domenica 8 dicembre 2019

E dopo Bora? - 08 dicembre 2019


Ben Pastor “Kaputt Mundi” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 17/04/2019 – I: 30/07/2019 – T: 02/08/2019] - && 
[tit. or.: Kaputt Mundi; ling. or.: inglese; pagine: 559; anno 2002]
Qui, nella cronologia della vita fittizia del nostro militare tedesco Martin (von) Bora facciamo un bel salto in avanti di 3 anni, mentre nella scrittura invece, saltiamo indietro di 12. Devo subito premettere che questo libro mi ha dato sentimenti ambivalenti, o forse anche tripartiti. La storia in sé non mi è piaciuta tantissimo, l’ho trovata involuta, frammentaria in alcuni punti, e non tanto in linea storicamente con gli avvenimenti. Alcuni punti, notoriamente e ne riparleremo, l’ambientazione del delitto principale, mi hanno commosso e coinvolto. Un punto finale, relativo alle Olimpiadi di Berlino del ’36 infine, mi ha fatto decisamente storcere. Intanto, come detto, saltiamo due puntate centrali, che ci portano dal 1941 di Creta, e facciamo un piccolo sforzo di memoria per ricordare il primo libro letto tre anni fa, quel “Luna Bugiarda” che portò Bora in quel di Verona nella seconda parte del ’43 e dove il nostro incontrò il poliziotto Guidi. Ricordo anche che nel Nord Italia, Bora fu vittima di un attentato e perse la mano sinistra, presto sostituita da un arto artificiale. Questa ottava cronologica puntata si svolge a Roma, nel primo semestre del ’44, un periodo cruciale per Roma e per la guerra stessa. Il motore è la morte di una segretaria tedesca, alla cui indagine Bora viene chiamato nella sua qualità di “Poliziotto” dell’Esercito (e sottolineiamo, esercito non SS). Nell’indagine gli viene affiancato proprio il buon Guidi, trasferito a Roma per meriti. Ma seppur nella collaborazione e nella iniziale simpatia, i due non hanno più né lo slancio, né le modalità anche ironiche che avevano nel precedente (ricordo anche che Luna è stato il secondo libro scritto, e questo il terzo). I due devono dribblare le imposizioni superiori, che il questore Caruso (veramente esistito) vuole sia condannato un caporione fascista, e il colonnello Kappler (e questo lo conosciamo bene) vuole non venga coinvolto un suo sottoposto. L’indagine si barcamena per mesi, scoprendo dettagli molto lentamente, incartandosi con le altre vicende del libro, per trovare una soluzione finale, che al solito, salva capra e cavoli ai nostri due. Che l’assassino non è stato né il camerata Merlo né il tenente Sutor, ma… Questo ve lo lascio scoprire, se volete. Intanto, però, la vicenda come detto, si incastra con tutto quanto avviene a Roma nel periodo. C’è la risalita dal Sud delle truppe alleate, che si fermano per lunga pezza a Cassino. C’è lo sbarco americano ad Anzio. Ci sono i comandanti tedeschi che tra il Monte Soratte (dove era di stanza il comando decentrato delle operazioni) e Fregene, tentano di arginare l’ineluttabile fine. Vediamo così agire sulla scena diversi personaggi storici: il feldmaresciallo Kesserling, il comandante della regione di Roma, Malzer, il colonnello della Gestapo Herbert Kappler ed il colonnello delle SS Eugene Dollmann (questa una figura assai controversa, che sembra, storicamente, possa essere stato un agente doppio al servizio anche degli Americani). C’è anche un cammeo per una confessione dove agisce l’allora Segretario della Santa Sede, Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI). Ovvio che, dato il periodo, un punto centrale avverrà il 23 marzo del 1944, quando (per la Storia) un comando partigiano coordinato da Giovanni Amendola, e guidato da Carla Capponi ed altri gappisti, con una bomba uccide 33 soldati tedeschi. Immediata la reazione nazista, che prende condannati, arrestati e gente di passaggio, per portarli alle Fosse Ardeatine, trucidando 335 persone (dieci per uno, questo l’ordine). Nella finzione, Guidi era stato inserito tra i fucilandi, in quanto in rotta con Caruso, ma Bora all’ultimo momento lo salva. Non può salvare altri, né il generale Foa (fittizio per il generale Simone Simoni) né tal ebreo Aldo Sciaba (nome fittizio per indicare il morto n.335; perché le altre 334 salme hanno tute un nome). Molta parte del libro è dedicata a questa sezione storica, ma la trovo poco aderente alla realtà, o poco incisiva. Come ad esempio l’impegno della Santa Sede per salvare il salvabile, intervento che porterà alla morte (violenta) di un cardinale impegnato in primo piano nei possibili salvataggi. Bora è molto colpito dalla vicenda (e chi non lo sarebbe) sempre più diviso tra la fedeltà all’Esercito e la deriva nazista e feroce di SS e Gestapo. Però c’è troppa indulgenza a personaggi come Kappler, o Priebke, o altri capi della repressione. Allo stesso tempo non viene a galla né l’idea che stava dietro all’azione da parte dei partigiani, né le azioni dei partigiani stessi. Ci sono accenni, come alla vicenda della possibile partigiana Francesca, di cui si era invaghito Guidi, ma è una figura ambigua, tanto che potrebbe essere anche un agente dei nazisti, cui forniva (forse) sottobanco elenchi di ebrei da deportare. Tanto forse, che Dollmann (quello che forse era agente americano) convince Bora ad ucciderla. Morte che segna profondamente Martin, già provato dalla decisione della moglie Dikta di chiedere (ed ottenere) il divorzio. Né vale il possibile idillio, non sbocciato, e solo fatto di sguardi, che Bora prova per l’americana Nora. Il romanzo si conclude con l’entrata degli americani a Roma il 4 giugno del ’44, e con la partenza di Bora verso il Nord per raggiungere la nuova linea di difesa tedesca. Tutto questo per ribadire, a parte il romanzo in sé, un po’ di disagio con una ricostruzione storica forse discretamente aderente alla realtà, anche se, vista la partecipazione dei miei genitori e parenti alla Resistenza romana, la mia ottica è leggermente (e giustamente) diversa. Anche perché, tra i morti c’era Romualdo Chiesa, amico di mio padre. Per la parte emozionale, devo dire che mi ha colpito che la morta sia caduta dal quarto piano di un palazzo di via Tolemaide (dove ho abitato per 20 anni), che una parte dell’azione della notte fatale si svolga in via Santamaura (dove abito da 15 anni). Inoltre, c’è un complesso cammeo dedicato dl dottor Leopoldo Mannucci della farmacia omonima, farmacia gestita ancora dalla famiglia Mannucci, e dove io mi servo da decenni. Infine, il battesimo di una bambina avverrà nella chiesa di Santa Francesca Romana, la chiesa dei miei genitori. Leggerne è girare nelle pagine insieme ai protagonisti. Per la parte invece, che mi ha innervosito, sapete della mia maniaca precisione nei dettagli. Ora si parla a lungo nell’ultima parte del romanzo di tal William Bader, come ostacolisti partecipante alle Olimpiadi di Berlino del ’36. Purtroppo, nessuno con tale nome ha corso le tre gare degli ostacoli bassi. E seppur si citano correttamente il vincitore Forrest Towns e la medaglia di bronzo Fritz Pollard, il terzo americano si chiamava Roy Staley ed arrivò quarto in semifinale, per cui venne classificato dopo l’ultimo finalista, il canadese Larry O’Connor. Infatti, nel libro delle Olimpiadi, nella Final Standing, così viene classificato Roy. E non quinto, come detto a pagina 499. In realtà, quinto fu l’inglese John Thornton. Penso che sulle Olimpiadi posso dare dei punti a molti (anche perché ho un archivio storico con quasi tutte le gare). Ritengo infine che se si vuole inserire un personaggio (quasi) storico in un contesto simile non vadano presi svarione del genere. Peccato.
“Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo.” (531)
Ben Pastor “Il morto in piazza” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 17/04/2019 – I: 02/08/2019 – T: 04/08/2019] - &&&- 
[tit. or.: The Dead in the Square; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 2004]
Qui, benché lontani nel tempo dalla scrittura, siamo abbastanza consequenziali nella cronologia di Martin Bora. In effetti, tra questo e il precedente, Pastor ha solo scritto il primo episodio della serie (quello che non riesco a trovare) relativo al tempo della Guerra Civile Spagnola del ’36. Invece, molto rapidamente, questo nuovo episodio inizia il giorno dopo la fine di “Kaputt Mundi”. Il secondo pregio della storia è che non si avventura in (troppe) citazioni storiche o del periodo, per cui c’è meno rischio di sbagliare. È una “puntata” un po’ intimista, quasi di passaggio per la parte finale delle avventure di Bora (e forse della guerra?). l’unico punto di tentativo di aggancio storico è l’avvio dell’impresa. Martin fugge da Roma per ricongiungersi ai suoi battaglioni, ma il Servizio Segreto dell’Esercito lo dirotto verso l’Abruzzo al fine di recuperare il carteggio segreto tra Churchill e Mussolini. Ora di questo carteggio si favoleggia molto. Soprattutto si pensa che sia stato ancora in mano a Mussolini al momento dell’arresto, e che, girando tra le mani di partigiani, esercito italiano e Santa Sede, sia stato poi recuperato dai Sevizi Inglesi. Ma nessuno lo ha mai visto realmente, per cui sul suo contenuto si favoleggia e si leggendeggia. Qui, addirittura, Pastor avalla la tesi che contenesse uno scambio di missive tra Italia, Inghilterra ed Esercito Tedesco (Esercito, mi raccomando, non SS né Gestapo) per organizzare un attentato a Hitler durante la sua visita in Italia, ottenere da parte di Mussolini dei vantaggi e da parte di Churchill concessioni ad italiani e tedeschi. Quindi delle lettere che, cadute in mani sbagliate, avrebbero messo in difficoltà tutte le parti interessate. Ora, fatta salva la circostanza che queste lettere non sono mai realmente esistite, questo è il pretesto per la missione segreta di Bora. Che sarebbero in possesso di un confinato nel paesino immaginario di Faracruci, nei dintorni de L’Aquila. Ma questo è solo il pretesto per l parte “politica” e per le scaramucce ideologiche tra Bora e l’avvocato Borgonovo. Perché poi il centro emozionale della vicenda si sposta sul paese, sui suoi abitanti, e sul rinvenimento, nella piazza del paese, di un morto senza nome e senza identità. Questa parte è molto più sapida, e direi coinvolgente. Che entriamo nelle interazioni tra i vari abitanti del paese, con le loro storie, di rancori, di soldi, di soprusi ed altro. Pastor riesce abbastanza efficacemente in questo tratteggio (tanto da vincere lo scorso anno il Premio Speciale Flaiano, relativo a opere ambientate nelle zone d’origine dello scrittore). Abbiamo il ristoratore Fioravante, fascista della prima ora, con la moglie Ginevra. Abbiamo il notaio, il farmacista, il dottore. Abbiamo l’imprenditore agricolo Di Donato, a suo tempo massaro del proprietario terriero Don Fifì. Abbiamo il contadino Giacinto. Abbiamo perfino Elvino, lo scemo del villaggio, che con le sue frasi oscure, solleverà lembi di storia antica sulla vicenda. Che il paese, come tanti, aveva avuto le sue storie torbide. Proprio 25 anni prima, sempre intorno al 10 giugno (ricordo che Bora si dirige verso il Nord dopo la liberazione di Roma del 4 giugno) in occasione della festa del paese dedicata la Santo Patrono, venne ucciso Don Fifì. Della morte fu incolpato dal Zopito Mazzacurati, che però fugge prima di essere catturato, e ripara in America. Dopo alterne vicende e ricerche varie, Bora e Borgonovo scoprono che il morto si chiama John Mazza, ed è americano. Due più due fanno quattro, e non ci vuole molto per collegare John al fuggitivo Zopito. Probabile, quindi, la sua venuta a Faracruci per vendicare il possibile parente (si ipotizza il padre). Che Don Fifì in effetti molti nemici aveva. Primo perché era uno sciupafemmine di prima grandezza. Che aveva circuito la figlia di Giacinto, poi perita miseramente, colpa che Giacinto ribaltava sul nobile. Aveva anche avuto una relazione con Ginevra, che poi si era allontanata, ma ritorna per sposare Fioravante. Inoltre, in guerra stava per morire, ma fu salvato da Zopito, che sosteneva aver avuto assicurazione di ricevere terre per questa sua azione. Ma c’era anche tutto un giro di terre, che Don Fifì acquisiva, e, compiacente il notaio, intestava a prestanome, in particolare a Di Donato. Quindi erano in molti a vedere piacevolmente una dipartita del proprietario. Sicuramente, in posizione preminente, Di Donato, che guadagnava terre, Mazzacurati, per le promesse mancate, Giacinto, per la morte della figlia e Ginevra (o qualcuno a lei vicino), per vendicarne l’onore. Bora con molta pazienza, ed aiutato dalle ricerche legali dell’avvocato al confine, riuscirà a dipanare la matassa, indicando il vero colpevole, e facendone giustizia sommaria. Se quindi la parte contadina ben entra nello spirito del luogo, anche ricordando che la scrittrice, pur nata a Roma, ha la famiglia originaria di Bisenti che, seppur nel teramano, è discretamente vicino ai luoghi narrati, la parte delle “costruzioni psicologiche di un personaggio”, lasciano un po’ di perplessità. Bora continua ad agire come se fosse “altro”, come se la sua rettitudine militare potesse spiegare la sua opposizione alle SS. Ma nonostante il tentativo di creare un “tedesco critico”, nonostante in ogni libro faccia azioni contrarie alle gerarchie imperanti (anche qui, salva due giovinette dalla rappresaglia nazista), Pastor non mi ha ancora convinto nel complesso percorso di sedimentazione del carattere di Bora. Tra l’altro, c’è tutto questo accenno al suo “innamoramento” verso l’americana Nora che lascia perplessi. Infine, il fantomatico “carteggio Mussolini” è messo lì quasi a spargere bagliori diversi sul Duce. E non mi sembra sia storicamente provabile. Se siamo conseguenti con la mente di Bora, prima o poi ci lascerà le penne.
“Si vale solo per quello che si custodisce nell’intelletto.” (121)
Ben Pastor “La notte delle stelle cadenti ” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 15/04/2019 – I: 08/08/2019 – T: 09/08/2019] - && + 
[tit. or.: The Night of Shooting Stars; ling. or.: inglese; pagine: 547; anno 2017]
Questo è l’ultimo scritto della “pastoride” di Martin Bora. Peccato che sia invece, cronologicamente, il penultimo, perché il nostro “nazista buono” (ossimoro poco felice) avrà ancora una sua avventura in Italia prima della fine della guerra. O chissà, anche dopo. Di certo non poteva mancare nel percorso di ripensamento di quegli anni bui da parte della nostra scrittrice italo-americana, un momento, un accenno, una puntata forse, dedicata alla famosa “Operazione Valchiria”, quella del fallito attentato ad Hitler del 20 luglio 1944. Non poteva mancare perché se Bora sono almeno 4 anni (storici) che si interroga sul suo ruolo, doveva per forza confrontarsi con chi, alla fine dei 4 anni, decide di fare qualcosa. Inoltre, Bora stesso è ricalcato, almeno parzialmente, sulla figura di von Stauffenberg. Quindi perché non fare incontrare Martin al suo ego (essendone Martin l’alter), ed inventarsi una chiamata precipitosa dall’Italia, con scuse barbine (funerale dello zio). Siamo nel luglio del ’44, torbidi momenti si addensano nel cielo sopra Berlino. Per farlo restare in loco, il capo della polizia, Arthur Nebe (personaggio reale, coinvolto anche lui nell’Operazione Valchiria, ed impiccato il 21 marzo ’45) lo coinvolge nelle indagini sull’assassinio di un famoso veggente, illusionista nonché ciarlatano. Walter Niemayer dispensava bugie ben pagato ad una clientela altolocata e credulona (d’altra parte c’è sempre un Himmler che guida la via dell’occulto…). Ucciso con un colpo d’arma da fuoco nella sua isolata villa, l’ispettore Florian Grimm, messo alle costole di Bora, gli fornisce un ricco piatto di possibili colpevoli: l’ex-amante del mago, la bella Ida Rudiger, il tuttofare della villa nonché delinquente di mezza tacca Berthold Kupinsky, l’orologiaio Gerd Eppner, la cui moglie aveva a lungo trescato con Walter, e l’editore Roland Glantz, ridotto sul lastrico dalle false promesse di uno scoop editoriale del mago. Tutti possono essere colpevoli, e la storia si intreccia con le vicende personale. Gli amanti di Ida, il comunismo di Berthold, la gelosia di Gerd ed il fallimento di Roland. Solo Florian sembra seguire una sua linea di pensiero, che non comunica pienamente a Martin, ma che Martin capirà, forse troppo tardi. Perché la morte del mago è strettamente legata agli avvenimenti che si stanno catalizzando in quella prima metà del luglio del ’44. E se tutti mentono, Martin, sciolto il nodo dell’omicidio, rispedito di corsa nell’Italia al tracollo, capisce che stiamo al tracollo di tante cose. Anche della guerra, cui si ributta a capofitto, scrivendo qualche riga nel suo diario, il 20 luglio 1944, e ricordando la breve parentesi avuto con l’infermiera Emmy, che poteva riportarlo a gustare la vita, ma… E mentre riannoda le fila del complotto che porta alla morte di Niemayer, Martin ha anche altri momenti importanti. L’incontro con Emmy, come detto. Ma ancor di più quello con la madre Nina, con la quale ha un legame forte e bellissimo. Quello con Max che ama Nina da sempre e che riuscirà a sposarla dopo la fine della guerra. Le paure del suo ex-capo e di un suo caro amico malato, che gli fanno intravedere che qualcosa di grande sta per succedere. Insomma, qui meglio che altrove, Pastor ci accompagna nella complessa rete mentale di Martin Bora, un soldato che non diventa mai nazista (come il suo alter ego von Stauffenberg), costretto dalla disciplina militare ad obbedire ad ordine che non capisce e non condivide (ma qualcuno potrebbe obiettare giustamente che c’è sempre la facoltà di ribellarsi…). Un uomo corretto, figlio di un grande musicista, sensibile al culto dell’amicizia e legato a quello della famiglia (tanto che non si riprende ancora dal divorzio con la moglie Dikta). Pastor riesce, discretamente, a riproporci la complessità della vita berlinese, sotto bombardamenti, con l’Armata Rossa alle porte, con poco cibo per i cittadini normali, e con le feste all’Hotel Adlon per le alte gerarchie militari. Al fine non mancano gli spunti di riflessione, anche se la materia storica ha una sua complessità che pagine romanzate non riescono a riprodurci. Benché sia l’ultimo romanzo scritto dalla nostra scrittrice italo-americana, forse (spero) la vicenda “Bora” potrebbe avere un nuovo epilogo. Dove finirà il numero “7” che la bella Remedios gli ha regalato nella prima avventura cronologica, durante la guerra di Spagna del 1937?
“A volte dobbiamo dire cose in cui non crediamo” (469)
Ben Pastor “La venere di Salò” Corriere della Sera Arte 21 euro 7,90
[A: 06/12/2016 – I: 04/08/2019 – T: 07/08/2019] - &&- 
[tit. or.: The Venus of Salò; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 2005]
Ed ecco l’ultimo atto delle storie di Martin Bora. Che paradossalmente è stato quasi il primo, che acquistai quasi tre anni fa all’interno di questa collana a me poco congeniale (per come è poi risultata). Tant’è che questo romanzo lo colloco fuori dalla collana, ma all’interno della “pastoreide”, cioè delle otto letture dedicate al militare tedesco. Come detto siamo all’ultimo atto, nel senso che, cronologicamente, le avventure in questo falso romanzo d’arte si collocano nell’ultimo trimestre del ’44. Dopo essere fuggito da Roma verso il Nord, dopo aver “risolto” il problema spinoso del carteggio Mussolini-Churchill e dopo l’intermezzo “berlinese”, che di certo non poteva mancare, mentre Bora cerca di farsi assegnare a qualche fronte di guerra, viene di nuovo invischiato in problemi altri. Nella ricerca di quadri scomparsi e alla ricerca di un nuovo assassino. Ripensando al percorso fatto da Bora (e da Pastor) in tutti questi libri, ed in tutti questi anni, vediamo come il nostro, coadiuvato dalla scrittura e dalle ricerche dell’italo americana Verbena, abbia attraversato tutte le crisi e tutti i momenti topici della guerra. Non poteva quindi mancare, come ultimo atto, una puntata all’interno della Repubblica di Salò. E non poteva mancare una rete sempre più fitta che la Gestapo gli sta tessendo intorno, perché, pur senza gesti visibilmente eclatanti, Bora si colloca su quel crinale che abbiam ben visto, sulle orme di Stuffenberg e compagnia, fedeli all’Esercito, ma non a Hitler, ai Nazisti, alle SS ed alla Gestapo. Qui intanto viene coinvolto, suo malgrado, nella ricerca di un quadro, “la Venere di Salò”, facente parte di una serie di quadri tizianeschi culminati con la “Venere di Urbino”, sottratto alla certo poco chiara famiglia Pozzi. Ovviamente finzione massima, che quella di Urbino è ben nota (sta agli Uffizi) mentre questa è inventata, serve solo come epitome di tutte le bellezze ed i quadri italici che le SS trafugarono dall’Italia per ordine di Göring e Himmler (rimando al già tramato “Monument Man” per una disamina più approfondita). Qui il furto serve ad innestare un percorso ad ostacoli per il nostro colonnello. Circondato da amici che non si palesano e da espliciti nemici, questo (che poi è il settimo libro scritto, nel lontano ormai 2005) non ha molto slancio, che deve, cerca di portare i fili seminati nei vari libri ad una omogenea conclusione. Al furto si affianca ben presto anche la ricerca di un omicida, che, a distanza di dieci giorni, uccide barbaramente donne locali, lasciandole nude, ed in pose che cercano di imitare suicidi. Bora non sarebbe investito di queste indagini, ma già che si trova, di certo non si tira indietro. Nel palcoscenico di Salò abbiamo quindi una serie di “squadre”. Gli amici, come Lipsky, aviatore amico anche del fratello morto di Martin, e Dollmann, colonnello delle SS ma che, come abbiamo detto ed appurato, probabilmente era un’agente americano. Il primo aiuterà a smascherare gli autori del furto, che, anche se confusamente, capiamo essere un personaggio delle alte sfere tedesche, aiutato da qualche antiquario svizzero, che voleva utilizzare il quadro come merce di scambio per una possibile salvezza post-bellica. Purtroppo, e non poteva essere diversamente, il quadro andrà distrutto in un bombardamento alla stazione di Merano. Il secondo sarà sempre pronto, anche in situazioni disperate, a tirar Bora fuori dai guai. I nemici sono i caporioni repubblichini italiani, con a capo il maresciallo Graziani, coadiuvato dal suo assistente, Emilio Denzo di Galliano, e il manipolo della Gestapo, impersonato dal cattivissimo Mengs, e coordinato dall’innominabile Kappler. Gli italiani, oltre ad altre stupidità, coinvolgono Bora in una caccia ai partigiani, anche sull’onda di una mediazione vaticana coordinata dal cardinale Schuster. Caccia fallimentare che porta la morte di Denzo (che comunque era un personaggio insopportabile) ed alla fuga di Bora, che verrà anche sospettato di ulteriori collusioni. Queste, e tutte le prove che in sette anni di guerra la Gestapo ha accumulato, portano Mengs, alla fine del libro, ad arrestare, torturare e portare prigioniero verso la Germania il nostro colonnello, che solo l’intervento di Dollmann (forse) tirerà fuori dai guai. Poi ci sono i “neutri”, da una parte la famiglia Pozzi, costituita dal padre Giovanni (quello cui fu rubato il dipinto), dal cognato Walter e dalla figlia Annie; e dall’altra la lunga scia di donne morte, e di commissari italiani che indagano insieme, anche senza volerlo, con Bora. Oltre che per il quadro, l’intreccio si mescola più volte che l’antiquario ebreo che fa l’expertise del quadro, è vicino di casa della prima donna morta. La seconda è una cameriera di un soprano che era stato visto più volte con Pozzi. La terza è la sarta di Annie. Tutto è anche complicato dal fatto che Annie è una bella ventottenne, e Bora, dopo essere stato lasciato dalla moglie, avrebbe bisogno di un bel rapporto d’amore per risollevarsi. Ovvio, che dei rapporti di sesso ne abbiamo letto nelle puntate precedenti, m Bora è un inguaribile romantico. Purtroppo, anche con Annie sarà solo sesso, interrotto nella prosecuzione verso possibili altri sviluppi perché Giovanni o Walter sono implicati nelle morti efferate, e Bora avrà ben presto da pensare più alle SS che al sesso (anche se questo ha una “s” in più).  Insomma, almeno cronologicamente, siamo alla fine. Bora ha attraversato tutti i momenti più cruciali del nazismo, uscendone ferito, malconcio, ma ancora vivo. Ha fatto molto all’amore, ma non si scorda mai della sua prima donna, la spagnola Remedios. E non ha trovato, né con la moglie, né con altre, una nuova incarnazione per la sua sessualità. Pastor cerca di spiegarci come si possa passare anni ed anni dalla parte sbagliata pur non condividendola. Un tentativo lungo alla fine 12 romanzi, ma che non lascia particolari segni. Meglio Bora come uomo e come investigatore, anche se non sempre le sue indagini si riescono a seguire. Pastor vorrebbe indurci a leggere meglio le pagine del Diario di Martin, dove il colonnello dovrebbe esternare i suoi tormenti. Ma, ripeto e chiudo, seppur alcuni libri hanno spunti interessanti, la saga di Bora alla fine poteva essere resa più avvincente e reale. Anche perché vorremmo sapere dove fuggirà, con la macchina dopo essere scappato ancora una volta alla morte. Un ultimo accenno al fatto che dicevo sopra: fortunatamente ho letto questo come elemento della storia di Bora, che se ne leggevo come libro d’arte mi sarei preso una solenne arrabbiatura.
“Le donne dipinte sono meno problematiche [delle donne in carne ed ossa]. Costano una volta sola, e aumentano di valore invece di perderlo.” (82)
Seconda trama del mese, e poiché non posso allegarvi un albero, come tradizione per l’8 dicembre, vi “delizio” con dei libri che dovrebbero (ma discutiamo) essere indicati ai settantenni.
L’India sembra sempre più vicina, così come vicino è (e non sembra) il Natale. E nonostante tutte le cose che possono andare di traverso, il nostro profondo ottimismo ci fa vedere sempre il bicchiere più pieno che vuoto. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE  2019
Ogni tanto le nostre esimie libraie, più che di malattie ci parlano dio età. Ma che sia anche questa una malattia?
Settant’anni, avere
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SETTANTENNI
Maro Douka                 ”L’antica ruggine”
Bohumil Hrabal             ”Una solitudine troppo rumorosa”
Nicole Krauss               “La storia dell’amore”
Giacomo Leopardi         “Le operette morali”
Gabriel Garcia Márquez  ”L’amore ai tempi del colera”
Deborah Moggach         “Marigold Hotel”
Ann Patchett                “Stupori”
Henri-Pierre Roche        “Jules e Jim“ 
Jonathan Safran Foer    “Ogni cosa è illuminata“
Jules Verne                  “Ventimila leghe sotto i mari”

Bugiardino

Alcuni libri furono letti nella giovinezza focosa, benché non si avesse ancora vent’anni. Hrabal, per esempio, con quel rapportarsi a libri e filosofi. Oppure Verne, anche se al capitano Nemo preferisco ora e sempre Phileas Fogg. Leopardi e Patchett sono assenti giustificati, uno di troppa complessa lettura, l’altra per difficile reperibilità. Maro Douka, al contrario, mi è completamente ignota (so solo da Internet essere scrittrice greca). DI “Marigold Hotel”, ovvio, ho visto il divertentissimo film. Gli altri quattro, infine, li riporto in ordine di lettura. Noterete come nel 2007 fossi un po’ più conciso!! Sottolineo inoltre che Nicole Krauss è una delle poche cinque stelle delle mie letture.
Jonathan Safran Foer “Ogni cosa è illuminata” Guanda 8 euro
[tramato il 2 gennaio 2007]
Il racconto intrecciato tra la ricerca delle radici in una improbabile Ucraina e la storia delle origini di queste radici è interessante. La resa in italiano è impossibile. Credo l’originale americano più “adeguato” (giochi di parole che si perdono, ecc.). Al solito in queste fantasie, il finale poi è un po’ “vagante”. Comunque mi rimangono, anche se staccate dal contesto, alcune frasi che mi hanno colpito.
“Ti sei mai innamorato? - Non credo. Credo che se mi fosse successo lo saprei”.
“Desidero che mi dica cosa tu pensi sia la cosa giusta. So che non è necessario che ci sia una cosa sola giusta. Potrebbero esserci due cose giuste. Potrebbero non esistere cose giuste.”
“Mi chiedo se riesci ad immaginare la mia vita senza di me. - Certo che riesco ad immaginarla, ma non mi piace”.
Nicole Krauss “La storia dell’amore” Guanda euro 12 (in realtà, scontato a 9,72 euro)
[tramato il 2 novembre 2014]
Una bella ed inaspettata lettura, frutto delle misteriose alchimie delle mie ricerche bibliografiche in giro per gli scaffali. Solo a libro chiuso ho scoperto l’autrice essere moglie di Jonathan Safran Foer (altra coppia interessante come Siri Hustvedt e Paul Auster) e che il libro uscì contemporaneamente al libro del marito “Molto forte, incredibilmente vicino”. Ma qui siamo a tramare la scrittrice ed il suo scritto, quindi usciamo dal contesto ed entriamo nel testo. Un testo che è di una semplicità quasi lineare a volerlo raccontare, ma che assume connotati di piacevole lettura e coinvolgimento per il modo in cui la scrittrice svolge la sua di trama. Passando da vari piani narrativi, saltando su e giù nel tempo e nello spazio. Riuscendo varie volte a farci perdere il filo, per poi ridarcelo, tutto intero, in una bella scrittura finale. Ed oltre ad essere un libro imperniato sul disvelamento di un libro che ha il suo stesso titolo, è sicuramente un libro sull’amore, e sui suoi modi esplicativi. Amore è quello di Leo per la sua Alma, per Zvi per la sua Rosa, per Alma verso suo padre e per Bird verso sua sorella Alma. Ed anche per Isaac verso i suoi genitori. La capacità e bravura di Nicole Krauss è di portarci per mano, attraverso tutti questi sentimenti, ogni volta usando la prima persona di un narratore diverso, senza perdere la concentrazione, sua e nostra. Alla fine, scopriamo che i narratori sono quattro: Leo, Alma e Bird in prima persona e Zvi in forma oggettiva e non soggettiva. Ognuno esce fuori per sé stesso, quasi a scrivere quattro diversi romanzi e poi fonderli in uno. Quello che stiamo leggendo. Quello dedicato ai nonni della scrittrice, con le loro belle facce in prima pagina. E da loro comincerebbe la vera storia. O meglio dalle loro origini, da un paesino della Polonia di prima della Guerra, dove vivono due amici, il giornalista Zvi ed il possibile scrittore Leo. Questi si innamora di Alma, e le scrive una lunga dedica d’amore, trasformatasi in un libro onirico e bellissimo. Ma la guerra incombe e scombina tutto. Alma fugge a New York ospitata da un cugino. Zvi ruba il manoscritto del libro (per delle gelosie ininfluenti alla trama) e ripara in Cile. Leo rimane, vede sterminare la sua famiglia, e solo a guerra finita riesce a varcare l’oceano. Dove trova Alma, che lo credeva morto, sposata e con due figli, il cui primogenito, Isaac fu frutto della loro unica notte d’amore. Ma Alma è fedele al marito. E Leo rimane in America, rifuggendo di toccare per sempre la penna, e si inventa una vita altra, da mille mestieri prima, e poi da fabbro. Per usare le mani per fare altro. Sempre rimanendo fedele alla sua Alma, e seguendola da lontano. Seguendo da lontano anche Isaac che cresce e diventa uno scrittore di talento. Leo, di cui ammiriamo la capacità della scrittrice di rendercelo settantenne ed acciaccato nelle vicende quotidiane, ha un sussulto di esternazione amorosa, quando scopre, dopo la morte di Alma, che anche Isaac è morto. Esce dal suo anonimato per il funerale del figlio ignoto (cioè lui è l’unico a saperlo), e ne escono bellissime pagine di tristezza. In tutto ciò non ci siamo dimenticati di Zvi che in Cile s’innamora della giovane Rosa, e per lei scrive un libro. O meglio traduce in spagnolo il libro dell’amico Leo, credendolo morto. Rosa fa pubblicare il libro, che non avrà molta risonanza. I due, dopo un passaggio in Israele, si sposano e vanno a vivere anche loro a New York, dove avranno due figli, Alma e Bird. Ma Zvi ben presto muore, lasciando i due figli piccoli sbalestrati. Alma è infatuata dal padre, e dalle sue cose (la capacità di sopravvivere all’aperto, come scoprirà chi avrà voglia di leggere il libro). Ed è in pena per la madre, la vorrebbe felice. Il giro di giostra si avrà con una lettera ignota (che scopriremo alla fine essere di Isaac) che chiede a Rosa di tradurre il libro dallo spagnolo all’inglese. Questo mette in moto Alma che cerca di comprendere se le persone del libro sono poi reali. E lo sono. Sarà il giovane Bird, che metterà tutti gli indizi in fila, e ci condurrà alla ricongiunzione finale. Ed alla comprensione di come tutti gli avvenimenti siano concatenati. Le morti, gli amori, le attività. Alla fine, vien quasi voglia di dire che sia un libro triste. Con Leo che vive una vita innamorato lontano dal suo amore. Con Zvi che sentirà sempre la colpa del furto e non saprà espiarla. Con Rosa che forse conosce la verità o forse no. Con Alma che dovrà ridimensionare la figura del padre. A me è proprio la giovane Alma che invece da speranza, perché credo sia positiva, e saprà superare le tragicità con lo spirito della giovinezza. Una bella storia. E ben raccontata. Perché, appunto come dicevo all’inizio, questa è la trama lineare. Ma il romanzo è tutt’altro che lineare. E ci sono momenti in cui si segue altro, soprattutto quando si leggono le parole di Alma giovane. In conclusione, è un libro che fa piacere leggere e farà piacere parlarne con chi lo leggerà.
“Forse significa questo, essere padre. Insegnare a tuo figlio a vivere senza di te.” (200)
“La cosa che mi ha sorpreso della vita è la capacità di cambiarti.” (282)
Henri-Pierre Roché “Jules e Jim” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[tramato il 30 agosto 2015]
C’è qualcuno che non ne ha mai sentito parlare? O qualcuno che, almeno, non ha visto o sentito parlare del bellissimo film che ne ha tratto Truffaut? Poiché sono certo che almeno una delle due domande abbia risposte positive, comincio subito con dire che, al fondo, non è che mi sia piaciuto tanto. Una scrittura interessante, forse un po’ troppo distaccata (si dice quasi come uno che scrivesse per sé e non volesse essere letto). Una storia che, dopo un inizio scoppiettante, si trascina per 2/3 del libro aspettandone l’ovvia conclusione. Però, nonostante tutto, è un libro che regge i suoi anni, e questo (scusate se è poco) mi sembra un grande pregio, soggettivamente. Abbiamo quindi tre linee da seguire, per capire e gustare tutto ciò: la vita, il film, il libro. Nella vita c’è appunto l’autore, critico d’arte ed amico di artisti da Picasso a Duchamp, dalla vita si direbbe “bohémien” spesa per molto tempo (dai 20 ai 40 anni) a Montparnasse, che nel 1910, trentenne, fa l’incontro clou della sua vita con il tedesco Franz Hessel, scrittore. Con lui condivide letture, amicizie, e soprattutto donne, che i due si scambiano spesso e volentieri. Nel ’13 Franz sposa Helen, da cui avrà due figli (Ulirch e Stéphane, di cui ricordiamo il secondo per essere stato eroe della resistenza, politico sempre impegnato ed autore di quel libro, tramato e di successo, che scrisse a novanta anni “Ribellatevi!”). Dopo la Guerra, Roché raggiunge a Monaco i coniugi Hessel instaurando quel rapporto a tre che sarà la base del libro. Intanto Pierre si sposa con Germaine nel ’23, continua la sua vita libertina con Helen e Franz, vive con la sua amante Denise da cui nel ’31 avrà un figlio. Nel ’33 rompe con Helen, e si allontana dai tedeschi, pur continuando ad aver cura dei due figli di lei. Nel ’41 in un campo di internamento muore Franz. Nel ’59, durante la scrittura della scenografia per Truffaut muore anche Roché. E solo nel 1982, a 96 anni, muore Helen. A seguito della scomparsa di tutti i protagonisti, Stéphane rivelerà la vera storia di “Jules e Jim”. Intanto nel ’61 Truffaut aveva girato il film che si incentra sul triangolo Jules (fatto diventare austriaco), Jim e Catherine (interpretata da una stupenda Jeanne Moreau). A parte gli aspetti peculiari del film stesso (capostipite di quella “Nouvelle Vague” che si andava formando in Francia), ci sono momenti epici (la presenza di 13 quadri di Picasso, ad esempio). Ma pur tacendo tutta la parte “non triangolare” della vicenda, ci si appassiona al prendersi e lasciarsi, al vivere la vita fino in fondo. Nel film, Catherine ha una figlia, ma il dramma della coppia impossibile ricalca abbastanza il libro. Di cui ora parliamo, che, appunto, ha altro, rispetto alle due espressioni precedenti. Ha una prima parte in cui assistiamo alla vita parigina di Jim e Jules, delle loro discussioni al caffè, delle loro amanti, e degli scambi amorosi, quasi a vivere una omosessualità latente attraverso il corpo della donna. Poi irrompe sulla scena Kathe (questo il nome nel libro, diverso dal film e dalla realtà). Di cui lo schivo Jules, sempre perso nei suoi libri ed alla ricerca di un rapporto “perfetto”, si innamora perdutamente. Ed avverte Jim “Non questa, Jim!”, intendendo che Kathe è solo sua. Tanto che la sposa, fa con lei due figlie, e tornano a vivere in Germania. Lì, dopo la Guerra, li raggiunge Jim. Kathe, irrequieta e vitale, non si può accontentare del troppo rilassato Jules. Ha avuto amanti, è andata e venuta dalla casa familiare. Ora, con Jim, ha il suo colpo di fulmine. Instaurando così un rapporto multiplo, in cui lei e Jim vivono “more uxorio”, e Jim e Jules continuano le loro peripezie mentali ed intellettuali. Ma anche Jim è un irrequieto. Pur amando totalmente Kathe, non rinunzia alle sue amanti parigine. Amanti solo nel corpo, che la testa ed il cuore sono di Kathe. Jules ormai si ritira sempre più sullo sfondo, così come le due figlie che non saranno mai un ostacolo alla vita libera di Kathe. Lei e Jim viaggiano, girano l’Europa, costruiscono una casa sul Baltico dove non andranno mai ad abitare. E mentre nella vita tutto si brucia nel giro di pochi anni, qui le storie si dilatano, i personaggi diventano simboli che inglobano altre vite ed altri scenari. La storia di base e le sue domande, però, sono sempre lì: quanto si ama, chi si ama, come si ama, cos’è l’amore, cos’è il rapporto tra le persone, dove finisce l’amore e rimane l’amicizia. E quando Jim confessa di voler sposare la sua nuova amante Michéle, comprendendo Kathe che ormai è tutto inaggiustabile, si arriva al dramma finale. Kathe lancia a folle velocità l’automobile nella quale con Jim sta costeggiando la Senna, e senza frenare si getta nel fiume, dove morranno insieme. Jules, dalla riva, assiste impotente al disastro. Roché sembra alla fine trasfigurare la rottura (quella del ’33) in una morte irreale ma concreta (non a caso in quegli anni lo scrittore intratteneva una fitta corrispondenza con Freud). Le molte domande del libro, nella vita e nel film sono risolte in modi diversi, come avete capito. Che nella vita, le strade andranno avanti, anche oscillando da rapporti singoli e multipli. Nel film Truffaut sembra invece volerci dire che l’unica via di salvezza è la coppia. Certo ci può essere liberalità, sensualità, ed altro, ma ad un certo punto si arriva davanti ad una barriera che si può passare da soli o al massimo in due. Il libro adombra tutto ciò, ma la parte migliore non è quella che poi Truffaut ben tratta nel film, ma tutto quel susseguirsi di prendersi e lasciarsi, i bagni nudi sulle rive dell’oceano, i balli a Parigi, le notti in soffitta a Montparnasse, la gita a Venezia, il sorriso greco ad Atene, l’isoletta sul Baltico, i treni fumosi che vanno in giro per l’Europa. Ma il libro non è riuscito pienamente, ha bisogno delle altre due gambe (la vita e il film) per essere gustato. Ancora un triangolo, ovviamente!
“Non perdonerò mai a una donna di amarmi così come sono.” (39)
“Il tempo passava. La felicità si racconta male. Si logora anche: e non ce ne accorgiamo.” (194)
“Se si ama qualcuno, lo si ama così com’è. Non si desidera influenzarlo, perché, se ci si riuscisse, non sarebbe più lui. Meglio rinunciare all’essere che si ama che cercare di modificarlo.” [notate la differenza tra il pensiero di Jules all’inizio della storia ed alla fine] (196)
Gabriel Garcia Marquez “L’amore ai tempi del colera” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,15 euro) 
[tramato il 18 giugno 2017]
Mi ero accostato con un po’ di timore ad un ulteriore libro di Gabo, dopo che le ultime letture mi avevano sinceramente deluso. Non che volessi tornare all’epifania interna che mi sconvolse con “Cento anni”, ma mi sarebbe bastato tornare al piacere di una bella lettura come quella del giovanile “Racconto di un naufrago”, dopo aver passato le pene a sopportare la candida Erendira o il tramonto del patriarca. Timore che era un po’ mitigato dalla spinta verso la lettura che mi stavano dando sia le libropeute di “Curarsi con i libri”, che lo consiglia ai settantenni, sia l’allegra Giulia Fiore che lo consiglia come antidoto a “Il grande Gatsby”. Buoni consigli, ed altrettanto buona lettura. Qui, il quasi sessantenne Gabo riprende il bandolo dei suoi giri infiniti, dei suoi mille personaggi, che poi a ben vedere si riducono a due o tre, e ci trascina in meno di quattrocento pagine alla ricerca di uno sbocco ad una vicenda che, bene o male, durerà una sessantina di anni. Lo fa con la sua vecchia maestria, cominciando da un punto A, spostandosi a B, poi a C e D, ed intessendo tutto un intreccio di situazioni e di svolgimenti, che mi hanno tenuto incollato alla pagina più di quanto mi aspettassi. All’inizio ero un po’ dubbioso, seguendo le pagine sulla morte dello strano Jeremiah de Saint-Amour, starno personaggio, piombato all’improvviso nella cittadina teatro della vicenda, ricucitosi uno spazio di vita come fotografo e di relazioni come giocatore di scacchi. Personaggio che decide di non dover invecchiare ed a sessanta anni si uccide. Morte che coinvolge il suo compagno di scacchi, il dottor Juvenal Urbino. Di cui vediamo i turbamenti per la morte, che cominciamo a seguire con le sue manie di vita, con le sue esuberanze sociali, conosciamo di sfuggita la moglie Fermina Daza. Veniamo ben presto coinvolti nella vita del dottore, nel ricordo dei suoi viaggi giovanili a Parigi, delle sue dotte lezioni di medicina, delle sue letture. Venendo all’improvviso coinvolti nella sua morte, lo stesso giorno dell’amico, per una caduta accidentale e ben ridicola. Prende allora il centro della scena la moglie Fermina, che sembrava sino ad allora vissuta nell’ombra del marito importante, ma che esegue i giusti passi per il funerale, per il ricordo, per il rapporto con il figlio Urbino Daza, anche lui dottore, e con la figlia Ofelia. E nel momento culminante di questo inizio pirotecnico abbiamo lo squarcio che farà girare tutto il romanzo. L’anziano a sua volta Florentino (sia lui che Fermina sono poco oltre i 70), che alla fine del funerale dichiara il suo imperituro amore a Fermina. Un amore che dura quasi nascosto da 53 anni, 7 mesi ed 11 giorni. Dichiarazione che permette all’autore una capriola appunto di più di cinquanta anni all’indietro, dove ritroviamo la giovane Fermina, assediata dalle lettere e dalle poesie di Florentino. Siamo nella fine dell’Ottocento, non facili sono i rapporti tra maschi e femmine. Inoltre, Fermina è figlia di un oscuro malversatore, che finirà i suoi giorni tornando scornato in Spagna, mentre Florentino è figlio naturale di uno dei maggiorenti locali. Ma non riconosciuto, quindi di poco peso sociale. Inoltre, Florentino ha un suo aspetto triste, è aiuto-telegrafista, miope. Ha solo la parola dalla sua, novello Cyrano di sé stesso. Seguiamo allora Fermina che decide di lasciarlo per sposare senza amarlo il ricco Juvenal, con cui costruirà un rapporto bene o male felice nel corso degli anni, con picchi di bellezza e di amore e con abissi non proprio di dolore, ma di crisi. Che verranno superate, avendo sempre ormai la nostra buona Fermina seppellito il ricordo del giovane amore con Florentino. Che invece non si rassegna, che decide, lì sui venti anni che quella sarà sempre la sua donna. E che comincerà la sua scalata sociale, aiutato dalle sue capacità e dal padre naturale che gli offre la possibilità di sfruttarle. Vediamo Florentino perdere la verginità del corpo su di un battello fluviale. Ma anche salire, gradino dopo gradino, proprio le fortune dei battelli, di cui alla fine diventerà il capo e padrone indiscusso. Avrà anche la capacità di soddisfare i suoi ardori, andando a letto con 622 donne come puntigliosamente registra nei suoi diari. Il funambolismo di Gabo ci fa quindi saltare di donna in donna, seguendone brevemente il fugace rapporto con Florentino, ma dipingendole a tutto tondo. Anche l’ottima Leona, l’unica con cui non andrà a letto, ma che sarà il motore segreto della sua ascesa. Dopo questa lunga cavalcata, allora ritroviamo i nostri due eroi, anziani ma non vecchi. Dove vediamo Florentino riprendere il leggero corteggiamento, delicato e pieno di un tatto sempre presente nelle sue manifestazioni, anche quando sembra non essere capace di mantenersi centrato. Vediamo Fermina leggere le sue lettere, capire i percorsi suoi e del suo amor di gioventù. Gabo ci infioretta tutta una bella parte su queste basi, mettendoci dentro anche i corpi di questi due settantenni, il loro scivolare verso la inevitabile morte, che fortunatamente non vedremo. Fino però ad imbarcarsi su una delle navi della flotta di Florentino, quasi a ripercorrere una fuga giovanile di Fermina verso parenti che le facessero passare i dolori e quel momento d’amore di Florentino. Cosa succederà sulla nave, dovrete leggerlo, perché è il momento chiave del libro. E non vi anticipo cosa succederà. Tutto il libro è corso via su questi binari, l’ho letto legato alla pagina nei pochi momenti liberi di queste giornate ad altro dedicate. E vi confesso che avrei anche dato maggior punteggi, se non ci fossero alcuni passi che mi hanno lasciato un po’ di dubbi. Uno su tutti, il famoso diario di Jeremiah, di cui tanto si parla nelle prime pagine, che mi aveva solleticato, ma di cui poi se ne perde traccia. Con dispiacere. Un libro sulla vecchiaia e sull’amore e sul fatto che comunque possano convivere. A dispetto di tutti.
“Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.” (116)
“Un uomo sa quando comincia a invecchiare perché comincia ad assomigliare a suo padre.” (183)
“Con lei … aveva imparato quello che aveva già provato più volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone al contempo … senza tradirne nessuna.” (293)
“È incredibile come si possa essere tanto felici per così tanti anni, in mezzo a tante baruffe, a tante seccature …  senza sapere in realtà se è amore o se non lo è.” (356)

Conclusioni

Come al solito, anche a 70 anni, si gira intorno al tema dell’amore. Non traggo conclusioni, ma vi invito a tornare alle citazioni, questa volta veramente “illuminanti”.



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