per superare i suoi traumi, per uscire verso la vita, anche se una vita difficile per i giovani tedeschi in quegli anni. Markus tratta con leggerezza (anche se non tralascia) i rapporti tra ariani ed ebrei, tra nazisti convinti e nazisti “per necessità”. Ma non è un trattato filosofico, è un libro d’evasione. Allora, torniamo a Liesel che ha un buon rapporto solo con un coetaneo, Rudy. Uno pazzo quasi quanto lei, che viveva nel mito della velocità, tanto da dipingersi a sette anni la faccia di nero, e correre gridando di essere Jesse Owens. Un’eresia per i puri tedeschi che videro trionfare gente di colore nella “loro” olimpiade. Ad un certo punto, poi, entrerà in scena anche l’ebreo. Figlio di un commilitone di Hans, che ad Hans salvò la vita nella Prima guerra mondiale. Max, questo il suo nome, aveva vissuto una giovinezza dedicata ad uno degli sporti tedeschi per eccellenza, il pugilato (e come non ricordare per inciso uno dei tanti match del secolo che vide nel 1938 opporsi il nero Joe Louis al tedesco Max Schmeling?). Per poi doversi nascondere quando passano le leggi razziste e poi dover fuggire, accolto dal buon Hans, e dall’altrettanto buona Rosa. Tanto ben accolto anche dalla piccola, ma in via di crescita, Liesel. Che ne diventa amica, che quando si ammala legge per lui ad alta voce i libri che ha rubato sperando che la forza delle parole riesca a farlo guarire, che quando guarisce viene fatta omaggio da Max di libri illustrati da lui disegnati mentre sta in cantina. Poi la guerra incalza, Max deve fuggire, Hans ha una brutta storia con i nazisti locali, arrivano gli aerei delle forze alleate, Max viene arrestato, Max viene deportato a Dachau e passa per Monaco e Liesel lo vede. Piccoli rivoli coinvolgono altri momenti della vita della piccola comunità. Rudy soprattutto, ma anche la moglie del sindaco, una vicina di casa, e molto altro (bisogna pur riempire le oltre 500 pagine). Finché, per leggere un nuovo libro, Liesel si rifugia in cantina, non si accorge dei bombardamenti e… Beh, leggetelo, ma non vi dico altro. Parlo solo del fatto che tutto il libro è narrato in prima persona dalla morte, che ci racconta il suo andare in giro a raccogliere le anime che spirano, alla fatica di tutto ciò, ed al libro che Liesel scrive per scacciare le sue paure, che contiene la storia dei libri rubati, libro che capiterà in mano alla morte, libro che la morte legge e ci ripropone con le sue parole. Forse queste piccole invenzioni di Zusak hanno il pregio di ravvivare una materia altrimenti già letta e riletta. Come piacevole è la costruzione e la riproposizione dei libri che scrive Max per Liesel. Tuttavia, questa morte che narra, che ci comunica il suo dispiacere per le vite umane che deve accogliere (ma non è il suo lavoro? E allora di che si lamenta?), che ogni tanto si ferma per enunciare avvenimenti o stati d’animo che verranno palesati da lì a poche righe, diventa una lettura oltremodo pesante. Tanto che il primo capitolo l’ho dovuto leggere due volte prima di entrare nello spirito del romanzo. Speriamo sia utile al pubblico adolescente che tende a dimenticarsi di avvenimenti di ormai settanta anni fa.

Finalino

Soluzioni rapide, commenti veloci (o quasi). Ma meglio delle mie parole qui, son quelle precedenti cui vi invito a tornare.





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