[A: 18/12/2017 – I: 26/11/2019 – T: 28/11/2019]
- &&& --
[tit. or.: Someday this Paine will be useful to you; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 2007]
Una specie di giovane Holden in minore, questo
libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi aveva a suo tempo
piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia molto
originale, se questo libro, put con le opportune diversità, mi ha fatto pensare
a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova diverso.
Entrambi sono due ragazzi sulla soglia della maturità, qui con il nostro James
Sveck che, diciottenne, deve decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o
autonomia solitaria nel più piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi
hanno un adulto di riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere:
accogliente, che non fa domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden
ha fobia di tutto, non vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal
mondo degli adulti, considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi,
illetterati, capaci solo adorare le inutili compagnie per paura di rimanere
soli con sé stessi. James ci fa sentire al centro delle sue riflessioni,
condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un dolore
esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte e
paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della
nonna, che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono
sempre felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile;
il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre
accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo
porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a
conoscere sé stesso. James viene anche considerato un disadattato, dai suoi
coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla madre compulsivamente
spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal padre stesso, che da
un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di lui, dall’altro si rende
irreperibile al figlio per un intervento chirurgico mirato. In altre parole,
per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe intorno agli occhi. Dalla
sorella invischiata in una relazione clandestina con un suo professore
dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo parlato. Ed anche
da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria d’arte della madre,
almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo stupido che rovina i
loro rapporti. Si capisce, quindi, che Cameron porta avanti anche una critica,
feroce e puntuale, della società attuale. Attuale almeno rispetto alla data di
scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto. Infatti, il testo è del
2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del 2003. Devo dire che
questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né sono riuscito a
trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a fondo la storia
americana per capire al volo cosa succede nel tempo del racconto. Il nucleo del
racconto si svolge tra la sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove
James, non sopportando i suoi inutili compagni, sparisce per due giorni,
rintanandosi nella Biblioteca Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare
una psicologa, e lì apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute
psicoanalitiche, ed anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James
comincia a maturare. Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa,
James riesce a ragionare sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei
propri pensieri. Nel passaggio tra il cervello e la bocca avviene una
trasformazione che non consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente
con il nostro interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo,
nella monade della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra
pensieri e parole (grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è
difficile che il mondo esterno capisca chi sia veramente. Il terzo ed ultimo
nucleo è quella paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che
attanaglia i giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti.
Ricordo ancora con tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare
il giorno dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un
piccolo passo falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare
in fila in segreteria alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o
lingue? Voi sapete quale scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi
e pensieri diversi. In fondo, non succede molto in tutto il romanzo, è solo un
susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci consentono, non senza un intimo
piacere, di entrare in sintonia con James. Che in fondo è un po’ come noi, come
me, un giovane che non è disturbato, e che a me suscita affetto e sintonia. Noi
e James, alla fine, abbiamo un solo grosso problema: non riuscire a rapportarsi
con le persone superficiali. Solo la fine, ad una lettura in sintonia con il
libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio diluito le ultime avventure e le
decisioni finali di James. Rimane comunque uno dei migliori libri che ho letto
negli ultimi tempi.
“Se uno divorzia, secondo me perde il
diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.” (38)
Orhan
Pamuk “Istanbul. I ricordi e la città” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 14/03/2017– I: 24/01/2020 – T:
29/01/2020] - &&&&-
[tit. or.: İstanbul. Hatıralar ve Şehir; ling. or.: turco; pagine: 460; anno 2003]
Devo
dire che 12 anni passano in fretta, che forse non ce ne accorgiamo. Ma
probabilmente è una bugia. Tante cose sono successe in questi dodici anni, e,
tra le altre, la non lettura di altri libri di Pamuk. Qualche articolo di
giornale, qualche presa di posizione, ma dal castello bianco e dal mio nome è
rosso, ero rimasto talmente poco attratto, che ho sempre lisciato altro del
Nobel turco. Ringrazio allora questa nuova/vecchia collana di Repubblica,
dedicata ai romanzi del Duemila che hanno dato dei segni alle letterature del
mondo, che mi ha costretto a riprendere in mano l’autore. Leggendone un
libro/saggio/romanzo/memoir non saprei bene dire cosa. Ma di sicuro con due
elementi fondanti e caratterizzanti: la storia della propria vita e la storia
della propria città. Sebbene non sia cronologicamente autobiografico, passando
di ricordo in sensazione, vediamo Orhan dalle prime conoscenze di sé sino alla
svolta della sua vita, sul passar dei vent’anni, quando, dopo una giovinezza
passata a disegnare ed ipotizzare un futuro di architetto, abbandona Università
e propositi, decidendo di diventare scrittore (e mai decisione si rivelò più
fausta, visto il prosieguo della sua vita). Dall’altra parte, in parallelo con
la crescita, vediamo e seguiamo con lui Istanbul in tutte le sue sfaccettature.
Dalla città ancora quasi orientale degli Anni Cinquanta, alla metropoli
affollata, bellissima ed invivibile di ora. L’affabulazione è avvincente, con
la scrittura di Pamuk che passa dalle descrizioni familiari, i rapporti con i
genitori, il continuo guerreggiare amichevole con il fratello più grande,
l’attraversamento di tante crisi che portano la famiglia Pamuk dall’agiatezza
iniziale ad una condizione borghese limite (ma poi lui, con la sua scrittura,
risalirà di molto), per poi andare all’esterno, alla città ed alle mille
sfaccettature di una metropoli assai complessa. Seguo gli impronunciabili (ed
intrascrivibili) nomi dei vari quartieri che Pamuk attraversa ed esplora nella
sua vita, e li ricollego a quanto, nelle mie visite istambuliote, ho fatto,
visto, sentito, odorato. Lo segue per le strade di Galata, o la salita della
grande strada di Pera (passando per l’hotel di Agatha Christie, ovvio), su fino
a Piazza Taksim (o giù fino al Tunel). Sulle barche che risalgono il Corno
d’Oro, sino al bar di Pierre Loti, ma anche sui barconi che risalgono tutto il
Bosforo. Per il traghetto che ci porta nella città asiatica, così diversa
nell’impianto, così uguale nell’atmosfera personale. Non ho la preparazione
libraria ed architetturale di Pamuk, che mi fa sognare citando libri e
miniature, su cui tornerò. Ma non posso non fermarmi, io, ai mosaici della
chiesa di San Salvatore in Lauro ed al Cristo Pantocratore, ma anche alle
mosche di Eyup. Ricordo in particolare poi, una delle prime visite alla moschea
di Solimano, non per la moschea, ma per le case in legno che ancora allora
stavano nelle viuzze intorno. Ricordo le passeggiate per i bazar, gli hammam,
il panino con il pesce preso al volo sotto il ponte di Galata, il tè con i
narghilè nel cimitero abbandonato, i primi pranzi con le lire turche (e quei
conti in milioni di lire…). Come Pamuk, prendo spunto da lui per parlare di me,
e lui prende spunti della città per parlare (anche) di altro. Di sé, è ovvio.
Ma anche i dipinti di Melling (Antoine-Ignace, l’architetto di Selim III) che
ci danno uno spaesamento strano: vediamo i luoghi della città prima che
diventino città, deserti così come ora sono popolati. Con impressioni parallele
ad alcune vedute di Roma che ci danno le incisioni di Piranesi. E degli
scritti. Ovvio che parli di autori turchi, a me tristemente ed immancabilmente
ignoti, anche se scrissero opere memorabili sulla città: Yahya Kemal, Reşat
Ekrem Koçu, Ahmet Hamdi Tanpınar o Abdülhak Şinasi Hisar. Tuttavia, Istanbul
nell’Ottocento è anche visitata da molti occidentali, che segue e ben conosco.
Assaporiamo con Pamuk alcune frasi di Gerard de Nerval, gli articoli agili e
ben confezionati di Théophile Gautier, le maledizioni orientali che proferisce
Gustave Flaubert. Pamuk cita, ma solo di passaggio, anche il libro di De
Amicis, che io, da buon ricercatore internettiano ho trovato e scaricato. Ma
poi rimangono in mente i disegni di Orhan che non vediamo. Ed io non posso
staccarmi dalle pagine del suo primo accorato amore con la bella “Rosa Nera”,
ricordo di tanti giovanili trasporti personali. Certo, a volte è lento. Certo,
a volte vorrei descrivesse più e meglio situazioni e modi (ad esempio, il mai
risolto su queste pagine rapporto con il padre). La scrittura è tuttavia
gradevole, la lettura, benché ostica, non difficile da seguire. E mi lascia con
l’idea di ritornarvi, prima o poi. Magari per vedere con Rosa i dervisci
rotanti alla partenza dell’Orient Express. E passeggiare, sempre e comunque,
con Alessandra per tutti i luoghi che ancora non ci hanno visto passeggiare.
“Ancora
oggi, quando cammino in una piazza grande o in un corridoio, sui marciapiedi,
cerco di non calpestare le fughe tra le pietre, oppure salto i quadrati neri e
comincio a passeggiare saltellando, spinto da forme di superstizione che mi
creo così, all’improvviso.” (227)
David Foster Wallace “La ragazza dai
capelli strani” Repubblica Duemila 13 euro 9,90
[A: 18/04/2017 – I: 25/01/2020 – T: 31/01/2020] - && ---
[tit. or.: Girl with Curious Hair; ling. or.: inglese; pagine: 299; anno 1989]
Avevo già detto, in occasione dell’altro libro da
me letto, che DWF (sigla che racchiude più velocemente il lungo David Foster
Wallace) non mi convinceva. Certo, quella “cosa che non farò mai più” aveva
anche lati divertenti, ed un piglio di simpatia che questo scritto, anche in
virtù del suo essere una raccolta di racconti (genere a me molto ostico) non
raccoglie. Qui escono fuori due caratteristiche peculiari ed opposte di DWF, la
sua indubbia capacità di scrivere (punto a favore) e la sua onnisciente
cerebralità (punto molto a sfavore). Caratteristiche che si intrecciano spesso,
che DWF usa (almeno in parte) i racconti per dire (anche) altro. Non è a caso
che si lancia in strali o analisi crude su diverse caratteristiche della
cultura americana. La cultura della televisione, ad esempio, in due dei
migliori racconti (Piccoli animali senza espressione, La mia apparizione), o il
delirio punk alienato sadico lisergico nel racconto del titolo (La ragazza dai
capelli strani). Fino a quello che a me più è rimasto impresso, per la
ricostruzione storico-farsesca di decenni della politica americana, attraverso
gli occhi e la carriera di un segretario omosessuale di un presidente americano
emblematico (Lyndon). Devo notare comunque che l’edizione italiana è monca
rispetto all’originale, laddove il decimo è più lungo racconto ha visto luce
autonoma presso la “minimum fax”, editore italiano di DWF. Come altrove notato,
i racconti non hanno legami tra loro, se non per la continua tensione verso la
denuncia delle paranoie del mondo americano. Notando anche che, in ogni testo,
DWF riesce a variare registro, ad utilizzare un modo di scrivere e di proporre
consono al tema trattato. Il viaggio comincia con Piccoli animali
senza espressione dove si narra, con continui salti temporali e logici, la
vicenda di una ragazza lesbica che partecipa ad un quiz televisivo per pagare
le cure al suo fratello autistico, aprendo la prima riflessione sia sulle
tematiche personali che sul ruolo della televisione. Si prosegue con uno dei meno
riusciti: Per fortuna il funzionario commerciale sapeva fare il massaggio
cardiaco resoconto dell’incontro di due funzionari in un notturno
parcheggio, ma che non riesce ad intrigarmi. Il livello si alza con La
ragazza dai capelli strani racconto in prima persona di un sadico avvocato
repubblicano e del suo incontro don uno strano gruppo di punk, all’interno di
un concerto di Keith Jarrett. Che essendo uno dei miei numi tutelari della mia
colonna sonora della vita, trovo faticosamente la capacità di astrarmi, pur
riconoscendo le astuzie e le cattiverie narrative verso l’avvocato stesso. Si
arriva così al migliore, Lyndon fittizia ricostruzione della carriera di
Lyndon B. Johnson, dal governatorato del Texas, alla presidenza degli Stati
Uniti, alla morte, attraverso gli occhi di un suo stretto collaboratore
omosessuale. Un utilizzo delle capacità di scrittura di DWF che passa
dall’intimismo del segretario alla volgarità del Presidente. Da qui si comincia
a scivolare. Prima con John Billy storia della vendetta perpetrata del
ranchero Chuck Nunn Junior, che in originale mi si dice ben resa allo strano
accento del narratore, ma che in traduzione non riesce a riportarci nei luoghi
della storia (per chi lo volesse sapere, l’Oklahoma). Poi con Da una parte e
dell'altra dove due ragazzi narrano la versione personale della loro storia,
senza grandi patemi. Si risale abbastanza con un’altra narrazione
anti-televisiva con La mia apparizione dove vediamo un’attrice una volta
famosa ed ora dedita a spot commerciali partecipare allo show di David
Letterman “Late Night”, e dove DWF riesce a ridicolizzare tutti, dall’attrice
ai vari personaggi che ruotano negli show televisivi, sino all’intoccabile,
all’epoca, Letterman. Il finale è tutto in discesa verso la poca incisività. La
lunga storia a più voci di un adulterio nell’ambito di un circolo ebraico di
Chicago in Dire mai ed il brevissimo testo sul matrimonio di un uomo ed
una donna nel conclusivo È tutto verde. Come dicevo, DWF scrive
maledettamente bene. Ed inoltre ne è consapevole, motivo per cui a volte
gigioneggia un po’. I suoi strali ci sono, ma per me si annegano nella brevità
del testo, nelle modalità di porlo. Non ultimo, io mi perdo quando le storie
rimangono sospese, quando non si arriva mai al punto, quando si parla a nuora
perché suocera intenda. E poi, personalmente, non riesco mai a disgiungere il
DWF scrittore dal DWF uomo. Per cui, ad un certo punto, mi perdo. È di certo un
autore migliore di quanto riesco a comprenderne, ma non ce la faccio ad entrare
mai di più nel dettaglio.
“Un ragazzo … prende in prestito una copia
dell’’Anatomia del Gray’…” (49) [capisco al momento della prima traduzione di
trenta anni fa, ma ora si può citare il libro come ‘Grey’s Anathomy’ e tutti
capiscono]
“Mi mandò dei fiori dicendomi di andare a
vivere con lui e di essere il suo amore.” (216) [dalla poesia di Marlowe che
dice ‘come live with me and be my love’, bellissima]
Kazuo Ishiguro “Non lasciarmi” Repubblica
Duemila 21 euro 9,90
[A: 13/06/2017 – I: 09/02/2020 – T: 12/02/2020] - &&&
[tit. or.: Never let me go; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2005]
Continuo ad essere perplesso non della scrittura
del premio Nobel, ma di alcune sue scelte espressive, del modo in cui pone ad
ambienta i romanzi. Continuo a ritenere “Quel che resta del giorno” un
capolavoro assoluto, mentre il secondo che ho letto (“Il gigante sepolto”) non
mi ha lasciato una grande impressione. Questo risale decisamente nel
gradimento, pur lasciando delle perplessità, che spero siano colmate anche
dalle letture delle mie quasi esaurite “libropeute”. Come spesso accade, ci
sono almeno due letture del testo. Una filologica che segue gli avvenimenti, ed
una di rimando. Che poi è quella che più mi ha interessato e lasciato pensare.
Un rimando sulla finitezza della vita, sulla sensazione, sulla certezza della
morte. Ed anche sull’amore, quello che serve comunque a farci sopportare questa
vita ed andare avanti. I protagonisti del romanzo sanno (consciamente o meno)
che la loro vita è “finita”, cioè avrà un fine. Ma un conto è essere come noi,
e saperlo ma ignorarlo. Un conto è averne la certezza perché si è impostati,
perché tutta la propria vita è tesa alla salvezza degli altri ed alla propria
morte. Kathy, Tommy e Ruth, diversamente e con diverse sensibilità,
attraversano uno spazio finito dei nostri giorni, cercano di capirne il senso
(e spesso non ci riusciranno), cercano di usare l’amore e il sesso per
esorcizzarne il percorso. Ovvio che solo Kathy, voce narrante del romanzo,
riuscirà a capire qualcosa, riuscirà a pensarne le positività, con quella
canzone della giovinezza in collegio, che prima l’abbandona (ma credo siano i
“tutor” a farla sparire) e poi ritrovarla casualmente. Ed è anche ovvio che la
canzone sia “Never let me go” (che aggiunge un “mai” al titolo italiano che
secondo modifica il senso della frase). Un “fictional hit” cantato da una
improbabile Judy Bridgewater (mix tra Judy Garland e Dee Bridgewater), che
serve da rasoio di Occam a Ishiguro. Quando se ne parlerà, alla fine del
romanzo, sembra un testo d’amore, di quello tra Ruth e Tommy o tra Tommy e
Kathy. Quando Kathy ci pensa, lo immagina come un inno ad un bambino
immaginario che mai non potrà avere, e che, se avesse la ventura di averlo, non
vorrebbe che si allontanasse da lei. Ma tornando al testo ed al contesto,
quella rimane la domanda di fondo. Quanto saremmo disposti a vivere se
sapessimo che abbiamo una “dead line” marcata e quasi riconoscibile? E come
affronteremo la vita? La bravura di Ishiguro è nel rappresentare tutto ciò in
maniera di farci pensare, senza mai porre una domanda, una frase, anche un
semplice accenno che vada in questa direzione. Perché questo testo affondo in
un contesto “altro”, quasi, anzi senz’altro, irreale. Ma possibile. In seguito
ad avanzate ricerche mediche, si riesce, nel dopoguerra reale, ad avanzare le
tecniche mediche, sino a realizzare dei cloni umani, che verranno utilizzati
per effettuare donazioni compatibili a persone malate. Tutto è il contesto è
per questi cloni, per come non sanno di esserlo, o lo sanno in maniera
trasversa. Di come si dividano in donatori puri ed assistenti degli stessi. Che
le donazioni debilitano ed alla fine consumano i cloni, rendendo necessaria la
presenza di persone consapevoli che li aiutino, confortino, supportino sino
alla fine. La domanda che viene sottesa allora in questa parte è cosa sia la
vita. Cosa sia la coscienza, la creatività, lo sviluppo mentale, più di quello
fisico. Le due trame si intrecciano, e si infittiscono a mano a mano che si va
avanti nella lettura e nella consapevolezza. Portati per mano dalla scrittura
di Ishiguro, che con raffinata abilità, non sbava mai. Non prende mai posizioni
decise, ma cerca di spingere il lettore a prendere lui posizione, a porsi lui
le domande che i protagonisti del romanzo non fanno mai. Chiudendo gli occhi,
ci immaginiamo l’esistenza di Kathy, e dei suoi sodali, ognuno con il suo
brandello di verità, ognuno andando avanti per una strada che solo noi,
esternamente, sappiamo riconoscere. Personalmente, è stata l’idea del contesto
che non sono riuscito sempre a seguire, a percorrere, a riconoscere
percorribile. La dimentico, e penso a come Tommy sia ingenuo nei suoi sfoghi
rabbiosi, di come Ruth sia fuorviata da una sua idea di bene, di come Kathy
sia, nel fondo, capace di fare quel salto di qualità interna, ma che non farà
mai. Per questo, alla fine, non sale tantissimo nella mia classifica
gradimento, pur essendo un libro da leggere. E che mi rimarrà nel cuore per
queste sue due domande inespresse. Che cos’è la morte? E soprattutto, che cos’è
la vita?
“Avete avuto una vita migliore di molti di quelli
che vi hanno preceduto.” (324)
La quarta settimana è la settimana di
respiro. Niente libri letti mesi fa, niente libri che curano, niente libri per
essere felici, che felici lo siamo già di nostro. Ma è anche l’ennesima (sesta?
Settima?) di reclusione, che ho perso il conto. Siamo tutti stanchi, io sto
facendo una prova di vita che sono contento di fare, che avrei fatto a prescindere,
e vedremo cosa se ne farà in futuro. Aspettando, con tutta la mia ansia, di
poter salire di nuovo su di un aereo.
Nessun commento:
Posta un commento