domenica 9 febbraio 2020

Recuperi (quasi) seriali - 09 febbraio 2020


Jo Nesbø “Scarafaggi” Einaudi euro 13,50 (in realtà scontato a 11,48 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 23/09/2019 – T: 26/09/2019] - &&& e ½
[tit. or.: Kakerlakkene; ling. or.: norvegese; pagine: 432; anno 1998]
Così, con questo recupero, ho completato tutta la filiera originale delle storie di Harry Hole scritte dall’ottimo Jo Nesbø. Devo subito dire, che questa, essendo la seconda storia scritta dall’autore, mi è sembrata molto più vivace ed interessante delle prove successive, che si sono a mano a mano ingolfate in introspezioni e digressioni sulle vicende personali, lasciando meno spazio al noir, all’intreccio, ed anche ad alcuni risvolti politici ed economici che, nelle prime uscite, avevano fatto del norvegese un autore di culto. Come tutti, in Europa, ho cominciato a leggere Nesbø dal terzo libro di Hole. Letture interessanti e coinvolgenti, almeno per le prime tre. Poi inizia la decadenza di cui parlo altrove, sperando che ultime prove si migliorino. Tre anni fa, non ricordo più in quale parte del mondo, trovai il primo Nesbø, quello del pipistrello. Mi deliziai con le avventure australiane del nostro. Ora, nella fortunata riedizione integrale della Einaudi, ho ritrovato questo secondo libro. Con una bella ambientazione ed una bella storia. Certo, Hole è sempre messo in mezzo per il suo lato tendente all’alcool, così che, utilizzando per imprese disperate, qualcuno pensa di poterne cavalcare le debolezze. Ma qui, non ancora. Che, colpito dai problemi familiari della sorella down, e deciso a sospendere la sua alcoolica dipendenza, è coinvolto in una storia thailandese. Questo, tra l’altro, fa crescere abbastanza il tono ed il piacere del testo. Che Nesbø parla di una Bangkok reale, quella che vidi anch’io le prime volte che vi andai, per diletto e per lavoro. Interessante intreccio di caldo asfissiante, umidità insopportabile, buon cibo e gente, stranamente, molto sorridente. Il nostro Hole viene inviato laggiù per l’assassinio dell’ambasciatore norvegese. Stranamente, ma non per il posto, morto con una coltellata in un bordello. O meglio in un albergo equivoco. Tra l’altro, nell’ex-ergo, Nesbø parla di misteriose morti di ambasciatori a Bangkok negli anni Sessanta, cosa che le mie ricerche via rete tenderebbero ad escludere. La capacità di Nesbø  comunque è di ricreare il sound degli expatr in luogo altro dalla terra natia. L’ambasciata, con i suoi punti oscuri, ed i piccoli (di statura) thailandesi che vi lavorano orgogliosi. Il mondo della finanza, spericolato e lussuoso. Il mondo dell’imprenditoria, con le sue piccole e grandi corruzione. Finanche il mondo del turismo sessuale. Che tutti sanno la Thailandia essere uno dei mercati principali, sì per la pedofilia che per l’uso di prostitute bambine. Ma non solo per gli expatr, ma anche lo stesso “sound” di Bangkok: da Patapong a Soi Cowboy 2 e 4, dal karaoke ai go go bar, dal traffico caotico al vecchio aeroporto (ora c’è quello nuovo, ed è molto diverso). Mi è mancato solo il bus sul fiume, e magari la casa di Osborne. L’intreccio, si capisce ben presto che è più complesso di quanto venga descritto all’inizio, ed anche molto più norvegese che locale. Certo, l’ambasciatore non è uno stinco di santo, ed è stato catapultato lontano da Oslo che dava fastidio al partito cristiano al potere. ma forse più per le scommesse che per tendenze omosessuali. Altri capisaldi del racconto saranno Loken, strano attaché dell’ambasciata, dalle sparizioni misteriose e dagli altrettanto strani agganci con i poteri in patria. Jens il finanziere d’arrembaggio, pronto a gettarsi su tutte le transazioni facoltose del luogo, nonché ad intrecciare sin dai primi giorni un rapporto stretto (molto stretto) con la moglie dell’ambasciatore, alcolizzata anche lei e stanca delle tendenze eterodosse del marito. Finendo con Klipra, l’imprenditore nonché grande corruttore, impegnato nella costruzione delle grandi arterie per snellire il traffico locale, e per questo impelagato in difficili momenti economici. Hole, con l’aiuto di Liz, simpatica capo della polizia locale (una donna, e per di più american-thai), si muove prima con difficoltà, poi sempre più con la sicurezza (che deriva anche dall’astensione al bere, cosa che qui da un tocco meno depravante del nostro detective). Capisce, ma noi lo sapevamo, vero?, che è stato inviato laggiù come capro espiatorio. Capisce che dietro c’è anche la necessità di una ratifica di un trattato antiabusi tra Thailandia e Norvegia. Capisce anche che la morte dell’ambasciatore, in realtà, è tutt’altro. Ritornano le capacità investigativa di Hole, il suo accorgersi di piccoli dettagli non coincidenti, di discrepanze tra tempi ed azioni. Con un bel finale, che mette tutto in ordine, dal punto di vista di chi ha fatto cosa e come, in una lunga discussione tra Harry e Liz. Peccato che poi, tra lo svelamento delle azioni, e l’arresto di chi materialmente ha svolto i fatti, a Nesbø venga in mano una parte di “action thriller” che non riesce a gestire allo stesso modo del resto del romanzo. Ma va bene anche così, con qualche punto finale in sospeso, ora che ho ricostruito la prima parte della vita di Hole, a cui rimando sempre quando pensa alle ultime poco coinvolgenti vicende del nostro detective.
Paula Hawkins “La ragazza del treno” Piemme euro 19,50
[A: 09/05/2017 – I: 29/09/2019 – T: 30/09/2019] - &&& ---
[tit. or.: The Girl on the Train; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2015]
Un libro che avevo comperato a prezzo pieno pensando di leggerne subito sull’onda del successo mediatico del libro stesso e del film correlato. Poi è passato nel dimenticatoio, sono venute altre priorità, e solo ora, due anni e mezzo dopo, ne leggo. Rimanendo sinceramente deluso. Non che non sia abbastanza avvincente (quando prende l’abbrivio, dopo una settantina di pagine, si rimane legati lì aspettando di vedere come va avanti). Ma la trama alla fine è più scontata di quel che sembra, e l’artificio di scrivere il romanzo a tre voci, usando le tre donne a modo loro, protagoniste del libro non sempre riesce a produrre gli effetti sperati. Certo, il pregresso lavoro della nostra scrittrice Zimbabwe-britannica come scrittrice di romanzi rosa, le consente di dare voce a Rachel, Megan e Anne come giustamente una donna che scrive riesce a dare. Tuttavia (e questa è sempre una mia posizione personale), l’uso di artifici per cercare di complicare anche il modo di leggere il testo mi lascia sempre perplesso e scontento (e non come la Carmen, confuso e felice). Comunque, la scrittura della Hawkins ci fa costruire a poco a poco le personalità delle tre donne, ed in parallela il thriller prende corpo. C’è Megan, la vittima, di cui vediamo la fragilità casalinga, il rapporto con il marito Scott, la perdita del lavoro, l’insoddisfazione, le sedute con lo psicologo Kemal. C’è Anne, l’amante e poi moglie di Tom, la nascita del bambino, la vita nella casa di Tom che non sentirà mai sua, la paura verso Rachel. E c’è, prima di tutto, Rachel, il motore della vicenda, una donna segnata dal rapporto con Tom, di cui è ancora innamorata, dalla difficoltà e poi impossibilità di avere figli, dal divorzio con Tom, e dal suo attaccamento all’alcol. Che la porterà anche ad essere licenziata. Ma lei continua, ogni giorno, a prendere il treno per Londra, girando fino a sera senza meta nella città che le diventa sempre più ostile. Noi la seguiamo in questi up and down verso la metropoli, nei suoi pensieri, nella sua curiosità verso quelle case che vede passare vicino al finestrino. La casa di Megan e Scott. La casa di Anne e Tom. Il motore scatenante della vicenda sarà la scomparsa prima, e la morte di Megan. Rachel la vedeva passando, sembrava una coppia felice. Perché Megan muore? Chi era in realtà? Era realmente una donna felice? O una donna piena di problemi irrisolti, che cercava in qualche modo di trovare uno sbocco alla sua vita, che, senza lavoro e senza fili, sembrava rotolare verso un nulla desolante? Rachel, pur nel suo alcolismo e nelle sue turbe verso Tom, comincia ad interrogarsi. Comincia a vedere indizi strani intorno a quelle due case. Chi era la persona che baciò Megan sulla soglia? Perché Megan litiga con Scott? Cosa ha fatto durante il mese di baby-sitting al figlio di Anne e Tom? Il filo del discorso si complica perché Rachel continua ad avvicinarsi alla casa di Tom, attirata dal suo vecchio amore, invidiosa del figlio della coppia. Instaurando un clima di tensione e paura in Anne. L’abilità della scrittrice è nel far risaltare decentemente le personalità di Rachel e Megan, anche se su Anne ho delle riserve. Rachel sprofonda nei suoi demoni, soprattutto l’alcol, e noi la vediamo come personaggio potenzialmente negativo. Una che fa scelte sbagliate, azioni sbagliate e mette in difficoltà e pericolo sé stessa e le indagini. Però ha quel fondo di umanità che la riscatta, e benché in maniera improbabile, a volte diventa simpatica. Certo, io continuo a non sopportare gli alcolemici alla Hole, ma nella sua confusione Rachel cerca di raddrizzare i quadri (citazione colta di un film orrendo, intitolato in italiano “Il gran lupo chiama”). Pian pianino, in modo che non svelerò, alla fine i sospetti sulla morte di Megan si riducono ai tre uomini presenti nella trama: il marito Scott, lo psicologo Kemal e il vicino (nonché ex-marito di Rachel) Tom. La fine della storia è leggermente convulsa ed un po’ tirata via velocemente. Ma alla fine scopriremo chi ha fatto cosa e come, con un prefinale che non mi aspettavo. Mi dicono che il film che ne è stato tratto è in alcune parti meglio riuscito del libro stesso, cosa che non stento a credere. Anche se non ho visto il film. Ma il libro poteva essere meglio assemblato, senza aver quei piccoli tocchi che ricordano alcune scene della “Finestra sul cortile” di Hitchcock. Una lettura un po’ ritardata, ma tuttavia rilassante e consigliabile.
James Patterson “Ricorda Maggie Rose” Sonzogno s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 18/09/2017 – I: 01/11/2019 – T: 03/11/2019] - &&&---  
[tit. or.: Along Came a Spider; ling. or.: inglese; pagine: 344; anno 1993]
Era molto tempo che mi incuriosiva il successo da “very long seller” del personaggio di Alex Cross creato da uno dei grandi fabbricatori di “serial fiction”, l’americano James Patterson. Approfittando della dismissione della libreria genitoriale, suddividendo i libri tra me e mia nipote, ho scoperto di avere questa copia della prima edizione della serie (che ho visto in rete essere arrivata al ventiquattresimo libro). Preso, ma non mangiato subito, che se si aspettano 25 anni si possono anche aspettare 27… Allora, cominciamo con il titolo, al solito (e già da allora) preda di editor malvagi. Il titolo originale viene da una filastrocca infantile inglese imperniata sulla piccola signorina Muffet che, nella parte finale, recita: “Along came a spider / Who sat down beside her / And frightened Miss Muffet away.” Cioè: “Arrivò un ragno / Chi si sedette accanto a lei / E spaventò Miss Muffet.” Quindi c’è un ragno che spaventa i bambini, ed è un ragno che tesse la sua tela malvagia. Ragno che nelle prime pagine (e ce lo dice lo stesso autore) rapisce due bambini, Michael Goldberg e Maggie Rose. Per una serie di motivi, che poco ci interessa sviscerare, Michael muore, mentre Maggie scompare. Quindi, è vero, la polizia, i genitori, continuano a cercare, e non si scordano di Maggie. Ma quel titolo non mi convince. Venendo allora al testo, vediamo entrare in azione per l’appunto il protagonista di più di venti libri di Patterson, l’agente investigativo dottor Alex Cross. Un trentenne di colore, laureato in psicologia, ma disgustato dalla classe medica, decide di diventare poliziotto, mestiere dove tuttavia la sua specializzazione gli servirà d’aiuto. In questo punto d’attacco delle sue storie, vediamo come sia già vedovo, essendo la moglie Maria morta un paio d’anni prima in una rapina, e vive in una casa nel quartiere negro con la madre, Nana Mama, ed i suoi due figli, Damon e Janelle. Nella polizia ha per partner il gigantesco John Sampson, e quando entrano in scena la devono occupare mica male. Entrambi neri, entrambi sopra il metro e novanta, e ben forniti di muscoli. John e Alex sono amici dall’infanzia, giocavano insieme nel quartiere, ed ora, trentenni, continuano a lavorare nella comunità nera. John è di supporto, sembra (almeno in questa prima inchiesta) servire solo come punto di riflessione per Alex. Non so se progredendo acquisterà più spazio, ma penso sia possibile. Per tornare ad Alex, questa prima uscita mi sembra ancora in divenire, ha una sua presenza, una contrapposizione latente ma presente con le istituzioni, un difficile rapporto con l’altro sesso, con cui si apre, ma con ancora il pensiero della moglie morta. E con la difficoltà, qui molto ovvia, che rappresenta un rapporto interraziale. Infatti, ha una sua storia con Jezzie, l’agente dei Servizi incaricata della sorveglianza del piccolo Goldberg. Ma è una storia, per molti versi, non solo complicata, ma alla fine impossibile, anche se non vi dirò perché. La storia, per venire al testo, è lineare: Gary, infatuato dei grani rapimenti, maniaco di protagonismo, organizza il rapimento dei due bambini. Non è un mistero, Patterson ce lo presenta sin dalle prime pagine. Il mistero, il thriller è la personalità di Gary, e lo sviluppo del rapimento. Che Michael muore, e non è un mistero, e che Maggie sparisce. Scopriremo quindi che c’è anche qualche altro inghippo dietro, una richiesta di riscatto ed altre avventure di contorno. Non interessa a voi lettori di queste righe come si sviluppi il thriller, che in effetti, benché abbastanza ben congeniato, è poi disvelato senza troppi patemi. Quello che interessa della trama e del libro è il braccio di ferro tra Alex e Gary. Perché Gary si costruisce tutto un castello di parole ed azioni, che ci porteranno ad un bivio di interpretazione. È uno psicopatico che ha costruito una vita ed un personaggio in modo perfetto, o è un MP cioè una Personalità Multipla (almeno duplice), che si scinde nel “normale” commesso viaggiatore con famiglia e nel “rapitore” ed assassino, passando dall’una all’altra personalità senza che le due facce ne abbiano coscienza. Questo è il dilemma che affronta lo psicologo Alex, cercando tutti i mezzi, anche l’ipnosi, per dirimere la questione. Devo dire che né Alex né Patterson sembrano vogliano portare questa trama alle sue conseguenze finali, sciogliendola in qualche modo. Ipotizzo perché l’autore è intenzionato a tirarla di nuovo fuori ad un certo punto. Comunque, nonostante i notevoli anni passati dalla scrittura, si legge ancora con scorrevolezza. Pur facendo ammenda di passaggi datati, ne ho apprezzato l’impianto generale, per cui penso che prima o poi ne leggerò altro. Vorrei finire con due notazioni. La prima riguarda la passione di Alex  per la musica, per cui per rilassarsi si pone al piano, ed io ho apprezzato l’idea di un pot-pourri di musica R&B, hip hop ed altro, con Keith Sweat (non Swat come erroneamente riporta l’edizione italiana), i Bell Biv Devoe e Public Enemy. L’altro è l’accenno che si fa ad un posto per me magico: Uyuni in Bolivia ed i suoi salares. Certo, per arrivarci nel ’92 magari bisognava arrivare a Rio Mulato, mentre ora c’è anche un aeroporto nella bellissima (e freddissima) cittadina. Certo, io quando ci andai per la prima volta, me la feci in pullman da La Paz: un viaggio epico, per un paesaggio che non scorderò mai (e così farà il mio mitico “Grupo de Oro”, e loro lo sanno).
John Grisham “Theodore Boone – La ragazza scomparsa” Mondadori euro 13 (in realtà scontato a 8,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 27/11/2019 – T: 29/11/2019] - &&  
[tit. or.: Theodore Boone: The Abduction; ling. or.: inglese; pagine: 216; anno 2011]
Ero rimasto discretamente colpito dal primo libro delle avventure di Theodore 'Theo' Boone che ho pensato di leggere la seconda avventura. Devo dire che sono rimasto anche qui colpito, ma dalla discesa verso un lato molto “giovanile” e poco consono ad una scrittura generalmente più complessa e coinvolgente dell’avvocato americano. Intanto, cominciamo dalle solite dolenti note che, nell’edizione italiana, trasformano “il sequestro” in “la ragazza scomparsa”. Ora, seppur filologicamente corretto, anche rispetto al corpo del romanzo, rimango sempre dispiaciuto quando si prende un autore e se ne stravolge almeno l’incipit verso il lettore. Certo, il giovane italico (diciamo under 13 per individuare un target), può rimanere sconcertato da un sequestro e meno da una scomparsa. Ma l’effetto che ne risulta è certamente diverso. Il binario del libro ricalca l’impianto che ci ha presentato il primo libro. La famiglia Boone, con quell’andamento che avevo sottolineato un po’ alla “famiglia del Mulino Bianco”, con la madre Marcella divorzista ed il padre Woods immobiliarista, e le loro routine settimanali; lunedì ristorante italiano, martedì volontariato alla mensa dei poveri, mercoledì cibo cinese davanti alla TV, giovedì pollo alla turca con hummus, il venerdì pesce nel ristorante libanese, il sabato a turno ognuno sceglie il menu (ed in genere per Theo, pizza), e la domenica cucina casalinga. Io mi sarei stufato già alla seconda settimana (ovvio, che a pranzo Theo sta a scuola ed i genitori dove capita). La routine di questa “middle-class family” è sconvolta, di quando in quando, dalle sortite legali di Theo. Qui, da un evento che rischia di essere deflagrante: la scomparsa di April Finnemore, che, alla fine del primo libro, era diventata amica e confidente del nostro. Fuga? Rapimento? Grisham cerca di appassionarci alla vicenda, inserendo un cugino dei Finnemore, ergastolano evaso, che era diventato amico di penna di April. Sappiamo inoltre che la famiglia Finnemore è alquanto disassata: la madre May (e se ti chiami Maggio, come ti viene in mente di chiamare tua figlia Aprile?) è un po’ alternativa, si mantiene vendendo yogurt ed altri cibi non standard, ma essendo un po’ hippie, si assenta immotivatamente da casa; il padre Tom è un maturo figlio dei fiori, che ogni tanto parte per settimana con una sua rock band improvvisata per suonare in giro nei locali universitari e sentirsi ancora “Young and out”. Così che April quando rimane sola, parla a lunga con Theo e si barrica in casa. Questa volta però ciò non basta. Grisham tenta altre carte al suo flebile arco: il cugino Jack, ben presto ritrovato dalla polizia, dove assistiamo a interrogatori molto basic, per farne capire i meccanismi ai giovani; il ritrovamento di un corpo, che potrebbe essere April, ma forse no; i compagni di classe di April che organizzano ricerche nella piccola cittadina di Strattenburg. Tanto per mostrare la fiducia molto “protestante” nell’operare il bene e nel cercare soluzioni positive. Fortunatamente interviene il vero outsider della serie, lo zio Ike, che sappiamo essere stato avvocato, poi radiato ancora non si sa per quale motivo. Ike convince Theo che April può essere stata presa dal padre, ed ecco che entra in scena l’amico di Theo, il mago informatico Chase Whipple. Unendo gli sforzi trovano il modo di rintracciare Tom, inscenano una complessa trama per allontanarsi da Strattenburg (che dovrebbe trovarsi in Pennsylvania) e percorrere 600 chilometri per raggiungere Raleigh, nella Carolina del Nord, trovare April, che non sapeva di essere considerata “scomparsa” e riportarla a casa. Gli unici momenti di suspense sono di nuovo nelle aule legali. Una, di cui non vi dirò nulla, coinvolge tutta la famiglia Finnemore, che deve trovare il modo di togliersi dai guai per i problemi che insorgono nel lasciare sola una ragazzina di 13 anni. Ovvio che avrà una parte in questa sezione la madre di Theo. Il secondo è di nuovo nel “Tribunale degli animali”, che abbiamo conosciuto nel primo libro, quando Theo difende e fa assolvere “Giudice”, quello che diventerà il suo cane. Qui siamo invece in una querelle che coinvolge un pappagallo creolo che importuna un maneggio, ed in particolare la titolare sovrappeso, usando parole poco “politically correct”. Qui, Theo può assumere il suo ruolo di futuro avvocato, difendendo il pappagallo e trovando una soluzione insieme al giudice degli animali. Però è un po’ poco per far reggere il libro sui suoi piedi. Si sperava in una scrittura più ammiccante, ed in qualcosa di maggior interesse. Sembra invece un libro scritto perché si è firmato un contratto, e che serve solo ad introdurre il terzo volume della serie, con l’anticipazione che a breve riprenderà il processo contro Duffy il cattivo, di cui abbiamo visto una sospensione nel primo volume. Ma non è né sarà a breve nelle mie corde e nei miei scritti.
Come i miei affezionati lettori sanno, ed i neofiti impareranno, la seconda trama del mese prevede un allegato dedicato ai libri che servono da medicine o da cure. In questo caso, né l’uno né l’altro, ma libri per dare una scossa.
Ho già detto dei pensieri cari che mi accompagnano in questo inizio di febbraio, non disgiunti a piacevoli pensieri per tutti i miei amici “acquari”. E da qualche barlume dedicato a prossimi (o quasi) viaggi. Ne riparleremo.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Ogni tanto le nostre esimie libraie, più che di malattie ci parlano dio età. Ma che sia anche questa una malattia?
Settant’anni, avere
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER DARVI UNA SCOSSA
Questi romanzi sono una garanzia, come cubetti di ghiaccio che scivolano lungo la schiena; alcuni di essi accumuleranno energia durante la lettura; per altri, certe pagine vi sorprenderanno come un pugno allo stomaco. Non vi diremo quali, però.
Heinrich Böll                 “Biliardo alle nove e mezzo”
Anthony Burgess          “Arancia meccanica”
Nikolaj Gogol’               “Le anime morte”
William Golding             “Il signore delle mosche”
Thomas Keneally           “La lista di Schindler”
Jerzy Kosinski               “L’uccello dipinto”
Curzio Malaparte           “La pelle”
Alberto Moravia            “Il conformista”
Paco Ignacio Taibo II     “Giorni di battaglia”
Hunter S. Thompson      “Paura e disgusto a Las Vegas”

Bugiardino

Ebbene, prima del 2000 lessi, e quindi non ne ho tracce tramate, sia Gogol’ che Golding, con poco ritorno di piacere (al solito, ripeto che non riesco ancora ad entrare nell’animo russo). Ancora prima, e con accanto il bellissimo film di Kubrick, apprezzai l’arancia meccanica. Mentre di Kosinski, Moravia e Taibo II ho letto altro, e quindi qui li salto, una menzione a parte merita Malaparte. Scusandomi dell’involontario gioco di parola, ma “La pelle” è uno di quei (pochi) libri che non sono riuscito a portare oltre il primo capitolo (nella fattispecie, oltre a Malaparte c’è per ora solo la “Lolita” di Nabokov). Passiamo allora agli altri tre, con una menzione speciale a Böll che ho sempre gradito, dalle “Opinioni” in poi. Gli ultimi due sono accompagnati anche da film ben riusciti, ma nelle mie letture hanno esiti alterni.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 7,12 euro)
[tramato l’11 marzo 2018]
Sono senz’altro d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo “Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce: una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è una “grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che, anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia, patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età, fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia, ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi. Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo poco, mentre assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far saltare l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla guerra, scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista, alla fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli. Cosa che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne. Ultima menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un istituto per alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha ucciso quasi tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove esce per il compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in pratica un estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di una “normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico (molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine, piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo, voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a scorgere nel mio.” (100)
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[tramato il 19 luglio 2015]
Se non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo. Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni (cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo originale scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto il mondo, tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”. Capita così tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e, dopo una lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui trasferito sullo schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista, sceneggiatura non originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e montaggio). Ma lasciamo da parte il film, e le semplificazioni che forzatamente si devono fare per ridurre un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche se su qualcosa torneremo), e torniamo subito all’autore, che era ed è un prolifico scrittore, australiano di nascita, in patria già precedentemente noto per i suoi scritti, ma che con questo raggiunge un apice di successo e notorietà che, in effetti, metterà in ombra tutto il resto della sua produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico, con riprese ed anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di suo, forte e di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon libro. Io credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio quello di rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno stile ed una capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il lungo svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si spande dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo che lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar, delle sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto quello che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi occupanti, l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio sempre più aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti i momenti forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di descriverli quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza partecipazioni non possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore. Seguiamo Schindler che cerca di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re” del campo di concentramento dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine guerra per i suoi crimini). Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che corrompe, che viene arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno bene. Fino all’ultima avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione (scontata) e, a fronte dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli ebrei spostati o direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta: spostare la (finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come “specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente salvatore della patria. Sicuramente,  gli Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella della bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di Spielberg). Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro gli avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media. Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Hunter S. Thompson “Paura e disgusto a Las Vegas” Bompiani euro 9,90
[tramato il 5 novembre 2017]
Come si fa ad incominciare una scrittura di un libro illeggibile, intramabile e pur tuttavia imperdibile? Un libro maldestramente consigliato dalle mie libropeute per darsi una scossa. Forse si può cominciare dal suo autore, uno strano tipo di giornalista, o di scrittore, o di qualcosa altro, che irrompe sulla scena della cultura alternativa americana degli anni ’70, quando, poco più che trentenne, si camuffa da motociclista, entra a far parte di una banda di motociclisti, e poi ne scrive un reportage che diviene presto famoso, “Hell’s Angel”. Thompson, è poi davvero strambo (ed è tale e quale a come lo portò sullo schermo il suo amico Johnny Deep nel film tratto da questo libro): uno spilungone con il collo lungo e la testa a pera, la pelata nascosta da una parrucca biondastra, pantaloni corti e Converse ai piedi, occhiali da sole fumé e la sigaretta Dunhill con il bocchino perennemente infilato all'angolo della bocca. L'aspetto era reso ancora più strambo dal fatto che camminava con le gambe rigide e allargate a semicerchio a causa di un infortunio rimediato in una partita di football americano. Con questo aspetto dinoccolato, Thompson entra nella redazione del maggior periodico alternativo dell’epoca, “Rolling Stones”, e sulle sue pagine inizia, fonda e porta avanti quello che verrà battezzato il “giornalismo gonzo”. Un modo di raccontare i fatti entrando in prima persona negli avvenimenti, magari parlando di pere mentre si cercano coriandoli. Così, poi, nasce questo libro che ne diventa l’eponimo quando verrà pubblicato a puntate su “Rolling Stones”. Thompson vuole indagare sull’uccisione di un giornalista-attivista “chicano” (cioè americano di origini messicane) Rubén Salazar. Colpito a morte da un gas lacrimogeno sparato dalla polizia di Los Angeles addosso a dei manifestanti contro la guerra nel Vietnam. Un possibile conoscitore dei fatti era l’avvocato Oscar Zeta Acosta, che, per parlare senza essere presi di mira proprio dai poliziotti, decidono di trasferirsi per un po’ di tempo a Las Vegas, prendendo spunto da una gara di motociclisti off-road che si deve svolgere proprio nella cittadina del Nevada. Tra la gara (che non andò mai a vedere), i discorsi con Oscar, e le idee che a ruota libera venivano anche dal forte uso di droghe ed altre alterazioni psicotiche, viene fuori il primo nocciolo duro di questo viaggio alla ricerca del “sogno americano”. Per aggiungere materiale, un mese dopo, i due tornano a Las Vegas per seguire i lavori della “Conferenza dell'Associazione Distrettuale Nazionale sui Narcotici e Droghe Pericolose”. Ovviamente la conferenza è vera, ovviamente per Thompson è solo uno spunto per parlare di altro, per cercare, come dice quasi all’inizio: “Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti calmanti, esilaranti… e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro… [con tutto ciò], lascia che ti spieghi … Noi stiamo cercando il Sogno Americano, e ci hanno detto che rimane da queste parti… Lo stiamo cercando qui perché qui ci hanno mandato da San Francisco, a cercarlo. Ecco perché ci hanno dato quella Cadillac; pensano che, se lo troviamo, potremmo rinchiudercelo dentro…”. Per 26 stralunati capitoli, illustrati dai disegni da incubo di Ralph Steadman, Thompson e Oscar, che nel libro diventano il giornalista Raoul Duke e l’avvocato dr. Gonzo, entrano (tanto) ed escono (poco) da allucinazioni varie, vedono animali fantastici nel deserto, spaventano autostoppisti, vivono a scrocco, distruggono stanze d’albergo, hanno rapporti sessuali estremi, cercano di fottere senza essere fottuti, vorrebbero anche morire, ma forse non seriamente (solo Thompson lo farà seriamente, a 67 anni, sparandosi con il suo fucile). Ma quello che deve rimanerci non è questa prima impressione. È il tramonto del sogno americano che c’è dietro. E di tutta la cultura alternativa dell’epoca, che riusciamo a riviver, in piccola parte, attraverso una formidabile appendice al libro. La “Piccola Enciclopedia Psichedelica”, curata da Sandro Veronesi, con tutta una serie di descrizioni di piccoli e grandi tempi degli anni ’70, legate a quei mondi alternativi, da tutte le varie derivazione dell’LSD e della mescalina, per passare da tutte le personalità dell’epoca, da Spiro Agnew a Robert Zimmermann (che ovviamente conoscete, senza che io o Alessandro ve lo dobbiamo rispiegare ancora). Un susseguirsi di lemmi scritti da Baricco, Albinati, Erri De Luca, Fernanda Pivano, Gino Castaldo, Gianni Minà, Marco Tullio Giordana ed altri esimi conoscitori di quel mondo. E tra questi conoscitori, e le parole di Thompson, alla fine del capitolo 8, c’è una descrizione delle sensazioni della fine “dell’onda” che invito a rileggere (per questo ve la riporto in calce) a tutti i miei sodali di allora e di ora. Per finire ricordo, sempre per gli attenti a tutte le arti, che il personaggio del “giornalista gonzo” Duke è quello che ha ispirato il personaggio di Duke nel fumetto di Gary Trudeau “Doonsbury” (che invito a rileggere per l’attualità che ora ha ancora). Infine, sottolineo che la “paura e disgusto” del titolo derivano da una frase di Nietzsche contenuta nel suo libro “L’Anticristo”. Anche quello da (ri-)leggere.
Capitolo 8 – “I geni del mondo si tengono per mano…” Art Linkletter
“… Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un’epoca - quel tipo di culmine che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni Sessanta erano un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga... ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza d’essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse...
La Storia è difficile da conoscere, per via di tutte le stronzate che ci aggiungono, ma anche senza essere sicuri di cosa dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che ogni tanto l’energia di un’intera generazione si concentri in un lungo bellissimo lampo, per ragioni che sul momento nessuno capisce - e che mai spiegheranno, retrospettivamente, ciò che è veramente accaduto.
Il mio ricordo principale di quel tempo sembra aggrappato a una o a cinque o forse a quaranta notti - o mattine molto presto - quando mezzo sconvolto lasciavo il Fillmore e, invece di andare a casa, prendevo la grandiosa Lightning 650 e sfrecciavo sopra al Bay Bridge a centosessanta all’ora con indosso dei calzoncini L.L. Bean e un giubbotto Butte da pastore... irrompevo di là del tunnel di Treasure Island sullo spettacolo di luci di Oakland, Berkeley e Richmond, non molto sicuro su quale uscita imboccare una volta arrivato di là (sempre spegnendo il motore al casello del pedaggio, troppo fatto per trovare la folle mentre rovistavo in cerca di spiccioli)... ma assolutamente certo che per qualunque strada fossi andato sarei arrivato in un posto dove la gente era ispirata e selvaggia, esattamente come me: nessun dubbio su questo...
C’era follia in ogni direzione, a ogni ora. Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los Altos o La Honda… Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo…
E quella, credo, era la nostra ragion d’essere - quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta - tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa....
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea - quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.”

Conclusioni

Non ho capito perché queste scosse dovrebbe avvenire solo (o in particolare) ai settantenni. Immagino qualche refuso di impaginazione. Quel che è vero, è che la scossa la danno. E non è un caso che molto giri intorno ai fascismi di ogni epoca e luogo. Un memento da approfondire.

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