Jo Nesbø “Scarafaggi” Einaudi euro 13,50
(in realtà scontato a 11,48 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 23/09/2019 – T: 26/09/2019]
- &&&
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[tit. or.: Kakerlakkene; ling. or.: norvegese; pagine: 432; anno 1998]
Così, con questo recupero, ho completato
tutta la filiera originale delle storie di Harry Hole scritte dall’ottimo Jo Nesbø. Devo subito dire, che questa,
essendo la seconda storia scritta dall’autore, mi è sembrata molto più vivace
ed interessante delle prove successive, che si sono a mano a mano ingolfate in
introspezioni e digressioni sulle vicende personali, lasciando meno spazio al
noir, all’intreccio, ed anche ad alcuni risvolti politici ed economici che,
nelle prime uscite, avevano fatto del norvegese un autore di culto. Come tutti,
in Europa, ho cominciato a leggere Nesbø dal terzo libro di Hole. Letture
interessanti e coinvolgenti, almeno per le prime tre. Poi inizia la decadenza
di cui parlo altrove, sperando che ultime prove si migliorino. Tre anni fa, non
ricordo più in quale parte del mondo, trovai il primo Nesbø, quello del
pipistrello. Mi deliziai con le avventure australiane del nostro. Ora, nella fortunata
riedizione integrale della Einaudi, ho ritrovato questo secondo libro. Con una
bella ambientazione ed una bella storia. Certo, Hole è sempre messo in mezzo
per il suo lato tendente all’alcool, così che, utilizzando per imprese
disperate, qualcuno pensa di poterne cavalcare le debolezze. Ma qui, non
ancora. Che, colpito dai problemi familiari della sorella down, e deciso a
sospendere la sua alcoolica dipendenza, è coinvolto in una storia thailandese.
Questo, tra l’altro, fa crescere abbastanza il tono ed il piacere del testo.
Che Nesbø parla di una Bangkok reale, quella che vidi anch’io le prime volte
che vi andai, per diletto e per lavoro. Interessante intreccio di caldo asfissiante,
umidità insopportabile, buon cibo e gente, stranamente, molto sorridente. Il
nostro Hole viene inviato laggiù per l’assassinio dell’ambasciatore norvegese.
Stranamente, ma non per il posto, morto con una coltellata in un bordello. O
meglio in un albergo equivoco. Tra l’altro, nell’ex-ergo, Nesbø parla di
misteriose morti di ambasciatori a Bangkok negli anni Sessanta, cosa che le mie
ricerche via rete tenderebbero ad escludere. La capacità di Nesbø comunque è di ricreare il sound degli expatr in
luogo altro dalla terra natia. L’ambasciata, con i suoi punti oscuri, ed i
piccoli (di statura) thailandesi che vi lavorano orgogliosi. Il mondo della
finanza, spericolato e lussuoso. Il mondo dell’imprenditoria, con le sue
piccole e grandi corruzione. Finanche il mondo del turismo sessuale. Che tutti
sanno la Thailandia essere uno dei mercati principali, sì per la pedofilia che
per l’uso di prostitute bambine. Ma non solo per gli expatr, ma anche lo stesso
“sound” di Bangkok: da Patapong a Soi Cowboy 2 e 4, dal karaoke ai go go bar, dal
traffico caotico al vecchio aeroporto (ora c’è quello nuovo, ed è molto
diverso). Mi è mancato solo il bus sul fiume, e magari la casa di Osborne.
L’intreccio, si capisce ben presto che è più complesso di quanto venga
descritto all’inizio, ed anche molto più norvegese che locale. Certo,
l’ambasciatore non è uno stinco di santo, ed è stato catapultato lontano da
Oslo che dava fastidio al partito cristiano al potere. ma forse più per le
scommesse che per tendenze omosessuali. Altri capisaldi del racconto saranno
Loken, strano attaché dell’ambasciata, dalle sparizioni misteriose e dagli altrettanto
strani agganci con i poteri in patria. Jens il finanziere d’arrembaggio, pronto
a gettarsi su tutte le transazioni facoltose del luogo, nonché ad intrecciare
sin dai primi giorni un rapporto stretto (molto stretto) con la moglie
dell’ambasciatore, alcolizzata anche lei e stanca delle tendenze eterodosse del
marito. Finendo con Klipra, l’imprenditore nonché grande corruttore, impegnato
nella costruzione delle grandi arterie per snellire il traffico locale, e per
questo impelagato in difficili momenti economici. Hole, con l’aiuto di Liz, simpatica
capo della polizia locale (una donna, e per di più american-thai), si muove
prima con difficoltà, poi sempre più con la sicurezza (che deriva anche
dall’astensione al bere, cosa che qui da un tocco meno depravante del nostro
detective). Capisce, ma noi lo sapevamo, vero?, che è stato inviato laggiù come
capro espiatorio. Capisce che dietro c’è anche la necessità di una ratifica di
un trattato antiabusi tra Thailandia e Norvegia. Capisce anche che la morte
dell’ambasciatore, in realtà, è tutt’altro. Ritornano le capacità investigativa
di Hole, il suo accorgersi di piccoli dettagli non coincidenti, di discrepanze
tra tempi ed azioni. Con un bel finale, che mette tutto in ordine, dal punto di
vista di chi ha fatto cosa e come, in una lunga discussione tra Harry e Liz.
Peccato che poi, tra lo svelamento delle azioni, e l’arresto di chi materialmente
ha svolto i fatti, a Nesbø venga in mano una parte di “action thriller” che non
riesce a gestire allo stesso modo del resto del romanzo. Ma va bene anche così,
con qualche punto finale in sospeso, ora che ho ricostruito la prima parte
della vita di Hole, a cui rimando sempre quando pensa alle ultime poco
coinvolgenti vicende del nostro detective.
Paula Hawkins “La ragazza del treno” Piemme
euro 19,50
[A: 09/05/2017 – I: 29/09/2019 – T: 30/09/2019] - &&& ---
[tit. or.: The Girl on the Train; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2015]
Un libro che avevo comperato a prezzo pieno
pensando di leggerne subito sull’onda del successo mediatico del libro stesso e
del film correlato. Poi è passato nel dimenticatoio, sono venute altre
priorità, e solo ora, due anni e mezzo dopo, ne leggo. Rimanendo sinceramente
deluso. Non che non sia abbastanza avvincente (quando prende l’abbrivio, dopo
una settantina di pagine, si rimane legati lì aspettando di vedere come va
avanti). Ma la trama alla fine è più scontata di quel che sembra, e l’artificio
di scrivere il romanzo a tre voci, usando le tre donne a modo loro,
protagoniste del libro non sempre riesce a produrre gli effetti sperati. Certo,
il pregresso lavoro della nostra scrittrice Zimbabwe-britannica come scrittrice
di romanzi rosa, le consente di dare voce a Rachel, Megan e Anne come
giustamente una donna che scrive riesce a dare. Tuttavia (e questa è sempre una
mia posizione personale), l’uso di artifici per cercare di complicare anche il
modo di leggere il testo mi lascia sempre perplesso e scontento (e non come la
Carmen, confuso e felice). Comunque, la scrittura della Hawkins ci fa costruire
a poco a poco le personalità delle tre donne, ed in parallela il thriller
prende corpo. C’è Megan, la vittima, di cui vediamo la fragilità casalinga, il
rapporto con il marito Scott, la perdita del lavoro, l’insoddisfazione, le
sedute con lo psicologo Kemal. C’è Anne, l’amante e poi moglie di Tom, la
nascita del bambino, la vita nella casa di Tom che non sentirà mai sua, la
paura verso Rachel. E c’è, prima di tutto, Rachel, il motore della vicenda, una
donna segnata dal rapporto con Tom, di cui è ancora innamorata, dalla
difficoltà e poi impossibilità di avere figli, dal divorzio con Tom, e dal suo
attaccamento all’alcol. Che la porterà anche ad essere licenziata. Ma lei
continua, ogni giorno, a prendere il treno per Londra, girando fino a sera
senza meta nella città che le diventa sempre più ostile. Noi la seguiamo in
questi up and down verso la metropoli, nei suoi pensieri, nella sua curiosità
verso quelle case che vede passare vicino al finestrino. La casa di Megan e
Scott. La casa di Anne e Tom. Il motore scatenante della vicenda sarà la
scomparsa prima, e la morte di Megan. Rachel la vedeva passando, sembrava una
coppia felice. Perché Megan muore? Chi era in realtà? Era realmente una donna
felice? O una donna piena di problemi irrisolti, che cercava in qualche modo di
trovare uno sbocco alla sua vita, che, senza lavoro e senza fili, sembrava
rotolare verso un nulla desolante? Rachel, pur nel suo alcolismo e nelle sue
turbe verso Tom, comincia ad interrogarsi. Comincia a vedere indizi strani
intorno a quelle due case. Chi era la persona che baciò Megan sulla soglia?
Perché Megan litiga con Scott? Cosa ha fatto durante il mese di baby-sitting al
figlio di Anne e Tom? Il filo del discorso si complica perché Rachel continua
ad avvicinarsi alla casa di Tom, attirata dal suo vecchio amore, invidiosa del
figlio della coppia. Instaurando un clima di tensione e paura in Anne. L’abilità
della scrittrice è nel far risaltare decentemente le personalità di Rachel e
Megan, anche se su Anne ho delle riserve. Rachel sprofonda nei suoi demoni,
soprattutto l’alcol, e noi la vediamo come personaggio potenzialmente negativo.
Una che fa scelte sbagliate, azioni sbagliate e mette in difficoltà e pericolo
sé stessa e le indagini. Però ha quel fondo di umanità che la riscatta, e benché
in maniera improbabile, a volte diventa simpatica. Certo, io continuo a non
sopportare gli alcolemici alla Hole, ma nella sua confusione Rachel cerca di raddrizzare
i quadri (citazione colta di un film orrendo, intitolato in italiano “Il gran
lupo chiama”). Pian pianino, in modo che non svelerò, alla fine i sospetti
sulla morte di Megan si riducono ai tre uomini presenti nella trama: il marito
Scott, lo psicologo Kemal e il vicino (nonché ex-marito di Rachel) Tom. La fine
della storia è leggermente convulsa ed un po’ tirata via velocemente. Ma alla
fine scopriremo chi ha fatto cosa e come, con un prefinale che non mi
aspettavo. Mi dicono che il film che ne è stato tratto è in alcune parti meglio
riuscito del libro stesso, cosa che non stento a credere. Anche se non ho visto
il film. Ma il libro poteva essere meglio assemblato, senza aver quei piccoli
tocchi che ricordano alcune scene della “Finestra sul cortile” di Hitchcock.
Una lettura un po’ ritardata, ma tuttavia rilassante e consigliabile.
James Patterson “Ricorda Maggie Rose”
Sonzogno s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 18/09/2017 – I: 01/11/2019 – T: 03/11/2019] - &&&---
[tit. or.: Along Came a Spider; ling. or.: inglese; pagine: 344; anno 1993]
Era molto tempo che mi incuriosiva il successo da
“very long seller” del personaggio di Alex Cross creato da uno dei grandi
fabbricatori di “serial fiction”, l’americano James Patterson. Approfittando
della dismissione della libreria genitoriale, suddividendo i libri tra me e mia
nipote, ho scoperto di avere questa copia della prima edizione della serie (che
ho visto in rete essere arrivata al ventiquattresimo libro). Preso, ma non
mangiato subito, che se si aspettano 25 anni si possono anche aspettare 27…
Allora, cominciamo con il titolo, al solito (e già da allora) preda di editor
malvagi. Il titolo originale viene da una filastrocca infantile inglese
imperniata sulla piccola signorina Muffet che, nella parte finale, recita: “Along
came a spider / Who sat down beside her / And frightened Miss Muffet away.”
Cioè: “Arrivò un ragno / Chi si sedette accanto a lei / E spaventò Miss Muffet.”
Quindi c’è un ragno che spaventa i bambini, ed è un ragno che tesse la sua tela
malvagia. Ragno che nelle prime pagine (e ce lo dice lo stesso autore) rapisce
due bambini, Michael Goldberg e Maggie Rose. Per una serie di motivi, che poco
ci interessa sviscerare, Michael muore, mentre Maggie scompare. Quindi, è vero,
la polizia, i genitori, continuano a cercare, e non si scordano di Maggie. Ma
quel titolo non mi convince. Venendo allora al testo, vediamo entrare in azione
per l’appunto il protagonista di più di venti libri di Patterson, l’agente
investigativo dottor Alex Cross. Un trentenne di colore, laureato in
psicologia, ma disgustato dalla classe medica, decide di diventare poliziotto,
mestiere dove tuttavia la sua specializzazione gli servirà d’aiuto. In questo
punto d’attacco delle sue storie, vediamo come sia già vedovo, essendo la
moglie Maria morta un paio d’anni prima in una rapina, e vive in una casa nel
quartiere negro con la madre, Nana Mama, ed i suoi due figli, Damon e Janelle.
Nella polizia ha per partner il gigantesco John Sampson, e quando entrano in
scena la devono occupare mica male. Entrambi neri, entrambi sopra il metro e
novanta, e ben forniti di muscoli. John e Alex sono amici dall’infanzia,
giocavano insieme nel quartiere, ed ora, trentenni, continuano a lavorare nella
comunità nera. John è di supporto, sembra (almeno in questa prima inchiesta)
servire solo come punto di riflessione per Alex. Non so se progredendo
acquisterà più spazio, ma penso sia possibile. Per tornare ad Alex, questa
prima uscita mi sembra ancora in divenire, ha una sua presenza, una contrapposizione
latente ma presente con le istituzioni, un difficile rapporto con l’altro
sesso, con cui si apre, ma con ancora il pensiero della moglie morta. E con la difficoltà,
qui molto ovvia, che rappresenta un rapporto interraziale. Infatti, ha una sua
storia con Jezzie, l’agente dei Servizi incaricata della sorveglianza del
piccolo Goldberg. Ma è una storia, per molti versi, non solo complicata, ma
alla fine impossibile, anche se non vi dirò perché. La storia, per venire al
testo, è lineare: Gary, infatuato dei grani rapimenti, maniaco di protagonismo,
organizza il rapimento dei due bambini. Non è un mistero, Patterson ce lo
presenta sin dalle prime pagine. Il mistero, il thriller è la personalità di
Gary, e lo sviluppo del rapimento. Che Michael muore, e non è un mistero, e che
Maggie sparisce. Scopriremo quindi che c’è anche qualche altro inghippo dietro,
una richiesta di riscatto ed altre avventure di contorno. Non interessa a voi
lettori di queste righe come si sviluppi il thriller, che in effetti, benché abbastanza
ben congeniato, è poi disvelato senza troppi patemi. Quello che interessa della
trama e del libro è il braccio di ferro tra Alex e Gary. Perché Gary si
costruisce tutto un castello di parole ed azioni, che ci porteranno ad un bivio
di interpretazione. È uno psicopatico che ha costruito una vita ed un personaggio
in modo perfetto, o è un MP cioè una Personalità Multipla (almeno duplice), che
si scinde nel “normale” commesso viaggiatore con famiglia e nel “rapitore” ed
assassino, passando dall’una all’altra personalità senza che le due facce ne
abbiano coscienza. Questo è il dilemma che affronta lo psicologo Alex, cercando
tutti i mezzi, anche l’ipnosi, per dirimere la questione. Devo dire che né Alex
né Patterson sembrano vogliano portare questa trama alle sue conseguenze
finali, sciogliendola in qualche modo. Ipotizzo perché l’autore è intenzionato
a tirarla di nuovo fuori ad un certo punto. Comunque, nonostante i notevoli
anni passati dalla scrittura, si legge ancora con scorrevolezza. Pur facendo
ammenda di passaggi datati, ne ho apprezzato l’impianto generale, per cui penso
che prima o poi ne leggerò altro. Vorrei finire con due notazioni. La prima
riguarda la passione di Alex per la
musica, per cui per rilassarsi si pone al piano, ed io ho apprezzato l’idea di
un pot-pourri di musica R&B, hip hop ed altro, con Keith Sweat (non Swat
come erroneamente riporta l’edizione italiana), i Bell Biv Devoe e Public
Enemy. L’altro è l’accenno che si fa ad un posto per me magico: Uyuni in
Bolivia ed i suoi salares. Certo, per arrivarci nel ’92 magari bisognava
arrivare a Rio Mulato, mentre ora c’è anche un aeroporto nella bellissima (e
freddissima) cittadina. Certo, io quando ci andai per la prima volta, me la
feci in pullman da La Paz: un viaggio epico, per un paesaggio che non scorderò
mai (e così farà il mio mitico “Grupo de Oro”, e loro lo sanno).
John Grisham “Theodore Boone – La ragazza
scomparsa” Mondadori euro 13 (in realtà scontato a 8,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 27/11/2019 – T: 29/11/2019] - &&
[tit. or.: Theodore Boone: The Abduction; ling. or.: inglese; pagine: 216; anno 2011]
Ero rimasto discretamente colpito dal primo
libro delle avventure di Theodore 'Theo' Boone che ho pensato di leggere la
seconda avventura. Devo dire che sono rimasto anche qui colpito, ma dalla
discesa verso un lato molto “giovanile” e poco consono ad una scrittura generalmente
più complessa e coinvolgente dell’avvocato americano. Intanto, cominciamo dalle
solite dolenti note che, nell’edizione italiana, trasformano “il sequestro” in
“la ragazza scomparsa”. Ora, seppur filologicamente corretto, anche rispetto al
corpo del romanzo, rimango sempre dispiaciuto quando si prende un autore e se
ne stravolge almeno l’incipit verso il lettore. Certo, il giovane italico (diciamo
under 13 per individuare un target), può rimanere sconcertato da un sequestro e
meno da una scomparsa. Ma l’effetto che ne risulta è certamente diverso. Il
binario del libro ricalca l’impianto che ci ha presentato il primo libro. La
famiglia Boone, con quell’andamento che avevo sottolineato un po’ alla
“famiglia del Mulino Bianco”, con la madre Marcella divorzista ed il padre
Woods immobiliarista, e le loro routine settimanali; lunedì ristorante
italiano, martedì volontariato alla mensa dei poveri, mercoledì cibo cinese
davanti alla TV, giovedì pollo alla turca con hummus, il venerdì pesce nel ristorante
libanese, il sabato a turno ognuno sceglie il menu (ed in genere per Theo,
pizza), e la domenica cucina casalinga. Io mi sarei stufato già alla seconda
settimana (ovvio, che a pranzo Theo sta a scuola ed i genitori dove capita). La
routine di questa “middle-class family” è sconvolta, di quando in quando, dalle
sortite legali di Theo. Qui, da un evento che rischia di essere deflagrante: la
scomparsa di April Finnemore, che, alla fine del primo libro, era diventata
amica e confidente del nostro. Fuga? Rapimento? Grisham cerca di appassionarci
alla vicenda, inserendo un cugino dei Finnemore, ergastolano evaso, che era
diventato amico di penna di April. Sappiamo inoltre che la famiglia Finnemore è
alquanto disassata: la madre May (e se ti chiami Maggio, come ti viene in mente
di chiamare tua figlia Aprile?) è un po’ alternativa, si mantiene vendendo
yogurt ed altri cibi non standard, ma essendo un po’ hippie, si assenta
immotivatamente da casa; il padre Tom è un maturo figlio dei fiori, che ogni
tanto parte per settimana con una sua rock band improvvisata per suonare in
giro nei locali universitari e sentirsi ancora “Young and out”. Così che April
quando rimane sola, parla a lunga con Theo e si barrica in casa. Questa volta
però ciò non basta. Grisham tenta altre carte al suo flebile arco: il cugino
Jack, ben presto ritrovato dalla polizia, dove assistiamo a interrogatori molto
basic, per farne capire i meccanismi ai giovani; il ritrovamento di un corpo,
che potrebbe essere April, ma forse no; i compagni di classe di April che
organizzano ricerche nella piccola cittadina di Strattenburg. Tanto per
mostrare la fiducia molto “protestante” nell’operare il bene e nel cercare
soluzioni positive. Fortunatamente interviene il vero outsider della serie, lo
zio Ike, che sappiamo essere stato avvocato, poi radiato ancora non si sa per
quale motivo. Ike convince Theo che April può essere stata presa dal padre, ed
ecco che entra in scena l’amico di Theo, il mago informatico Chase Whipple.
Unendo gli sforzi trovano il modo di rintracciare Tom, inscenano una complessa
trama per allontanarsi da Strattenburg (che dovrebbe trovarsi in Pennsylvania)
e percorrere 600 chilometri per raggiungere Raleigh, nella Carolina del Nord, trovare
April, che non sapeva di essere considerata “scomparsa” e riportarla a casa. Gli
unici momenti di suspense sono di nuovo nelle aule legali. Una, di cui non vi
dirò nulla, coinvolge tutta la famiglia Finnemore, che deve trovare il modo di
togliersi dai guai per i problemi che insorgono nel lasciare sola una ragazzina
di 13 anni. Ovvio che avrà una parte in questa sezione la madre di Theo. Il
secondo è di nuovo nel “Tribunale degli animali”, che abbiamo conosciuto nel
primo libro, quando Theo difende e fa assolvere “Giudice”, quello che diventerà
il suo cane. Qui siamo invece in una querelle che coinvolge un pappagallo
creolo che importuna un maneggio, ed in particolare la titolare sovrappeso,
usando parole poco “politically correct”. Qui, Theo può assumere il suo ruolo
di futuro avvocato, difendendo il pappagallo e trovando una soluzione insieme
al giudice degli animali. Però è un po’ poco per far reggere il libro sui suoi
piedi. Si sperava in una scrittura più ammiccante, ed in qualcosa di maggior
interesse. Sembra invece un libro scritto perché si è firmato un contratto, e
che serve solo ad introdurre il terzo volume della serie, con l’anticipazione
che a breve riprenderà il processo contro Duffy il cattivo, di cui abbiamo
visto una sospensione nel primo volume. Ma non è né sarà a breve nelle mie corde
e nei miei scritti.
Come
i miei affezionati lettori sanno, ed i neofiti impareranno, la seconda trama
del mese prevede un allegato dedicato ai libri che servono da medicine o da
cure. In questo caso, né l’uno né l’altro, ma libri per dare una scossa.
Ho
già detto dei pensieri cari che mi accompagnano in questo inizio di febbraio,
non disgiunti a piacevoli pensieri per tutti i miei amici “acquari”. E da qualche
barlume dedicato a prossimi (o quasi) viaggi. Ne riparleremo.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Ogni tanto le nostre esimie libraie,
più che di malattie ci parlano dio età. Ma che sia anche questa una malattia?
Settant’anni, avere
I DIECI
MIGLIORI ROMANZI PER DARVI UNA SCOSSA
Questi romanzi sono una garanzia,
come cubetti di ghiaccio che scivolano lungo la schiena; alcuni di essi
accumuleranno energia durante la lettura; per altri, certe pagine vi
sorprenderanno come un pugno allo stomaco. Non vi diremo quali, però.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo”
Anthony
Burgess “Arancia meccanica”
Nikolaj Gogol’ “Le anime morte”
William
Golding “Il signore delle
mosche”
Thomas
Keneally “La lista di Schindler”
Jerzy Kosinski “L’uccello dipinto”
Curzio
Malaparte “La pelle”
Alberto Moravia “Il conformista”
Paco Ignacio
Taibo II “Giorni di battaglia”
Hunter S.
Thompson “Paura e disgusto a Las
Vegas”
Bugiardino
Ebbene, prima del 2000 lessi, e
quindi non ne ho tracce tramate, sia Gogol’ che Golding, con poco ritorno di
piacere (al solito, ripeto che non riesco ancora ad entrare nell’animo russo).
Ancora prima, e con accanto il bellissimo film di Kubrick, apprezzai l’arancia
meccanica. Mentre di Kosinski, Moravia e Taibo II ho letto altro, e quindi qui
li salto, una menzione a parte merita Malaparte. Scusandomi dell’involontario
gioco di parola, ma “La pelle” è uno di quei (pochi) libri che non sono
riuscito a portare oltre il primo capitolo (nella fattispecie, oltre a
Malaparte c’è per ora solo la “Lolita” di Nabokov). Passiamo allora agli altri
tre, con una menzione speciale a Böll che ho sempre gradito, dalle “Opinioni”
in poi. Gli ultimi due sono accompagnati anche da film ben riusciti, ma nelle
mie letture hanno esiti alterni.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo”
Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 7,12 euro)
[tramato l’11 marzo 2018]
Sono senz’altro
d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che
può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma
letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori
del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte
peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo
“Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro
che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la
guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il
libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più
tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso
i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e
sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento
del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento
trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne
scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la
grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura
germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il
tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una
famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si
tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce:
una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci
sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la
narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei
personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno
all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla
trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il
giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è una
“grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle
spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria
capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione
dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso
delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che,
anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia,
patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche
benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del
più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento
cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita
quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età,
fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che
Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale
fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a
morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme
all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche
un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia,
ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà
in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato
nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase
della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della
riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del
padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi.
Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato
Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera
Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli
per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo poco,
mentre assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far
saltare l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla
guerra, scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista,
alla fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli.
Cosa che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne.
Ultima menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un
istituto per alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha
ucciso quasi tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove
esce per il compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in
pratica un estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di
una “normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno
della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i
seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua
forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non
vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei
Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo
che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico
(molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione
in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine,
piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a
squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche
simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo,
voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di
questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon
Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a
scorgere nel mio.” (100)
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[tramato il 19 luglio 2015]
Se
non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo.
Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non
dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni
(cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo
poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco
sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a
Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e
passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due
scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella
avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s
Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari
britannici, il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo
originale scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto
il mondo, tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”.
Capita così tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e,
dopo una lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui
trasferito sullo schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista,
sceneggiatura non originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e
montaggio). Ma lasciamo da parte il film, e le semplificazioni che forzatamente
si devono fare per ridurre un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche
se su qualcosa torneremo), e torniamo subito all’autore, che era ed è un
prolifico scrittore, australiano di nascita, in patria già precedentemente noto
per i suoi scritti, ma che con questo raggiunge un apice di successo e
notorietà che, in effetti, metterà in ombra tutto il resto della sua
produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico, con riprese ed
anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di suo, forte e
di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon libro. Io
credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio quello di
rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno stile ed una
capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il lungo
svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si spande
dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda Guerra
Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo che
lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar, delle
sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto quello
che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi occupanti,
l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio sempre più
aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti i momenti
forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di descriverli
quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza partecipazioni non
possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore. Seguiamo Schindler che cerca
di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re” del campo di concentramento
dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine guerra per i suoi crimini).
Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che corrompe, che viene
arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno bene. Fino all’ultima
avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione (scontata) e, a fronte
dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli ebrei spostati o
direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta: spostare la
(finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come
“specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano
Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al
processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar
non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua
fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e
colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir
sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti
dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della
figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente
salvatore della patria. Sicuramente, gli
Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che
da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il
desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che
lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul
territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi
epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella
della bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di
Spielberg). Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro
gli avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un
po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un
certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non
dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media.
Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Hunter S. Thompson “Paura e disgusto a Las Vegas” Bompiani euro 9,90
[tramato il 5 novembre 2017]
Come si fa ad incominciare una
scrittura di un libro illeggibile, intramabile e pur tuttavia imperdibile? Un
libro maldestramente consigliato dalle mie libropeute per darsi una scossa.
Forse si può cominciare dal suo autore, uno strano tipo di giornalista, o di
scrittore, o di qualcosa altro, che irrompe sulla scena della cultura
alternativa americana degli anni ’70, quando, poco più che trentenne, si
camuffa da motociclista, entra a far parte di una banda di motociclisti, e poi
ne scrive un reportage che diviene presto famoso, “Hell’s Angel”. Thompson, è
poi davvero strambo (ed è tale e quale a come lo portò sullo schermo il suo
amico Johnny Deep nel film tratto da questo libro): uno spilungone con il collo
lungo e la testa a pera, la pelata nascosta da una parrucca biondastra,
pantaloni corti e Converse ai piedi, occhiali da sole fumé e la sigaretta
Dunhill con il bocchino perennemente infilato all'angolo della bocca. L'aspetto
era reso ancora più strambo dal fatto che camminava con le gambe rigide e
allargate a semicerchio a causa di un infortunio rimediato in una partita di
football americano. Con questo aspetto dinoccolato, Thompson entra nella
redazione del maggior periodico alternativo dell’epoca, “Rolling Stones”, e
sulle sue pagine inizia, fonda e porta avanti quello che verrà battezzato il
“giornalismo gonzo”. Un modo di raccontare i fatti entrando in prima persona
negli avvenimenti, magari parlando di pere mentre si cercano coriandoli. Così,
poi, nasce questo libro che ne diventa l’eponimo quando verrà pubblicato a
puntate su “Rolling Stones”. Thompson vuole indagare sull’uccisione di un
giornalista-attivista “chicano” (cioè americano di origini messicane) Rubén
Salazar. Colpito a morte da un gas lacrimogeno sparato dalla polizia di Los
Angeles addosso a dei manifestanti contro la guerra nel Vietnam. Un possibile
conoscitore dei fatti era l’avvocato Oscar Zeta Acosta, che, per parlare senza
essere presi di mira proprio dai poliziotti, decidono di trasferirsi per un po’
di tempo a Las Vegas, prendendo spunto da una gara di motociclisti off-road che
si deve svolgere proprio nella cittadina del Nevada. Tra la gara (che non andò
mai a vedere), i discorsi con Oscar, e le idee che a ruota libera venivano
anche dal forte uso di droghe ed altre alterazioni psicotiche, viene fuori il
primo nocciolo duro di questo viaggio alla ricerca del “sogno americano”. Per
aggiungere materiale, un mese dopo, i due tornano a Las Vegas per seguire i
lavori della “Conferenza dell'Associazione Distrettuale Nazionale sui Narcotici
e Droghe Pericolose”. Ovviamente la conferenza è vera, ovviamente per Thompson
è solo uno spunto per parlare di altro, per cercare, come dice quasi
all’inizio: “Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina,
cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e
un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti calmanti, esilaranti… e
anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di
etere puro… [con tutto ciò], lascia che ti spieghi … Noi stiamo cercando il
Sogno Americano, e ci hanno detto che rimane da queste parti… Lo stiamo
cercando qui perché qui ci hanno mandato da San Francisco, a cercarlo. Ecco
perché ci hanno dato quella Cadillac; pensano che, se lo troviamo, potremmo
rinchiudercelo dentro…”. Per 26 stralunati capitoli, illustrati dai disegni da
incubo di Ralph Steadman, Thompson e Oscar, che nel libro diventano il
giornalista Raoul Duke e l’avvocato dr. Gonzo, entrano (tanto) ed escono (poco)
da allucinazioni varie, vedono animali fantastici nel deserto, spaventano
autostoppisti, vivono a scrocco, distruggono stanze d’albergo, hanno rapporti
sessuali estremi, cercano di fottere senza essere fottuti, vorrebbero anche
morire, ma forse non seriamente (solo Thompson lo farà seriamente, a 67 anni,
sparandosi con il suo fucile). Ma quello che deve rimanerci non è questa prima
impressione. È il tramonto del sogno americano che c’è dietro. E di tutta la
cultura alternativa dell’epoca, che riusciamo a riviver, in piccola parte,
attraverso una formidabile appendice al libro. La “Piccola Enciclopedia
Psichedelica”, curata da Sandro Veronesi, con tutta una serie di descrizioni di
piccoli e grandi tempi degli anni ’70, legate a quei mondi alternativi, da
tutte le varie derivazione dell’LSD e della mescalina, per passare da tutte le
personalità dell’epoca, da Spiro Agnew a Robert Zimmermann (che ovviamente
conoscete, senza che io o Alessandro ve lo dobbiamo rispiegare ancora). Un
susseguirsi di lemmi scritti da Baricco, Albinati, Erri De Luca, Fernanda
Pivano, Gino Castaldo, Gianni Minà, Marco Tullio Giordana ed altri esimi
conoscitori di quel mondo. E tra questi conoscitori, e le parole di Thompson,
alla fine del capitolo 8, c’è una descrizione delle sensazioni della fine
“dell’onda” che invito a rileggere (per questo ve la riporto in calce) a tutti
i miei sodali di allora e di ora. Per finire ricordo, sempre per gli attenti a
tutte le arti, che il personaggio del “giornalista gonzo” Duke è quello che ha
ispirato il personaggio di Duke nel fumetto di Gary Trudeau “Doonsbury” (che
invito a rileggere per l’attualità che ora ha ancora). Infine, sottolineo che
la “paura e disgusto” del titolo derivano da una frase di Nietzsche contenuta
nel suo libro “L’Anticristo”. Anche quello da (ri-)leggere.
Capitolo 8 – “I geni del mondo si tengono per mano…” Art Linkletter
“… Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni
dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un’epoca - quel tipo di culmine
che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni Sessanta erano
un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O
forse no, alla lunga... ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o
musiche o ricordi può toccare la consapevolezza d’essere stato là, vivo, in quell’angolo
di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse...
La Storia è difficile da conoscere, per via
di tutte le stronzate che ci aggiungono, ma anche senza essere sicuri di cosa
dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che ogni tanto l’energia di
un’intera generazione si concentri in un lungo bellissimo lampo, per ragioni
che sul momento nessuno capisce - e che mai spiegheranno, retrospettivamente,
ciò che è veramente accaduto.
Il mio ricordo principale di quel tempo
sembra aggrappato a una o a cinque o forse a quaranta notti - o mattine molto
presto - quando mezzo sconvolto lasciavo il Fillmore e, invece di andare a
casa, prendevo la grandiosa Lightning 650 e sfrecciavo sopra al Bay Bridge a
centosessanta all’ora con indosso dei calzoncini L.L. Bean e un giubbotto Butte
da pastore... irrompevo di là del tunnel di Treasure Island sullo spettacolo di
luci di Oakland, Berkeley e Richmond, non molto sicuro su quale uscita
imboccare una volta arrivato di là (sempre spegnendo il motore al casello del
pedaggio, troppo fatto per trovare la folle mentre rovistavo in cerca di
spiccioli)... ma assolutamente certo che per qualunque strada fossi andato
sarei arrivato in un posto dove la gente era ispirata e selvaggia, esattamente
come me: nessun dubbio su questo...
C’era follia in ogni direzione, a ogni ora.
Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los
Altos o La Honda… Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica
universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si
stesse vincendo…
E quella, credo, era la nostra ragion
d’essere - quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del
Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La
nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta - tra la nostra
parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda
altissima e meravigliosa....
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare
su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi
adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea - quel punto in cui l’onda,
alla fine, si è spezzata per tornare indietro.”
Conclusioni
Non ho capito perché queste
scosse dovrebbe avvenire solo (o in particolare) ai settantenni. Immagino
qualche refuso di impaginazione. Quel che è vero, è che la scossa la danno. E non
è un caso che molto giri intorno ai fascismi di ogni epoca e luogo. Un memento da
approfondire.
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