domenica 27 dicembre 2020

Gialli per Capodanno - 27 dicembre 2020

Finiamo questo anno abbastanza faticoso rimanendo sul filone del mistero o del poliziesco: chissà se troveremo anche l’assassino con la corona (battuta virale, spero mi scuserete). Qui abbiamo allora due buoni thriller americani, uno moderno con il mio amato ex poliziotto Bosch, l’altro, datato e scritto da una delle donne pioniere del genere. Seguiti, in calando, da una vecchia puntata delle storie svedesi di Nasser, solo ora pubblicata in Italia, e da un vecchio romanzo del fantascientifico polacco Lem.

Michael Connelly “Il passaggio” Pickwick euro 10,90

[A: 22/01/2018 – I: 16/07/2020 – T: 18/07/2020] - &&& +

[tit. or.: The Crossing; ling. or.: inglese; pagine: 355; anno 2015]

Siamo al ventinovesimo libro del grande autore di thriller californiano, ed al ventunesimo in cui il protagonista è l’amato ormai ex poliziotto Hieronymus (Harry) Bosch. Sulle sue origini e sul corso delle sue vicende non torno più di tanto, che penso di avervi stufato abbastanza. Che è uno dei personaggi che mi sono molto cari, e che ancora non mi ha deluso, come altri. Certo, ha i suoi alti e bassi. Ma rimane con una sua dirittura interna invidiabile, e con un immutato amore per il jazz che non può che tenerci a lui legati.

Intanto devo dire che, benché abbia una solida base di thriller, ben congeniata e che tiene avvinti, il nodo centrale del libro sta tutto lì nel titolo. Anche se il passaggio italiano, rende meno del “crossing” originario, quello che sta nel cuore del libro, è appunto il passaggio di Harry dal lato della polizia a quello della difesa in tribunale, al seguito del simpatico, ingegnoso, ed anche un po’ troppo scaltro fratellastro Mickey Haller. O, più che passaggio, come dice l’inglese “attraversamento”, quello di un confine. Quello tra la ricerca del colpevole e la librazione di un innocente.

Finalmente, allora, esce allo scoperto la duplicità dell’esistenza dei due fratellastri, già insita nella loro creazione. Due elementi vicini seppur disgiunti. L’uno, Harry, che ha dedicato tutte le sue energie alla ricerca del colpevole di ogni determinato crimine. L’altro, Mickey, che impiega la stessa energia per dimostrare l’innocenza del suo assistito (essendo lui avvocato), non essendo poi interessato a sapere chi sia il colpevole né tanto interessato a consegnarlo alla giustizia.

Sappiamo dall’ultima vicenda che Harry era stato messo in difficoltà, avendo agito ai limiti della legge, ma di sicuro con poco rispetto dell’ordine costituito. Onde evitare ulteriori problemi, chiede il pensionamento (anticipato seppur di poco), e si mette ad aspettare di avere il dovuto dal suo ex-dipartimento. Harry conosce tutti i lati positivi, ma anche, seppur con dolore, anche tutti i lati negativi del LAPD (il Los Angeles Police Department). Per cui è abbastanza facile per Mickey coinvolgerlo nella difesa di un nero accusato di una efferata uccisione di una donna bianca. Anche se Mickey è un po’ lo sparring partner, che alla fine userà quanto trovato per raggiungere il suo scopo, quello che al solito è al centro è Harry. Che prima di attraversare il guado, cerca di capire il contorno degli avvenimenti.

C’è una donna morta senza alcun apparente motivo, e c’è un nero incolpato del delitto attraverso le prove del DNA. Ma il contesto è strano. Il nero, Foster, sembra avere un alibi: al momento del delitto era con un uomo, un trans. Che ovviamente pochi giorni dopo muore. Tutte queste coincidenze negative allarmano Harry, che si accorge delle negligenze di chi segue le indagini e si butta su due elementi poco valutati dalla LAPD. L’assenza di un orologio di marca e la possibilità che nel DNA ci siano tracce di preservativo. La traccia migliore è l’orologio, dove seguendone i passi a ritroso, Harry scopre che era stato dato a due poliziotti corrotti da un dottore da loro incastrato con dei filmini pornografici. Ovvio che il dottore morirà. I due lo rivendono ad un negozio di gioielleria gestito da due immigrati vietnamiti, che lo rivendono ad un vicesceriffo che lo regala alla moglie. Anche i vietnamiti muoiono. La moglie ne rovina il vetro, e nella riparazione scopre che è rubato. Prima che ne possa parlare al marito poliziotto, anche lei muore. Lei che è poi il motore primo della vicenda di cui sopra.

Harry raccoglie tutte le prove, pur essendo minacciato ad ogni passo dai suoi ex-colleghi. Essendo poi questo come detto il filo rosso della vicenda. Harry è un poliziotto onesto, ma sa che ne esistono di corrotti. E che a volte lo spirito di corpo è più forte della verità. Harry non ha interesse nel dimostrare l’innocenza di Foster, ma ha interesse a trovare chi ha ucciso la donna, e tutte le altre persone.

Per ora basta così, che ci sono tanti piccoli colpi di scena, agganci con altri romanzi di Connelly, insomma tutto il mondo costruito dal bravo autore californiano. Un thriller che si snoda sulla lama del rasoio, rischiando ad ogni passo di finire in una strada senza ritorno. Ma l’autore è un maestro nel non perdere la rotta, a farci vedere i problemi e le soluzioni, ed a farci riflettere sul ruolo antagonista e solidale dei fratellastri Bosch e Halley.

Finiamo come promesso con il jazz. Dove abbiamo un bellissimo accenno ad una delle più belle ballate di John Coltrane, quella dedicata alla moglie Naima. C’è un ringraziamento a “The Majesty of the Blues” di Wynton Marsalis (che serve a risolvere un momento difficile) e un passaggio sul sassofonista Kamasi Washington, uno dell’ultima generazione che non conoscevo e che mi sembra interessante.

Mary Roberts Rinehart “La scala a chiocciola” TEA euro 10

[A: 09/03/2018 – I: 30/08/2020 – T: 31/08/2020] - &&& --

[tit. or.: The Circular Staircase; ling. or.: inglese; pagine: 274; anno 1908]

Circa tre anni fa lessi il primo romanzo di Mary Roberts Rinehart, dove riportai parte della biografia della scrittrice ed alcune notizie sul suo essere uno dei pionieri del genere. Ne riprendo alcuni temi per chi lo avesse scordato.

Mary viene considerata l’Agatha Christie americana, per l’andamento colloquiale dei suoi romanzi. Anche se comincia a scrivere una quindicina di anni prima. Ha anche due caratteristiche peculiari, nell’ambito poliziesco. La seconda, interessante ma meno “fondante”, è che per prima utilizzò un maggiordomo come assassino. Da quel suo tardo romanzo, venne poi la frase fatta “il colpevole è il maggiordomo”.

La seconda, iniziata con il primo romanzo “L’uomo nella cuccetta 10”, ma sviluppata ed approfondita in questo (che non a caso viene considerato il suo romanzo fondamentale) è il modo di scrivere etichettato in inglese HIBK (“Had I but Known”) dato che spesso il narratore delle vicende usa l’intercalare “se lo avessi saputo…”.

Frase che la signorina Rachel Innes, narratrice della storia, ripete spesso (soprattutto nei primi capitoli). Introducendo così l’affastellarsi di vicende, prese singolarmente poco spiegabili, ma che alla fine, magari con qualche zoppia, vengono tutte acclarate. Meno il mistero del titolo italiano, dove la chiocciola delle scale (come nel film di Siodmak del ’46, che però è tratto da un romanzo diverso) è detta “spiral”, mentre questa è solo una scala circolare, che porta dal piano terra (in particolare, dalla stanza del biliardo) al primo piano, dove sono collocate la maggior parte delle stanze da letto.

Rachel, zitella attempata ma non tanto, decide infatti di affittare la casa dei signori Armstrong, temporaneamente in California. Una magione su due piani, con 22 stanze e 5 bagni (waw!). Dal primo giorno, rumori sinistri si sentono nottetempo. Spesso provenienti dalle parti della scala incriminata. Poiché nessuno, e tantomeno Rachel, crede ai fantasmi, qualcosa di misterioso accompagna l’esistenza della casa. Scopriamo qualche dettaglio all’arrivo dei due nipoti di Rachel, Hansley e Gertrude. Lui è innamorato di Louise Armstrong, figlia di Paul il proprietario della casa. Lei invece lo è di Jack Bailey, cassiere della Traders Bank, la banca gestita da Paul. Nelle vicinanze, si aggira anche l’altro figlio di Paul, Arnold, scapestrato, donnaiolo e senza quattrini.

Proseguono i rumori, e le vicende notturne, fino al primo morto: Arnold. Dopo di che si scoprono altri altarini (la Rinehart è specializzata nel mescolare man mano le carte ed inzeppare di morti le storie). La Bank degli Armstrong fallisce per un ammanco di cassa. Ne viene incolpato Bailey, che Gertrude difende a tutto spiano. Arriva la notizia della morte di Paul in California. Ma i rumori e le incursioni notturne continuano, come se qualcuno cercasse delle stanze segrete nella villa. Si inserisce la vicenda di un giovane Leonard, non si capisce figlio di chi. Compare una donna sfregiata. Ma soprattutto compare un tal dottor Walker, che è convinto di poter sposare Louise.

Muore il giardiniere. Muore una governante, dopo che confessa alcuni misfatti (non vi dico quali), ma soprattutto che Leonard è figlio illegittimo di Arnold e di sua figlia. Si hanno notizie contrastanti se Paul sia morto davvero, o se forse la morte sia un tentativo di fuggire con le casse della Banca.

In tutto ciò, la nostra arzilla Rachel si muove a suo agio, coprendo fatti dolosi che potrebbero servire a velocizzare le indagini. Ma anche indagando per suo conto, scoprendo alcuni lati oscuri che non vi narro. Ed inscenando un finale in cui, di nuovo, è protagonista la scala, e la scoperta, reale, di un nascondiglio segreto.

La nostra brava scrittrice riesce a non perdere il filo sino alla fine, riesce a spiegare tutto ed anche di più. Poi, come in tutti i bei finali vittoriani, ci saranno anche giuste nozze fra le giuste persone. I buoni, che noi capiamo fin dall’inizio chi sono, rimangono buoni sino alla fine, ed avranno il loro giusto premio.

Certo quell’HIBK imperversa per tutto il romanzo, a volte rompendo un po’ il ritmo, quando un capitolo (anzi più di uno) inizia con Rachel che dice “ah, se lo avessi saputo…”, “ah, se avessi pensato…”, “ah, se avessi detto (o fatto) …”. Anche l’atmosfera risente de più di cento anni trascorsi dalla scrittura. Tuttavia, non è troppo stancante, e rimane una pietra angolare delle successive costruzioni di storie “soft poliziesche”. Unico neo, i misteri svelati sono un po’ troppo complicati per noi lettori moderni. Ma va bene anche così!

Håkan Nesser “Il commissario cade in trappola” TEA euro 12

[A: 09/03/2018 – I: 07/09/2020 – T: 08/09/2020] - &&&---

[tit. or.: Borkmanns punktet; ling. or.: svedese; pagine: 292; anno 1994]

Ecco che dopo ben tre anni troniamo a leggere qualcosa di uno dei maestri del giallo svedese. Un libro sostanzialmente discreto che porta con sé, purtroppo, due grossi punti negativi (che tuttavia non dipendono né dall’autore né dalla scrittura). Evidenziati entrambi nella terza riga di cui al titolo. Un libro del 1994 che solo dopo venticinque anni circa viene tradotto in italiano. Un libro che ha al centro il personaggio principe di Nesser, il commissario Van Veeteren (familiarmente e per brevità, VV), e che sarebbe la seconda delle sue avventure. Ora noi abbiamo letto già l’ultimo e decimo romanzo della serie, quindi è solo per dovere filologico che ci si appresta a colmare questo buco cronologico.

Il secondo punto è, al solito, il titolo. Non si capisce perché il commissario debba cadere in trappola (e se leggerete il libro, vedrete come VV in trappola di certo non cade). Mentre il titolo fa riferimento ad un pensiero di un anziano superiore di VV, Borkmann appunto, il quale sosteneva l’interessante teoria che riporto in coda su come, quando e dove un’indagine raggiunge il suo punto di svolta (il punto di Borkmann, per l’appunto).

Quindi, mettendo nel cassetto tutto quanto sappiamo VV abbia fatto dopo (e soprattutto quando va in pensione ed apre una libreria: VV sei il mio mito!), vediamo allora di seguire la storia ed il modo di Nesser di raccontarla. La storia dura in verità un mese, dal 31 agosto al 1° ottobre. VV è chiamato ad aiutare il commissariato di Kaalbringen, dove sono avvenuti due omicidi con i morti con la testa quasi staccata dal corpo. Tanto che la polizia ed i media cominciano a parlare dell’assassino come de “il Tagliateste”.

La squadra locale è capeggiata dal commissario Bausen, che ad ottobre andrà in pensione, e composta da Beate Moerk, un’ispettrice dai capelli rossi, volitiva, ed intuitiva, e da Kropke che, se l’azione fosse una decina di anni dopo, sarebbe un fissato dei computer, mentre all’epoca può solo usare lucidi e piantine. In aiuto a VV poi, ad un certo punto arriva anche l’ispettore Munster, che abbiamo seguito a lungo nei capitoli successivi, tanto che, alla pensione di VV, sarà lui a prendere il comando della stazione di polizia di Maardam, la fittizia località sede delle avventure dei nostri da me lette.

Il mistero delle morti è ben fitto, che i due decapitati non sembrano, nonostante tutti gli sforzi dei poliziotti, avere nulla in comune. Né frequentazioni, né amicizie, né altro. La trama si infittisce quando viene trovato il terzo morto, che oltre ad essere decapitato, ha anche la mannaia infilzata nel costato. Come a significare che i morti sono finiti, e che il killer sparirà nell’ombra.

Mentre avanzano le indagini, Nesser sviluppa la sua capacità di presentarci il contorno, come si muovono i vari personaggi. Le lunghe chiacchierate tra Bausen e VV, condite da vino ed interminabili partite a scacchi. Il rapporto tra Munster e la moglie, prima in crisi, poi risollevato, anche perché il nostro non cede alla carne e si astiene da un rapporto che sarebbe stato preoccupante con Beate. La nostra ispettrice è la più interessante, capace di guizzi di ingegno e di collegamenti audaci. Lei che dedica il suo tempo lavorativo ed il suo tempo libero alle indagini.

Ci sono pezzi di puzzle che si incastrano pian piano. Il primo morto era uno spacciatore. Il secondo frequentava con assiduità donnine di facili costumi. Il terzo, ora medico apprezzato, era stato abbastanza scapestrato in gioventù, rimessosi in sesto dopo una lunga cura disintossicante. Nesser cerca anche di prenderci in giro, che ogni tanto compare il Tagliateste, che si rivolge ad una non precisata Britte. Nome che compare nella nipote psicolabile di un medico amico del terzo morto.

Ma è tutto fumo negli occhi. Solo Beate non si farà sorprendere, e da un rapporto arrivato da un commissariato del Nord, relativo ad una rissa di una decina di anni prima, ha la sua bizzarra intuizione. Che però porterà il Tagliateste a rapirla. Ucciderà anche lei? O il nostro VV, raggiunto il punto di Borkmann, con il ragionamento arriverà alla stessa conclusione che io avevo ipotizzato fin dalla metà del libro. Una situazione che mi ha riportato ad un film in bianco e nero che mi terrorizzò quando avevo dieci anni.

Quindi, dimentichiamoci un po’ il giallo, e godiamo il movimento delle rotelle di VV, purtroppo accompagnate, come dicevo anche altrove, da l’immancabile stuzzicadenti.

Comunque, Nesser riesce sempre a tenermi attaccato alla pagina, ed a farmi viaggiare verso la sua Svezia.

“In ogni indagine … esiste un limite oltre il quale non ci servono altre informazioni, e possiamo risolvere il caso solo con il ragionamento. Un buon investigatore dovrebbe sforzarsi di capire quando si trova a questo punto o quando lo ha già superato … Questa capacità … distingueva il buon detective da quello incapace.” (214)

Stanisław Lem “Febbre da fieno” Voland s.p. (prestito di Fako)

[A: 18/09/2020 – I: 23/09/2020 – T: 24/09/2020] - &&

[tit. or.: Katar; ling. or.: polacco; pagine: 201; anno 1975]

Prima di cominciare per la prima volta devo avvertire che, per completezza di critica e di analisi, in questa trama rivelo un po’ più del consentito. Ma a me serve per far comprendere il mio ragionamento.

Quanti anni che non torno alla lettura di questo che fu un autore molto presente nella mia giovinezza, in quanto scriveva di fantascienza (di cui ero ossessionato) ed in quanto polacco, quindi sodale nella patria del mio amico Giuzzo. Ecco, quindi, che grazie al mio amico Fako (o’ prestatore) mi vedo da lui costretto a leggerne, che mi pressano costanti richieste.

Intanto faccio una piccola premessa personale che Lem nacque pochi giorni dopo il mio amato zio Nino (su cui si tornerà prima o poi), in un giorno palindromo 12/9/1921.

Ciò detto, contrariamente alla lettura corrente del testo, ho collocato il testo tra i “Mistery” e non tra gli scritti di fantascienza. Alcuni critici sostengono esserci elementi fantascientifici, che io non trovo. A meno che non voler trattare come fantascienza il fatto che il protagonista sia un ex-astronauta, messo in riserva in quanto sofferente di allergie. O meglio di rinite allergica, volgarmente chiamata in italiano “Febbre da fieno”, da cui il titolo italiano. In originale, il polacco “Katar” in realtà significa solo “rinite”.

Se poi vogliamo aggettivare la definizione, potremo chiamarlo “mistery filosofico”, laddove non possiamo negare che Lem, da uomo assai colto come era, sfrutta lo scrivere per stendere pensieri filosofici, spesso legati anche alla critica della società. Sia essa il mondo occidentale, sia quello che si viveva al di là della “cortina di ferro”. Leggete “Solaris” o “Vuoto assoluto” (quest’ultimo viene spesso messo tra i saggi, ma in realtà è una sublime, pur se non sempre riuscita, costruzione alla Borges).

Spesso, infatti, Lem fa incursioni in scienze varie, per creare intrecci e modalità di vita. Incursioni sovente derivate dall’applicazione del calcolo delle probabilità alla vita umana. O, come in questo caso, secondo quanto sostiene anche il curatore e traduttore Lorenzo Pompeo, utilizzando schemi derivanti dalla filosofia di Popper. Magari cercando di banalizzarli (nel senso etimologico).

Qui sembra prendere di mira le affermazioni sulla conoscenza scientifica della filosofia della scienza di Popper. Il grande filosofo, infatti, sosteneva che "il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti". Vedremo quindi come le varie ipotesi che il protagonista elabora, partono dal punto di arrivo della conoscenza precedente, quando a questa si aggiungono nuovi elementi, anteriormente ignoti. Ma ribadendo fortemente il paragone delle teorie scientifiche come edifici costruiti su palafitte, innalzatesi sopra una palude. Quando ci si arresta ad una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per reggere la struttura.

Il romanzo si articola intorno alla ricerca della soluzione di una serie di morti misteriose che sembrano avere dei denominatori in comune. Il nostro eroe astronauta viene ingaggiato in quanto resistente nel fisico e nella psicologia, e con almeno un elemento in comune con i morti: soffre anche lui di allergie. Tutte le vittime erano straniere, viaggiavano da sole, non parlavano bene l'italiano, erano sulla cinquantina, soffrivano di allergie. Erano venuti a Napoli per beneficiare degli effetti terapeutici delle acque ricche di zolfo e avevano cambiato completamente il loro comportamento prima della loro morte. Dopo una serie di peripezie (tra cui un inutile assalto terroristico a Fiumicino), il nostro astronauta (canadese, tanto che parla correntemente francese, così che si ambienterà il finale a Parigi) arriverà alla soluzione.

Collegando elementi casuali ed agnizioni scientifiche varie, si scopre che un antiallergico (tutti i morti erano allergici) ed una lozione per capelli (tutti avendone pochi in testa) catalizzati dalla metabolizzazione di mandorle producono una droga tipo “bomba N” che induce il soggetto a comportamenti incontrollati, dove, se non fermati dall’esterno, si va verso una morte violenta.

Quindi le morti a catena avvengono casualmente. Qui, mi spiace ma il mio senso delle probabilità si rivolta: non solo è improbabile (raro ma non escludibile) la mescola degli ingredienti psicotropi, ma che ne vengano colpite persone a poca distanza l’una dall’altra mostra quella casualità che studiavamo in fisica, per quantificare se fosse possibile che tutti i piatti di un tavolo facessero un salto verso l’alto dovuto al contemporaneo balzo aereo di tutti gli elettroni.

Quindi, finisco, non mi è particolarmente piaciuto. Ho gradito solo i piccoli microracconti delle varie storie delle persone che vanno verso le loro morti inspiegate. Il resto merita altre letture.

“La vecchiaia … consiste nell’aver ottenuto un’esperienza che non si può più utilizzare. … Tra i settant’anni e i novanta c’è una differenza enorme.” (118)

Siamo alla quarta trama di dicembre, per cui niente aggiunte, né allegati. Siamo anche, e con piacere, all’ultima trama dell’anno. È la numero 46 su 52 settimane, e questo vi basti per capire quanto poco ci si è allontanati dal tavolo dello studio: due settimane a gennaio per l’ultimo (per ora) viaggio indiano, due settimane agostane alle Eolie e due settimane d’ottobre in Polonia.

Ma come diceva Dalla, l’anno vecchio è finito, e sebbene ancora qualcosa non va, ci stiamo attrezzando perché vada tutto in una diversa direzione. Dove, e questo non facciamo che ripeterlo all’infinto, o ci si arriva remando tutti insieme nella stessa direzione o ci si perderà per sempre. Poiché poi io sono sempre il solito ottimista, non faccio che anticipare un grande abbraccio non virtuale a tutti.

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