domenica 16 febbraio 2020

Italiani vecchi e nuovi - 16 febbraio 2020


Gianrico Carofiglio “L’estate fredda” Repubblica Noirissimo 4 euro 7,90
[A: 04/07/2017 – I: 17/10/2019 – T: 19/10/2019] && e ½  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 361; anno: 2016]
Torniamo dopo un paio di anni alla lettura dei libri di Carofiglio, ripetendo (scusate ma è anche passato del tempo) quanto ne scrissi. Se si mette sulle orme di Guerrieri, l’avvocato che ha dato il là alla sua penna, ne esce qualcosa di interessante. Se scrive romanzi “a sé”, ha alti e bassi, come molti scrittori, ma anche spunti e coinvolgimenti. Ora che torna al suo nuovo personaggio, continuiamo a rimanere perplessi. Non che il maresciallo Fenoglio non abbia un suo sviluppo degno di interesse, almeno dal punto di vista umano. La moglie Serena si è allontanata per un periodo di riflessione, lui rimane con il suo lavoro (dove è ben capace), con le sue passeggiate, le sue letture, la visita alla Pinacoteca di Bari (bellissimo momento), la musica classica (purtroppo cantata…). Purtroppo, Carofiglio decide di fare un’operazione complessa, lodevole nelle intenzioni, scarsa nei risultati. Immerge cioè le vicende e le inchieste di Fenoglio nel clima pesante e torbido del 1992. Poiché noi già sappiamo cosa successe quell’anno, ci aspettiamo rimandi e citazioni che puntualmente avvengono. Seppur grati perché, noi e Carofiglio e forse pochi altri, non dimentichiamo Falcone e Borsellino, il libro è altro e non raggiunge quello che forse spera. Di certo, Carofiglio ben conosce Bari ed il suo mondo fuori della legalità, ed ha facile gioco nel raccontarcelo. E nel farci sentire come quel 1992 sia stato un grande fremito nelle istituzioni, un grande fremito nell’ambito mafioso. Un grande, grandissimo dolore. Ecco allora che innesta una vicenda di mafia (o di camorra o di altra sigla o tipologia malavitosa) che potrebbe essere tipica. Per ragione che all’inizio non conosciamo, inizia in quel di Bari una lotta tra fazioni camorriste. Ci sono sparizioni eccellenti, ci sono sparatorie. Su tutto si innesta il rapimento del figlio di Grimaldi, un boss della Sacra Corona (o Società Nostra come viene chiamata in loco). Richiesta di riscatto, pagamento, ma il bimbo viene trovato morto. A questo punto, Lopez, il rivale di Grimaldi per il controllo del territorio, si consegna alla polizia. Il magistrato e Fenoglio si addentrano allora ad un lungo interrogatorio che ci delucida oltre ogni dire su cosa è avvenuto e sta avvenendo in quel di Bari. Purtroppo, sono 140 pagine che non ci portano a nulla. Certo, vediamo come si muove la malavita, i riti, le tappe, le rapine, gli omicidi. Ma non sono funzionali alla trama (noi vorremmo sapere chi ha ucciso il bimbo). Servono a riportarci nel clima del ’92, ma non dovrebbe essere questo il senso del libro. Tanto che dopo 140 pagine arriviamo all’uccisione di Borsellino ed alla convinzione che Lopez, nel rapimento e morte, non c’entri per nulla. Inoltre, non ci facciamo neanche le domande della quarta di copertina, che poco ci cale il motivo del pentimento di Lopez. Che nulla ha a che fare con la soluzione del mistero o con le morti in Sicilia. Sappiamo solo che dopo più di 200 pagine siamo ancora al punto di partenza. Qui, finalmente, Carofiglio capisce che bisogna cambiare ritmo, che bisogna far pensare ed agire il nostro maresciallo. Nel passeggiare, nel riflettere ad alta voce con l’appuntato Pellecchia, ed in piccole attività minori, Fenoglio intuisce che la soluzione potrebbe essere altrove. Magari là dove sembrava accennare Lopez parlando della moda dei sequestri lampo. Idea avvalorata dalla scoperta che il bimbo soffriva di cuore, per cui potrebbe essere stato ucciso dallo spavento, una morte al di là di sicuro delle intenzioni dei rapitori. Approfondendo questo filone, come non vi dico di certo, Fenoglio e Pellecchia arrivano ad una ipotesi più realistica. Trovano possibili riscontri, trovano un possibile punto debole. Sul quale fanno leva per scardinare il tutto. Arrivando a risolvere il mistero della morte in una scena finale che si svolge quasi in contemporanea con la morte di Borsellino. Fenoglio risolve il caso, e forse anche altri problemi collaterali di cui anche qui poco ci interessa o coinvolge. Rimarco soltanto che nella perquisizione finale, torna sulla scena l’ispettore Montemurro, alter ego di Fenoglio nella precedente inchiesta. Però, e mi ripeto, si poteva tagliare quasi una metà del libro, e non ne avremmo sentito la mancanza. Peccato, che forse il libro stesso avrebbe tratto giovamento dalla maggior velocità. Qualche punto in più, per il ricordo di tutti i magistrati uccisi.
“Non bisogna dare le emozioni e i sentimenti per scontati. Vanno condivisi, vanno detti e resi tangibili. Non bisogna dare l’amore per scontato.” (25)
“Quando sei omonimo di un personaggio famoso … c’è sempre uno della famiglia che dice che siete parenti.” (181) [e non si parla di autovetture…]
Gaetano Savatteri “La fabbrica delle stelle” Repubblica Noirissimo 14 euro 7,90
[A: 11/09/2017 – I: 28/10/2019 – T: 29/10/2019] &&& --  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 265; anno: 2016]
Non ho letto nulla delle prove letterarie di Gaetano Savatteri, ma ho imparato a conoscerne la scrittura in alcuni (due) racconti letti nelle antologie di Sellerio. Con al centro il personaggio del giornalista-investigatore Saverio Lamanna. Letture scorrevoli, con punte ironiche a me confacenti. Per cui, non nego il piacere sottile di leggere il primo romanzo con al centro il buon Saverio. Che si rivela gradevole come i racconti, anche se la misura “libro” ancora non è ben gestita. A volte si cade nell’ironia un po’ fine a sé stessa, tanto per sollevare l’animo ed il sorriso, altre sembra arenarsi la capacità inventiva, per cui si cade in momenti (per fortuna non lunghi) di inutili arzigogolature. Ma nel complesso un libro piacevole, che score via come un prosecco leggero per un antipasto di pesce. Come nei racconti, fortunatamente, c’è tutto il corredo del “lamanninsmo”: oltre a Saverio, su cui si ritorna, c’è Suleima, la bella forse fidanzabile, e c’è Peppe, il suo alter-ego ruspante, che dona tocchi di vivacità al testo, e che spesso riesce a riportare Saverio sulla terra. Seppur inserito nella collana “Noirissimo”, è più un racconto lungo d’atmosfera, dato che il giallo in sé si liquida in poche battute, un po’ scontate forse. Così come il gialletto di contorno, la scomparsa del figlio di un amico di Peppe, che poi, essendo maggiorenne, se n’è solo andato via da una famiglia un po’ troppo teledipendente. Ma torniamo al giallo centrale. Saverio, licenziato da una sicumera ministeriale perché non riesce a stare zitto, e tornato nella villaggevole Makari dell’infanzia, dove trova appunto il Peppe, mentore e marinaio, e Suleima, laureata bolzanina in trasferta, cameriera e presto accolta con reciproca soddisfazione nel letto di Saverio. Alla ricerca di soldi, Saverio accetta di fare da guardia del corpo alla bella e ricca Gea, produttrice di film impresentabili, con la sua corte di gente “fuori”: l’ex-fidanzato manesco Alo Pereira, la segretaria tuttofare Arianna, il press-agent gay Enzo. Quindi con Peppe, la nostra coppia si trasferisce al Lido, ma non riesce ad impedire né prima un paio di ceffoni di Alo a Gea, con Alo che poi si allontana con la sua nuova fiamma, la lungagnona Irene, né tanto meno la morte di Gea. Tutti gli indizi sono contro Alo, ma i nostri, forti di piccoli ragionamenti e di una foto scattata nella deserta Poveglia (isoletta di fronte al Lido verso Malamocco, per i non veneziani), ricostruiscono facilmente il vero andamento della serata, assicurando alla giustizia chi di dovere. Premesso che con facili ragionamenti, una volta presentati gli attori sulla scena, se c’era un morto, già si sapeva chi fosse stato a manovrare il posacenere fatale, ovvio che non è questo che interessa noi, Saverio o Gaetano. A tutti interessa l’atmosfera. Italiana, con le giuste considerazioni sullo sfascio cui stiamo arrivando (ed a tre anni dalla scrittura, caro Gaetano, stiamo di certo peggiorando). Ma anche qualche bella tirata sul finto bel mondo della quinta arte, magistralmente presa in giro dal nostro Peppe, acclamato “fashion star” quando si presenta in smoking e hawaianas sul red carpet. O la storia del film di Gea, intitolato “Nutellah (con l’acca) Dark Party”, che quando Saverio cerca di raccontarci la trama ne capiamo meno di quanto viene scritto sulla carta. Con attori improbabili, come appunto l’Alo di Gea (che, con facili battute, quando vuole scagionarsi, Saverio l’apostrofa con lo scontato “Sostiene Pereira…”) o Amandina, americana scosciatissima. E registi birmani incarcerati in patria. Con giornalisti vaganti in cerca di scoop, ex o quasi di Saverio, come la buona Marina che si perde per lo sgangherato Peppe (anche se poco ricambiata) e la sua amica Fiorenza, che vorrebbe adescare Saverio, ma quando compare all’improvviso Suleima non c’è più storia né tette che tengano. Savatteri è gradevole per me in quel suo divagare e connettere frasi con altre reminiscenze, che mi ricordano le gare di canzoni d’antan con la mia amica Grazia in un viaggio di una dozzina o più di anni fa. Dicevo delle battute alla Savatteri. Che ovviamente mi ha copiato. Come ad esempio quando, dopo un lungo girovagare, incontra di nuovo Marina nel ristorante “Corte Sconta” (e salutatemi Hugo Pratt), questa lo guarda e gli dice “Ancora tu?”, e Saverio non può che rispondere: “Ma non dovevamo vederci più?”. O la tiritera su quanto sono sfortunati i veneziani (o i romani) a nascere in un posto così bello ed averne gli occhi pieni, mentre se uno nasce a Gela o a Palma di Montechiaro, arriva a Palermo e si riempie gli occhi e la mente, dicendo ma che bella città (anche escludendo mondezze e degradi vari). Al fine, una menzione per la frase che riporto, e che di colpo mi ha riportato a 42 anni fa, quando proprio in quel di Triscina si stava con Mario, Corradino, Giuzzo, Robertino, Luciano, Cesare, e tanti altri che non menziono ma che ricordo ad uno ad uno. Loro sanno il perché. Ed io li abbraccio, ora e sempre.
“Un mese e mezzo fa, dopo una litigata al largo di Triscina…” (49)
Enrico Franceschini “L’uomo della città vecchia” Repubblica Noirissimo 6 euro 7,90
[A: 25/07/2017 – I: 13/11/2019 – T: 14/11/2019] &&& -  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2013]
Avevo letto di Enrico Franceschini l’interessante libro di ricordi su Bologna ed i suoi caldi anni, ed aspettavo di leggerne questo nuovo filone, che so ha prodotto anche altri libri, con il suo lato nero-giallo-indagatore. Franceschini, da ottimo giornalista, anche qui spiega le sue armi migliori, sfornando un libro che sembra una successione di articoli da “La Repubblica”. Non a caso uno dei punti centrali è proprio un giornalista, Paolo, che ricalca molto lo stesso Enrico. Corrispondente estero, a più agio negli alberghi che in una casa, a più agio con la toccata e fuga che con rapporti stabili. Ma questo che è un bel modo di scrivere, risulta alla fine anche un limite nella stesura di un romanzo, che ha bisogno di raccordi, di passi diversi, di entrare in punta di piedi, e guardare e farci vivere insieme le situazioni. Il secondo punto piacevole del libro è la città di Gerusalemme. Si vede e si capisce che, come per me, anche per Enrico la città mille volte santa è una città speciale. A prescindere ed oltre il fatto (o i fatti) di religione. Seguendo le vicende della città vecchia, rivedo l’albergo di Al-Walid vicino alla porta di Giaffa, mi sento passeggiare per i quattro quartieri, salire sul monte degli Ulivi, aspettare il portiere del Santo Sepolcro, passare i controlli per avvicinarsi al Muro Occidentale. Inoltre, la vicenda si svolge nel marzo del 2000, ed io visitai Israele e Gerusalemme per l’ennesima ma non ultima volta proprio un mese dopo. A sandwich tra la visita di Giovanni Paolo II del marzo e le provocazioni di Ariel Sharon del settembre. Ovvio che una città ed un periodo così complesso, non possono che evocare complotti, servizi segreti, lotte intestine tra fazioni ed all’interno delle stesse consorterie religiose. Tra l’altro, ero di fronte alla Torre di David il 25 aprile, 85° anniversario della strage armena, con annesso corteo della minoranza perseguitata. Ed essendo sabato, con altrettanto conseguente assalto dei “haredim” oltranzisti. Tronando alle lotte varie, ed alla conoscenza non banale di Franceschini della politica mediorientale, anche qui con piglio giornalistico, Enrico e Paolo ci parlano dei vari Servizi che lì si muovono, a volte in lotta, a volte scambiandosi favori. Sul campo israeliano abbiamo lo Shin Bet, la polizia militare, ed il Mossad. E sul campo la bella Maya, gamba lunga, bel fisico, abile nelle infiltrazioni ed imbattibile nel tiro con la pistola. Nel campo Vaticano, una misteriosa Entità, dove frati ed altri prelati, spesso di piccolo cabotaggio, lavorano, nell’ombra e non solo, per mantenere posizioni e privilegi, politici e religiosi, dei vessilli bianco-gialli, con padre Pietro che esemplifica lo spregiudicato agente ed il tormentato prete. Anche per la storia personale, che Pietro Marulli ha alle spalle una decina di anni di carcere (forse meno) per associazione sovversiva, in quel di Bologna dei tempi brigatisti, dove frequentava l’estrema sinistra (anche oltre estrema) insieme al futuro giornalista Paolo (e quella ferita tra i due ancora non è rimarginata). Sullo sfondo, personaggi, ma non protagonisti, anche i servizi palestinesi. C’è ancora l’OLP di Arafat e c’è l’Hamas dello sceicco Yussin, prima che entrambi nel 2004 muoiono. Yasser per una malattia mai chiarita, Ahmed colpito dai missili israeliani. L’idea di Franceschini è quella del ritrovamento da parte degli “haredim” ebrei oltranzisti di un corpo imbalsamato nelle fondamenta di una casa della Città Vecchia. L’idea degli “haredim” che sia il corpo dell’uomo chiamato Gesù (per la posizione, l’anzianità e le ferite sul costato), con l’idea di sbugiardare la resurrezione del Cristo durante la visita papale. Maya e Pietro, con una inedita alleanza israelo-vaticana, vengono incaricati di sventare la minaccia. Pietro elabora un astuto piano per penetrare nella casa degli “haredim” ma ha bisogno di un aiuto che chiede al suo comunque amico Paolo. Nel frattempo, anche gli oltranzisti arabi si muovono, cercando di trovare il modo, tramite una cellula di Al-Qaeda, di colpire il Papa quando andrà a pregare al Muro Occidentale. Qui sarà Hamas che darà una mano all’OLP per sventare questa minaccia. I brevi capitoli ci presentano, come dicevo in stile giornalistico, vari personaggi coinvolti. Il giornalista, la spia, il prete, ma anche la prostituta, l’ebreo ossessionato dal sesso, l’arabo disincantato, il custode delle chiavi del Santo Sepolcro. Storia di alto e basso profilo si mescolano, portando spesso il discorso anche su tematiche non banali. Chi sia stato Gesù, il ruolo della Chiesa e delle chiese, il Sepolcro, il Golgota, le definizioni del bene e del male. Tuto ben scritto, con la pulce finale che ci possa essere verità nella finzione. Avrebbe potuto giungere altri traguardi di interesse, ma questi piccoli freni ne rallentano la corsa. Con quell’esortazione che riporto in fondo, dovuto al cardinale Martini, che ritengo sia stato personalmente una delle personalità più interessanti dei tempi vissuti (anche) da mio padre.
“Credo nel Bene e nella possibilità di farlo entrare nei cuori della gente, anche nei più duri.” (153)
Marco Malvaldi “Negli occhi di chi guarda” Sellerio euro 14
[A: 01/11/2017 – I: 30/10/2019 – T: 31/10/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 274; anno: 2017]
Devo dire che esco da questa veloce lettura di uno degli ultimi libri di Malvaldi leggermente deluso. Già so, intanto, che quando non siamo dalle parti del BarLume bisogna aspettarsi una prova in minore. Tuttavia, i tentativi di mescolare personaggi storici (più o meno) con delle belle storie, unite all’indubbia verve del nostro toscano, sono sempre stati abbastanza gradevoli. Qui, al contrario, non abbiamo personaggi, ma solo tipi. Ci rimane l’ambientazione, che, in effetti, in quel di Castagneto Carducci ha un suo perché. Così come l’hanno i cenni all’Isola d’Elba ed a Marina di Campiglia. Ma la storia non decolla, tanto che a lungo mi domandavo se collocarla tra i romanzi o tra le tipologie giallo-poliziesche. Alla fine, hanno prevalso i morti, ed è andata a finire nella seconda scatola. Eppur con dei rimpianti, che in effetti, la storia delle morti è fragilina, e decodificabile, non solo negli occhi di guarda cosa succede, ma anche di chi legge il libricino di Sellerio (parlo in diminutivo che non si raggiungono neanche le 300 pagine, cosa che ultimamente non succede spesso). La location, come direbbero i cineasti, di cui dicevo, si cristallizza in una tenuta, il Poggio alle Ghiande, proprietà dei gemelli Cavalcanti. Alfredo broker ed in rosso perenne, Zeno collezionista d’arte con una solida base economica. Una tenuta che nei mesi estivi ospita una serie variopinta di personaggi: Giancarla chimica in pensione e distillatrice di tutto, Riccardo Maria meccanico di formula 1 e gran mangiatore, Anna Maria campionessa di burraco, divorziata e sempre con un penchant verso un Cavalcanti, i coniugi Enrico e Cristina, lui direttore d’orchestra, lei violinista, entrambi pensionati ed ospitanti figli adottivi e nipoti. Inoltre, ci sono i famigli: il polacco Piotr, che risolve tutto a varechina e religione, e Raimondo, ex- internato in manicomio, nume tutelare di tutta la tenuta. Incidentalmente, poi, ci sono Margherita, filologa belloccia, che cerca di catalogare e datare la collezione di Zeno, l’architetto Marco, strampalato e tourettiano, e l’ingegnere Giorgio, entrambi su incarico di una holding cinese che vuole acquistare il Poggio. Noi seguiamo la vicenda, però, con l’occhio puntato su Piergiorgio, genetista nonché spasimante senza finora successo di Margherita, studioso dei gemelli omozigoti, come i Cavalcanti. L’estro di Malvaldi si esplica qui maggiormente, nei personaggi, nelle loro manie, nelle loro interazioni. Il filo della storia è invece esili: i cinesi vogliono comprare il Poggio, Alfredo vuole vendere, Zeno no. Fanno una strana scommessa (chi tra i due ha i telomeri più lunghi, calcolati dal genetista PJ, abbreviazione di Piergiorgio). Vince Alfredo, ma Raimondo da fuori di matto minacciandolo parlando di una tomba. La notte Raimondo muore carbonizzato. Nel corso delle indagini si scopre una tomba etrusca, ma ormai depredata. Chi era il tombarolo, insieme a Raimondo? Nel via vai di indagini ed accuse, l’esimio Marco accusa Zeno di essere gay e di aver visto Raimondo nudo. Il giorno dopo anche Marco muore, precipitando da un dirupo. È ovvio da tutte le premesse che il colpevole deve essere uno dei gemelli, ma quale? Intanto si dipana la storia parallela della ricerca di un disegno di Ligabue (il pittore, non il cantante) che aveva passato del tempo in manicomio con Raimondo e che Raimondo possedeva. Scoperto il Ligabue, si scopre anche il colpevole e tutti a casa. Quello che possiamo dire è che PJ conquista la bella Margherita, e passeranno le vacanze all’Elba. Po si vedrà. Come detto, le cose migliori sono gli schizzi dei personaggi, le loro manie, le loro capacità. Il genetista PJ che a vista determina la sindrome di Tourette nell’architetto e il pemfigoide bolloso di Lever in Raimondo. Le finte mini-biografie di Marco che si inventa storielle assurde nelle sue mail al fratello, come quella del mago dell’olfatto Jean-François Clavecin Sana-Cordes Saviozzì o l’urbanista islamico Ibn Hassan Phandespagn ben Zhuppat al-Khermes. Non mancano citazioni trasversali, come l’ovvia assonanza del cognome Cavalcanti (pur ben diffuso in Toscana) con il sodale di Dante; o il gentile omaggio del chimico Malvaldi (e qui si notano le sue capacità in materia) con il grande matematico De Finetti (donandone il cognome ironicamente ad un ingegnere). E forse ce ne sono altre, ma più private o forse meno interessanti per me. Ripeto, come al solito, i miei concetti base. Poi citazioni dotte, come l’interessante “L’età dell’inconscio” di Eric Kandel sul rapporto tra arte e neuroscienze, o l’aneddoto di Anthony Hopkins ed il libro “La ragazza di Petrovka” (non ve lo narro, lo trovate sul web). Malvaldi ha una indubbia capacità di inserire intarsi ironici in quasi tutti i contesti in cui scrive. Nella sua serie maestra, e soprattutto nelle prime puntate, erano funzionali e spiazzanti. Poi vanno un po’ scemando, fino ad essere quasi fini a sé stesse in questo scritto, che non posso che definire minore.
“Se uno non ha un cazzo da fare dalla mattina alla sera, leggere tanto è naturale.” (83)
Anche questo mese, alla terza trama, si parla di libri felici, ma questa volta citando un libro che ci riporta alle nostre angosce attuali.
Ho faticato molto questa settimana, che il PC sta facendo bizze, e mi ha fatto perdere file per me importanti e che spero di recuperare prossimamente. Per cui non dico altro

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 4

LIBRI CITATI:

FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY (1953)

MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? di PHILIP DICK (1968)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY  
Se il tema dei libri bruciati vi infiamma d’indignazione, dovete assolutamente leggere Fahrenheit 451, il classico di fantascienza, pericolosamente realistico, scritto da Ray Bradbury nel 1953. L’autore immagina un futuro distopico in cui leggere è un reato perseguito da squadre di vigili del fuoco che, invece di estinguere incendi, bruciano i libri e le case dove si “nascondono”. Chi legge è considerato un individuo asociale e socialmente pericoloso mentre la norma è vegetare davanti alla televisione, incollati a enormi schermi guardando soap opera infinite o scadenti programmi che prevedono una pseudo partecipazione interattiva. Non c’è tregua neanche la notte perché si dorme con gusci nelle orecchie che trasmettono non stop sceneggiati e notiziari. Questa forma di abbrutimento che distrae dalla propria vita annienta ogni stimolo intellettivo e scambia l’assenza di emozioni per un finto benessere. E una diretta conseguenza dello strapotere della tecnologia e delle logiche del mercato che hanno provocato il declino dei libri trasformando la minoranza di lettori in una pericolosa minaccia alla serenità della massa. Sia mai che un libro possa offrire un punto di vista differente, insinuare un dubbio o una domanda (le domande condannano all’infelicità), stimolare una sensazione forte, un grido, una lacrima, una risata. I libri sono temuti perché «rivelano i pori sulla faccia della vita e la gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive».
Come la protagonista di “Storia di una ladra di libri”, anche Guy Montag, dopo aver letto per caso e furtivamente qualche riga di un libro, inizia a rubarli (salvarli) invece di bruciarli come il suo ruolo di vigile del fuoco imporrebbe. Qualche ragionevole dubbio s’insinua tra le sue false certezze, messe in crisi anche dall’incontro con Clarisse, una ragazza che ha ancora la sensibilità di ammirare le stelle e annusare l’erba, che non guarda la televisione ma chiacchiera e sembra felice. E lei a fargli capire che assenza di emozioni, anche negative, non è felicità, ed è sempre grazie a lei che decide di invertire la rotta. Da un vecchio professore di lettere, invece, apprende l’importanza dei libri, di tutti i libri, anche quelli di fantasia, strumenti che danno sostanza alla nostra vita aiutandoci a prenderla in mano. E così farà Montag.
“Fahrenheit 451” è uno di quei libri di fantascienza in cui la fantasia diventa una sorta di scienza esatta in grado di prevedere con anticipo ciò che noi umani possiamo solo immaginare, tanto per citare “Blade Runner”, ovvero la trasposizione cinematografica di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip Dick, un altro classico del genere fantascientifico da leggere (e da vedere nella versione cult firmata da Ridley Scott). Nato come medicina preventiva, il romanzo di Bradbury è ancora utile per rimediare ai danni causati dalla teledipendenza ovvero se niente «riesce a strapparvi dall’artiglio che v’imprigiona quando mettete piede nel salotto TV», ma rivela la sua efficacia anche se avete i sentimenti intorpiditi, se la cervicale da smartphone o tablet vi impedisce di guardare le stelle, se la vostra capacità di porvi domande sembra atrofizzata, se vi affannate a riempire freneticamente le giornate di impegni o se avete l’impressione di indossare una maschera di felicità. La lettura del romanzo facilita la metabolizzazione del concetto che le fragilità non necessariamente condannano all’infelicità e che una sincera tristezza o un’onesta ammissione di debolezza possono essere più benefiche di una falsa sicurezza e di una frenetica felicità.
L’improvvisa presa di coscienza che la nostra società è quella immaginata da Ray Bradbury, passiva, schiava di bisogni indotti dai media, incapace di riflettere in solitudine e sempre meno creativa e libera, può provocare attacchi di panico e apnee notturne, non necessariamente nocive per la salute perché «a noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno di essere veramente tormentati una volta ogni tanto!». Il rimedio è uno solo; leggere, leggere, leggere.
È obbligatoria l’assunzione di “Fahrenheit 451” ai primi sintomi di disturbi da lettura, ovvero se leggete sempre meno, se la vostra capacità di concentrazione dura neanche il tempo di una pagina e se la tendenza a lasciare a metà un libro si sta cronicizzando.
Con il suo finale in cui la salvezza dell’umanità è nelle mani di un manipolo di uomini che tiene a mente testi letterari andati perduti, il romanzo risulta anche un vaccino contro quella terribile malattia che è la perdita della memoria. Come ha scritto Umberto Eco in una lettera a suo nipote «la memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria». Bradbury aveva già prescritto questa cura negli anni Cinquanta.
Può essere utile affiancare la lettura con la visione del film realizzato da François Truffaut nel 1966.

Commenti

Si parla a lungo di un libro caposaldo delle mie letture, che rilessi dieci anni fa grazie ad un gradito regalo. Viene citato anche Dick, altro autore cult della mia giovinezza, ma di questo libro ho solo visto lo stupendo film di Ridley Scott. Ma qui si parla e si cita Bradbury.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
[pubblicato il 18 aprile 2010]
Un classico, ma ci sono alcuni punti in cui è dice cose che anche dette oggi fanno paura. Risente i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un certo senso riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un eponimo e sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In un imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita (e uno), le case diventano dei grandi televisori (e due), dove chi è benestante si permette di avere un salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte integrante degli spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri, che potrebbero far riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo vengono prima considerati pericolosi (e tre), poi a loro volta proibiti, ed infine viene istituito un corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a quello delle persone che li leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni attuale! Il fuochista Guy Montag, non si sa come e perché, inizia a riflettere su questo stato di cose, trova il coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro dove… si tornerà alla lettura. Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e bruciare il suo capo, sceglie di dar fuoco a quest’ultimo e poi fugge per unirsi ai ribelli. Il tutto con una guerra che sembra esserci ma che (avendo tolto l’accesso all’informazione) nessuna sa di sicuro. Se invece di guerra con armi, ci mettiamo la crisi economica sembra di leggere la cronaca dei gironi nostri. Dobbiamo trovare il coraggio delle piccole azioni, della ribellione allo strapotere televisivo che annienta le voci fuori dal coro. Bisognerebbe prendere tutta la parte centrale del libro che spiega il passaggio dai libri al monopolio televisivo e farne un monumento. Alla fine, si arriva veramente stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI NO!!!
“Guy voi avete davanti un vigliacco. Io vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le cose, ma molto tempo fa; ma non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che avrebbero potuto parlare chiaro e tondo quando nessuno era disposto a da rette al ‘colpevole’ ma non ho aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.” (96)
“I libri sono odiati e temuti … perché rivelano .. la vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, … inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)

Finalino

Soluzioni rapide, commenti veloci (o quasi). Ma meglio delle mie parole qui, son le citazioni mie e di Giulia Fiore.

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