domenica 26 aprile 2020

Dei Nobel e di altro - 26 aprile 2020


[A: 18/12/2017 – I: 26/11/2019 – T: 28/11/2019] - &&& --
[tit. or.: Someday this Paine will be useful to you; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 2007]
Una specie di giovane Holden in minore, questo libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi aveva a suo tempo piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia molto originale, se questo libro, put con le opportune diversità, mi ha fatto pensare a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova diverso. Entrambi sono due ragazzi sulla soglia della maturità, qui con il nostro James Sveck che, diciottenne, deve decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o autonomia solitaria nel più piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi hanno un adulto di riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere: accogliente, che non fa domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden ha fobia di tutto, non vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal mondo degli adulti, considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi, illetterati, capaci solo adorare le inutili compagnie per paura di rimanere soli con sé stessi. James ci fa sentire al centro delle sue riflessioni, condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un dolore esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte e paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della nonna, che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono sempre felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile; il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a conoscere sé stesso. James viene anche considerato un disadattato, dai suoi coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla madre compulsivamente spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal padre stesso, che da un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di lui, dall’altro si rende irreperibile al figlio per un intervento chirurgico mirato. In altre parole, per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe intorno agli occhi. Dalla sorella invischiata in una relazione clandestina con un suo professore dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo parlato. Ed anche da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria d’arte della madre, almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo stupido che rovina i loro rapporti. Si capisce, quindi, che Cameron porta avanti anche una critica, feroce e puntuale, della società attuale. Attuale almeno rispetto alla data di scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto. Infatti, il testo è del 2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del 2003. Devo dire che questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né sono riuscito a trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a fondo la storia americana per capire al volo cosa succede nel tempo del racconto. Il nucleo del racconto si svolge tra la sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove James, non sopportando i suoi inutili compagni, sparisce per due giorni, rintanandosi nella Biblioteca Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare una psicologa, e lì apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute psicoanalitiche, ed anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James comincia a maturare. Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa, James riesce a ragionare sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei propri pensieri. Nel passaggio tra il cervello e la bocca avviene una trasformazione che non consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente con il nostro interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo, nella monade della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra pensieri e parole (grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è difficile che il mondo esterno capisca chi sia veramente. Il terzo ed ultimo nucleo è quella paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che attanaglia i giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti. Ricordo ancora con tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare il giorno dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un piccolo passo falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare in fila in segreteria alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o lingue? Voi sapete quale scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi e pensieri diversi. In fondo, non succede molto in tutto il romanzo, è solo un susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci consentono, non senza un intimo piacere, di entrare in sintonia con James. Che in fondo è un po’ come noi, come me, un giovane che non è disturbato, e che a me suscita affetto e sintonia. Noi e James, alla fine, abbiamo un solo grosso problema: non riuscire a rapportarsi con le persone superficiali. Solo la fine, ad una lettura in sintonia con il libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio diluito le ultime avventure e le decisioni finali di James. Rimane comunque uno dei migliori libri che ho letto negli ultimi tempi.
“Se uno divorzia, secondo me perde il diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.” (38)
Orhan Pamuk “Istanbul. I ricordi e la città” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 14/03/2017– I: 24/01/2020 – T: 29/01/2020] - &&&&-
[tit. or.: İstanbul. Hatıralar ve Şehir; ling. or.: turco; pagine: 460; anno 2003]
Devo dire che 12 anni passano in fretta, che forse non ce ne accorgiamo. Ma probabilmente è una bugia. Tante cose sono successe in questi dodici anni, e, tra le altre, la non lettura di altri libri di Pamuk. Qualche articolo di giornale, qualche presa di posizione, ma dal castello bianco e dal mio nome è rosso, ero rimasto talmente poco attratto, che ho sempre lisciato altro del Nobel turco. Ringrazio allora questa nuova/vecchia collana di Repubblica, dedicata ai romanzi del Duemila che hanno dato dei segni alle letterature del mondo, che mi ha costretto a riprendere in mano l’autore. Leggendone un libro/saggio/romanzo/memoir non saprei bene dire cosa. Ma di sicuro con due elementi fondanti e caratterizzanti: la storia della propria vita e la storia della propria città. Sebbene non sia cronologicamente autobiografico, passando di ricordo in sensazione, vediamo Orhan dalle prime conoscenze di sé sino alla svolta della sua vita, sul passar dei vent’anni, quando, dopo una giovinezza passata a disegnare ed ipotizzare un futuro di architetto, abbandona Università e propositi, decidendo di diventare scrittore (e mai decisione si rivelò più fausta, visto il prosieguo della sua vita). Dall’altra parte, in parallelo con la crescita, vediamo e seguiamo con lui Istanbul in tutte le sue sfaccettature. Dalla città ancora quasi orientale degli Anni Cinquanta, alla metropoli affollata, bellissima ed invivibile di ora. L’affabulazione è avvincente, con la scrittura di Pamuk che passa dalle descrizioni familiari, i rapporti con i genitori, il continuo guerreggiare amichevole con il fratello più grande, l’attraversamento di tante crisi che portano la famiglia Pamuk dall’agiatezza iniziale ad una condizione borghese limite (ma poi lui, con la sua scrittura, risalirà di molto), per poi andare all’esterno, alla città ed alle mille sfaccettature di una metropoli assai complessa. Seguo gli impronunciabili (ed intrascrivibili) nomi dei vari quartieri che Pamuk attraversa ed esplora nella sua vita, e li ricollego a quanto, nelle mie visite istambuliote, ho fatto, visto, sentito, odorato. Lo segue per le strade di Galata, o la salita della grande strada di Pera (passando per l’hotel di Agatha Christie, ovvio), su fino a Piazza Taksim (o giù fino al Tunel). Sulle barche che risalgono il Corno d’Oro, sino al bar di Pierre Loti, ma anche sui barconi che risalgono tutto il Bosforo. Per il traghetto che ci porta nella città asiatica, così diversa nell’impianto, così uguale nell’atmosfera personale. Non ho la preparazione libraria ed architetturale di Pamuk, che mi fa sognare citando libri e miniature, su cui tornerò. Ma non posso non fermarmi, io, ai mosaici della chiesa di San Salvatore in Lauro ed al Cristo Pantocratore, ma anche alle mosche di Eyup. Ricordo in particolare poi, una delle prime visite alla moschea di Solimano, non per la moschea, ma per le case in legno che ancora allora stavano nelle viuzze intorno. Ricordo le passeggiate per i bazar, gli hammam, il panino con il pesce preso al volo sotto il ponte di Galata, il tè con i narghilè nel cimitero abbandonato, i primi pranzi con le lire turche (e quei conti in milioni di lire…). Come Pamuk, prendo spunto da lui per parlare di me, e lui prende spunti della città per parlare (anche) di altro. Di sé, è ovvio. Ma anche i dipinti di Melling (Antoine-Ignace, l’architetto di Selim III) che ci danno uno spaesamento strano: vediamo i luoghi della città prima che diventino città, deserti così come ora sono popolati. Con impressioni parallele ad alcune vedute di Roma che ci danno le incisioni di Piranesi. E degli scritti. Ovvio che parli di autori turchi, a me tristemente ed immancabilmente ignoti, anche se scrissero opere memorabili sulla città: Yahya Kemal, Reşat Ekrem Koçu, Ahmet Hamdi Tanpınar o Abdülhak Şinasi Hisar. Tuttavia, Istanbul nell’Ottocento è anche visitata da molti occidentali, che segue e ben conosco. Assaporiamo con Pamuk alcune frasi di Gerard de Nerval, gli articoli agili e ben confezionati di Théophile Gautier, le maledizioni orientali che proferisce Gustave Flaubert. Pamuk cita, ma solo di passaggio, anche il libro di De Amicis, che io, da buon ricercatore internettiano ho trovato e scaricato. Ma poi rimangono in mente i disegni di Orhan che non vediamo. Ed io non posso staccarmi dalle pagine del suo primo accorato amore con la bella “Rosa Nera”, ricordo di tanti giovanili trasporti personali. Certo, a volte è lento. Certo, a volte vorrei descrivesse più e meglio situazioni e modi (ad esempio, il mai risolto su queste pagine rapporto con il padre). La scrittura è tuttavia gradevole, la lettura, benché ostica, non difficile da seguire. E mi lascia con l’idea di ritornarvi, prima o poi. Magari per vedere con Rosa i dervisci rotanti alla partenza dell’Orient Express. E passeggiare, sempre e comunque, con Alessandra per tutti i luoghi che ancora non ci hanno visto passeggiare.
“Ancora oggi, quando cammino in una piazza grande o in un corridoio, sui marciapiedi, cerco di non calpestare le fughe tra le pietre, oppure salto i quadrati neri e comincio a passeggiare saltellando, spinto da forme di superstizione che mi creo così, all’improvviso.” (227)
David Foster Wallace “La ragazza dai capelli strani” Repubblica Duemila 13 euro 9,90
[A: 18/04/2017 – I: 25/01/2020 – T: 31/01/2020] - && ---
[tit. or.: Girl with Curious Hair; ling. or.: inglese; pagine: 299; anno 1989]
Avevo già detto, in occasione dell’altro libro da me letto, che DWF (sigla che racchiude più velocemente il lungo David Foster Wallace) non mi convinceva. Certo, quella “cosa che non farò mai più” aveva anche lati divertenti, ed un piglio di simpatia che questo scritto, anche in virtù del suo essere una raccolta di racconti (genere a me molto ostico) non raccoglie. Qui escono fuori due caratteristiche peculiari ed opposte di DWF, la sua indubbia capacità di scrivere (punto a favore) e la sua onnisciente cerebralità (punto molto a sfavore). Caratteristiche che si intrecciano spesso, che DWF usa (almeno in parte) i racconti per dire (anche) altro. Non è a caso che si lancia in strali o analisi crude su diverse caratteristiche della cultura americana. La cultura della televisione, ad esempio, in due dei migliori racconti (Piccoli animali senza espressione, La mia apparizione), o il delirio punk alienato sadico lisergico nel racconto del titolo (La ragazza dai capelli strani). Fino a quello che a me più è rimasto impresso, per la ricostruzione storico-farsesca di decenni della politica americana, attraverso gli occhi e la carriera di un segretario omosessuale di un presidente americano emblematico (Lyndon). Devo notare comunque che l’edizione italiana è monca rispetto all’originale, laddove il decimo è più lungo racconto ha visto luce autonoma presso la “minimum fax”, editore italiano di DWF. Come altrove notato, i racconti non hanno legami tra loro, se non per la continua tensione verso la denuncia delle paranoie del mondo americano. Notando anche che, in ogni testo, DWF riesce a variare registro, ad utilizzare un modo di scrivere e di proporre consono al tema trattato. Il viaggio comincia con Piccoli animali senza espressione dove si narra, con continui salti temporali e logici, la vicenda di una ragazza lesbica che partecipa ad un quiz televisivo per pagare le cure al suo fratello autistico, aprendo la prima riflessione sia sulle tematiche personali che sul ruolo della televisione. Si prosegue con uno dei meno riusciti: Per fortuna il funzionario commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco resoconto dell’incontro di due funzionari in un notturno parcheggio, ma che non riesce ad intrigarmi. Il livello si alza con La ragazza dai capelli strani racconto in prima persona di un sadico avvocato repubblicano e del suo incontro don uno strano gruppo di punk, all’interno di un concerto di Keith Jarrett. Che essendo uno dei miei numi tutelari della mia colonna sonora della vita, trovo faticosamente la capacità di astrarmi, pur riconoscendo le astuzie e le cattiverie narrative verso l’avvocato stesso. Si arriva così al migliore, Lyndon fittizia ricostruzione della carriera di Lyndon B. Johnson, dal governatorato del Texas, alla presidenza degli Stati Uniti, alla morte, attraverso gli occhi di un suo stretto collaboratore omosessuale. Un utilizzo delle capacità di scrittura di DWF che passa dall’intimismo del segretario alla volgarità del Presidente. Da qui si comincia a scivolare. Prima con John Billy storia della vendetta perpetrata del ranchero Chuck Nunn Junior, che in originale mi si dice ben resa allo strano accento del narratore, ma che in traduzione non riesce a riportarci nei luoghi della storia (per chi lo volesse sapere, l’Oklahoma). Poi con Da una parte e dell'altra dove due ragazzi narrano la versione personale della loro storia, senza grandi patemi. Si risale abbastanza con un’altra narrazione anti-televisiva con La mia apparizione dove vediamo un’attrice una volta famosa ed ora dedita a spot commerciali partecipare allo show di David Letterman “Late Night”, e dove DWF riesce a ridicolizzare tutti, dall’attrice ai vari personaggi che ruotano negli show televisivi, sino all’intoccabile, all’epoca, Letterman. Il finale è tutto in discesa verso la poca incisività. La lunga storia a più voci di un adulterio nell’ambito di un circolo ebraico di Chicago in Dire mai ed il brevissimo testo sul matrimonio di un uomo ed una donna nel conclusivo È tutto verde. Come dicevo, DWF scrive maledettamente bene. Ed inoltre ne è consapevole, motivo per cui a volte gigioneggia un po’. I suoi strali ci sono, ma per me si annegano nella brevità del testo, nelle modalità di porlo. Non ultimo, io mi perdo quando le storie rimangono sospese, quando non si arriva mai al punto, quando si parla a nuora perché suocera intenda. E poi, personalmente, non riesco mai a disgiungere il DWF scrittore dal DWF uomo. Per cui, ad un certo punto, mi perdo. È di certo un autore migliore di quanto riesco a comprenderne, ma non ce la faccio ad entrare mai di più nel dettaglio.
“Un ragazzo … prende in prestito una copia dell’’Anatomia del Gray’…” (49) [capisco al momento della prima traduzione di trenta anni fa, ma ora si può citare il libro come ‘Grey’s Anathomy’ e tutti capiscono]
“Mi mandò dei fiori dicendomi di andare a vivere con lui e di essere il suo amore.” (216) [dalla poesia di Marlowe che dice ‘come live with me and be my love’, bellissima]
Kazuo Ishiguro “Non lasciarmi” Repubblica Duemila 21 euro 9,90
[A: 13/06/2017 – I: 09/02/2020 – T: 12/02/2020] - &&&
[tit. or.: Never let me go; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2005]
Continuo ad essere perplesso non della scrittura del premio Nobel, ma di alcune sue scelte espressive, del modo in cui pone ad ambienta i romanzi. Continuo a ritenere “Quel che resta del giorno” un capolavoro assoluto, mentre il secondo che ho letto (“Il gigante sepolto”) non mi ha lasciato una grande impressione. Questo risale decisamente nel gradimento, pur lasciando delle perplessità, che spero siano colmate anche dalle letture delle mie quasi esaurite “libropeute”. Come spesso accade, ci sono almeno due letture del testo. Una filologica che segue gli avvenimenti, ed una di rimando. Che poi è quella che più mi ha interessato e lasciato pensare. Un rimando sulla finitezza della vita, sulla sensazione, sulla certezza della morte. Ed anche sull’amore, quello che serve comunque a farci sopportare questa vita ed andare avanti. I protagonisti del romanzo sanno (consciamente o meno) che la loro vita è “finita”, cioè avrà un fine. Ma un conto è essere come noi, e saperlo ma ignorarlo. Un conto è averne la certezza perché si è impostati, perché tutta la propria vita è tesa alla salvezza degli altri ed alla propria morte. Kathy, Tommy e Ruth, diversamente e con diverse sensibilità, attraversano uno spazio finito dei nostri giorni, cercano di capirne il senso (e spesso non ci riusciranno), cercano di usare l’amore e il sesso per esorcizzarne il percorso. Ovvio che solo Kathy, voce narrante del romanzo, riuscirà a capire qualcosa, riuscirà a pensarne le positività, con quella canzone della giovinezza in collegio, che prima l’abbandona (ma credo siano i “tutor” a farla sparire) e poi ritrovarla casualmente. Ed è anche ovvio che la canzone sia “Never let me go” (che aggiunge un “mai” al titolo italiano che secondo modifica il senso della frase). Un “fictional hit” cantato da una improbabile Judy Bridgewater (mix tra Judy Garland e Dee Bridgewater), che serve da rasoio di Occam a Ishiguro. Quando se ne parlerà, alla fine del romanzo, sembra un testo d’amore, di quello tra Ruth e Tommy o tra Tommy e Kathy. Quando Kathy ci pensa, lo immagina come un inno ad un bambino immaginario che mai non potrà avere, e che, se avesse la ventura di averlo, non vorrebbe che si allontanasse da lei. Ma tornando al testo ed al contesto, quella rimane la domanda di fondo. Quanto saremmo disposti a vivere se sapessimo che abbiamo una “dead line” marcata e quasi riconoscibile? E come affronteremo la vita? La bravura di Ishiguro è nel rappresentare tutto ciò in maniera di farci pensare, senza mai porre una domanda, una frase, anche un semplice accenno che vada in questa direzione. Perché questo testo affondo in un contesto “altro”, quasi, anzi senz’altro, irreale. Ma possibile. In seguito ad avanzate ricerche mediche, si riesce, nel dopoguerra reale, ad avanzare le tecniche mediche, sino a realizzare dei cloni umani, che verranno utilizzati per effettuare donazioni compatibili a persone malate. Tutto è il contesto è per questi cloni, per come non sanno di esserlo, o lo sanno in maniera trasversa. Di come si dividano in donatori puri ed assistenti degli stessi. Che le donazioni debilitano ed alla fine consumano i cloni, rendendo necessaria la presenza di persone consapevoli che li aiutino, confortino, supportino sino alla fine. La domanda che viene sottesa allora in questa parte è cosa sia la vita. Cosa sia la coscienza, la creatività, lo sviluppo mentale, più di quello fisico. Le due trame si intrecciano, e si infittiscono a mano a mano che si va avanti nella lettura e nella consapevolezza. Portati per mano dalla scrittura di Ishiguro, che con raffinata abilità, non sbava mai. Non prende mai posizioni decise, ma cerca di spingere il lettore a prendere lui posizione, a porsi lui le domande che i protagonisti del romanzo non fanno mai. Chiudendo gli occhi, ci immaginiamo l’esistenza di Kathy, e dei suoi sodali, ognuno con il suo brandello di verità, ognuno andando avanti per una strada che solo noi, esternamente, sappiamo riconoscere. Personalmente, è stata l’idea del contesto che non sono riuscito sempre a seguire, a percorrere, a riconoscere percorribile. La dimentico, e penso a come Tommy sia ingenuo nei suoi sfoghi rabbiosi, di come Ruth sia fuorviata da una sua idea di bene, di come Kathy sia, nel fondo, capace di fare quel salto di qualità interna, ma che non farà mai. Per questo, alla fine, non sale tantissimo nella mia classifica gradimento, pur essendo un libro da leggere. E che mi rimarrà nel cuore per queste sue due domande inespresse. Che cos’è la morte? E soprattutto, che cos’è la vita?
“Avete avuto una vita migliore di molti di quelli che vi hanno preceduto.” (324)
La quarta settimana è la settimana di respiro. Niente libri letti mesi fa, niente libri che curano, niente libri per essere felici, che felici lo siamo già di nostro. Ma è anche l’ennesima (sesta? Settima?) di reclusione, che ho perso il conto. Siamo tutti stanchi, io sto facendo una prova di vita che sono contento di fare, che avrei fatto a prescindere, e vedremo cosa se ne farà in futuro. Aspettando, con tutta la mia ansia, di poter salire di nuovo su di un aereo. 

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