Michael Connelly “Il
passaggio” Pickwick euro 10,90
[A: 22/01/2018
– I: 16/07/2020 – T: 18/07/2020] - &&&
+
[tit.
or.: The Crossing; ling. or.: inglese; pagine: 355;
anno 2015]
Siamo al ventinovesimo libro del grande
autore di thriller californiano, ed al ventunesimo in cui il protagonista è
l’amato ormai ex poliziotto Hieronymus (Harry) Bosch. Sulle sue origini e sul
corso delle sue vicende non torno più di tanto, che penso di avervi stufato
abbastanza. Che è uno dei personaggi che mi sono molto cari, e che ancora non
mi ha deluso, come altri. Certo, ha i suoi alti e bassi. Ma rimane con una sua
dirittura interna invidiabile, e con un immutato amore per il jazz che non può
che tenerci a lui legati.
Intanto devo dire che, benché abbia una
solida base di thriller, ben congeniata e che tiene avvinti, il nodo centrale
del libro sta tutto lì nel titolo. Anche se il passaggio italiano, rende meno
del “crossing” originario, quello che sta nel cuore del libro, è appunto il
passaggio di Harry dal lato della polizia a quello della difesa in tribunale,
al seguito del simpatico, ingegnoso, ed anche un po’ troppo scaltro
fratellastro Mickey Haller. O, più che passaggio, come dice l’inglese
“attraversamento”, quello di un confine. Quello tra la ricerca del colpevole e
la librazione di un innocente.
Finalmente, allora, esce allo scoperto la duplicità
dell’esistenza dei due fratellastri, già insita nella loro creazione. Due
elementi vicini seppur disgiunti. L’uno, Harry, che ha dedicato tutte le sue
energie alla ricerca del colpevole di ogni determinato crimine. L’altro,
Mickey, che impiega la stessa energia per dimostrare l’innocenza del suo assistito
(essendo lui avvocato), non essendo poi interessato a sapere chi sia il colpevole
né tanto interessato a consegnarlo alla giustizia.
Sappiamo dall’ultima vicenda che Harry era
stato messo in difficoltà, avendo agito ai limiti della legge, ma di sicuro con
poco rispetto dell’ordine costituito. Onde evitare ulteriori problemi, chiede
il pensionamento (anticipato seppur di poco), e si mette ad aspettare di avere
il dovuto dal suo ex-dipartimento. Harry conosce tutti i lati positivi, ma
anche, seppur con dolore, anche tutti i lati negativi del LAPD (il Los Angeles
Police Department). Per cui è abbastanza facile per Mickey coinvolgerlo nella
difesa di un nero accusato di una efferata uccisione di una donna bianca. Anche
se Mickey è un po’ lo sparring partner, che alla fine userà quanto trovato per
raggiungere il suo scopo, quello che al solito è al centro è Harry. Che prima
di attraversare il guado, cerca di capire il contorno degli avvenimenti.
C’è una donna morta senza alcun apparente
motivo, e c’è un nero incolpato del delitto attraverso le prove del DNA. Ma il
contesto è strano. Il nero, Foster, sembra avere un alibi: al momento del
delitto era con un uomo, un trans. Che ovviamente pochi giorni dopo muore.
Tutte queste coincidenze negative allarmano Harry, che si accorge delle
negligenze di chi segue le indagini e si butta su due elementi poco valutati
dalla LAPD. L’assenza di un orologio di marca e la possibilità che nel DNA ci
siano tracce di preservativo. La traccia migliore è l’orologio, dove seguendone
i passi a ritroso, Harry scopre che era stato dato a due poliziotti corrotti da
un dottore da loro incastrato con dei filmini pornografici. Ovvio che il
dottore morirà. I due lo rivendono ad un negozio di gioielleria gestito da due
immigrati vietnamiti, che lo rivendono ad un vicesceriffo che lo regala alla
moglie. Anche i vietnamiti muoiono. La moglie ne rovina il vetro, e nella
riparazione scopre che è rubato. Prima che ne possa parlare al marito
poliziotto, anche lei muore. Lei che è poi il motore primo della vicenda di cui
sopra.
Harry raccoglie tutte le prove, pur essendo
minacciato ad ogni passo dai suoi ex-colleghi. Essendo poi questo come detto il
filo rosso della vicenda. Harry è un poliziotto onesto, ma sa che ne esistono
di corrotti. E che a volte lo spirito di corpo è più forte della verità. Harry
non ha interesse nel dimostrare l’innocenza di Foster, ma ha interesse a
trovare chi ha ucciso la donna, e tutte le altre persone.
Per ora basta così, che ci sono tanti piccoli
colpi di scena, agganci con altri romanzi di Connelly, insomma tutto il mondo
costruito dal bravo autore californiano. Un thriller che si snoda sulla lama
del rasoio, rischiando ad ogni passo di finire in una strada senza ritorno. Ma
l’autore è un maestro nel non perdere la rotta, a farci vedere i problemi e le soluzioni,
ed a farci riflettere sul ruolo antagonista e solidale dei fratellastri Bosch e
Halley.
Finiamo come promesso con il jazz. Dove
abbiamo un bellissimo accenno ad una delle più belle ballate di John Coltrane,
quella dedicata alla moglie Naima. C’è un ringraziamento a “The Majesty of the
Blues” di Wynton Marsalis (che serve a risolvere un momento difficile) e un
passaggio sul sassofonista Kamasi Washington, uno dell’ultima generazione che
non conoscevo e che mi sembra interessante.
Mary
Roberts Rinehart “La scala a chiocciola” TEA euro 10
[A:
09/03/2018 – I: 30/08/2020 – T: 31/08/2020] - &&&
--
[tit.
or.: The Circular Staircase; ling. or.: inglese; pagine: 274;
anno 1908]
Circa tre anni fa lessi il primo romanzo di
Mary Roberts Rinehart, dove riportai parte della biografia della scrittrice ed
alcune notizie sul suo essere uno dei pionieri del genere. Ne riprendo alcuni
temi per chi lo avesse scordato.
Mary viene considerata l’Agatha Christie
americana, per l’andamento colloquiale dei suoi romanzi. Anche se comincia a
scrivere una quindicina di anni prima. Ha anche due caratteristiche peculiari,
nell’ambito poliziesco. La seconda, interessante ma meno “fondante”, è che per
prima utilizzò un maggiordomo come assassino. Da quel suo tardo romanzo, venne
poi la frase fatta “il colpevole è il maggiordomo”.
La seconda, iniziata con il primo romanzo
“L’uomo nella cuccetta 10”, ma sviluppata ed approfondita in questo (che non a
caso viene considerato il suo romanzo fondamentale) è il modo di scrivere
etichettato in inglese HIBK (“Had I but Known”) dato che spesso il narratore
delle vicende usa l’intercalare “se lo avessi saputo…”.
Frase che la signorina Rachel Innes,
narratrice della storia, ripete spesso (soprattutto nei primi capitoli).
Introducendo così l’affastellarsi di vicende, prese singolarmente poco
spiegabili, ma che alla fine, magari con qualche zoppia, vengono tutte
acclarate. Meno il mistero del titolo italiano, dove la chiocciola delle scale
(come nel film di Siodmak del ’46, che però è tratto da un romanzo diverso) è
detta “spiral”, mentre questa è solo una scala circolare, che porta dal piano
terra (in particolare, dalla stanza del biliardo) al primo piano, dove sono collocate
la maggior parte delle stanze da letto.
Rachel, zitella attempata ma non tanto,
decide infatti di affittare la casa dei signori Armstrong, temporaneamente in
California. Una magione su due piani, con 22 stanze e 5 bagni (waw!). Dal primo
giorno, rumori sinistri si sentono nottetempo. Spesso provenienti dalle parti
della scala incriminata. Poiché nessuno, e tantomeno Rachel, crede ai fantasmi,
qualcosa di misterioso accompagna l’esistenza della casa. Scopriamo qualche
dettaglio all’arrivo dei due nipoti di Rachel, Hansley e Gertrude. Lui è
innamorato di Louise Armstrong, figlia di Paul il proprietario della casa. Lei
invece lo è di Jack Bailey, cassiere della Traders Bank, la banca gestita da
Paul. Nelle vicinanze, si aggira anche l’altro figlio di Paul, Arnold,
scapestrato, donnaiolo e senza quattrini.
Proseguono i rumori, e le vicende notturne,
fino al primo morto: Arnold. Dopo di che si scoprono altri altarini (la
Rinehart è specializzata nel mescolare man mano le carte ed inzeppare di morti
le storie). La Bank degli Armstrong fallisce per un ammanco di cassa. Ne viene
incolpato Bailey, che Gertrude difende a tutto spiano. Arriva la notizia della
morte di Paul in California. Ma i rumori e le incursioni notturne continuano,
come se qualcuno cercasse delle stanze segrete nella villa. Si inserisce la
vicenda di un giovane Leonard, non si capisce figlio di chi. Compare una donna
sfregiata. Ma soprattutto compare un tal dottor Walker, che è convinto di poter
sposare Louise.
Muore il giardiniere. Muore una governante,
dopo che confessa alcuni misfatti (non vi dico quali), ma soprattutto che
Leonard è figlio illegittimo di Arnold e di sua figlia. Si hanno notizie
contrastanti se Paul sia morto davvero, o se forse la morte sia un tentativo di
fuggire con le casse della Banca.
In tutto ciò, la nostra arzilla Rachel si
muove a suo agio, coprendo fatti dolosi che potrebbero servire a velocizzare le
indagini. Ma anche indagando per suo conto, scoprendo alcuni lati oscuri che
non vi narro. Ed inscenando un finale in cui, di nuovo, è protagonista la
scala, e la scoperta, reale, di un nascondiglio segreto.
La nostra brava scrittrice riesce a non
perdere il filo sino alla fine, riesce a spiegare tutto ed anche di più. Poi,
come in tutti i bei finali vittoriani, ci saranno anche giuste nozze fra le
giuste persone. I buoni, che noi capiamo fin dall’inizio chi sono, rimangono
buoni sino alla fine, ed avranno il loro giusto premio.
Certo quell’HIBK imperversa per tutto il
romanzo, a volte rompendo un po’ il ritmo, quando un capitolo (anzi più di uno)
inizia con Rachel che dice “ah, se lo avessi saputo…”, “ah, se avessi
pensato…”, “ah, se avessi detto (o fatto) …”. Anche l’atmosfera risente de più
di cento anni trascorsi dalla scrittura. Tuttavia, non è troppo stancante, e
rimane una pietra angolare delle successive costruzioni di storie “soft
poliziesche”. Unico neo, i misteri svelati sono un po’ troppo complicati per
noi lettori moderni. Ma va bene anche così!
Håkan
Nesser “Il commissario cade in trappola” TEA euro 12
[A: 09/03/2018
– I: 07/09/2020 – T: 08/09/2020] - &&&---
[tit.
or.: Borkmanns punktet; ling. or.: svedese; pagine: 292;
anno 1994]
Ecco che dopo ben tre anni troniamo a leggere
qualcosa di uno dei maestri del giallo svedese. Un libro sostanzialmente
discreto che porta con sé, purtroppo, due grossi punti negativi (che tuttavia
non dipendono né dall’autore né dalla scrittura). Evidenziati entrambi nella
terza riga di cui al titolo. Un libro del 1994 che solo dopo venticinque anni
circa viene tradotto in italiano. Un libro che ha al centro il personaggio
principe di Nesser, il commissario Van Veeteren (familiarmente e per brevità,
VV), e che sarebbe la seconda delle sue avventure. Ora noi abbiamo letto già
l’ultimo e decimo romanzo della serie, quindi è solo per dovere filologico che
ci si appresta a colmare questo buco cronologico.
Il secondo punto è, al solito, il titolo. Non
si capisce perché il commissario debba cadere in trappola (e se leggerete il
libro, vedrete come VV in trappola di certo non cade). Mentre il titolo fa
riferimento ad un pensiero di un anziano superiore di VV, Borkmann appunto, il
quale sosteneva l’interessante teoria che riporto in coda su come, quando e
dove un’indagine raggiunge il suo punto di svolta (il punto di Borkmann, per
l’appunto).
Quindi, mettendo nel cassetto tutto quanto
sappiamo VV abbia fatto dopo (e soprattutto quando va in pensione ed apre una
libreria: VV sei il mio mito!), vediamo allora di seguire la storia ed il modo
di Nesser di raccontarla. La storia dura in verità un mese, dal 31 agosto al 1°
ottobre. VV è chiamato ad aiutare il commissariato di Kaalbringen, dove sono
avvenuti due omicidi con i morti con la testa quasi staccata dal corpo. Tanto
che la polizia ed i media cominciano a parlare dell’assassino come de “il
Tagliateste”.
La squadra locale è capeggiata dal
commissario Bausen, che ad ottobre andrà in pensione, e composta da Beate
Moerk, un’ispettrice dai capelli rossi, volitiva, ed intuitiva, e da Kropke
che, se l’azione fosse una decina di anni dopo, sarebbe un fissato dei
computer, mentre all’epoca può solo usare lucidi e piantine. In aiuto a VV poi,
ad un certo punto arriva anche l’ispettore Munster, che abbiamo seguito a lungo
nei capitoli successivi, tanto che, alla pensione di VV, sarà lui a prendere il
comando della stazione di polizia di Maardam, la fittizia località sede delle
avventure dei nostri da me lette.
Il mistero delle morti è ben fitto, che i due
decapitati non sembrano, nonostante tutti gli sforzi dei poliziotti, avere
nulla in comune. Né frequentazioni, né amicizie, né altro. La trama si
infittisce quando viene trovato il terzo morto, che oltre ad essere decapitato,
ha anche la mannaia infilzata nel costato. Come a significare che i morti sono
finiti, e che il killer sparirà nell’ombra.
Mentre avanzano le indagini, Nesser sviluppa
la sua capacità di presentarci il contorno, come si muovono i vari personaggi.
Le lunghe chiacchierate tra Bausen e VV, condite da vino ed interminabili
partite a scacchi. Il rapporto tra Munster e la moglie, prima in crisi, poi
risollevato, anche perché il nostro non cede alla carne e si astiene da un
rapporto che sarebbe stato preoccupante con Beate. La nostra ispettrice è la
più interessante, capace di guizzi di ingegno e di collegamenti audaci. Lei che
dedica il suo tempo lavorativo ed il suo tempo libero alle indagini.
Ci sono pezzi di puzzle che si incastrano
pian piano. Il primo morto era uno spacciatore. Il secondo frequentava con
assiduità donnine di facili costumi. Il terzo, ora medico apprezzato, era stato
abbastanza scapestrato in gioventù, rimessosi in sesto dopo una lunga cura
disintossicante. Nesser cerca anche di prenderci in giro, che ogni tanto
compare il Tagliateste, che si rivolge ad una non precisata Britte. Nome che
compare nella nipote psicolabile di un medico amico del terzo morto.
Ma è tutto fumo negli occhi. Solo Beate non
si farà sorprendere, e da un rapporto arrivato da un commissariato del Nord,
relativo ad una rissa di una decina di anni prima, ha la sua bizzarra
intuizione. Che però porterà il Tagliateste a rapirla. Ucciderà anche lei? O il
nostro VV, raggiunto il punto di Borkmann, con il ragionamento arriverà alla stessa
conclusione che io avevo ipotizzato fin dalla metà del libro. Una situazione
che mi ha riportato ad un film in bianco e nero che mi terrorizzò quando avevo
dieci anni.
Quindi, dimentichiamoci un po’ il giallo, e
godiamo il movimento delle rotelle di VV, purtroppo accompagnate, come dicevo
anche altrove, da l’immancabile stuzzicadenti.
Comunque, Nesser riesce sempre a tenermi
attaccato alla pagina, ed a farmi viaggiare verso la sua Svezia.
“In ogni indagine … esiste un limite oltre il
quale non ci servono altre informazioni, e possiamo risolvere il caso solo con
il ragionamento. Un buon investigatore dovrebbe sforzarsi di capire quando si
trova a questo punto o quando lo ha già superato … Questa capacità …
distingueva il buon detective da quello incapace.” (214)
Stanisław
Lem “Febbre da fieno” Voland s.p. (prestito di Fako)
[A: 18/09/2020
– I: 23/09/2020 – T: 24/09/2020] - &&
[tit.
or.: Katar; ling. or.: polacco; pagine: 201; anno 1975]
Prima
di cominciare per la prima volta devo avvertire che, per completezza di critica
e di analisi, in questa trama rivelo un po’ più del consentito. Ma a me serve
per far comprendere il mio ragionamento.
Quanti
anni che non torno alla lettura di questo che fu un autore molto presente nella
mia giovinezza, in quanto scriveva di fantascienza (di cui ero ossessionato) ed
in quanto polacco, quindi sodale nella patria del mio amico Giuzzo. Ecco,
quindi, che grazie al mio amico Fako (o’ prestatore) mi vedo da lui costretto a
leggerne, che mi pressano costanti richieste.
Intanto
faccio una piccola premessa personale che Lem nacque pochi giorni dopo il mio
amato zio Nino (su cui si tornerà prima o poi), in un giorno palindromo
12/9/1921.
Ciò
detto, contrariamente alla lettura corrente del testo, ho collocato il testo
tra i “Mistery” e non tra gli scritti di fantascienza. Alcuni critici
sostengono esserci elementi fantascientifici, che io non trovo. A meno che non
voler trattare come fantascienza il fatto che il protagonista sia un
ex-astronauta, messo in riserva in quanto sofferente di allergie. O meglio di
rinite allergica, volgarmente chiamata in italiano “Febbre da fieno”, da cui il
titolo italiano. In originale, il polacco “Katar” in realtà significa solo “rinite”.
Se
poi vogliamo aggettivare la definizione, potremo chiamarlo “mistery
filosofico”, laddove non possiamo negare che Lem, da uomo assai colto come era,
sfrutta lo scrivere per stendere pensieri filosofici, spesso legati anche alla
critica della società. Sia essa il mondo occidentale, sia quello che si viveva
al di là della “cortina di ferro”. Leggete “Solaris” o “Vuoto assoluto”
(quest’ultimo viene spesso messo tra i saggi, ma in realtà è una sublime, pur se
non sempre riuscita, costruzione alla Borges).
Spesso,
infatti, Lem fa incursioni in scienze varie, per creare intrecci e modalità di
vita. Incursioni sovente derivate dall’applicazione del calcolo delle
probabilità alla vita umana. O, come in questo caso, secondo quanto sostiene
anche il curatore e traduttore Lorenzo Pompeo, utilizzando schemi derivanti
dalla filosofia di Popper. Magari cercando di banalizzarli (nel senso
etimologico).
Qui
sembra prendere di mira le affermazioni sulla conoscenza scientifica della
filosofia della scienza di Popper. Il grande filosofo, infatti, sosteneva che "il
progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle
nostre conoscenze precedenti". Vedremo quindi come le varie ipotesi che il
protagonista elabora, partono dal punto di arrivo della conoscenza precedente,
quando a questa si aggiungono nuovi elementi, anteriormente ignoti. Ma
ribadendo fortemente il paragone delle teorie scientifiche come edifici
costruiti su palafitte, innalzatesi sopra una palude. Quando ci si arresta ad
una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene
che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per
reggere la struttura.
Il
romanzo si articola intorno alla ricerca della soluzione di una serie di morti
misteriose che sembrano avere dei denominatori in comune. Il nostro eroe
astronauta viene ingaggiato in quanto resistente nel fisico e nella psicologia,
e con almeno un elemento in comune con i morti: soffre anche lui di allergie. Tutte
le vittime erano straniere, viaggiavano da sole, non parlavano bene l'italiano,
erano sulla cinquantina, soffrivano di allergie. Erano venuti a Napoli per
beneficiare degli effetti terapeutici delle acque ricche di zolfo e avevano
cambiato completamente il loro comportamento prima della loro morte. Dopo una
serie di peripezie (tra cui un inutile assalto terroristico a Fiumicino), il
nostro astronauta (canadese, tanto che parla correntemente francese, così che
si ambienterà il finale a Parigi) arriverà alla soluzione.
Collegando
elementi casuali ed agnizioni scientifiche varie, si scopre che un
antiallergico (tutti i morti erano allergici) ed una lozione per capelli (tutti
avendone pochi in testa) catalizzati dalla metabolizzazione di mandorle
producono una droga tipo “bomba N” che induce il soggetto a comportamenti
incontrollati, dove, se non fermati dall’esterno, si va verso una morte violenta.
Quindi
le morti a catena avvengono casualmente. Qui, mi spiace ma il mio senso delle
probabilità si rivolta: non solo è improbabile (raro ma non escludibile) la mescola
degli ingredienti psicotropi, ma che ne vengano colpite persone a poca distanza
l’una dall’altra mostra quella casualità che studiavamo in fisica, per
quantificare se fosse possibile che tutti i piatti di un tavolo facessero un
salto verso l’alto dovuto al contemporaneo balzo aereo di tutti gli elettroni.
Quindi,
finisco, non mi è particolarmente piaciuto. Ho gradito solo i piccoli
microracconti delle varie storie delle persone che vanno verso le loro morti
inspiegate. Il resto merita altre letture.
“La
vecchiaia … consiste nell’aver ottenuto un’esperienza che non si può più
utilizzare. … Tra i settant’anni e i novanta c’è una differenza enorme.” (118)
Siamo
alla quarta trama di dicembre, per cui niente aggiunte, né allegati. Siamo anche,
e con piacere, all’ultima trama dell’anno. È la numero 46 su 52 settimane, e
questo vi basti per capire quanto poco ci si è allontanati dal tavolo dello
studio: due settimane a gennaio per l’ultimo (per ora) viaggio indiano, due
settimane agostane alle Eolie e due settimane d’ottobre in Polonia.
Ma come diceva Dalla, l’anno vecchio è finito, e sebbene ancora qualcosa non va, ci stiamo attrezzando perché vada tutto in una diversa direzione. Dove, e questo non facciamo che ripeterlo all’infinto, o ci si arriva remando tutti insieme nella stessa direzione o ci si perderà per sempre. Poiché poi io sono sempre il solito ottimista, non faccio che anticipare un grande abbraccio non virtuale a tutti.
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