Una settimana rilassante, in attesa delle chiusure natalizie, cui dovremo dedicarci a mettere un po’ d’ordine nelle nostre librerie. Qualche giallo d’annata (dagli anni Venti ai Cinquanta) ed una puntata in Islanda, che sempre ci resta nel cuore. Qualche lettura forse un po’ filologica e datata (le ultime due in particolare). Ma nel complesso una settimana di godibile relax.
Edgar Lustgarten “Signori della corte …” TEA euro 10
[A: 22/02/2018 – I: 30/07/2020 – T: 31/07/2020] - &&&
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[tit. or.: A Case to Answer; ling. or.: inglese; pagine: 252; anno 1947]
Eccoci tornati alla grande fucina “mystery” delle edizioni TEA, questa
volta facendo un altro salto all’indietro per tirar fuori dalla memoria un
autore, ora sconosciuto, ma all’epoca ben saldo nelle top ten dei gialli. In
particolare, dei gialli da dibattimento, quelli poi divenuti classici con Perry
Mason e compagnia. Anche se qui, all’inglese, ci si ferma su due punti: il
delitto ed il dibattimento in aula.
Tanto che gli editori italiani hanno pensato di utilizzare nel titolo il
classico incipit dei processi in Inghilterra: “Signori della corte…”. Mentre
l’autore aveva ben pensato di indirizzare il lettore verso una domanda cui
bisognava dare una risposta. Cioè, gli elementi indiziari sarebbero stati
sufficienti a pronunciare una condanna di colpevolezza dell’imputato?
Ma prima facciamo un passo indietro, parlando di questo autore
praticamente ignoto in Italia. Lustgarten, tanto per iniziare, è un toro (3
maggio) e questo già ce lo mette in buona luce. Nasce avvocato, per poi
dedicarsi a commentare, su carta, in radio e poi anche in televisione, omicidi
e misteri dell’Inghilterra pre e post Seconda guerra mondiale. Ha anche un
discreto successo, tanto che un suo discorso di commento ad un processo venne
anche campionato ed inserito in una hit australiani degli anni ’80. Fino ad
essere imitato nel grande spettacolo del ’75, il “Rocky Horror Picture Show”.
Questo romanzo, cui ora torniamo, è secondo me giustamente indicato come
una pietra miliare del “legal thriller” ante-litteram. Tutto il libro si snoda
intorno al processo, per rispondere alla domanda di cui sopra.
C’è una prostituta barbaramente assassinata. E c’è una sola persona che
può essere incriminata. Si tratta di Arthur, trentenne sposato con due figlie,
che da qualche mese, incontrando Kate, la donnina di facili costumi, ha un
cambiamento radicale nel suo sentire. Certo, non pensa di mollare famiglia e
lavoro, ma si sente che ha un grosso debole per Kate. Vorrebbe che smettesse il
lavoro poco edificante, dicendole di volerla mantenere. Vorrebbe che smettesse
di bere, riuscendo solo in parte a frenarla. Le fa scenate continue, con
alterchi vistosi nel pub che frequentano. La sera del delitto si aggira agitato
nel loro pub, litigando con tutti. Poi va a casa di Kate, stranamente non
riesce ad entrare dalla porta che dovrebbe essere sempre aperta. Si fa aiutare
dalla vicina che non ha problemi, e trovano Kate squartata in casa.
Facile accusarlo, difficile provare il delitto. Ci sono prove indiziarie.
Arthur potrebbe aver ucciso Kate tra le sei e le sette, ma lui dice che si
trovava in un altro pub, dove però nessuno sembra averlo visto. Sul corpo ci
sono colpi e colpi di un coltellino di proprietà di Arthur, che lui dice aver
regalato a Kate, ma nessuno lo sa. La porta si apre sempre al primo colpo, ma
la vicina dice che ogni tanto, ogni tre o quattro mesi, inspiegabilmente si
blocca. C’è quindi una feroce battaglia a colpi di arringhe e di interrogatori
che si svolge nell’aula del tribunale, tra l’accusa portata avanti da uno svogliato
ma capace Sir Charles, e la difesa, accurata ma un po’ triste dell’avvocato
Bedrick.
Lustgarten, ogni tanto, si assenta dall’aula, ci porta in giro, a
conoscere la moglie di Arthur, il padre di Kate ed altri personaggi minori. Ci
presenta anche due persone che potrebbero essere fondamentali nel processo: un
avventore del pub che riconosce Arthur nelle foto dei giornali, ed un’amica di
Kate che ha visto il coltellino nella borsa della morta. Ma i due hanno
problemi di varia natura con la giustizia, e non si fanno avanti.
Si rimane così alla battaglia sulle arringhe finali, e su quella domanda riportata
in alto. Come risponderanno i giurati? E la risposta, quella che sia, sarà
definitiva? Il finale è, insieme alle arringhe, uno dei pezzi forti del
romanzo. Che di certo risente dell’età, in fondo son passati più di settanta
anni, e di qualche lentezza cui non siamo abituati. Scritto ora, gli avvocati
sarebbero di certo più rampanti, i dialoghi più tesi. Ma il nostro riesce a
creare bene l’atmosfera tribunalesca londinese. Caratterizza in modo egregio i
due avvocati. E, ripeto, ci sforna un finale degno di nota.
Una buona lettura, un po’ più che soltanto filologica.
Arnaldur Indriðason “Un
delitto da dimenticare” TEA euro 11
[A: 22/02/2018 – I: 08/08/2020 – T: 10/08/2020]
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[tit. or.: Kamp Knox; ling. or.: islandese; pagine: 314; anno 2015]
Eccoci tornati al mio primo amore islandese, dopo un paio d’anni
che covava sotto la cenere. Comperato in un giorno eponimo (il compleanno del
mio amico Luciano), e letto nell’unico, per ora, momento di relax eoliano di
quest’anno discretamente complicato. Non solo, ma letto anche a ruota di un
altro libro islandese, l’ottimo romanzo di Stéfansson con quel titolo vagamente
montaliano. Una bella immersione in una terra che mi ha fatto innamorare a
prima vista (anche se confesso di averla visitata solo nei mesi estivi,
considerati bene o male caldi, quindi non saprei dirvi le mie possibili
impressioni invernali).
Ma veniamo al commissario Erlendur, il protagonista che mi
ha fatto conoscere ed amare Indriðason. Sono contento che lui ritorni in prima
persona, che le sue storie risultano più interessanti. Anche se, come in questo
caso, facciamo dei piccoli salti temporali all’indietro. Visto che gran parte
della vicenda principale si svolge nella base americana di Keflavik, ben prima
che venisse smantellata nel 2006, e che tutta la zona venisse dedicata al nuovo
aeroporto internazionale. Anzi, facendo dei calcoli su quanto si dice e quanto
si collega, direi che siamo intorno al 1980 (o poco prima).
Come sovente decide, il nostro autore ci presenta più casi
durante uno stesso romanzo, anche se qui rimangono soltanto due indagini a
focalizzare la nostra attenzione.
La prima e principale indagine ruota attorno al corpo di un
uomo islandese, ritrovato in un lago, la futura Laguna Blu, in una condizione
che fa pensare ad una vertiginosa caduta su una superficie dura. Il problema è
che l’uomo, Kristvin, lavorava all’allora base americana installata vicino alla
Laguna. E che la Laguna è piatta. Erlendur ormai lavora in pianta stabile nella
Polizia, come aiuto di Marion (che abbiamo conosciuto nei due romanzi
precedenti). Ma i nostri avranno del bello e del buono a lavorare a questo
enigma. Che le autorità militari rifiutano di collaborare. Salvo la bella Caroline.
Che si trova solidale nell’emarginazione in quanto donna di colore in un
ambiente bianco e razzista.
Ma l’omicidio, la cui soluzione comunque è interessante,
serve ad Arnaldur per la denuncia di due problemi. La prima riguarda la
presenza militare americana in Islanda. Arnaldur, attraverso Erlendur, si
dimostra ferocemente antimilitarista. Ed ha anche aggio di stigmatizzare la
presenza americana nella vicina Groenlandia, con il sospetto di una
installazione, nascosta e proibita, di armamenti nucleari. Il secondo problema
è il razzismo, verso Caroline, in prima battuta. Ma anche degli americani verso
gli islandesi in genere, che loro, la razza eletta, considerano degli zoticoni,
dalla lingua impossibile, desiderosi dei prodotti americani ma ostili agli americani
stessi. Come possono i super militari americani comprendere una nazione senza
esercito, dove neanche la polizia è armata?
Tornando all’omicidio, comunque, perché Kristvin, questo
lavoratore islandese, è stato assassinato? Era troppo curioso e ha visto quello
che non avrebbe dovuto vedere mentre lavorava in un hangar, dove sono
immagazzinati aerei cargo americani? O è più prosaicamente una semplice storia
di adulterio su uno sfondo di violenza domestica? Avrete modo di scoprirlo
leggendolo.
E leggendo vi appassionerete come me alla seconda indagine,
dove Erlendur cerca di trovar traccia di un “cold case”: la scomparsa di
Dagbjört, una giovane ragazza, che non è mai arrivata a scuola nel lontano 1953
(un anno che mi ricorda qualcosa). Tutte le tracce della scomparsa a poco a
poco svaniscono, i personaggi muoiono. Solo Erlendur non si arrende mai. Trova
casualmente un brano di un diario della giovane, e da lì ricostruisce passo
dopo passo tutta la vicenda, svelandocene i tristi retroscena finali. C’è anche
un tentativo, neanche troppo velato, di collegare le due storie. Che Dagbjört
pare frequentasse una persona che dormiva nelle caserme dell'esercito
americano, che all’epoca formavano una sorta di baraccopoli, chiamata Kamp
Knox. Case fatiscenti, senza acqua corrente, umide. Gli abitanti potevano
essere solo potenziali delinquenti, che la buona società di Reykjavik,
stigmatizzava. Altro bel razzismo.
Ritengo non tanto velato il doppio collegamento, dato che il
titolo originale del romanzo è proprio “Kamp Knox”.
Al solito, quello che più mi affascina poi è l’atmosfera
islandese dura e pura che si respira in ogni pagina. Panorami mozzafiato,
freddo, lunghi inverni, rocce spruzzate di neve, mare che si frange sulle
scogliere, il rumore delle onde, i tramonti fantastici. In più qui, Arnaldur
unisce anche un po’ di musica, che non fa mai male. Dal blues americano che
piaceva a Dagbjört, alle canzoni islandesi degli anni ’60, magari riprese da
Björk (se riuscite, provate a sentire “Gling Gló”).
Stiamo risalendo, Arnaldur.
J. J. Connington “Il caso con nove soluzioni” TEA euro 10
[A: 09/03/2018 – I: 19/08/2020
– T: 20/08/2020] - && e ¾
[tit. or.: The Case with Nine Solutions; ling. or.: inglese; pagine: 266; anno 1928]
Eccoci ad un nuovo giallo filologicamente interessante, visto anche che
si avvia ai cento anni della scrittura. Con anche un autore interessante, che
il nome su riportato è uno pseudonimo di un illustre chimico di inizio secolo
scorso, Alfred Walter Stewart, docente in quel di Glasgow ed “inventore” del
termine “isobaro” per indicare i nucleidi di egual peso contrapposti agli
“isotopo”, nucleidi di egual massa.
Abbastanza saturo (mi scuso il termine) di chimica ed accademia varia,
decide di dedicare parte del suo tempo libero ad imbastire trame gialle.
Spesso, com’è ovvio, intrecciate con elementi derivanti dal suo lavoro.
Altrettanto spesso, poi, legati a qualche personaggio seriale. Come il suo più
famoso: il capo della polizia sir Clinton Driffield, che compare in numerosi
romanzi, ed anche in questo, considerato un classico esempio del genere.
Devo dire che, pur avendo alcuni elementi interessanti, risente molto
della lontana scrittura, per alcune situazioni, per alcuni termini, e per altre
se vogliamo minuzie, ma che ne rivelano l’età. Come ad esempio la ioscina, un
alcaloide che gioca un piccolo ruolo nella trama, e che siamo invece adusi a
sentirlo nominare come “scopolamina”, sostanza che ricordo a volte usata da
Diabolik nei suoi scopi criminali.
C’è comunque da rilevare che l’inizio è sorprendentemente moderno. In
base ad una serie di telefonate, un dottore invece di andare a trovare una
paziente affetta da scarlattina, entra in una casa vicina e scopre un morto con
due fori di pallottola nel petto. Chiama la polizia, che si presenta appunto
con sir Clinton, insieme vanno nella casa della paziente (unica nelle vicinanze
con telefono) e scoprono la seconda domestica morta strangolata. Infine, il
giorno seguente, in base ad una segnalazione anonima, sir Clinton si reca in un
villino dove scopre una donna morta, colpita post mortem da una pallottola.
Le tre morti sono discretamente collegate: l’uomo e la donna si
frequentavano abitualmente, la domestica era al servizio della donna. La donna
poi è sposata ad un chimico che gestisce un laboratorio, dove l’uomo pare
essersi innamorato di una ricercatrice, e dove la seconda ricercatrice era
stata fidanzata con il morto, che l’aveva lasciata pensando di far colpo sulla
morta. Intorno c’è anche l’aiuto del marito della morta, che tre anni prima
sembrava aver un debole per lei, per poi evitare sempre di frequentarla, e c’è
il padre del morto, arrogante e molto ma molto antipatico.
Lasciando da parte la domestica, che si capisce sia stata uccisa perché
qualcuno voleva recuperare degli effetti della morta, sir Clinton ci delizia
con i suoi ragionamenti, che ci portano diritti al titolo del romanzo. Poiché
ci sono tre possibilità di morte: incidente, suicidio e omicidio. E ci sono due
morti, il calcolo combinatorio ci fa subito edotti che sono possibili 9
combinazioni di tre elementi in due posti (dati dalla formula tre al quadrato).
L’idea dell’autore, aiutato sia dall’ispettore a capo delle indagini, ma
soprattutto da sir Clinton, è di analizzare le varie “soluzioni”, eliminarle
quelle improbabili o impossibili, ed arrivare ad isolarne una, che sarà “LA”
soluzione del caso.
È ovvio che dopo la partenza “moderna”, molto romanzo è lento e
dedicato a queste discussioni, anche se ci sono movimenti, agnizioni, scoperte
e finalini. Però tutto è molto datato, poco altrettanto valido tuttora. Tant’è
che, personalmente, avevo puntato il dito sul colpevole sin prima di pagina 50
(è una pagina casuale, per dire molto presto, non cercate interpretazioni
occulte).
La seconda “modernità” del romanzo, che insieme alla prima ne fa quasi
raggiungere la sufficienza, è la chiusa. Per tutto il romanzo, sir Clinton dice
di pensare questo o quello, fa una cosa e poi un’altra, lasciando sempre
sconcertato il suo ispettore. Sir Clinton dice anche di sapere perché lo fa.
Ebbene, l’ultimo capitolo, dopo che tutto si è risolto, l’autore lo dedica alle
riflessioni ed ai pensieri di sir Clinton durante le varie fasi dell’indagine.
In effetti, io e Clinton abbiamo ragionato in parallelo, e ne sono contento. Ma
mi rendo anche conto, che se gli stessi ragionamenti fossero stati inseriti in
corso di romanzo, il romanzo stesso sarebbe caduto in basso nelle pur piccole
tensioni che provoca.
Quindi, un buon elemento storico, qualche passo interessante, una
costruzione dignitosa, per una collana sempre interessante.
“Spòsati in fretta e pèntiti con comodo.” (166)
Guy Cullingford “Il morto che non riposa” TEA euro 10
[A: 09/03/2018 – I: 24/08/2020 – T: 25/08/2020] - &&
e ½
[tit. or.: Post Mortem; ling. or.: inglese; pagine: 267;
anno 1953]
Continuo nell’infornata di MysteryTea entrati in massa nelle mie librerie
due anni e mezzo fa. E sebbene questo sia stato scritto in un anno eponimo,
anche lui non arriva che a due e mezzo.
Intanto, risolviamo il primo mistero. Guy Cullingford non esiste, ma è
lo pseudonimo di Constance Lindsay Taylor, una scrittrice e poetessa inglese,
che come molte autrici del suo tempo decide di nascondersi dietro un nome
maschile. Comunque, Constance conferma la tendenza alla longevità delle
scrittrici di gialli, essendo morta nel 2000 a 97 anni.
Il secondo mistero, ormai endemico nelle mie trame, è lo stravolgimento
del titolo. Perché il morto dovrebbe o non dovrebbe riposare? Quando tutta la
trama, ed anche gli unici momenti di godibilità, arrivano proprio dal fatto che
sia tutto collegato al “post” della morte.
In realtà, il 90% della bellezza e della novità del testo è proprio
data dal fatto che il detective che indaga sulla morte di Gilbert Worth sia …
lo stesso Gilbert, a mo’ di fantasma. Certo, per noi scettici, il fatto che sia
il fantasma a reggere tutto il libro, risulta alquanto problematico. E tutto
sommato, il tentativo nell’epilogo di mischiare le acque è anch’esso da
sottolineare per la sua novità. Poiché (forse) i fantasmi sono tutti da
dimostrare, l’autrice fornisce due possibili soluzioni, entrambe con delle
possibilità reali.
Altro punto poco a favore del testo, è il fatto che in realtà
l’investigazione, la trama gialla, è ridotta praticamente a zero. Dopo la
morte, Gilbert comincia a cercare di capire chi sia l’autore del “misfatto”
(omicidio o suicidio), ma quello che fa non è altro che aggirarsi tra le mura
di casa, ascoltare i possibili colpevoli parlare, annotarne le frasi, ed
arrivare ad un finale, che sembra quanto mai semplice, immaginabile, insomma,
assolutamente poco “giallo”. Certo, quel secondo finale tenta di mescolare le
carte, e pare riuscirci, ma poi cade nel dover razionalizzare tutto.
Peccato perché, emula di Agatha Christie con le sue scritture
“particolari”, l’idea che il morto sia l’investigatore che cerca di capire come
sia morto, è intrigante. Dopo due tentativi falliti di attentare alla sua vita,
Gilbert si addormenta nel suo studio, e si risveglia … morto. Ma è stato
qualcuno ad ucciderlo o, come crede la polizia, è stato un suicidio?
Facciamo finta di credere ai fantasmi, e quindi seguiamo la trama nel
suo svolgersi. Ci sono tanti possibili colpevoli se, come Gilbert sostiene, si
tratta di un omicidio. Gilbert ha sempre trattato molto male i suoi tre figli.
Sono forse stati loro, in combutta, o uno di loro, esasperato nella mancanza di
rispetto del genitore teutonico? Julien che il padre non vuole faccia lo
scrittore? Robert che il padre non vuole faccia il prete? Juliet che contesta
al padre le continue “scappatelle”? Potrebbe essere stata la sua segretaria –
amante, per cercare di migliorare la sua posizione, magari convolando con uno
dei figli? La moglie, che Gilbert mette alla berlina in uno suo libro (ritenuto
forse il migliore della sua produzione), e che dopo anni e anni di accumulo di
rancore, sbotta e spara? Qualcuno del personale domestico? Il vicino militare,
che da anni fa la corte silenziosa alla moglie di Gilbert? Il suo avvocato? Il
suo editore?
La piccola abilità dell’autrice è nel far girare la trottola delle
possibilità tra tutti i possibili esecutori. Ma è una trottola che gira piano,
che ad ogni sospetto si capisce subito che sia poca la possibilità che sia
realmente il colpevole. Meno due persone: il (o la) possibile omicida e Gilbert
stesso che, nonostante tutto, potrebbe essersi suicidato.
Tuttavia, Gilbert non fa che ascoltare e riportare, con il risultato
che quello che scopre, più che l’andamento del crimine, è una serie di “verità”
sulla sua persona, dove, colloquio dopo colloquio, risulta sempre più
antipatico a tutti.
Certo, risente molto della mia età, e se pur qualche passaggio
descrittivo degli ambienti inglesi degli anni Cinquanta può suscitare un minimo
di interesse, il contenuto investigativo, ripeto, è praticamente inesistente.
Potete anche esimervi dal leggerlo.
“È pigro e sudicio, ed è un vero e proprio bolscevico. … [Veramente]
ora li chiamiamo comunisti. … è la stessa cosa … sono bolscevichi nell’anima.”
(178) [stupendo passaggio]
Terza trame di dicembre, e quindi eccovi un libro leggero che insieme a
Julia Roberts ci si aspetta porti di nuovo su qualche aereo.
Allora, saremo chiusi. Natale con i tuoi, nel senso più stretto del termine. Natale nel pensiero, però, anche a tutti quelli che compongono le nostre costellazioni di vita. Pensieri reali, abbracci virtuali.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
DICEMBRE 2020
Rimaniamo sui malanni stagionali, proponendo una lettura
solare, estiva, e soprattutto stimolante verso i viaggi che si tornerà a
praticare.
MALANNI DI STAGIONE 2
Elizabeth Gilbert “Mangia, prega,
ama” (2006)
Pillole
di trama
Il
titolo originale del romanzo ne spiega anche la trama: “Eat, Pray, Love. One
woman's search for everything across Italy, India and Indonesia”, ovvero il
viaggio di una donna alla ricerca di tutto (cioè sé stessa) tra l’Italia,
l’India e l’Indonesia.
Supposta-saggezza
Elizabeth
ha tutto per sentirsi realizzata: è giovane, ha un marito, una bella casa e una
carriera avviata come giornalista. Eppure, è infelice e, dopo ripetuti pianti
in bagno e preghiere disperate, decide di separarsi. Inizia una nuova relazione
ma le cose non migliorano. Comincia a pensare che il problema deve essere alla
radice, ovvero proprio in lei. Invece di cedere alla depressione, decide di
prendersi un anno sabbatico per viaggiare alia ricerca di risposte. La prima
tappa è l’Italia, dove scopre il piacere: tra bellezze artistiche e nuovi
amici, il cibo si rivela la migliore terapia per imparare a godersi la vita
addentandola con gusto, arrotolandola come spaghetti al pomodoro, assaporandola
come un gelato o un caffè bollente e facendola filare come la mozzarella sulla pizza.
In India, invece, si dedica alla spiritualità meditando e digiunando in un
Ashram (digiuna anche perché in Italia a forza di godere e di dolce far niente,
ha messo su parecchi chili) mentre a Bali trova l’equilibrio tra piacere e
spirito, anima e corpo, aprendosi alla vita e abbandonandosi all’amore. Qui Liz
guarisce dalla sua tristezza, finalmente consapevole che se si è in grado di
sorridere, anche la vita ti sorride. E magari anche un uomo ti sorride, se sei
fortunata come lei. Scoprendosi cambiata, sicura e soddisfatta di sé, Elizabeth
è ora capace di condividere l’amore con un’altra persona perché non si può
stare bene in due se non si sta bene con sé stessi.
Attraverso
un diario che è una confessione, l’autrice racconta la sua personale esperienza
di anima inquieta alla ricerca di un po’ di pace. Il lettore la segue in ogni
tappa di questo suo viaggio (anche spirituale) in cui ogni anima inquieta non
può che sentirsi coinvolta. “Mangia prega ama”: nel titolo è contenuta la
ricetta della felicità. Basterebbe questo per stare bene. Il problema è che
prima bisogna imparare a mangiare, pregare e amare. E imparare a farlo bene.
Posologia
Se
soffrite di improvvise e ingiustificate crisi di pianto, se la vostra vita
sembra perfetta ma vi sentite comunque infelici e insoddisfatti, se è fallita
l’ennesima relazione (e sì che credevate fosse quella giusta), se sentite il
bisogno di dare una svolta definitiva ma vi manca il coraggio di ricominciare
da capo o se avete paura di stare soli con voi stessi, in tutti questi casi la
somministrazione di “Mangia prega ama” si rivela più che opportuna. Il libro è
una sorta di percorso curativo dell’anima, un viaggio terapeutico articolato in
tre tappe per guarire dall’insoddisfazione e reintegrare la quota fisiologica di
piacere, devozione ed equilibrio.
Anche
se la vostra vita è praticamente un disastro, siete single, disoccupati e vi
sentite orribili, il romanzo è un’iniezione di sicurezza in quanto dimostra che
non sempre una vita perfetta, con tutte le caselle riempite, comporta la
felicità, come l’autrice ha provato sulla propria pelle. In caso di confusione
o episodi di labirintite esistenziale, questa consapevolezza facilita il
recupero dell’equilibrio necessario a tenere in bilico le proprie e le altrui
emozioni (la stabilità non è una condizione oggettiva ma una sensazione
determinata dall’equilibrio). Liberare la mente dal pensiero malato che la
perfezione sia sinonimo di felicità è una grande conquista per la salute.
Si
consiglia l’assunzione del romanzo autobiografico di Elizabeth Gilbert in
primavera-estate, quando corpo e spirito sono maggiormente predisposti al
cambiamento e si può contare sull’intraprendenza necessaria per cominciare
qualsiasi viaggio, anche spirituale. “Mangia prega ama” è indicato per uscire
dall’inverno del proprio scontento e, complice l’aumento delle ore di luce,
illuminarsi nel tentativo di ritrovare sé stessi.
Effetti
collaterali
È
stato documentato che alcuni lettori, dopo aver seguito il romanzo alla
lettera, si sono ritrovati con qualche chilo in più. La parte godereccia in
Italia è un’istigazione a delinquere a tavola. In alcuni casi, più rari, i
lettori hanno anche manifestato il desiderio impellente di precipitarsi nella
prima agenzia di viaggi a portata di mano per organizzare una vacanza in India
e a Bali.
Consigli
Se
volete sapere quanto la cura “Mangia prega ama” sia efficace a lungo termine,
potete leggere il romanzo in cui l’autrice racconta la sua vita dopo il
viaggio. Inedito in Italia, basta il titolo per capire come si è evoluta la
situazione: “Committed: A Skeptic Makes Peace With Marriage”. Che tradotto
letteralmente vuol dire: «Impegnata: una scettica fa pace con il matrimonio».
Che tradotto ancora vuol dire che alla fine del viaggio Elizabeth, oltre ad
aver trovato l’amore, ha fatto anche pace con il matrimonio. Che abbia trovato
pace anche la sua inquietudine?
Terapia
cinematografica sostitutiva
Ambientato
tra l’Italia, l’India e l’Indonesia, in costante equilibrio tra ironia e
saggezza, amore e spirito, era praticamente scontato il passaggio di “Mangia prega
ama” dalla pagina al grande schermo. Ci ha pensato Ryan Murphy scegliendo come
protagonista Julia Roberts. L’attrice ha un sorriso contagioso che sintetizza
bene la riscoperta della gioia di vivere della protagonista. Solo che il
sorriso delia Roberts è, paradossalmente, l’unico elemento serio che il regista
e gli sceneggiatori hanno colto dello spirito del libro. La tristezza, la
solitudine e la complessità del viaggio diventano nel film un tour più
spiritoso (a tratti piagnucoloso) che spirituale. Può risultare particolarmente
urticante la parte ambientata in Italia per la sua natura stereotipata e pure
un po’ datata: praticamente sembra che da noi si mangi, si gesticoli, si
amoreggi e si viva come negli anni Cinquanta, e ci si dedichi esclusivamente al
“dolce far niente”. Purtroppo, siamo un po’ più complessi di così. Le cose si
fanno più lacrimose in India ma decisamente più intriganti a Bali. Quindi
tenete duro fino all’arrivo dell’amore che ha il fascino non convenzionale di
Javier Bardem. Questo per dirvi che prega che ti riprega, almeno il film ci dà
la speranza (o l’illusione) che l’uomo dei sogni arriva e potrebbe essere anche
piuttosto affascinante. (Detto fra noi, conviene pregare anche di non dover
arrivare fino in Indonesia per trovarlo). Se è l’uomo dei sogni che cercate,
continuando a sfruttare il principio attivo di Julia Roberts e del suo
contagioso sorriso, può essere salutare una cura a base di “Pretty Woman”. E,
mi raccomando, continuate a pregare che vi capiti la stessa fortuna di quella
«granculo di Cenerentola», tanto per citare il film.
Avvertenza:
se la cura indica la strada per trovare un equilibrio, non necessariamente
assicura che alla fine del viaggio ci sia l’amore ad aspettarci. Se ciò non si
verificasse, non resta che mangiare e pregare. Mangiare per colmare il vuoto
d’affetto e pregare per trovare finalmente l’altra metà della mela (tanto per
rimanere in tema). Oppure potreste colmare eventuali vuoti emotivi ricorrendo a
un rimedio letterario che si dimostra efficace sulla metà della popolazione
femminile mondiale: i romanzi rosa. Particolarmente indicati durante il periodo
estivo, quando il bisogno di evasione è maggiormente pronunciato, lo stress
lavorativo si fa più opprimente e il sogno di un principe azzurro rischia di diventare
l’incubo delle notti afose in letti solitari, i romanzi di Anna Premoli
consentono una scorpacciata di romanticismo utile a contrastare apnee notturne
e palpitazioni diurne. “Ti prego lasciati odiare”, “Come inciampare nel
principe azzurro”, “Finché amore non ci separi”, “Tutti i difetti che amo di
te”, “Un giorno perfetto per innamorarsi” garantiscono una copertura totale e
prolungata a base di litigi amorosi e principi azzurri che si nascondono sotto
le mentite spoglie di uomini che apparentemente suscitano solo antipatia. Oltre
ad allentare le tensioni e migliorare l’attività del cuore, la lettura della
Premoli giova alla salute degli occhi: qualche pagina al bisogno consente di
migliorare la qualità della vista, favorendo il fisiologico passaggio da una
visuale dominata dal colore nero a una, più romantica e positiva, in rosa.
Commenti
Letto quasi due anni fa, ma ancora attuale per l’anima serena
che emana. Non un titolo imperdibile, ma, come dico nel testo, un buon libro d
viaggio.
Elizabeth Gilbert “Eat, Pray, Love – One
Woman’s Search for Everything across Italy, India and Indonesia” Penguin euro
10
[pubblicato il 14 aprile 2019]
Non so a che titolo l’ottima Giulia Fiore lo consiglia, ma
sicuro che può essere un libro che rende non dico più felici, ma forse più
sereni, soprattutto se preso per il suo giusto verso. Io ne avevo già visto la
versione cinematografica, uscita una decina di anni fa, perché interpretata
dall’ottima Julia Roberts. Un film non eccelso, ma lo ricordavo godibile.
Per questo, al termine di un viaggio asiatico, in cui sono
riuscito molto a rilassarmi, aspettando una coincidenza a Seoul, e non avendo
trovato niente che mi convincesse su Giappone o Corea, ho pensato che come
“libro da viaggio” questo potesse essere un buon surrogato. Si svolge per 2/3
in Asia, e ricordavo che, almeno nel film, c’erano alcuni momenti di
riflessione personale della protagonista che potevano valer la pena.
La lettura si è poi persa in alcuni meandri di aspettative
di altro. Ora ne riprendiamo le fila, prima di tutto scordandoci completamente
il film, e dedicando i nostri piccoli neuroni al testo. Anche all’autrice,
direi, che quest’anno ne fa cinquanta, e quindi all’epoca della scrittura era
una 37enne già dedita a belle scritture. Questo libro tripartito narra poi, in
maniera poco velata, ma con qualche nascondino qua e là, le vicissitudini
dell’autrice stesse. Giornalista, sposata, nel 2002 attraversa un difficile
divorzio, ha una relazione con un suo coetaneo americano, con cui si prende e
si lascia continuamente. Fino a che, sull’onda di un consiglio ricevuto da un
uomo di medicina indonesiano, e seguendo i dettami del suo Guru spirituale
indiano, decide di dedicare un anno della sua vita alla ricerca di qualcosa. Di
sé stessa, forse, di tutto, anche, o come dice lei stessa, di Dio, anche se usa
questo termine in termine più generali. Oserei trasformarlo in una deità di
riferimento.
Quando deve organizzare questo viaggio, decide di dividerlo
in tre parti, ognuna di 4 mesi. La prima alla ricerca del piacere. La seconda
alla ricerca della devozione. La terza alla ricerca di un bilanciamento tra le
prime due. Le sue riflessioni (e le indicazioni sopraesposte) la portano ad
individuare tre paesi per queste tre esperienze. Tutti e tre, stranamente
(vorrà dire qualcosa a qualcuno), iniziando con la lettera “I”: Italia, India e
Indonesia. La scrittura scorre veloce, le sensazioni si accumulano, anche se il
coinvolgimento emotivo non è grandissimo.
Alla fine, per me lettore un po’ sempre disincantato, anche
un andamento sbilanciato. Molto poco coinvolgente il piacere italiano. Alcune
punte di interesse nella devozione indiana. Meglio il finale bilanciato, più prospettico,
più sereno forse. Qualcuno, che vuole molto bene all’autrice, dirà che il
finale bilanciato è merito dello sbilanciamento delle prime parti. Può essere.
Tuttavia, il piacere, in Italia, per la scrittrice, oltre al fatto che fin da
quando era in America aveva interesse alla cultura ed alla lingua italiana,
dicevo questo piacere si riversa tutto sul cibo. Devo senz’altro convenire che
il cibo italiano è di gran lunga più piacevole di molte cose che avvengono in
giro per il mondo. Ma lo stare a Roma, il girare alcune città (piacevole la
puntata napoletana su cui torno), poteva essere condito da ben altro sugo.
Certo, Elizabeth dice che, proprio perché uscente da un
matrimonio e da una relazione faticose non cerca uno sfogo sessuale, anche se
si sente una tensione verso. Le cose migliori sono per me l’attacco, che
commento sotto. E la visita alla pizzeria di Michele a Napoli, quella che fa
solo Pizza Margherita, e che, nonostante o proprio per questo, è uno dei locali
più affollati di tutta Napoli. Un piccolo accenno di ricordi personali:
Elizabeth incontra il suo mentore di italiano in un Internet Point vicino al
cinema Barberini. Confermo, in quegli anni, lì ce n’era uno, con le pareti
arancioni, dove sono andato anch’io a volte.
I quattro mesi indiani servono a farci entrare nel mondo
dello Yoga duro e puro. Quattro mesi di ashram, di meditazioni, di sanscrito.
Quattro mesi di polvere, di parole, di silenzi. Questa doveva forse essere la
parte che andava in profondità verso la ricerca di “altro”, della deità di qui
sopra, forse. Riesce a farci capire che pensando e ripensando, riesce a
staccarsi dalle pene americane. Ma non riesce a comunicarcelo. Come al solito,
non bastano le parole soltanto per dire e per dare. In Italia la descrizione
del cibo non dava il piacere di mangiarlo. In India la descrizione della
devozione non ci dà gli strumenti per capire il percorso della scrittrice.
Come dicevo, si va meglio in Indonesia. Anzi, per la
precisione a Bali. Dove incontra finalmente solo persone solari: Ketut, il suo
uomo di medicina, Wayan, la sua sorella spirituale, e Felipe, che riuscirà a
bucare la corazza di Elizabeth, riportandola sulla terra. Sempre con la
capacità (si intuisce nelle pieghe dei discorsi) di continuare a meditare, a
pensare, a riflettere, su sé stessa, sugli altri, e sul rapporto tra queste due
entità e tra questi e il mondo. Mentre le prime due parti passano con qualche
accenno, qui, anche se più condensati, ci sono molti avvenimenti. Che non
descrivo, in cui non entro, che vi lascio leggere (o vedere nel film, se
preferite). Comunque, la parte indiana avrebbe dovuto dare una svolta al testo,
invece a me è più piaciuta la parte balinese, soprattutto per quei pochi, ma
non banali, ragionamenti sull’amore. A cui bisogna aprire il cuore ma
soprattutto la mente.
In fondo, alla fine, è più quello che mi dà l’idea del libro
che il libro stesso. Per finire alcune altre chicche, oltre quella sopra
riportata su via Barberini. Spesso Elizabeth ed i suoi amici italiani si
salutano con questo giochetto molto english: “See you later, alligator!” cui si
risponde “In a while, crocodile!”. Una piccola imprecisione ci sarebbe a pagina
45: a piazza del Popolo si correva a cavallo nel Medioevo; quello che cita
l’autrice sono le corse dei carri, che invece si svolgevano a Piazza Navona.
Altro punto, forse un po’ di parte: a pagina 47 viene citato come il miglior
gelato quello di “San Crispino”. Forse la nostra autrice dovrebbe anche provare
cioccolato e pistacchio di via dei Gracchi! Ovvio che la parte “romana” mi ha
divertito, pur se nel complesso, come detto, ha una sufficienza molto, molto
risicata.
“I wish Giovanni would kiss me.” [si capisce anche se non la traduco, e quanto ho aspettato
che qualche donna me lo dicesse!] (7)
“I thought of how many people have had siblings or
friends or children or lovers disappear from their lives before precious words
of clemency or absolution could be passed along.” [Ho pensato a quante persone hanno avuto fratelli o amici o
figli o amanti che sparivano dalle loro vite prima che preziose parole di
clemenza o di assoluzione potessero essere scambiate] (247)
“I like that he’s traveled through over fifty
countries in his life, and that he sees the world as a small and managed
place.” [Sono contenta che abbia
viaggiato in oltre cinquanta paesi nella sua vita e che consideri il mondo un
posto piccolo e gestibile] [mia nota: io ho viaggiato in più di ottanta paesi…]
(367)
Finalino
Anche per questa lettura da caldo estivo, ripeto quanto
detto per quella primaverile: forse non renderà più felici, ma di certo
alleggerisce qualche fardello che portiamo sulle spalle.
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