domenica 20 dicembre 2020

Gialli per Natale - 20 dicembre 2020

 Una settimana rilassante, in attesa delle chiusure natalizie, cui dovremo dedicarci a mettere un po’ d’ordine nelle nostre librerie. Qualche giallo d’annata (dagli anni Venti ai Cinquanta) ed una puntata in Islanda, che sempre ci resta nel cuore. Qualche lettura forse un po’ filologica e datata (le ultime due in particolare). Ma nel complesso una settimana di godibile relax.

Edgar Lustgarten “Signori della corte …” TEA euro 10

[A: 22/02/2018 – I: 30/07/2020 – T: 31/07/2020] - &&& e ¾

[tit. or.: A Case to Answer; ling. or.: inglese; pagine: 252; anno 1947]

Eccoci tornati alla grande fucina “mystery” delle edizioni TEA, questa volta facendo un altro salto all’indietro per tirar fuori dalla memoria un autore, ora sconosciuto, ma all’epoca ben saldo nelle top ten dei gialli. In particolare, dei gialli da dibattimento, quelli poi divenuti classici con Perry Mason e compagnia. Anche se qui, all’inglese, ci si ferma su due punti: il delitto ed il dibattimento in aula.

Tanto che gli editori italiani hanno pensato di utilizzare nel titolo il classico incipit dei processi in Inghilterra: “Signori della corte…”. Mentre l’autore aveva ben pensato di indirizzare il lettore verso una domanda cui bisognava dare una risposta. Cioè, gli elementi indiziari sarebbero stati sufficienti a pronunciare una condanna di colpevolezza dell’imputato?

Ma prima facciamo un passo indietro, parlando di questo autore praticamente ignoto in Italia. Lustgarten, tanto per iniziare, è un toro (3 maggio) e questo già ce lo mette in buona luce. Nasce avvocato, per poi dedicarsi a commentare, su carta, in radio e poi anche in televisione, omicidi e misteri dell’Inghilterra pre e post Seconda guerra mondiale. Ha anche un discreto successo, tanto che un suo discorso di commento ad un processo venne anche campionato ed inserito in una hit australiani degli anni ’80. Fino ad essere imitato nel grande spettacolo del ’75, il “Rocky Horror Picture Show”.

Questo romanzo, cui ora torniamo, è secondo me giustamente indicato come una pietra miliare del “legal thriller” ante-litteram. Tutto il libro si snoda intorno al processo, per rispondere alla domanda di cui sopra.

C’è una prostituta barbaramente assassinata. E c’è una sola persona che può essere incriminata. Si tratta di Arthur, trentenne sposato con due figlie, che da qualche mese, incontrando Kate, la donnina di facili costumi, ha un cambiamento radicale nel suo sentire. Certo, non pensa di mollare famiglia e lavoro, ma si sente che ha un grosso debole per Kate. Vorrebbe che smettesse il lavoro poco edificante, dicendole di volerla mantenere. Vorrebbe che smettesse di bere, riuscendo solo in parte a frenarla. Le fa scenate continue, con alterchi vistosi nel pub che frequentano. La sera del delitto si aggira agitato nel loro pub, litigando con tutti. Poi va a casa di Kate, stranamente non riesce ad entrare dalla porta che dovrebbe essere sempre aperta. Si fa aiutare dalla vicina che non ha problemi, e trovano Kate squartata in casa.

Facile accusarlo, difficile provare il delitto. Ci sono prove indiziarie. Arthur potrebbe aver ucciso Kate tra le sei e le sette, ma lui dice che si trovava in un altro pub, dove però nessuno sembra averlo visto. Sul corpo ci sono colpi e colpi di un coltellino di proprietà di Arthur, che lui dice aver regalato a Kate, ma nessuno lo sa. La porta si apre sempre al primo colpo, ma la vicina dice che ogni tanto, ogni tre o quattro mesi, inspiegabilmente si blocca. C’è quindi una feroce battaglia a colpi di arringhe e di interrogatori che si svolge nell’aula del tribunale, tra l’accusa portata avanti da uno svogliato ma capace Sir Charles, e la difesa, accurata ma un po’ triste dell’avvocato Bedrick.

Lustgarten, ogni tanto, si assenta dall’aula, ci porta in giro, a conoscere la moglie di Arthur, il padre di Kate ed altri personaggi minori. Ci presenta anche due persone che potrebbero essere fondamentali nel processo: un avventore del pub che riconosce Arthur nelle foto dei giornali, ed un’amica di Kate che ha visto il coltellino nella borsa della morta. Ma i due hanno problemi di varia natura con la giustizia, e non si fanno avanti.

Si rimane così alla battaglia sulle arringhe finali, e su quella domanda riportata in alto. Come risponderanno i giurati? E la risposta, quella che sia, sarà definitiva? Il finale è, insieme alle arringhe, uno dei pezzi forti del romanzo. Che di certo risente dell’età, in fondo son passati più di settanta anni, e di qualche lentezza cui non siamo abituati. Scritto ora, gli avvocati sarebbero di certo più rampanti, i dialoghi più tesi. Ma il nostro riesce a creare bene l’atmosfera tribunalesca londinese. Caratterizza in modo egregio i due avvocati. E, ripeto, ci sforna un finale degno di nota.

Una buona lettura, un po’ più che soltanto filologica.

Arnaldur Indriðason “Un delitto da dimenticare” TEA euro 11

[A: 22/02/2018 – I: 08/08/2020 – T: 10/08/2020] - &&& +

[tit. or.: Kamp Knox; ling. or.: islandese; pagine: 314; anno 2015]

Eccoci tornati al mio primo amore islandese, dopo un paio d’anni che covava sotto la cenere. Comperato in un giorno eponimo (il compleanno del mio amico Luciano), e letto nell’unico, per ora, momento di relax eoliano di quest’anno discretamente complicato. Non solo, ma letto anche a ruota di un altro libro islandese, l’ottimo romanzo di Stéfansson con quel titolo vagamente montaliano. Una bella immersione in una terra che mi ha fatto innamorare a prima vista (anche se confesso di averla visitata solo nei mesi estivi, considerati bene o male caldi, quindi non saprei dirvi le mie possibili impressioni invernali).

Ma veniamo al commissario Erlendur, il protagonista che mi ha fatto conoscere ed amare Indriðason. Sono contento che lui ritorni in prima persona, che le sue storie risultano più interessanti. Anche se, come in questo caso, facciamo dei piccoli salti temporali all’indietro. Visto che gran parte della vicenda principale si svolge nella base americana di Keflavik, ben prima che venisse smantellata nel 2006, e che tutta la zona venisse dedicata al nuovo aeroporto internazionale. Anzi, facendo dei calcoli su quanto si dice e quanto si collega, direi che siamo intorno al 1980 (o poco prima).

Come sovente decide, il nostro autore ci presenta più casi durante uno stesso romanzo, anche se qui rimangono soltanto due indagini a focalizzare la nostra attenzione.

La prima e principale indagine ruota attorno al corpo di un uomo islandese, ritrovato in un lago, la futura Laguna Blu, in una condizione che fa pensare ad una vertiginosa caduta su una superficie dura. Il problema è che l’uomo, Kristvin, lavorava all’allora base americana installata vicino alla Laguna. E che la Laguna è piatta. Erlendur ormai lavora in pianta stabile nella Polizia, come aiuto di Marion (che abbiamo conosciuto nei due romanzi precedenti). Ma i nostri avranno del bello e del buono a lavorare a questo enigma. Che le autorità militari rifiutano di collaborare. Salvo la bella Caroline. Che si trova solidale nell’emarginazione in quanto donna di colore in un ambiente bianco e razzista.

Ma l’omicidio, la cui soluzione comunque è interessante, serve ad Arnaldur per la denuncia di due problemi. La prima riguarda la presenza militare americana in Islanda. Arnaldur, attraverso Erlendur, si dimostra ferocemente antimilitarista. Ed ha anche aggio di stigmatizzare la presenza americana nella vicina Groenlandia, con il sospetto di una installazione, nascosta e proibita, di armamenti nucleari. Il secondo problema è il razzismo, verso Caroline, in prima battuta. Ma anche degli americani verso gli islandesi in genere, che loro, la razza eletta, considerano degli zoticoni, dalla lingua impossibile, desiderosi dei prodotti americani ma ostili agli americani stessi. Come possono i super militari americani comprendere una nazione senza esercito, dove neanche la polizia è armata?

Tornando all’omicidio, comunque, perché Kristvin, questo lavoratore islandese, è stato assassinato? Era troppo curioso e ha visto quello che non avrebbe dovuto vedere mentre lavorava in un hangar, dove sono immagazzinati aerei cargo americani? O è più prosaicamente una semplice storia di adulterio su uno sfondo di violenza domestica? Avrete modo di scoprirlo leggendolo.

E leggendo vi appassionerete come me alla seconda indagine, dove Erlendur cerca di trovar traccia di un “cold case”: la scomparsa di Dagbjört, una giovane ragazza, che non è mai arrivata a scuola nel lontano 1953 (un anno che mi ricorda qualcosa). Tutte le tracce della scomparsa a poco a poco svaniscono, i personaggi muoiono. Solo Erlendur non si arrende mai. Trova casualmente un brano di un diario della giovane, e da lì ricostruisce passo dopo passo tutta la vicenda, svelandocene i tristi retroscena finali. C’è anche un tentativo, neanche troppo velato, di collegare le due storie. Che Dagbjört pare frequentasse una persona che dormiva nelle caserme dell'esercito americano, che all’epoca formavano una sorta di baraccopoli, chiamata Kamp Knox. Case fatiscenti, senza acqua corrente, umide. Gli abitanti potevano essere solo potenziali delinquenti, che la buona società di Reykjavik, stigmatizzava. Altro bel razzismo.

Ritengo non tanto velato il doppio collegamento, dato che il titolo originale del romanzo è proprio “Kamp Knox”.

Al solito, quello che più mi affascina poi è l’atmosfera islandese dura e pura che si respira in ogni pagina. Panorami mozzafiato, freddo, lunghi inverni, rocce spruzzate di neve, mare che si frange sulle scogliere, il rumore delle onde, i tramonti fantastici. In più qui, Arnaldur unisce anche un po’ di musica, che non fa mai male. Dal blues americano che piaceva a Dagbjört, alle canzoni islandesi degli anni ’60, magari riprese da Björk (se riuscite, provate a sentire “Gling Gló”).

Stiamo risalendo, Arnaldur.

J. J. Connington “Il caso con nove soluzioni” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 19/08/2020 – T: 20/08/2020] - && e ¾

[tit. or.: The Case with Nine Solutions; ling. or.: inglese; pagine: 266; anno 1928]

Eccoci ad un nuovo giallo filologicamente interessante, visto anche che si avvia ai cento anni della scrittura. Con anche un autore interessante, che il nome su riportato è uno pseudonimo di un illustre chimico di inizio secolo scorso, Alfred Walter Stewart, docente in quel di Glasgow ed “inventore” del termine “isobaro” per indicare i nucleidi di egual peso contrapposti agli “isotopo”, nucleidi di egual massa.

Abbastanza saturo (mi scuso il termine) di chimica ed accademia varia, decide di dedicare parte del suo tempo libero ad imbastire trame gialle. Spesso, com’è ovvio, intrecciate con elementi derivanti dal suo lavoro. Altrettanto spesso, poi, legati a qualche personaggio seriale. Come il suo più famoso: il capo della polizia sir Clinton Driffield, che compare in numerosi romanzi, ed anche in questo, considerato un classico esempio del genere.

Devo dire che, pur avendo alcuni elementi interessanti, risente molto della lontana scrittura, per alcune situazioni, per alcuni termini, e per altre se vogliamo minuzie, ma che ne rivelano l’età. Come ad esempio la ioscina, un alcaloide che gioca un piccolo ruolo nella trama, e che siamo invece adusi a sentirlo nominare come “scopolamina”, sostanza che ricordo a volte usata da Diabolik nei suoi scopi criminali.

C’è comunque da rilevare che l’inizio è sorprendentemente moderno. In base ad una serie di telefonate, un dottore invece di andare a trovare una paziente affetta da scarlattina, entra in una casa vicina e scopre un morto con due fori di pallottola nel petto. Chiama la polizia, che si presenta appunto con sir Clinton, insieme vanno nella casa della paziente (unica nelle vicinanze con telefono) e scoprono la seconda domestica morta strangolata. Infine, il giorno seguente, in base ad una segnalazione anonima, sir Clinton si reca in un villino dove scopre una donna morta, colpita post mortem da una pallottola.

Le tre morti sono discretamente collegate: l’uomo e la donna si frequentavano abitualmente, la domestica era al servizio della donna. La donna poi è sposata ad un chimico che gestisce un laboratorio, dove l’uomo pare essersi innamorato di una ricercatrice, e dove la seconda ricercatrice era stata fidanzata con il morto, che l’aveva lasciata pensando di far colpo sulla morta. Intorno c’è anche l’aiuto del marito della morta, che tre anni prima sembrava aver un debole per lei, per poi evitare sempre di frequentarla, e c’è il padre del morto, arrogante e molto ma molto antipatico.

Lasciando da parte la domestica, che si capisce sia stata uccisa perché qualcuno voleva recuperare degli effetti della morta, sir Clinton ci delizia con i suoi ragionamenti, che ci portano diritti al titolo del romanzo. Poiché ci sono tre possibilità di morte: incidente, suicidio e omicidio. E ci sono due morti, il calcolo combinatorio ci fa subito edotti che sono possibili 9 combinazioni di tre elementi in due posti (dati dalla formula tre al quadrato). L’idea dell’autore, aiutato sia dall’ispettore a capo delle indagini, ma soprattutto da sir Clinton, è di analizzare le varie “soluzioni”, eliminarle quelle improbabili o impossibili, ed arrivare ad isolarne una, che sarà “LA” soluzione del caso.

È ovvio che dopo la partenza “moderna”, molto romanzo è lento e dedicato a queste discussioni, anche se ci sono movimenti, agnizioni, scoperte e finalini. Però tutto è molto datato, poco altrettanto valido tuttora. Tant’è che, personalmente, avevo puntato il dito sul colpevole sin prima di pagina 50 (è una pagina casuale, per dire molto presto, non cercate interpretazioni occulte).

La seconda “modernità” del romanzo, che insieme alla prima ne fa quasi raggiungere la sufficienza, è la chiusa. Per tutto il romanzo, sir Clinton dice di pensare questo o quello, fa una cosa e poi un’altra, lasciando sempre sconcertato il suo ispettore. Sir Clinton dice anche di sapere perché lo fa. Ebbene, l’ultimo capitolo, dopo che tutto si è risolto, l’autore lo dedica alle riflessioni ed ai pensieri di sir Clinton durante le varie fasi dell’indagine. In effetti, io e Clinton abbiamo ragionato in parallelo, e ne sono contento. Ma mi rendo anche conto, che se gli stessi ragionamenti fossero stati inseriti in corso di romanzo, il romanzo stesso sarebbe caduto in basso nelle pur piccole tensioni che provoca.

Quindi, un buon elemento storico, qualche passo interessante, una costruzione dignitosa, per una collana sempre interessante.

“Spòsati in fretta e pèntiti con comodo.” (166)

Guy Cullingford “Il morto che non riposa” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 24/08/2020 – T: 25/08/2020] - && e ½ 

[tit. or.: Post Mortem; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 1953]

Continuo nell’infornata di MysteryTea entrati in massa nelle mie librerie due anni e mezzo fa. E sebbene questo sia stato scritto in un anno eponimo, anche lui non arriva che a due e mezzo.

Intanto, risolviamo il primo mistero. Guy Cullingford non esiste, ma è lo pseudonimo di Constance Lindsay Taylor, una scrittrice e poetessa inglese, che come molte autrici del suo tempo decide di nascondersi dietro un nome maschile. Comunque, Constance conferma la tendenza alla longevità delle scrittrici di gialli, essendo morta nel 2000 a 97 anni.

Il secondo mistero, ormai endemico nelle mie trame, è lo stravolgimento del titolo. Perché il morto dovrebbe o non dovrebbe riposare? Quando tutta la trama, ed anche gli unici momenti di godibilità, arrivano proprio dal fatto che sia tutto collegato al “post” della morte.

In realtà, il 90% della bellezza e della novità del testo è proprio data dal fatto che il detective che indaga sulla morte di Gilbert Worth sia … lo stesso Gilbert, a mo’ di fantasma. Certo, per noi scettici, il fatto che sia il fantasma a reggere tutto il libro, risulta alquanto problematico. E tutto sommato, il tentativo nell’epilogo di mischiare le acque è anch’esso da sottolineare per la sua novità. Poiché (forse) i fantasmi sono tutti da dimostrare, l’autrice fornisce due possibili soluzioni, entrambe con delle possibilità reali.

Altro punto poco a favore del testo, è il fatto che in realtà l’investigazione, la trama gialla, è ridotta praticamente a zero. Dopo la morte, Gilbert comincia a cercare di capire chi sia l’autore del “misfatto” (omicidio o suicidio), ma quello che fa non è altro che aggirarsi tra le mura di casa, ascoltare i possibili colpevoli parlare, annotarne le frasi, ed arrivare ad un finale, che sembra quanto mai semplice, immaginabile, insomma, assolutamente poco “giallo”. Certo, quel secondo finale tenta di mescolare le carte, e pare riuscirci, ma poi cade nel dover razionalizzare tutto.

Peccato perché, emula di Agatha Christie con le sue scritture “particolari”, l’idea che il morto sia l’investigatore che cerca di capire come sia morto, è intrigante. Dopo due tentativi falliti di attentare alla sua vita, Gilbert si addormenta nel suo studio, e si risveglia … morto. Ma è stato qualcuno ad ucciderlo o, come crede la polizia, è stato un suicidio?

Facciamo finta di credere ai fantasmi, e quindi seguiamo la trama nel suo svolgersi. Ci sono tanti possibili colpevoli se, come Gilbert sostiene, si tratta di un omicidio. Gilbert ha sempre trattato molto male i suoi tre figli. Sono forse stati loro, in combutta, o uno di loro, esasperato nella mancanza di rispetto del genitore teutonico? Julien che il padre non vuole faccia lo scrittore? Robert che il padre non vuole faccia il prete? Juliet che contesta al padre le continue “scappatelle”? Potrebbe essere stata la sua segretaria – amante, per cercare di migliorare la sua posizione, magari convolando con uno dei figli? La moglie, che Gilbert mette alla berlina in uno suo libro (ritenuto forse il migliore della sua produzione), e che dopo anni e anni di accumulo di rancore, sbotta e spara? Qualcuno del personale domestico? Il vicino militare, che da anni fa la corte silenziosa alla moglie di Gilbert? Il suo avvocato? Il suo editore?

La piccola abilità dell’autrice è nel far girare la trottola delle possibilità tra tutti i possibili esecutori. Ma è una trottola che gira piano, che ad ogni sospetto si capisce subito che sia poca la possibilità che sia realmente il colpevole. Meno due persone: il (o la) possibile omicida e Gilbert stesso che, nonostante tutto, potrebbe essersi suicidato.

Tuttavia, Gilbert non fa che ascoltare e riportare, con il risultato che quello che scopre, più che l’andamento del crimine, è una serie di “verità” sulla sua persona, dove, colloquio dopo colloquio, risulta sempre più antipatico a tutti.

Certo, risente molto della mia età, e se pur qualche passaggio descrittivo degli ambienti inglesi degli anni Cinquanta può suscitare un minimo di interesse, il contenuto investigativo, ripeto, è praticamente inesistente.

Potete anche esimervi dal leggerlo.

“È pigro e sudicio, ed è un vero e proprio bolscevico. … [Veramente] ora li chiamiamo comunisti. … è la stessa cosa … sono bolscevichi nell’anima.” (178) [stupendo passaggio]

Terza trame di dicembre, e quindi eccovi un libro leggero che insieme a Julia Roberts ci si aspetta porti di nuovo su qualche aereo.

Allora, saremo chiusi. Natale con i tuoi, nel senso più stretto del termine. Natale nel pensiero, però, anche a tutti quelli che compongono le nostre costellazioni di vita. Pensieri reali, abbracci virtuali.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2020

Rimaniamo sui malanni stagionali, proponendo una lettura solare, estiva, e soprattutto stimolante verso i viaggi che si tornerà a praticare.

MALANNI DI STAGIONE 2

Elizabeth Gilbert “Mangia, prega, ama” (2006)

Pillole di trama

Il titolo originale del romanzo ne spiega anche la trama: “Eat, Pray, Love. One woman's search for everything across Italy, India and Indonesia”, ovvero il viaggio di una donna alla ricerca di tutto (cioè sé stessa) tra l’Italia, l’India e l’Indonesia.

Supposta-saggezza

Elizabeth ha tutto per sentirsi realizzata: è giovane, ha un marito, una bella casa e una carriera avviata come giornalista. Eppure, è infelice e, dopo ripetuti pianti in bagno e preghiere disperate, decide di separarsi. Inizia una nuova relazione ma le cose non migliorano. Comincia a pensare che il problema deve essere alla radice, ovvero proprio in lei. Invece di cedere alla depressione, decide di prendersi un anno sabbatico per viaggiare alia ricerca di risposte. La prima tappa è l’Italia, dove scopre il piacere: tra bellezze artistiche e nuovi amici, il cibo si rivela la migliore terapia per imparare a godersi la vita addentandola con gusto, arrotolandola come spaghetti al pomodoro, assaporandola come un gelato o un caffè bollente e facendola filare come la mozzarella sulla pizza. In India, invece, si dedica alla spiritualità meditando e digiunando in un Ashram (digiuna anche perché in Italia a forza di godere e di dolce far niente, ha messo su parecchi chili) mentre a Bali trova l’equilibrio tra piacere e spirito, anima e corpo, aprendosi alla vita e abbandonandosi all’amore. Qui Liz guarisce dalla sua tristezza, finalmente consapevole che se si è in grado di sorridere, anche la vita ti sorride. E magari anche un uomo ti sorride, se sei fortunata come lei. Scoprendosi cambiata, sicura e soddisfatta di sé, Elizabeth è ora capace di condividere l’amore con un’altra persona perché non si può stare bene in due se non si sta bene con sé stessi.

Attraverso un diario che è una confessione, l’autrice racconta la sua personale esperienza di anima inquieta alla ricerca di un po’ di pace. Il lettore la segue in ogni tappa di questo suo viaggio (anche spirituale) in cui ogni anima inquieta non può che sentirsi coinvolta. “Mangia prega ama”: nel titolo è contenuta la ricetta della felicità. Basterebbe questo per stare bene. Il problema è che prima bisogna imparare a mangiare, pregare e amare. E imparare a farlo bene.

Posologia

Se soffrite di improvvise e ingiustificate crisi di pianto, se la vostra vita sembra perfetta ma vi sentite comunque infelici e insoddisfatti, se è fallita l’ennesima relazione (e sì che credevate fosse quella giusta), se sentite il bisogno di dare una svolta definitiva ma vi manca il coraggio di ricominciare da capo o se avete paura di stare soli con voi stessi, in tutti questi casi la somministrazione di “Mangia prega ama” si rivela più che opportuna. Il libro è una sorta di percorso curativo dell’anima, un viaggio terapeutico articolato in tre tappe per guarire dall’insoddisfazione e reintegrare la quota fisiologica di piacere, devozione ed equilibrio.

Anche se la vostra vita è praticamente un disastro, siete single, disoccupati e vi sentite orribili, il romanzo è un’iniezione di sicurezza in quanto dimostra che non sempre una vita perfetta, con tutte le caselle riempite, comporta la felicità, come l’autrice ha provato sulla propria pelle. In caso di confusione o episodi di labirintite esistenziale, questa consapevolezza facilita il recupero dell’equilibrio necessario a tenere in bilico le proprie e le altrui emozioni (la stabilità non è una condizione oggettiva ma una sensazione determinata dall’equilibrio). Liberare la mente dal pensiero malato che la perfezione sia sinonimo di felicità è una grande conquista per la salute.

Si consiglia l’assunzione del romanzo autobiografico di Elizabeth Gilbert in primavera-estate, quando corpo e spirito sono maggiormente predisposti al cambiamento e si può contare sull’intraprendenza necessaria per cominciare qualsiasi viaggio, anche spirituale. “Mangia prega ama” è indicato per uscire dall’inverno del proprio scontento e, complice l’aumento delle ore di luce, illuminarsi nel tentativo di ritrovare sé stessi.

Effetti collaterali

È stato documentato che alcuni lettori, dopo aver seguito il romanzo alla lettera, si sono ritrovati con qualche chilo in più. La parte godereccia in Italia è un’istigazione a delinquere a tavola. In alcuni casi, più rari, i lettori hanno anche manifestato il desiderio impellente di precipitarsi nella prima agenzia di viaggi a portata di mano per organizzare una vacanza in India e a Bali.

Consigli

Se volete sapere quanto la cura “Mangia prega ama” sia efficace a lungo termine, potete leggere il romanzo in cui l’autrice racconta la sua vita dopo il viaggio. Inedito in Italia, basta il titolo per capire come si è evoluta la situazione: “Committed: A Skeptic Makes Peace With Marriage”. Che tradotto letteralmente vuol dire: «Impegnata: una scettica fa pace con il matrimonio». Che tradotto ancora vuol dire che alla fine del viaggio Elizabeth, oltre ad aver trovato l’amore, ha fatto anche pace con il matrimonio. Che abbia trovato pace anche la sua inquietudine?

Terapia cinematografica sostitutiva

Ambientato tra l’Italia, l’India e l’Indonesia, in costante equilibrio tra ironia e saggezza, amore e spirito, era praticamente scontato il passaggio di “Mangia prega ama” dalla pagina al grande schermo. Ci ha pensato Ryan Murphy scegliendo come protagonista Julia Roberts. L’attrice ha un sorriso contagioso che sintetizza bene la riscoperta della gioia di vivere della protagonista. Solo che il sorriso delia Roberts è, paradossalmente, l’unico elemento serio che il regista e gli sceneggiatori hanno colto dello spirito del libro. La tristezza, la solitudine e la complessità del viaggio diventano nel film un tour più spiritoso (a tratti piagnucoloso) che spirituale. Può risultare particolarmente urticante la parte ambientata in Italia per la sua natura stereotipata e pure un po’ datata: praticamente sembra che da noi si mangi, si gesticoli, si amoreggi e si viva come negli anni Cinquanta, e ci si dedichi esclusivamente al “dolce far niente”. Purtroppo, siamo un po’ più complessi di così. Le cose si fanno più lacrimose in India ma decisamente più intriganti a Bali. Quindi tenete duro fino all’arrivo dell’amore che ha il fascino non convenzionale di Javier Bardem. Questo per dirvi che prega che ti riprega, almeno il film ci dà la speranza (o l’illusione) che l’uomo dei sogni arriva e potrebbe essere anche piuttosto affascinante. (Detto fra noi, conviene pregare anche di non dover arrivare fino in Indonesia per trovarlo). Se è l’uomo dei sogni che cercate, continuando a sfruttare il principio attivo di Julia Roberts e del suo contagioso sorriso, può essere salutare una cura a base di “Pretty Woman”. E, mi raccomando, continuate a pregare che vi capiti la stessa fortuna di quella «granculo di Cenerentola», tanto per citare il film.

Avvertenza: se la cura indica la strada per trovare un equilibrio, non necessariamente assicura che alla fine del viaggio ci sia l’amore ad aspettarci. Se ciò non si verificasse, non resta che mangiare e pregare. Mangiare per colmare il vuoto d’affetto e pregare per trovare finalmente l’altra metà della mela (tanto per rimanere in tema). Oppure potreste colmare eventuali vuoti emotivi ricorrendo a un rimedio letterario che si dimostra efficace sulla metà della popolazione femminile mondiale: i romanzi rosa. Particolarmente indicati durante il periodo estivo, quando il bisogno di evasione è maggiormente pronunciato, lo stress lavorativo si fa più opprimente e il sogno di un principe azzurro rischia di diventare l’incubo delle notti afose in letti solitari, i romanzi di Anna Premoli consentono una scorpacciata di romanticismo utile a contrastare apnee notturne e palpitazioni diurne. “Ti prego lasciati odiare”, “Come inciampare nel principe azzurro”, “Finché amore non ci separi”, “Tutti i difetti che amo di te”, “Un giorno perfetto per innamorarsi” garantiscono una copertura totale e prolungata a base di litigi amorosi e principi azzurri che si nascondono sotto le mentite spoglie di uomini che apparentemente suscitano solo antipatia. Oltre ad allentare le tensioni e migliorare l’attività del cuore, la lettura della Premoli giova alla salute degli occhi: qualche pagina al bisogno consente di migliorare la qualità della vista, favorendo il fisiologico passaggio da una visuale dominata dal colore nero a una, più romantica e positiva, in rosa.

Commenti

Letto quasi due anni fa, ma ancora attuale per l’anima serena che emana. Non un titolo imperdibile, ma, come dico nel testo, un buon libro d viaggio.

Elizabeth Gilbert “Eat, Pray, Love – One Woman’s Search for Everything across Italy, India and Indonesia” Penguin euro 10

[pubblicato il 14 aprile 2019]

Non so a che titolo l’ottima Giulia Fiore lo consiglia, ma sicuro che può essere un libro che rende non dico più felici, ma forse più sereni, soprattutto se preso per il suo giusto verso. Io ne avevo già visto la versione cinematografica, uscita una decina di anni fa, perché interpretata dall’ottima Julia Roberts. Un film non eccelso, ma lo ricordavo godibile.

Per questo, al termine di un viaggio asiatico, in cui sono riuscito molto a rilassarmi, aspettando una coincidenza a Seoul, e non avendo trovato niente che mi convincesse su Giappone o Corea, ho pensato che come “libro da viaggio” questo potesse essere un buon surrogato. Si svolge per 2/3 in Asia, e ricordavo che, almeno nel film, c’erano alcuni momenti di riflessione personale della protagonista che potevano valer la pena.

La lettura si è poi persa in alcuni meandri di aspettative di altro. Ora ne riprendiamo le fila, prima di tutto scordandoci completamente il film, e dedicando i nostri piccoli neuroni al testo. Anche all’autrice, direi, che quest’anno ne fa cinquanta, e quindi all’epoca della scrittura era una 37enne già dedita a belle scritture. Questo libro tripartito narra poi, in maniera poco velata, ma con qualche nascondino qua e là, le vicissitudini dell’autrice stesse. Giornalista, sposata, nel 2002 attraversa un difficile divorzio, ha una relazione con un suo coetaneo americano, con cui si prende e si lascia continuamente. Fino a che, sull’onda di un consiglio ricevuto da un uomo di medicina indonesiano, e seguendo i dettami del suo Guru spirituale indiano, decide di dedicare un anno della sua vita alla ricerca di qualcosa. Di sé stessa, forse, di tutto, anche, o come dice lei stessa, di Dio, anche se usa questo termine in termine più generali. Oserei trasformarlo in una deità di riferimento.

Quando deve organizzare questo viaggio, decide di dividerlo in tre parti, ognuna di 4 mesi. La prima alla ricerca del piacere. La seconda alla ricerca della devozione. La terza alla ricerca di un bilanciamento tra le prime due. Le sue riflessioni (e le indicazioni sopraesposte) la portano ad individuare tre paesi per queste tre esperienze. Tutti e tre, stranamente (vorrà dire qualcosa a qualcuno), iniziando con la lettera “I”: Italia, India e Indonesia. La scrittura scorre veloce, le sensazioni si accumulano, anche se il coinvolgimento emotivo non è grandissimo.

Alla fine, per me lettore un po’ sempre disincantato, anche un andamento sbilanciato. Molto poco coinvolgente il piacere italiano. Alcune punte di interesse nella devozione indiana. Meglio il finale bilanciato, più prospettico, più sereno forse. Qualcuno, che vuole molto bene all’autrice, dirà che il finale bilanciato è merito dello sbilanciamento delle prime parti. Può essere. Tuttavia, il piacere, in Italia, per la scrittrice, oltre al fatto che fin da quando era in America aveva interesse alla cultura ed alla lingua italiana, dicevo questo piacere si riversa tutto sul cibo. Devo senz’altro convenire che il cibo italiano è di gran lunga più piacevole di molte cose che avvengono in giro per il mondo. Ma lo stare a Roma, il girare alcune città (piacevole la puntata napoletana su cui torno), poteva essere condito da ben altro sugo.

Certo, Elizabeth dice che, proprio perché uscente da un matrimonio e da una relazione faticose non cerca uno sfogo sessuale, anche se si sente una tensione verso. Le cose migliori sono per me l’attacco, che commento sotto. E la visita alla pizzeria di Michele a Napoli, quella che fa solo Pizza Margherita, e che, nonostante o proprio per questo, è uno dei locali più affollati di tutta Napoli. Un piccolo accenno di ricordi personali: Elizabeth incontra il suo mentore di italiano in un Internet Point vicino al cinema Barberini. Confermo, in quegli anni, lì ce n’era uno, con le pareti arancioni, dove sono andato anch’io a volte.

I quattro mesi indiani servono a farci entrare nel mondo dello Yoga duro e puro. Quattro mesi di ashram, di meditazioni, di sanscrito. Quattro mesi di polvere, di parole, di silenzi. Questa doveva forse essere la parte che andava in profondità verso la ricerca di “altro”, della deità di qui sopra, forse. Riesce a farci capire che pensando e ripensando, riesce a staccarsi dalle pene americane. Ma non riesce a comunicarcelo. Come al solito, non bastano le parole soltanto per dire e per dare. In Italia la descrizione del cibo non dava il piacere di mangiarlo. In India la descrizione della devozione non ci dà gli strumenti per capire il percorso della scrittrice.

Come dicevo, si va meglio in Indonesia. Anzi, per la precisione a Bali. Dove incontra finalmente solo persone solari: Ketut, il suo uomo di medicina, Wayan, la sua sorella spirituale, e Felipe, che riuscirà a bucare la corazza di Elizabeth, riportandola sulla terra. Sempre con la capacità (si intuisce nelle pieghe dei discorsi) di continuare a meditare, a pensare, a riflettere, su sé stessa, sugli altri, e sul rapporto tra queste due entità e tra questi e il mondo. Mentre le prime due parti passano con qualche accenno, qui, anche se più condensati, ci sono molti avvenimenti. Che non descrivo, in cui non entro, che vi lascio leggere (o vedere nel film, se preferite). Comunque, la parte indiana avrebbe dovuto dare una svolta al testo, invece a me è più piaciuta la parte balinese, soprattutto per quei pochi, ma non banali, ragionamenti sull’amore. A cui bisogna aprire il cuore ma soprattutto la mente.

In fondo, alla fine, è più quello che mi dà l’idea del libro che il libro stesso. Per finire alcune altre chicche, oltre quella sopra riportata su via Barberini. Spesso Elizabeth ed i suoi amici italiani si salutano con questo giochetto molto english: “See you later, alligator!” cui si risponde “In a while, crocodile!”. Una piccola imprecisione ci sarebbe a pagina 45: a piazza del Popolo si correva a cavallo nel Medioevo; quello che cita l’autrice sono le corse dei carri, che invece si svolgevano a Piazza Navona. Altro punto, forse un po’ di parte: a pagina 47 viene citato come il miglior gelato quello di “San Crispino”. Forse la nostra autrice dovrebbe anche provare cioccolato e pistacchio di via dei Gracchi! Ovvio che la parte “romana” mi ha divertito, pur se nel complesso, come detto, ha una sufficienza molto, molto risicata.

“I wish Giovanni would kiss me.” [si capisce anche se non la traduco, e quanto ho aspettato che qualche donna me lo dicesse!] (7)

“I thought of how many people have had siblings or friends or children or lovers disappear from their lives before precious words of clemency or absolution could be passed along.” [Ho pensato a quante persone hanno avuto fratelli o amici o figli o amanti che sparivano dalle loro vite prima che preziose parole di clemenza o di assoluzione potessero essere scambiate] (247)

“I like that he’s traveled through over fifty countries in his life, and that he sees the world as a small and managed place.” [Sono contenta che abbia viaggiato in oltre cinquanta paesi nella sua vita e che consideri il mondo un posto piccolo e gestibile] [mia nota: io ho viaggiato in più di ottanta paesi…] (367)

Finalino

Anche per questa lettura da caldo estivo, ripeto quanto detto per quella primaverile: forse non renderà più felici, ma di certo alleggerisce qualche fardello che portiamo sulle spalle.


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