Lars Gustafsson
“Morte di un apicultore” Corriere Boreali 14 euro 8,90
[A: 12/06/2018 – I: 15/07/2020 – T:
16/07/2020] - &&&&--
[tit. or.: En biodlares död; ling. or.: svedese; pagine: 184; anno 1978]
Si
può voler bene ad un libro che ti fa venire il mal di pancia mentre lo leggi? A
me questo è successo con la lettura di questo che viene considerato un classico
della letteratura svedese moderna.
Quindi
iniziamo tributando i dovuti omaggi al Corriere per questa collana, ad
Iperborea che ha introdotto Gustafsson in Italia ed a Carmen Giorgetti Cima per
la traduzione e la postfazione.
Lars
(che i nordici spesso preferiscono chiamarsi l’un l’altro con il nome, ed il
grande svedese, tra l’altro, era anche lui un toro) ha attraversato e brillato
nel panorama letterario scandinavo per oltre quaranta anni (e purtroppo ci ha
lasciato cinque anni fa). È entrato anche nell’orbita del Premio Nobel, senza
vincerlo. Ha scritto tanto, spesso in modo sperimentale. Quasi sempre con delle
idee in testa.
Questo
libro, il suo più noto, ed anche più amato, nasce ad esempio come capitolo
finale di un insieme di cinque romanzi, cui l’autore dà il titolo complessivo
di “Crepe nel muro”. Romanzi, come ci dice la traduttrice, che vogliono
evidenziare le crepe nei muri delle istituzioni, delle ideologie, dell’animo
umano. Romanzi dove il protagonista si chiama sempre Lars, come a sottolineare
una presenza dell’autore dentro e fuori il testo.
Qui,
Lars è al capitolo finale anche della sua esistenza. Maestro elementare,
trovatosi in sovrannumero per il diminuire della natalità, decide di ritirarsi
nel paese natio, di fare l’apicultore, anche a seguito della delusione
successiva al divorzio dalla moglie. È giovane, sui quarant’anni come lo
scrittore, ma sente dei dolori strani nel corpo. Dopo molti tentennamenti
decide di fare delle analisi per capire la natura del male. Ma quando arriva il
referto, sceglie di non leggerlo, di bruciarlo, di continuare la sua vita tra
la speranza illusoria che sia un problema di calcoli renali e la certezza,
intima e non provata, che sia un tumore. Nel suo buon rifugio, confida i suoi
pensieri ad una serie di taccuini, ritrovati da un suo sodale dopo la morte di
Lars. E ordinati in qualche maniera per evidenziare, doppiare, riproporre
momenti salienti per lo scrivente.
Ricordiamo
che è un testo del ’78, e che questo modo di scrivere e di proporre la
scrittura era assolutamente non usuale al tempo. Così che l’avanzare nel tempo
del Lars apicultore è scandito dalla scrittura del Lars autore. Vediamo con lui
adombrarsi i suoi momenti salienti. L’infanzia, soprattutto, cui rimane legato,
e che ora ritorna prepotentemente come momento fondante della sua vita. Come
momenti di serenità, ma anche come momenti dove mise paletti della sua vita. Il
matrimonio nato quasi per stanchezza e per stanchezza finito. La nascita di un
amore esterno ed estraneo, che non porta fino in fondo, né nell’amore, né nel
matrimonio. E la fine del matrimonio, e la fine del lavoro precedente. Il mondo
attuale, popolato di campagne e di api. E poi tante parole e tanti pensieri sul
dolore e sulla malattia. Soprattutto nell’accezione della comunicabilità.
È
possibile descrivere il dolore, il proprio dolore? E dopo averlo descritto, è
anche possibile comunicarlo, farlo comprendere? Ed allargando l’orizzonte, Lars
si pone quindi il problema se sia altresì comunicabile la propria vita
interiore. Certo, possiamo esternare i nostri pensieri. E purtuttavia mi
domando se questa esternazione riesca a fare sentire all’altro il nostro
sentire. Qualcuno, in saggi ed interviste, scomoda Wittgenstein, Nietzsche,
Borges, Kundera, financo Camus. Io non arrivo a tanto.
A me
arriva da un lato il Lars del testo che mi comunica la sensazione di
essere un abitante di un universo in cui non si sentiva di casa. Dall’altro,
una sensazione di grande solitudine, che Lars vive in modo grandioso,
personale, crogiolandosi e comunicandoci i suoi ricordi. Quelli che si
stratificano nel cervello, a volte addolcendosi con il passare degli anni,
tramutandosi anche in piacevoli momenti, pure se all’epoca erano momenti
dolorosi. Ma il bello, ed il cattivo ed il personale del romanzo continua per
me ad essere questo senso della malattia, del modo di affrontarla, del modo di
morire, lasciandoci, anche nell’ultimo istante, quel messaggio: “si può sempre
sperare”.
Insomma, per me, un libro che mi ha colpito
nel profondo, mi ha fatto pensare, mi ha fatto ragionare, mi ha colpito nel
cuore, nel cervello, nella pancia. Che ho amato perché mi ha fatto stare male.
“Le
persone destinate a diventare importanti nella nostra vita le incontriamo non
una, ma almeno venti volte prima che incominciamo a prendere l’indicazione sul serio.”
(45)
“Tutto
finisce per avere il significato che noi stessi gli diamo.” (95)
“Io
sono un corpo. Soltanto un corpo. Tutto quello che si deve fare, che si può
fare, dev’essere fatto dentro questo corpo.” (117)
“Perché
proprio io? … Perché proprio io questa sofferenza? … Perché …” (169)
Johan
Harstad “Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?” Corriere Boreali 17 euro 8,90
[A:
18/06/2018 – I: 22/07/2020 – T: 24/07/2020] - &&&
e ¾
[tit. or.: Buzz Aldrin, hvor ble det av deg I alt mylderet?; ling. or.: norvegese; pagine: 391; anno 2005]
Una
nuova lettura di un libro della collana boreale del Corriere, che mantiene
l’alto standard dell’ultima lettura. Ora passiamo ad una lettura norvegese,
lontana anni luce dai gialli scandinavi, e con grande giubilo. Un bel libro ed
un autore interessante, ovviamente a me fino ad ora ignoto. Autore giovane,
poco più che quarantenne, non molto prolifico (credo una dozzina di titoli tra
romanzi e teatro), molto legato alla generazione di scrittori rock scandinavi.
Non rock nel senso della scrittura, ma per il costante accenno, la costante
presenza della musica nelle loro opere. Qui, ad esempio, oltre a diverse
citazioni, un ruolo di sottofondo costante e piacevole (tanto che i quattro
capitoli hanno il titolo dei loro album) è la musica del gruppo pop svedese
“The Cardigans”, con la bellissima voce di Nina Persson (di cui nessuno può
dimenticare gli stupendi occhi blu).
Ma
torniamo, o meglio, iniziamo a dedicarci al testo.
Il
romanzo gira intorno alla figura di Mattias, nato il giorno dello sbarco sulla
luna. Avvenimento che condiziona tutta la sua vita, che lui, pur avendo delle
capacità e delle particolarità, non vuole apparire, non vuole stare sulla
scena. Vuole essere il numero due, come il suo grande idolo, Edwin Eugene
“Buzz” Aldrin, il secondo uomo sbarcato sulla Luna, che ha seguito le orme di
Neil Armstrong, e poi è scomparso nella folla (come dice più esattamente il
titolo originale).
Seguiamo
tutta l’evoluzione del trentenne Mattias (il racconto, infatti, si svolge
dall’aprile del ’99 all’ottobre del 2000), scoprendone a poco a poco tutta la
complessità. Che all’inizio pare appunto solo una persona che non vuole
apparire, che coltiva il suo orto (fa il giardiniere), ha un rapporto dal liceo
con l’estroversa Halle, e sta lì, a fare il pubblico. Solo a 17 anni mise la
testa fuori dal guscio, cantando ad una festa con una voce definita “stupenda e
cristallina”. Cosa che gli fece conquistare Halle, poi più niente. Ma ora Halle
lo lascia e lui cade in pezzi, cerca aiuto dal suo amico Jǿrn che lo porta con
sé alle isole Fær Øer. E lì si perde, e si ritrova solo ed ubriaco senza sapere
cosa sia successo.
Nell’isola
viene aiutato dallo psichiatra Havestein, che lo cura, lo porta nella sua
comunità dove vivono alcuni disadattati. Palli e Anna che passano senza
lasciare troppa traccia. E Sofia che si fa chiamare Ennenne, cioè NN, senza
nome. È lei la patita dei Cardigans, che faranno da colonna sonora di tutta la
seconda parte del libro (la gita alle Fær Øer avviene a pagina 100). È lei che
ogni tanto riesce a penetrare nella corazza di Mattias, anche se poi si metterà
con un disadattato che arriva dal mare, un americano di nome Carl. È lei che
sarà la chiave di volta della decisione finale dei disadattati. Che Mattias,
lasciato solo per qualche giorno, scopre anche il disadattamento dello
psichiatra, che da venti anni legge una guida dei Caraibi, aggiornandola, e
tenendola a mo’ di Bibbia. E quando tutto precipita, e scopriamo anche il
disagio di Carl, ex-fotografo degli orrori balcanici, e scopriamo anche qualche
altra magagna nell’infanzia di Mattias, sarà verso i Caraibi che i nostri
metteranno in mare la barca che insieme hanno costruito. Mattias intanto riesce
a dimenticare Halle, ad avere un rapporto foriero di novità con Eiđdis, e quando
si sta partendo, deve al fine decidere: uscire o meno dall’orto?
Con
una prosa spigliata, con passaggi agili tra diversi registri, Harstad scava nei
personaggi, riuscendo a fare dei buchi anche nella pelle di noi lettori. Non
solo per fare del male, ma per instillare, goccia a goccia, anche della
speranza. Anche se la nostra natura isolata ed isolante ci porta lontano dagli
altri, ci sarà sempre qualcuno per cui saremo importanti. Per cui abbiamo una
valenza diversa. Perché la ruota del mondo vicino a noi, senza di noi, non può
funzionare, girerà a vuoto. Un libro che sembra inneggiare ad accontentarsi,
mentre è un canto per spronarci ad essere noi stessi, senza paura. Un inno a
non vergognarsi. Un inno a vivere sempre la propria vita, magari a volte scappando,
se serve. Ed avendo il coraggio di rimanere, quando serve. Ricordandoci sempre
che c'è e ci sarà sempre qualcuno che ha bisogno di noi e che ci ama così, per
quello che siamo.
Un
inciso finale su di un errore di calcolo misterioso presente a pagina 236.
Mattias dice che a Capodanno del 2000 compie 10756 giorni. Ora, data la nascita
allo sbarco lunare, il calcolo esatto sarebbe di 11121, con una differenza di
365 giorni, cioè un anno. Mistero.
PS:
io quando scrivo queste note ho 24551 giorni…
“Non
tutti vogliono dirigere un'azienda. … Qualcuno non vuole andare in TV, alla
radio, sui giornali. Qualcuno vuole vedere il film, non esserlo. Qualcuno vuole
fare il pubblico. … Non perché è costretto, ma perché lo vuole.” (19)
“Ero
la cosa peggiore che si possa immaginare. Ero normale.” (26)
“Più
amici metti insieme, più saranno i funerali a cui finirai per dover andare.”
(74)
“Stai
cercando te stesso? Pensa se quello che trovi non ti piace, e devi viverci per
il resto della vita.” (144)
“La
salvezza possono ancora essere gli altri (Maria Valeria D’Avino).” (391)
Jón
Kalman Stefánsson “Luce d’estate ed è subito notte” Corriere Boreali 1 euro
8,90
[A: 27/02/2018 – I: 05/08/2020 – T:
08/08/2020] - &&&&
[tit. or.: Summarljós, og svo kemur nóttin; ling. or.: islandese; pagine: 268; anno 2005]
Era
il primo libro della collana uscita da Iperborea e confluita nelle uscite del
Corriere “La grande letteratura del Nord”, indicata brevemente con “Boreali”.
Devo subito dire che mantiene, ed alla grande, le premesse di una buona
letteratura. E di una buona letteratura islandese. Un paese cui fin dall’inizio
delle mie frequentazioni ho affermato con forza la mia ammirazione. Un paese
necessariamente slow, piccolo com’è, con tante minuzie che ognuno si industria
a fare mille cose.
Come
il nostro Jón, che prima di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, ha fatto l’impiegato
in un macello e nell’industria ittica, il muratore, il bibliotecario e l’ufficiale
di polizia aeroportuale. Intanto scriveva poesie, che ritiene un modo musicale
alternativo di esprimersi. Poi fa uscire questo splendido romanzo, ed è subito
amore per la parola.
Dico
subito che non è un romanzo di cui si possa definire una trama. Se lo avessi
letto prima, avrei detto che “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout ne copiava
l’idea di fondo. Se fossi più colto, come dicono amici in rete, ha un rimando a
libri come “Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson. Perché, in realtà, sono una
serie di racconti, concatenati dai personaggi di questa ignota ma comune città
islandese. Personaggi che entrano ed escono, a volte sono centrali, a volte
marginali. Per poi essere presi dall’autore onnisciente, commentati e portati
alle loro giuste dimensioni. Un romanzo, quindi, che più che altro indica una
direzione, una strada da percorrere, una mera da traguardare, per cavalcare
fino in fondo i nostri sogni, quelli che ci rendono temerari e chi danno la
voglia di vivere. E che in realtà si costruisce intorno ad un’unica domanda
posta da una moribonda: «Per quale motivo viviamo; si può rispondere a domande
del genere?».
Piccole
frasi che entrano nel cuore e non escono più. Come quelle che riporto perché mi
hanno colpito dentro. Come questa che mi rimane ma che non vi dico a che punto
esce fuori: "Due sono le cose che faccio - respirare e pensare a te".
In questo
sperduto paesino islandese, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni si
susseguono. Un tipo posto islandese dove viene buio presto e l'inverno tutto
avvolge nella sua luce mancante. Come dice bene il titolo, come vidi io in un
bellissimo giugno di qualche anno fa: una luce d’estate, che tutto permea, che
non fa dormire per giorni e giorni. Che poi scompare, per lasciare spazio alla
subitanea notte. Appunto montaliano e poetico nel mio immaginario: ed è subito
sera o è subito notte. Un paese che si era raccolto intorno alla sua unica
industria, il Maglificio. Ma che sembra non avere più storia né futuro da
quando il Maglificio ha chiuso e di lavoro sembra non essercene più. Eppure, ogni
abitante ha la sua storia, intensa, allegra, triste, d’amore, d’amicizia, forse
con qualche punta di insoddisfazione. Ma tutte le storie, tutti gli abitanti
hanno la giusta dignità di essere ascoltati e seguiti. La storia di Agústa che
lavora all'ufficio postale e che si diverte a leggere le cartoline di tutti,
per esempio. La storia del vecchio proprietario del maglificio, che ha speso
tutti i suoi risparmi in libri in latino che gli permettono di studiare e
osservare meglio le stelle, e quella di Hannes e di suo figlio Jonas, felice solo
con un pennello in mano. Quella d'amore, tra Mathias ed Elisabeth e tra
Benedikt e la donna dalla valigia marrone, o quella del tradimento tra Asdis e
Kajartan. C’è l’avvocato che basa il suo mondo sul calcolo, ma si arrende nello
scoprire di non poter contare i pesci del mare. C’è chi ritorna al villaggio
dopo anni di vagabondaggio per il mondo alla ricerca di qualcosa di più grande
della ragazza che aveva lasciato. E invece la sua anima gemella era proprio lì
accanto a lui. C’è chi si lascia sedurre dal vulcanico rissaiolo e decide di
sposarlo, mettendo da parte le proprie aspirazioni da geologa.
Tanti
sono gli spunti. Tanta la bellezza di una prosa lieve, e che però non ti lascia
mai. Che ti culla, che ti fa pensare. Un libro veramente interessante. Un
autore che forse sarebbe altrettanto interessante leggere ancora. Perché siamo
sempre lì, di fronte a cose grandi, ma soprattutto piccole, a domandarci se
questo sia il mondo (ed il modo) in cui sia giusto vivere.
Una
curiosità finale: a pagina 222 i protagonisti del brano bevono “il vino rosso
di Foggia”. Capirei se fosse “un vino”, ma qual è “il vino” in questione?
“Il vecchio medico … non ci poté fare
nulla, aveva un tumore al colon … contro la morte non sei nessuno, la luce del
mondo si spense, … perse la moglie, il figlio … la madre, e noi la cosa più
fine che i nostri occhi avessero mai visto.” (50)
“Chi piange a un funerale, piange … la
propria morte …, perché tutto muore e alla fine non resta niente.” (58)
“Cosa saranno mai le storie, se non solo
delle storie, un passatempo, certo a volte ti smuovono qualcosa dentro … ma
nessuna ha la forza di mutare le leggi della vita e della morte.” (89)
“Parliamo, scriviamo, raccontiamo di
piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa … la
ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe. E ovviamente è la
ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il
silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce
dell’estate. Abbiamo un compito, a parte baciare labbra; sai per caso come si
dice «ti desidero» in latino? E come si dice in islandese?” (151)
“Il tempo passa e noi diventiamo vecchi, o
come recita la poesia, i giorni vengono, i giorni vanno e poi moriamo.” (255)
Per Olov Enquist “Il medico di corte” Corriere Boreali 9 euro 8,90
[A: 07/05/2018 – I: 27/08/2020 – T: 28/08/2020] - &&&+
[tit. or.: Livläkarens besök; ling. or.: svedese; pagine: 355; anno 1999]
Quando comprai il libro, Per Olov era ancora
vivo. Ora che ne leggo, devo purtroppo constatare la sua dipartita, or son
quattro mesi. Comunque, ho un buon ricordo della mia altra lettura del maestro
svedese, “La partenza dei musicanti”, letto tanto tempo fa ma che lasciò un
buon ricordo della scrittura del maestro. Parola non abusata, che sicuramente
Enquist sa tornire la frase e la storia. Riuscendo anche qui a ricreare un
mondo, ed a dare, anche se forse poteva spingere di più, un affresco di un
momento storico della Scandinavia. In particolare, quando ancora erano tutti
regni interconnessi, il re di Danimarca era anche re di Svezia (o di Norvegia o
di Islanda o di tutto il cucuzzaro).
Come molti, di fronte ad un romanzo storico,
mi aspettavo un intervento dei reali in prima persona, o del medico che
narrava. Ma mi ero scordato le capacità dell’autore, per cui dopo poche pagine
mi sono trovato con lui, a Copenaghen, a seguire i personaggi e gli intrighi di
corte intorno ad un regno di re in re sempre più debole.
Nella fattispecie, con questo Cristiano VII,
Enquist ci porta nella seconda metà del XVIII secolo. Ed in particolare con
un’azione che si condensa in sei anni: dal 1766 al 1772. Cristiano ha 17 anni,
la madre morta, il padre re ubriacone e puttaniere. Lui affidato ad un
precettore che non si accorge delle sue fragilità, dei suoi squilibri, gli
impone un’educazione rigida, tanto che il povero giovane pensa di essere un
attore in una grande pièce teatrale. Una sensazione che gli rimarrà per tutta
la vita, per cui sarà sempre in balia di qualcuno più forte di lui. Gli viene
imposta una moglie, la quindicenne principessa inglese Carolina Matilde. Con
cui avrà un unico rapporto, generando il principe ereditario Federico (questi i
due nomi dei re danesi, alternati, uno Cristiano, l’altro Federico).
Morto il padre, nel ’66 diviene re, dovrebbe
guidare lui una nazione allo sbando. Gli viene in soccorso l’affiancamento di
un medico, che capisce i suoi problemi, ma che, soprattutto, imbevuto del
nascente illuminismo francese, pensa di poter volgere il potere che man mano
acquista verso il benessere della nazione. Questa diviene quindi la storia di Johann
Friedrich Struensee. Sfruttando l’assenza mentale del re, il medico di corte
assume sempre più poteri, promulga più di seicento leggi, per abbassare le
tasse ai meno abbienti, abolire la schiavitù, sollevare il ruolo della donna.
Peccato che, seppur le idee siano buone, il medico rimane nel recinto reale,
non vede i potenziali guasti di leggi intempestive nella forma. Per poi cadere
nella più facile delle derive, quando si innamora, ricambiato, della regina
Carolina Matilde. Tanto da farci anche una figlia. Ma l’illuminismo del medico
si scontra con le resistenze della corte, con il plenipotenziario Guldberg, con
le idee conservatrici della regina vedova Giuliana Maria di Brunswick-Lüneburg,
seconda moglie del precedente re. I due organizzano un contro-colpo di stato,
imponendo il divorzio e l’esilio a Carolina, e condannando a morte Struensee,
che viene decapitato e poi squartato.
Nonostante la morte, ed il tentativo di farne
dimenticare le opere e le idee, saranno proprio queste invece che fermenteranno
nel popolo e ne conquisteranno l’animo. Anche attraverso il corpo che la figlia
del medico, poi riconosciuta dal re, diventerà uno dei centri della vita
politica illuminata dei paesi scandinavi. Se avete voglia, ci sono bei sunti
biografici in rete.
Ma torniamo alla prosa di Enquist, che ha,
come visto in altra prova, un talento innato di narrare al lettore una “storia
distillata della Storia” (parole del commentatore Baricco). A questo punto io
rimando sempre al capolavoro di Scola sulla Rivoluzione francese.
Il suo stile, a volte narrativo, ed a volte
discorsivo, porta agevolmente noi lettori a spasso per un mondo corrotto ma in
evoluzione. È forse un caso che siamo in Danimarca, patria di Amleto? Enquist
non ci lascia né ci perde di vista. Né tanto meno perde di vista il punto
d’arrivo finale, portandoci a riflettere su uno dei tanti punti nodali
dell’evoluzione storica che ha portato, che ci ha portato al mondo di oggi.
Forse si poteva entrare meglio nella
tipologia delle riforme pensate ed imposte da Struensee. Mentre rimane un po’
fredda la parte semi-finale della “forzata” conversione verso la Chiesa
riformata del medico morituro.
Rimane tuttavia, un bel libro da leggere, ed
un po’ da riflettere.
“Non è questione di anni … Certi vivono
cent’anni e non hanno visto niente.” (165)
Jonas
Hassen Khemiri “Tutto quello che non ricordo” Corriere Boreali 10 euro 8,90
[A:
07/05/2018 – I: 08/09/2020 – T: 09/09/2020] - &&&
e ½
[tit.
or.: Allt jag inte minns; ling. or.: svedese; pagine: 324;
anno 2015]
Continuano a tenere un alto profilo le uscite
di questa collana dedicata alla letteratura del Nord Europa. Sarà anche la
consulenza diretta di quella che credo sia la miglior casa editrice italiana
specializzata in scritture scandinave, cioè “Iperborea”. Che anche qui,
mantiene come io mi aspetto sempre, il titolo originale.
Anche con autori non facili e di rottura,
come questo Khemiri, dove il cognome indica subito che non è sia proprio uno
svedese doc. Certo, non è della prima generazione, ma della seconda; è nato in
Svezia, ovvio con la pelle scura; ma parla (e molto bene) lo svedese, sia
aulico che gergale. Tant’è che il suo primo romanzo è proprio nello svedese
“basso” delle periferie, raccontando episodi di emarginazione. Temi che ha
continuato a riproporre nella decennale carriera teatrale. Ed anche qui,
sebbene problemi e discorsi siano altri, c’è sempre l’idea di guardare questi
neri che parlano svedese e che vogliono vivere una vita normale, a prescindere
dal colore della pelle.
Tuttavia, non è un romanzo
sull’emarginazione, ma sull’amore, sull’amicizia e sulla difficoltà di
conoscere l’altro. La struttura del romanzo risente molto dell’esperienza
teatrale, che è un continuo dialogo tra qualcuno e l’autore (che poi
nell’ultimo capitolo compare anche in prima persona). L’idea di Khemiri è di
ricostruire la personalità, la vita, il modo di essere e di pensare di Samuel,
un ragazzo meno che trentenne, che si schianta con la macchina contro un
albero. Incidente o suicidio? Per sciogliere il dubbio l’autore decide di
intervistare tutte le persone che sono entrate in contatto con Samuel nella sua
breve vita.
In particolare, si focalizza su tre personaggi:
la Pantera, Laide e Vanand. Quest’ultimo, in realtà, diventa il basso continuo
della storia. Che sono sue le parole che si alternano alle altre voci. Cioè, lo
scritto fa parlare una persona, e poi Vanand. Un’altra e poi Vanand. In modo
che le parole di questo che sembra essere l’amico più vicino di Samuel
risultino da contraltare alle parole degli altri. Anche se, e lo capiamo
presto, Vanand non è affidabile. È sempre vissuto ai margini della legge, anche
oltre, tant’è che l’intervista si svolge in un carcere. Non solo, seppur
attirato quasi omosessualmente da Samuel, e sebbene abbiano a lungo vissuto
insieme, mai sono andati operativamente oltre le soglie dell’amicizia. Anche
se, soprattutto da parte di Vanand, sembra esserci il desiderio. Che Samuel lo
fa sentire bene, che Samuel non lo prende in giro, ascolta quello che dice con
partecipazione. Anche perché Samuel ascolta tutti con partecipazione. Ma non sa
cosa vuole essere o fare nella vita.
Anche la sua grande amica, l’artista
estemporanea che si fa chiamare Pantera ne tratteggia il modo di essere come
una persona pronta a tutte le esperienze (una che vuole farle tutte per capire
quale sia la sua vita), ma che pare agisca poco in prima persona.
Diverso è il rapporto con Laide, ragazza più
grande di Samuel, con la quale si istaura un rapporto di grande amore. Le
descrizioni dei loro momenti sono forse le migliori parole che Khemiri ci
propone per descrivere un rapporto nato da un colpo di fulmine, cresciuto
improvvisamente, e poi, questo sì con mistero, deflagrato.
Ci sono elementi di contorno, il lavoro di
Samuel per l’immigrazione, Laide che conosce molte lingue e si industria a
trovare permessi di soggiorno per gli immigrati, la nonna di Samuel (toccanti
le righe in cui si capisce l’Alzheimer della vecchia), la casa che brucia, la
Pantera a Berlino, il taccheggio di Vanand. E tante piccole azioni, attività,
modi di vita che si affastellano nelle dichiarazioni contrapposte, anche a
volte opposte, delle persone che conoscevano Samuel.
Non vi dico come Khemiri scioglierà il
dilemma posto sopra sulla fine di Samuel, ma capiamo che c’è anche qualche
altra cosa, qualche altro dramma che si mescola. E che in fondo, poi, più che
per la fine di Samuel, ci mettiamo a pensare che sia la descrizione della fine
di una generazione di persone che non riescono a vedere quale possa essere il
loro futuro.
Emblematico, ad esempio, è l’atteggiamento di
Samuel, che non sapendo come intavolare un colloquio con una persona
sconosciuta, si prepara elenchi di domande, come se partecipasse ad un
colloquio aziendale. Laide ne è prima conquistata, per la spontaneità e
l’innocenza di Samuel (soprattutto quando continua a chiedere a tutti di
definire cosa sia l’amore), ma poi capisce che c’è anche altro, quando Samuel
ricomincia con le stesse domande ad un'altra persona.
C’è modo di far durare l’amore? Cos’è
l’amicizia? In che modo il sociale modifica la nostra vita? Parliamo di Samuel
o di altro?
Alla fine, pur con dei limiti di
coinvolgimento, è un bel romanzo, che scorre agevolmente tra le strade di una
Stoccolma che anche io conosco, e che mi aspetto di rivedere prima o poi.
“I periodi che ci sembrano lunghi quando
li viviamo diventano brevi nel ricordo, e viceversa.” (190)
Seconda
trama, e per chiudere l’anno un suggerimento di letture che dovrebbe far
nascere qualche sorriso sulle nostre facce stanche.
Mi ripeto che auguro a tutti un Natale più spirituale che colmo di shopping, forse al momento non tanto indicati. Avremo tempo, ne sono sicuro, di regali, di viaggi, e di abbracci reali. Purtroppo, per ora continuiamo con quelli virtuali.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2020
Sono contento di poter chiudere
quest’anno con un richiamo a qualcosa che ci possa far sorridere.
UMORISMO, MANCANZA DI
Come a volte
succede, un suggerimento senza commenti
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI PER TRENTENNI
Giovanni
Boccaccio “Il Decamerone”
Italo
Calvino “Le cosmicomiche”
Giulio
Cesare Croce “Le avventure di Bertoldo”
Nora
Ephron “Affari di cuore”
Théophile
Gautier “Capitan Fracassa”
Giovanni
Guareschi “Mondo piccolo: Don Camillo”
Victor
Hugo “L’uomo che ride”
Anita
Loos “I signori preferiscono
le bionde”
François Rabelais “ Gargantua e Pantagruele ”
P. G. Wodehouse “La gioia è col mattino”
Bugiardino
Devo
dire che qualcosa ho letto, ma questa lista porta ad altri umorismi, forse di
quando era più sul versante del precedente allegato di cure. Ho letto Calvino
quando ancora stavo con i miei, poco dopo essermi innamorato de “I nostri
antenati”. Ho letto brani di Boccaccio, Croce e Rabelais, e da qualche parte ho
sia Gautier che Hugo. Di Wodehouse ho letto molto di Jeeves, ma questo no. Per
quanto riguarda Guareschi ho visto molti film con Fernandel e Gino Cervi. E di
Loos ricordo il formidabile film con Marilyn Monroe e Jane Russell. Allora, di
letture e trame non rimane altro che Nora Ephron.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera 19 euro 7,90
[tramato
il 22 gennaio 2017]
Nora è stata (purtroppo è
morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle
sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la
comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare
che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met
Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con
Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo –
nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983.
Perché questa è in realtà una
“novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di
momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di
cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta
ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche
se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della
stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene
dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che
nasce la storia.
Un romanzo ricco di spunti
divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La
narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti
ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e
quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta
questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese
che scopre il tradimento del marito.
Rachel è sposata con Mark
Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che
condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo
il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni).
Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del
marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La
capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale
della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti.
Infarcita
di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché
non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta
una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate
lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere
un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori
quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in
realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan).
Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è
affetta da malattie veneree).
Punto
nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una
seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma
ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre
che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa
collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si
può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del
tradimento.
Ma
il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel
di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici
e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegola su matrimoni
e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma
e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark
sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta
e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa.
E
noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a
partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il
partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il
libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi
ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione
della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle
altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I
giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha
fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe
raggiunto.
Conclusioni
Sulle scelte non obietto gran che
(anche se a me Boccaccio e Croce non fanno ridere e per Rabelais ho una risata “intellettuale”).
Ma penso che si sarebbe dovuto scavare più sul lato Ephron, magari mettendoci
un Piccolo italiano.
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