Gianrico Carofiglio “L’estate fredda”
Repubblica Noirissimo 4 euro 7,90
[A: 04/07/2017 – I: 17/10/2019 – T: 19/10/2019]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 361; anno:
2016]
Torniamo dopo un paio di anni alla lettura dei
libri di Carofiglio, ripetendo (scusate ma è anche passato del tempo) quanto ne
scrissi. Se si mette sulle orme di Guerrieri, l’avvocato che ha dato il là alla
sua penna, ne esce qualcosa di interessante. Se scrive romanzi “a sé”, ha alti
e bassi, come molti scrittori, ma anche spunti e coinvolgimenti. Ora che torna
al suo nuovo personaggio, continuiamo a rimanere perplessi. Non che il
maresciallo Fenoglio non abbia un suo sviluppo degno di interesse, almeno dal
punto di vista umano. La moglie Serena si è allontanata per un periodo di
riflessione, lui rimane con il suo lavoro (dove è ben capace), con le sue
passeggiate, le sue letture, la visita alla Pinacoteca di Bari (bellissimo
momento), la musica classica (purtroppo cantata…). Purtroppo, Carofiglio decide
di fare un’operazione complessa, lodevole nelle intenzioni, scarsa nei
risultati. Immerge cioè le vicende e le inchieste di Fenoglio nel clima pesante
e torbido del 1992. Poiché noi già sappiamo cosa successe quell’anno, ci
aspettiamo rimandi e citazioni che puntualmente avvengono. Seppur grati perché,
noi e Carofiglio e forse pochi altri, non dimentichiamo Falcone e Borsellino,
il libro è altro e non raggiunge quello che forse spera. Di certo, Carofiglio
ben conosce Bari ed il suo mondo fuori della legalità, ed ha facile gioco nel
raccontarcelo. E nel farci sentire come quel 1992 sia stato un grande fremito
nelle istituzioni, un grande fremito nell’ambito mafioso. Un grande,
grandissimo dolore. Ecco allora che innesta una vicenda di mafia (o di camorra
o di altra sigla o tipologia malavitosa) che potrebbe essere tipica. Per
ragione che all’inizio non conosciamo, inizia in quel di Bari una lotta tra
fazioni camorriste. Ci sono sparizioni eccellenti, ci sono sparatorie. Su tutto
si innesta il rapimento del figlio di Grimaldi, un boss della Sacra Corona (o
Società Nostra come viene chiamata in loco). Richiesta di riscatto, pagamento,
ma il bimbo viene trovato morto. A questo punto, Lopez, il rivale di Grimaldi per
il controllo del territorio, si consegna alla polizia. Il magistrato e Fenoglio
si addentrano allora ad un lungo interrogatorio che ci delucida oltre ogni dire
su cosa è avvenuto e sta avvenendo in quel di Bari. Purtroppo, sono 140 pagine
che non ci portano a nulla. Certo, vediamo come si muove la malavita, i riti,
le tappe, le rapine, gli omicidi. Ma non sono funzionali alla trama (noi
vorremmo sapere chi ha ucciso il bimbo). Servono a riportarci nel clima del
’92, ma non dovrebbe essere questo il senso del libro. Tanto che dopo 140
pagine arriviamo all’uccisione di Borsellino ed alla convinzione che Lopez, nel
rapimento e morte, non c’entri per nulla. Inoltre, non ci facciamo neanche le
domande della quarta di copertina, che poco ci cale il motivo del pentimento di
Lopez. Che nulla ha a che fare con la soluzione del mistero o con le morti in
Sicilia. Sappiamo solo che dopo più di 200 pagine siamo ancora al punto di
partenza. Qui, finalmente, Carofiglio capisce che bisogna cambiare ritmo, che
bisogna far pensare ed agire il nostro maresciallo. Nel passeggiare, nel
riflettere ad alta voce con l’appuntato Pellecchia, ed in piccole attività
minori, Fenoglio intuisce che la soluzione potrebbe essere altrove. Magari là
dove sembrava accennare Lopez parlando della moda dei sequestri lampo. Idea
avvalorata dalla scoperta che il bimbo soffriva di cuore, per cui potrebbe
essere stato ucciso dallo spavento, una morte al di là di sicuro delle
intenzioni dei rapitori. Approfondendo questo filone, come non vi dico di certo,
Fenoglio e Pellecchia arrivano ad una ipotesi più realistica. Trovano possibili
riscontri, trovano un possibile punto debole. Sul quale fanno leva per
scardinare il tutto. Arrivando a risolvere il mistero della morte in una scena
finale che si svolge quasi in contemporanea con la morte di Borsellino.
Fenoglio risolve il caso, e forse anche altri problemi collaterali di cui anche
qui poco ci interessa o coinvolge. Rimarco soltanto che nella perquisizione
finale, torna sulla scena l’ispettore Montemurro, alter ego di Fenoglio nella
precedente inchiesta. Però, e mi ripeto, si poteva tagliare quasi una metà del
libro, e non ne avremmo sentito la mancanza. Peccato, che forse il libro stesso
avrebbe tratto giovamento dalla maggior velocità. Qualche punto in più, per il
ricordo di tutti i magistrati uccisi.
“Non bisogna dare le emozioni e i sentimenti per
scontati. Vanno condivisi, vanno detti e resi tangibili. Non bisogna dare
l’amore per scontato.” (25)
“Quando sei omonimo di un personaggio famoso … c’è
sempre uno della famiglia che dice che siete parenti.” (181) [e non si parla di
autovetture…]
Gaetano Savatteri “La fabbrica delle
stelle” Repubblica Noirissimo 14 euro 7,90
[A: 11/09/2017 – I: 28/10/2019 – T: 29/10/2019]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 265; anno:
2016]
Non ho letto nulla delle prove letterarie di
Gaetano Savatteri, ma ho imparato a conoscerne la scrittura in alcuni (due) racconti
letti nelle antologie di Sellerio. Con al centro il personaggio del
giornalista-investigatore Saverio Lamanna. Letture scorrevoli, con punte
ironiche a me confacenti. Per cui, non nego il piacere sottile di leggere il
primo romanzo con al centro il buon Saverio. Che si rivela gradevole come i
racconti, anche se la misura “libro” ancora non è ben gestita. A volte si cade
nell’ironia un po’ fine a sé stessa, tanto per sollevare l’animo ed il sorriso,
altre sembra arenarsi la capacità inventiva, per cui si cade in momenti (per
fortuna non lunghi) di inutili arzigogolature. Ma nel complesso un libro
piacevole, che score via come un prosecco leggero per un antipasto di pesce.
Come nei racconti, fortunatamente, c’è tutto il corredo del “lamanninsmo”:
oltre a Saverio, su cui si ritorna, c’è Suleima, la bella forse fidanzabile, e
c’è Peppe, il suo alter-ego ruspante, che dona tocchi di vivacità al testo, e
che spesso riesce a riportare Saverio sulla terra. Seppur inserito nella collana
“Noirissimo”, è più un racconto lungo d’atmosfera, dato che il giallo in sé si
liquida in poche battute, un po’ scontate forse. Così come il gialletto di contorno,
la scomparsa del figlio di un amico di Peppe, che poi, essendo maggiorenne, se
n’è solo andato via da una famiglia un po’ troppo teledipendente. Ma torniamo
al giallo centrale. Saverio, licenziato da una sicumera ministeriale perché non
riesce a stare zitto, e tornato nella villaggevole Makari dell’infanzia, dove
trova appunto il Peppe, mentore e marinaio, e Suleima, laureata bolzanina in
trasferta, cameriera e presto accolta con reciproca soddisfazione nel letto di
Saverio. Alla ricerca di soldi, Saverio accetta di fare da guardia del corpo
alla bella e ricca Gea, produttrice di film impresentabili, con la sua corte di
gente “fuori”: l’ex-fidanzato manesco Alo Pereira, la segretaria tuttofare
Arianna, il press-agent gay Enzo. Quindi con Peppe, la nostra coppia si
trasferisce al Lido, ma non riesce ad impedire né prima un paio di ceffoni di
Alo a Gea, con Alo che poi si allontana con la sua nuova fiamma, la lungagnona Irene,
né tanto meno la morte di Gea. Tutti gli indizi sono contro Alo, ma i nostri, forti
di piccoli ragionamenti e di una foto scattata nella deserta Poveglia (isoletta
di fronte al Lido verso Malamocco, per i non veneziani), ricostruiscono
facilmente il vero andamento della serata, assicurando alla giustizia chi di
dovere. Premesso che con facili ragionamenti, una volta presentati gli attori
sulla scena, se c’era un morto, già si sapeva chi fosse stato a manovrare il
posacenere fatale, ovvio che non è questo che interessa noi, Saverio o Gaetano.
A tutti interessa l’atmosfera. Italiana, con le giuste considerazioni sullo
sfascio cui stiamo arrivando (ed a tre anni dalla scrittura, caro Gaetano,
stiamo di certo peggiorando). Ma anche qualche bella tirata sul finto bel mondo
della quinta arte, magistralmente presa in giro dal nostro Peppe, acclamato
“fashion star” quando si presenta in smoking e hawaianas sul red carpet. O la
storia del film di Gea, intitolato “Nutellah (con l’acca) Dark Party”, che
quando Saverio cerca di raccontarci la trama ne capiamo meno di quanto viene
scritto sulla carta. Con attori improbabili, come appunto l’Alo di Gea (che,
con facili battute, quando vuole scagionarsi, Saverio l’apostrofa con lo
scontato “Sostiene Pereira…”) o Amandina, americana scosciatissima. E registi
birmani incarcerati in patria. Con giornalisti vaganti in cerca di scoop, ex o
quasi di Saverio, come la buona Marina che si perde per lo sgangherato Peppe
(anche se poco ricambiata) e la sua amica Fiorenza, che vorrebbe adescare
Saverio, ma quando compare all’improvviso Suleima non c’è più storia né tette
che tengano. Savatteri è gradevole per me in quel suo divagare e connettere
frasi con altre reminiscenze, che mi ricordano le gare di canzoni d’antan con
la mia amica Grazia in un viaggio di una dozzina o più di anni fa. Dicevo delle
battute alla Savatteri. Che ovviamente mi ha copiato. Come ad esempio quando,
dopo un lungo girovagare, incontra di nuovo Marina nel ristorante “Corte
Sconta” (e salutatemi Hugo Pratt), questa lo guarda e gli dice “Ancora tu?”, e
Saverio non può che rispondere: “Ma non dovevamo vederci più?”. O la tiritera
su quanto sono sfortunati i veneziani (o i romani) a nascere in un posto così
bello ed averne gli occhi pieni, mentre se uno nasce a Gela o a Palma di
Montechiaro, arriva a Palermo e si riempie gli occhi e la mente, dicendo ma che
bella città (anche escludendo mondezze e degradi vari). Al fine, una menzione
per la frase che riporto, e che di colpo mi ha riportato a 42 anni fa, quando
proprio in quel di Triscina si stava con Mario, Corradino, Giuzzo, Robertino,
Luciano, Cesare, e tanti altri che non menziono ma che ricordo ad uno ad uno.
Loro sanno il perché. Ed io li abbraccio, ora e sempre.
“Un
mese e mezzo fa, dopo una litigata al largo di Triscina…” (49)
Enrico Franceschini “L’uomo della città
vecchia” Repubblica Noirissimo 6 euro 7,90
[A: 25/07/2017 – I: 13/11/2019 – T: 14/11/2019]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno:
2013]
Avevo letto di Enrico
Franceschini l’interessante
libro di ricordi su Bologna ed i suoi caldi anni, ed aspettavo di leggerne
questo nuovo filone, che so ha prodotto anche altri libri, con il suo lato
nero-giallo-indagatore. Franceschini, da ottimo giornalista, anche qui spiega
le sue armi migliori, sfornando un libro che sembra una successione di articoli
da “La Repubblica”. Non a caso uno dei punti centrali è proprio un giornalista,
Paolo, che ricalca molto lo stesso Enrico. Corrispondente estero, a più agio
negli alberghi che in una casa, a più agio con la toccata e fuga che con
rapporti stabili. Ma questo che è un bel modo di scrivere, risulta alla fine
anche un limite nella stesura di un romanzo, che ha bisogno di raccordi, di
passi diversi, di entrare in punta di piedi, e guardare e farci vivere insieme
le situazioni. Il secondo punto piacevole del libro è la città di Gerusalemme.
Si vede e si capisce che, come per me, anche per Enrico la città mille volte
santa è una città speciale. A prescindere ed oltre il fatto (o i fatti) di
religione. Seguendo le vicende della città vecchia, rivedo l’albergo di
Al-Walid vicino alla porta di Giaffa, mi sento passeggiare per i quattro
quartieri, salire sul monte degli Ulivi, aspettare il portiere del Santo
Sepolcro, passare i controlli per avvicinarsi al Muro Occidentale. Inoltre, la
vicenda si svolge nel marzo del 2000, ed io visitai Israele e Gerusalemme per
l’ennesima ma non ultima volta proprio un mese dopo. A sandwich tra la visita
di Giovanni Paolo II del marzo e le provocazioni di Ariel Sharon del settembre.
Ovvio che una città ed un periodo così complesso, non possono che evocare
complotti, servizi segreti, lotte intestine tra fazioni ed all’interno delle
stesse consorterie religiose. Tra l’altro, ero di fronte alla Torre di David il
25 aprile, 85° anniversario della strage armena, con annesso corteo della
minoranza perseguitata. Ed essendo sabato, con altrettanto conseguente assalto
dei “haredim” oltranzisti. Tronando alle lotte varie, ed alla conoscenza non
banale di Franceschini della politica mediorientale, anche qui con piglio
giornalistico, Enrico e Paolo ci parlano dei vari Servizi che lì si muovono, a
volte in lotta, a volte scambiandosi favori. Sul campo israeliano abbiamo lo
Shin Bet, la polizia militare, ed il Mossad. E sul campo la bella Maya, gamba
lunga, bel fisico, abile nelle infiltrazioni ed imbattibile nel tiro con la
pistola. Nel campo Vaticano, una misteriosa Entità, dove frati ed altri
prelati, spesso di piccolo cabotaggio, lavorano, nell’ombra e non solo, per
mantenere posizioni e privilegi, politici e religiosi, dei vessilli
bianco-gialli, con padre Pietro che esemplifica lo spregiudicato agente ed il
tormentato prete. Anche per la storia personale, che Pietro Marulli ha alle
spalle una decina di anni di carcere (forse meno) per associazione sovversiva,
in quel di Bologna dei tempi brigatisti, dove frequentava l’estrema sinistra
(anche oltre estrema) insieme al futuro giornalista Paolo (e quella ferita tra
i due ancora non è rimarginata). Sullo sfondo, personaggi, ma non protagonisti,
anche i servizi palestinesi. C’è ancora l’OLP di Arafat e c’è l’Hamas dello
sceicco Yussin, prima che entrambi nel 2004 muoiono. Yasser per una malattia
mai chiarita, Ahmed colpito dai missili israeliani. L’idea di Franceschini è
quella del ritrovamento da parte degli “haredim” ebrei oltranzisti di un corpo
imbalsamato nelle fondamenta di una casa della Città Vecchia. L’idea degli
“haredim” che sia il corpo dell’uomo chiamato Gesù (per la posizione,
l’anzianità e le ferite sul costato), con l’idea di sbugiardare la resurrezione
del Cristo durante la visita papale. Maya e Pietro, con una inedita alleanza
israelo-vaticana, vengono incaricati di sventare la minaccia. Pietro elabora un
astuto piano per penetrare nella casa degli “haredim” ma ha bisogno di un aiuto
che chiede al suo comunque amico Paolo. Nel frattempo, anche gli oltranzisti
arabi si muovono, cercando di trovare il modo, tramite una cellula di Al-Qaeda,
di colpire il Papa quando andrà a pregare al Muro Occidentale. Qui sarà Hamas
che darà una mano all’OLP per sventare questa minaccia. I brevi capitoli ci
presentano, come dicevo in stile giornalistico, vari personaggi coinvolti. Il
giornalista, la spia, il prete, ma anche la prostituta, l’ebreo ossessionato
dal sesso, l’arabo disincantato, il custode delle chiavi del Santo Sepolcro. Storia
di alto e basso profilo si mescolano, portando spesso il discorso anche su
tematiche non banali. Chi sia stato Gesù, il ruolo della Chiesa e delle chiese,
il Sepolcro, il Golgota, le definizioni del bene e del male. Tuto ben scritto,
con la pulce finale che ci possa essere verità nella finzione. Avrebbe potuto
giungere altri traguardi di interesse, ma questi piccoli freni ne rallentano la
corsa. Con quell’esortazione che riporto in fondo, dovuto al cardinale Martini,
che ritengo sia stato personalmente una delle personalità più interessanti dei
tempi vissuti (anche) da mio padre.
“Credo nel Bene e nella possibilità di farlo
entrare nei cuori della gente, anche nei più duri.” (153)
Marco
Malvaldi “Negli occhi di chi guarda” Sellerio euro 14
[A:
01/11/2017 – I: 30/10/2019 – T: 31/10/2019] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 274; anno: 2017]
Devo
dire che esco da questa veloce lettura di uno degli ultimi libri di Malvaldi
leggermente deluso. Già so, intanto, che quando non siamo dalle parti del
BarLume bisogna aspettarsi una prova in minore. Tuttavia, i tentativi di
mescolare personaggi storici (più o meno) con delle belle storie, unite
all’indubbia verve del nostro toscano, sono sempre stati abbastanza gradevoli.
Qui, al contrario, non abbiamo personaggi, ma solo tipi. Ci rimane
l’ambientazione, che, in effetti, in quel di Castagneto Carducci ha un suo
perché. Così come l’hanno i cenni all’Isola d’Elba ed a Marina di Campiglia. Ma
la storia non decolla, tanto che a lungo mi domandavo se collocarla tra i
romanzi o tra le tipologie giallo-poliziesche. Alla fine, hanno prevalso i
morti, ed è andata a finire nella seconda scatola. Eppur con dei rimpianti, che
in effetti, la storia delle morti è fragilina, e decodificabile, non solo negli
occhi di guarda cosa succede, ma anche di chi legge il libricino di Sellerio
(parlo in diminutivo che non si raggiungono neanche le 300 pagine, cosa che
ultimamente non succede spesso). La location, come direbbero i cineasti, di cui
dicevo, si cristallizza in una tenuta, il Poggio alle Ghiande, proprietà dei
gemelli Cavalcanti. Alfredo broker ed in rosso perenne, Zeno collezionista
d’arte con una solida base economica. Una tenuta che nei mesi estivi ospita una
serie variopinta di personaggi: Giancarla chimica in pensione e distillatrice
di tutto, Riccardo Maria meccanico di formula 1 e gran mangiatore, Anna Maria campionessa
di burraco, divorziata e sempre con un penchant verso un Cavalcanti, i coniugi
Enrico e Cristina, lui direttore d’orchestra, lei violinista, entrambi
pensionati ed ospitanti figli adottivi e nipoti. Inoltre, ci sono i famigli: il
polacco Piotr, che risolve tutto a varechina e religione, e Raimondo, ex-
internato in manicomio, nume tutelare di tutta la tenuta. Incidentalmente, poi,
ci sono Margherita, filologa belloccia, che cerca di catalogare e datare la
collezione di Zeno, l’architetto Marco, strampalato e tourettiano, e l’ingegnere
Giorgio, entrambi su incarico di una holding cinese che vuole acquistare il
Poggio. Noi seguiamo la vicenda, però, con l’occhio puntato su Piergiorgio,
genetista nonché spasimante senza finora successo di Margherita, studioso dei
gemelli omozigoti, come i Cavalcanti. L’estro di Malvaldi si esplica qui
maggiormente, nei personaggi, nelle loro manie, nelle loro interazioni. Il filo
della storia è invece esili: i cinesi vogliono comprare il Poggio, Alfredo
vuole vendere, Zeno no. Fanno una strana scommessa (chi tra i due ha i telomeri
più lunghi, calcolati dal genetista PJ, abbreviazione di Piergiorgio). Vince
Alfredo, ma Raimondo da fuori di matto minacciandolo parlando di una tomba. La
notte Raimondo muore carbonizzato. Nel corso delle indagini si scopre una tomba
etrusca, ma ormai depredata. Chi era il tombarolo, insieme a Raimondo? Nel via
vai di indagini ed accuse, l’esimio Marco accusa Zeno di essere gay e di aver
visto Raimondo nudo. Il giorno dopo anche Marco muore, precipitando da un
dirupo. È ovvio da tutte le premesse che il colpevole deve essere uno dei
gemelli, ma quale? Intanto si dipana la storia parallela della ricerca di un
disegno di Ligabue (il pittore, non il cantante) che aveva passato del tempo in
manicomio con Raimondo e che Raimondo possedeva. Scoperto il Ligabue, si scopre
anche il colpevole e tutti a casa. Quello che possiamo dire è che PJ conquista la
bella Margherita, e passeranno le vacanze all’Elba. Po si vedrà. Come detto, le
cose migliori sono gli schizzi dei personaggi, le loro manie, le loro capacità.
Il genetista PJ che a vista determina la sindrome di Tourette nell’architetto e
il pemfigoide bolloso di Lever in Raimondo. Le finte mini-biografie di Marco
che si inventa storielle assurde nelle sue mail al fratello, come quella del
mago dell’olfatto Jean-François Clavecin Sana-Cordes Saviozzì o l’urbanista
islamico Ibn Hassan Phandespagn ben Zhuppat al-Khermes. Non mancano citazioni trasversali,
come l’ovvia assonanza del cognome Cavalcanti (pur ben diffuso in Toscana) con
il sodale di Dante; o il gentile omaggio del chimico Malvaldi (e qui si notano
le sue capacità in materia) con il grande matematico De Finetti (donandone il
cognome ironicamente ad un ingegnere). E forse ce ne sono altre, ma più private
o forse meno interessanti per me. Ripeto, come al solito, i miei concetti base.
Poi citazioni dotte, come l’interessante “L’età dell’inconscio” di Eric Kandel
sul rapporto tra arte e neuroscienze, o l’aneddoto di Anthony Hopkins ed il
libro “La ragazza di Petrovka” (non ve lo narro, lo trovate sul web). Malvaldi
ha una indubbia capacità di inserire intarsi ironici in quasi tutti i contesti
in cui scrive. Nella sua serie maestra, e soprattutto nelle prime puntate,
erano funzionali e spiazzanti. Poi vanno un po’ scemando, fino ad essere quasi
fini a sé stesse in questo scritto, che non posso che definire minore.
“Se
uno non ha un cazzo da fare dalla mattina alla sera, leggere tanto è naturale.”
(83)
Anche questo mese, alla terza trama, si
parla di libri felici, ma questa volta citando un libro che ci riporta alle
nostre angosce attuali.
Ho
faticato molto questa settimana, che il PC sta facendo bizze, e mi ha fatto
perdere file per me importanti e che spero di recuperare prossimamente. Per cui
non dico altro
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella
disamina di libri con rilascio immediato di benessere.
SOLUZIONI
A RILASCIO RAPIDO 4
LIBRI CITATI:
FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY (1953)
MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? di PHILIP DICK (1968)
Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi
una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto
persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete
affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere
negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente
e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste
questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da
questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della
letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro
influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare
le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a
cambiare il mondo.
FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY
Se il tema dei libri bruciati vi infiamma d’indignazione, dovete assolutamente leggere Fahrenheit 451, il classico di fantascienza, pericolosamente realistico, scritto da Ray Bradbury nel 1953. L’autore immagina un futuro distopico in cui leggere è un reato perseguito da squadre di vigili del fuoco che, invece di estinguere incendi, bruciano i libri e le case dove si “nascondono”. Chi legge è considerato un individuo asociale e socialmente pericoloso mentre la norma è vegetare davanti alla televisione, incollati a enormi schermi guardando soap opera infinite o scadenti programmi che prevedono una pseudo partecipazione interattiva. Non c’è tregua neanche la notte perché si dorme con gusci nelle orecchie che trasmettono non stop sceneggiati e notiziari. Questa forma di abbrutimento che distrae dalla propria vita annienta ogni stimolo intellettivo e scambia l’assenza di emozioni per un finto benessere. E una diretta conseguenza dello strapotere della tecnologia e delle logiche del mercato che hanno provocato il declino dei libri trasformando la minoranza di lettori in una pericolosa minaccia alla serenità della massa. Sia mai che un libro possa offrire un punto di vista differente, insinuare un dubbio o una domanda (le domande condannano all’infelicità), stimolare una sensazione forte, un grido, una lacrima, una risata. I libri sono temuti perché «rivelano i pori sulla faccia della vita e la gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive».
Come la protagonista di “Storia di una ladra di libri”, anche Guy Montag, dopo aver letto per caso e furtivamente qualche riga di un libro, inizia a rubarli (salvarli) invece di bruciarli come il suo ruolo di vigile del fuoco imporrebbe. Qualche ragionevole dubbio s’insinua tra le sue false certezze, messe in crisi anche dall’incontro con Clarisse, una ragazza che ha ancora la sensibilità di ammirare le stelle e annusare l’erba, che non guarda la televisione ma chiacchiera e sembra felice. E lei a fargli capire che assenza di emozioni, anche negative, non è felicità, ed è sempre grazie a lei che decide di invertire la rotta. Da un vecchio professore di lettere, invece, apprende l’importanza dei libri, di tutti i libri, anche quelli di fantasia, strumenti che danno sostanza alla nostra vita aiutandoci a prenderla in mano. E così farà Montag.
“Fahrenheit 451” è uno di quei libri di fantascienza in cui la fantasia diventa una sorta di scienza esatta in grado di prevedere con anticipo ciò che noi umani possiamo solo immaginare, tanto per citare “Blade Runner”, ovvero la trasposizione cinematografica di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip Dick, un altro classico del genere fantascientifico da leggere (e da vedere nella versione cult firmata da Ridley Scott). Nato come medicina preventiva, il romanzo di Bradbury è ancora utile per rimediare ai danni causati dalla teledipendenza ovvero se niente «riesce a strapparvi dall’artiglio che v’imprigiona quando mettete piede nel salotto TV», ma rivela la sua efficacia anche se avete i sentimenti intorpiditi, se la cervicale da smartphone o tablet vi impedisce di guardare le stelle, se la vostra capacità di porvi domande sembra atrofizzata, se vi affannate a riempire freneticamente le giornate di impegni o se avete l’impressione di indossare una maschera di felicità. La lettura del romanzo facilita la metabolizzazione del concetto che le fragilità non necessariamente condannano all’infelicità e che una sincera tristezza o un’onesta ammissione di debolezza possono essere più benefiche di una falsa sicurezza e di una frenetica felicità.
L’improvvisa presa di coscienza che la nostra società è quella immaginata da Ray Bradbury, passiva, schiava di bisogni indotti dai media, incapace di riflettere in solitudine e sempre meno creativa e libera, può provocare attacchi di panico e apnee notturne, non necessariamente nocive per la salute perché «a noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno di essere veramente tormentati una volta ogni tanto!». Il rimedio è uno solo; leggere, leggere, leggere.
È obbligatoria l’assunzione di “Fahrenheit 451” ai primi sintomi di disturbi da lettura, ovvero se leggete sempre meno, se la vostra capacità di concentrazione dura neanche il tempo di una pagina e se la tendenza a lasciare a metà un libro si sta cronicizzando.
Con il suo finale in cui la salvezza dell’umanità è nelle mani di un manipolo di uomini che tiene a mente testi letterari andati perduti, il romanzo risulta anche un vaccino contro quella terribile malattia che è la perdita della memoria. Come ha scritto Umberto Eco in una lettera a suo nipote «la memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria». Bradbury aveva già prescritto questa cura negli anni Cinquanta.
Può essere utile affiancare la lettura con la visione del film realizzato da François Truffaut nel 1966.
Commenti
Si parla a lungo di un libro caposaldo delle mie letture,
che rilessi dieci anni fa grazie ad un gradito regalo. Viene citato anche Dick,
altro autore cult della mia giovinezza, ma di questo libro ho solo visto lo
stupendo film di Ridley Scott. Ma qui si parla e si cita Bradbury.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori
s.p. (regalo di Alessandra)
[pubblicato il 18 aprile 2010]
Un classico, ma ci
sono alcuni punti in cui è dice cose che anche dette oggi fanno paura. Risente
i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un certo senso
riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un eponimo e
sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In un
imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita (e uno), le case
diventano dei grandi televisori (e due), dove chi è benestante si permette di
avere un salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte integrante
degli spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri, che
potrebbero far riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo vengono
prima considerati pericolosi (e tre), poi a loro volta proibiti, ed infine
viene istituito un corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a quello
delle persone che li leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni attuale! Il
fuochista Guy Montag, non si sa come e perché, inizia a riflettere su questo
stato di cose, trova il coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro dove… si
tornerà alla lettura. Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e bruciare il
suo capo, sceglie di dar fuoco a quest’ultimo e poi fugge per unirsi ai
ribelli. Il tutto con una guerra che sembra esserci ma che (avendo tolto
l’accesso all’informazione) nessuna sa di sicuro. Se invece di guerra con armi,
ci mettiamo la crisi economica sembra di leggere la cronaca dei gironi nostri.
Dobbiamo trovare il coraggio delle piccole azioni, della ribellione allo
strapotere televisivo che annienta le voci fuori dal coro. Bisognerebbe
prendere tutta la parte centrale del libro che spiega il passaggio dai libri al
monopolio televisivo e farne un monumento. Alla fine, si arriva veramente
stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI NO!!!
“Guy voi avete
davanti un vigliacco. Io vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le
cose, ma molto tempo fa; ma non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che
avrebbero potuto parlare chiaro e tondo quando nessuno era disposto a da rette
al ‘colpevole’ ma non ho aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.”
(96)
“I libri sono
odiati e temuti … perché rivelano .. la vita. La gente comoda vuole solo facce
di luna piena, … inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di
vivere sui fiori invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)
Finalino
Soluzioni rapide, commenti veloci (o quasi). Ma meglio delle
mie parole qui, son le citazioni mie e di Giulia Fiore.
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