domenica 12 aprile 2020

Nun cataminatevi - 12 aprile 2020


Andrea Camilleri “La cappella di famiglia e altre storie di Vigata” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 21/10/2016 – I: 04/02/2019 – T: 08/02/2019] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 319; anno 2016]
Facendo una pausa nelle storie di Montalbano, in attesa che il fratello buono faccia qualcosa di sinistra, eccoci alla lettura di una raccolta di storie dedicata al mondo di Montalbano prima di Montalbano. Le storie di Vigata, scritte sempre nel “camillerese” stretto, consentiranno, prima o poi, ad un attento lettore ed esegeta, di fare un resoconto cronologico e “storico” di quanto sia potuto avvenire in quel mondo della Sicilia orientale, a me caro, più che per il buon Salvo, per la mia amica Marina e per le bellezze da Agrigento a Ragusa e Siracusa. Qui abbiamo otto racconti (di cui sei inediti) che coprono quasi un secolo di storia (dal 1862 al 1950) del luogo dell’anima dello scrittore empedoclino. Come certo i miei lettori sanno, i racconti non sempre vanno nella direzione del mio cuore, e questo florilegio non si smentisce. Certo, seppur diversi i personaggi, sempre vigatesi sono, e sempre meticoloso, Camilleri ce le inquadra nel tempo. Ma le storie, con difficoltà prendono ed avvincono. Non certo il primo, “Il duello è contagioso”, ambientato nel marzo del 1911, quando a Roma avviene un fatto di sangue: la contessa Giulia Trigona dei principi di Sant’Elia, nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, viene uccisa dall’amante il tenente Vincenzo Paternò del Cugno. Tutta l’Italia si divide tra repubblicani che attaccano la contessa in quanto dama di corte della regina Margherita e monarchici che la difendono. Così come accade a Vigata. Qui la penna di Camilleri vola, portando il conflitto verso una serie senza fine di duelli, che i focosi vigatesi, divisi nelle due schiere, non vedono l’ora di mettere in piazza. Divertente l’escalation, poco coinvolgente la fine della storia. Con il secondo saliamo al 1929; ma nonostante “La cappella di famiglia” dia il titolo alla raccolta, risulta una farsa un po’ scontata. Amori corrisposti o meno. Eredità che non vanno al loro posto. Gelosie e tradimenti. Certo intorno alla cappella del titolo, ma con poco mordente. Mordente che invece si trova nel miglior racconto del libro. “Teresina”, ambientato nel 1920, che ci presenta una lady Macbeth che si mette a lavorare in prima persona per uscire dalla povertà e dalla servitù. E con costanza e veleno dei topi riesce nel suo intento. E devo dire che fa anche piacere che riesca. Gli altri che seguono vanno in tono minore. Dal più debole, ambientato nel 1937, con quel giovane che risulterà avere “Il palato assoluto”, così come qualche musicista poteva avere l’orecchio assoluto. Ovvio che finirà tra le cucine, cuoco o assaggiatore. Ovvio che andrà in difficoltà per i suoi giudizi stroncanti. Ovvio che dovrà trovare il modo di “dileguarsi” o meglio di dissimulare il suo dono. Ma il gioco di Camilleri è ormai abbastanza scontato. Come in “La rettitudine fatta persona”, che copre uno dei più lunghi archi temporali, dal 1896 al 1948. E dove non ci sorprende certo che il deus ex-machina della vicenda, quello contornato da donne che non lo lasciano, e che per lui e con lui fanno di tutto, alla fine, posso essere iniziato ad una causa di beatificazione. Stesso plot, anche se con le carte cambiate, nel post-bellico “Il morto viaggiatore”, dove ci sono tutta una serie di scambi di persone e cose, intorno ad un morto che nessuno vuole e che tutti spostano di qua e di là. Saltando il penultimo, l’ultimo racconto ricalca abbastanza il plot del palato, perché ne “L’oro a Vigàta”, iniziato nel 1920 e proseguito nel pieno del ventennio, il protagonista Mizzica, non ha il palato, ma ha la capacità di trovare cose: acqua, oro, giacimenti, persone. A Camilleri serve per mettere in berlina il fascismo ed i suoi creduli gerarchi. Senza però riuscire a coinvolgerci di più. Ho saltato il penultimo perché “Lo stivale di Garibaldi”, ambientato nel 1862 merita qualche riga in più. Non per la storia, dove si sunteggia la vita del prefetto di Girgenti (come allora si chiama Agrigento), mandato in Sicilia per ristabilire l’ordine, ma travolto dagli avvenimenti, soprattutto per una manifestazione di blasfemo rispetto per lo stivale del titolo. Perché quello che più si coglie, e con piacere è l’aspetto umoristico e spaesante della vita di Enrico Falconcini, il prefetto di cui sopra. Dove, oltre al corteo di cui sopra, nella sua prefettura avviene di tutto dallo stato d'assedio imposto per reprimere la mobilitazione filo garibaldina che culminerà nei fatti dell'Aspromonte, ai disordini politici, agli innumerevoli episodi di criminalità e banditismo fino all'evasione dal carcere di Girgenti di ben centoventisette detenuti. Un buon mini-pamphlet di accuse contro uno Stato che (allora come ora) manda le persone sbagliate nei posti sbagliati, per poi accusarle di essere inefficienti. Tuttavia, alla fine, questi racconti non entrano né nel cuore, né nello stomaco del lettore. Si alza un poco il labbro in un sorriso di poco conto. Poi si chiude il tutto aspettando che ritorni Salvo.
Andrea Camilleri “Conversazione su Tiresia” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato a 6,40 euro)
[A: 17/12/2019 – I: 29/12/2019 – T: 29/12/2019] - &&&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 60; anno 2018]
Ho deciso, in maniera postuma di omaggio, di regalarmi la lettura, seppur non ravvicinata, delle due ultime avventure letterarie del compianto autore siciliano. Cominciando da questo divertissement creato per il teatro, in cui è lo stesso Camilleri che ne interpreta il personaggio. Quasi a voler riflettere su sé stesso, vecchio e cieco, per ripercorrere un mitico vecchio e cieco, l’indovino Tiresia. Non a caso, entrando in scena sulle note dei Genesis (“The Cinema Show”) che non a caso cita nel testo: ‘fai un viaggio con padre Tiresia, ascolta il vecchio parlare di ciò che ha vissuto’, come Melville, dice “Chiamatemi Tiresia”, per poi passare la suo essere “tiresiano” con un “Tiresia sono”, che ce lo fa riconoscere per quello che è. Un autore versatile, che attraversa il mondo della scrittura e della rappresentazione, dalle mitiche regie televisive alle scritture di Vigata e dintorni. Non ho visto la rappresentazione teatrale, ma da questo libretto ben si intuisce la sua presenza, su di una sedia al centro della scena, parlare a ruota libera del personaggio, e delle sue interpretazioni. Quindi, dopo averci descritto la nascita del mito-Tiresia, sulla base della scrittura del Pseudo-Apollodoro, ecco che lo scrittore ci porta per mano, attraverso i secoli nelle innumerevoli interpretazioni del personaggio. Quello appunto che per volere di Zeus avrebbe vissuto almeno per sette generazioni, pur non consecutive. Lo vediamo quindi nelle parole di Omero, quando nell’Odissea Ulisse lo cerca nel regno dei morti per spere quale sia la strada per Itaca. Nell’Edipo Re di Sofocle, e nella sua trasposizione cinematografica di Pasolini. Nell’Inferno di Dante, con la testa volta all’indietro così che non possa predire il futuro ma guardare il passato. Lì insieme alla figlia Manto, cui si deve la fondazione della città di Mantova. Nell’opera teatrale surrealista di Apollinaire “Le mammelle di Tiresia” (contestata nel ’68 dalle femministe in quanto contro le donne, ma c’era dell’ironia nel 1917…). Nei “Dialoghi con Leucò” di Pavese, e per precisione nel terzo, intitolato “I ciechi”. Nel capitolo a lui dedicato da primo Levi ne “La chiave a stella”, capitolo fondamentale per comprendere il libro stesso. E poi in Borges (“La cecità”), in Dürrenmatt (“Dialoghi con la Pizia”), Ezra Pound (“Canti pisani”). E ne “Il sermone di fuoco”, parte del grande poema “La terra desolata” di Thomas Stearns Eliot. Finendo il suo errabondare nel fare la comparsa ad Hollywood, ne “La dea dell’amore” di Woody Allen. Camilleri ci lascia con una nota di speranza. Siamo quello che abbiamo fatto, resteremo per questo. E ci rincontreremo, forse qui, forse altrove, tra altri cento anni. Ma voglio però ritornare sulla genesi del mito Tiresia, e cioè nelle parole dello Pseudo-Apollodoro. Che ci presentò le sue tre versioni di Tiresia. Il diventar cieco perché gli dèi non volevano divulgasse i loro segreti (prima genesi poco convincente). La seconda ipotesi è che sia stata Atena, che lui aveva visto nuda che si faceva il bagno. La dea lo punisce con la cecità, ma dietro supplica della madre, poi lo rende indovino. La terza è la più bella e complessa. Tiresia è un tranquillo cittadino tebano che, passeggiando tra i monti, incontra due serpenti che si stanno accoppiando. Preso da paura, ne uccide uno, la femmina, che però era una qualche dea che stava sollazzandosi in modo nascosto. Per punizione, Tiresia viene mutato in donna, e da donna vive tutte le possibili vite che una donna vive, provandone tutti i piaceri. Dopo sette anni, sullo stesso monte, incontrando un serpente lo uccide. Era il maschio di sette anni prima e Tiresia torna uomo. Ma la cecità? Ecco il bello. In una disputa tra Zeus ed Era su chi goda di più nel rapporto, viene chiesto a Tiresia di dirimere la questione, lui che è stato sia uomo che donna. Qui c’è la grande invenzione di Tiresia nel piacere ci sono dieci parti, di cui l’uomo ne prova una e la donna nove. Mal gliene incoglie, che così svela il mistero femminile, Era si adira e lo acceca. E Zeus, per ricompensarlo, lo rende indovino. Alla fine, e con piacere, tutta la tirata di Camilleri, che si segue e si legge con gusto, mira essenzialmente a farci riflettere su due punti fondamentali: l’importanza della memoria per l’agire di ognuno ed il valore del tempo che si vive. Non se ne vivono altri, quindi sfruttiamo al meglio quello che abbiamo. E non scordiamo nulla, per la gioia degli storici, ma anche per la dannazione di Ireneo Funes di Borgesiana memoria. Io vorrei solo ricollegare questa memoria, con un passo del testo, quello di Levi, quello dove la poesia salvò il grande scrittore ebreo nei campi di concentramento, facendolo restare uomo tra gli uomini. E portandoci quella testimonianza che non possiamo, non dobbiamo dimenticare. Per terminar con le parole di Camilleri stesso: “Da quando sono diventato cieco, ci vedo meglio”. Un bellissimo libro, ed un doloroso pensiero a chi ci ha lasciato.
Andrea Camilleri “Autodifesa di Caino” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 27/01/2020 – I: 20/03/2020 – T: 20/03/2020] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 81; anno 2019]
Come dice la stringata eppur commossa introduzione, questo è il primo libro di Camilleri pubblicato da Sellerio dopo la morte del grande protagonista della scena letteraria degli ultimi anni. Doveva essere il secondo capitolo teatrale di Camilleri, dopo il bellissimo e sopra commentato Tiresia. Ma non ebbe il tempo di esibirsi a Caracalla. Peccato, perché credo che una volta interpretato, Camilleri si sarebbe accorto di alcune cadute nella storia, ed avrebbe probabilmente raddrizzato il tutto, non dico portandolo a livello di Tiresia, che ritengo una summa del suo essere “cantastorie omerico”, ma facendo appunto risalire quelle cadute di tensione che in questo testo ci sono. E che avrebbero potuto non esserci, che, dal punto di vista della scelta del soggetto e della sua interpretazione e riproposizione, è senz’altro un’idea meritevole e foriera di ragionamenti. Così come lo è stato poche letture fa il “Giuda” di Amos Oz. Come per Tiresia, Camilleri si immerge nel mondo delle interpretazioni e delle esegesi della figura di cui sta parlando. Ne fa anche un ritratto a posteriori utilizzando Borges e Dario Fo, Belli e Coleridge. Non si tira indietro neanche per quella filastrocca infantile che nei miei ricordi ben datati si accoppiava con “Fumo, fumo va diritto”. Non so se la ricordate anche voi: “Vedo la luna, vedo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle; vedo la tavola apparecchiata, vedo Caino che fa la frittata”. Ma queste sono solo le passeggiate fantastico-letterarie di un uomo di lettere che sa. E che potevano essere migliorate e approfondite, se ne avesse avuto il tempo. La parte per me più significativa è la genesi Caino, la nascita nel mito (da un lato) e nelle religioni (dall’altro). Camilleri prende a piene mani e mescola la tradizione classica ebraico-cristiana con alcuni intarsi derivanti dalla Quinta Sura del Corano detta “La tavola imbandita”. Riesce così a creare un mix del personaggio Caino, con alcuni tocchi di novità e di curiosità. Innanzi tutto (e questo ce lo ricordiamo) Caino è il primogenito, generato insieme alla sorella gemella Calmana (o Aclima), quando Adamo ed Eva erano ancora nel Paradiso Terrestre. Un motivo per cui esegesi ebraiche dicono che avesse in lui anche del sangue del serpente tentatore. Una volta scacciati, dopo varie peripezie (che il Cantastorie Andrea ci narra con il suo gusto ironico) nasce anche Abele, generato insieme alla sorella gemella Debora. Al fine di popolare la terra, esortati dall’andate e moltiplicatevi, vengono allora celebrate le nozze incrociate tra Abele e Calmana da una parte e Caino e Debora dall’altra. Anche i compiti si dividono, ad Abele le greggi e a Caino le messi. Da qui si dipartono molti sentieri interpretativi, che alla radice hanno comunque un rifiuto dei doni e delle richieste di Caino da parte del Signore ed un’accettazione invece dei doni di Abele. Si narra anche che Caino, essendo il primogenito, voleva lui scegliersi la moglie, optando per Calmana che era sicuramente la più bella (essendoci una mezza dozzina di persone, non esisteva ancora il problema dell’incesto). Fatto sta che Caino e Abele vengono ai ferri corti. Abele è più forte e sta per avere la meglio, ma si ferma. Caino allora prende una pietra e lo uccide, così come aveva visto Abele uccidere gli animali per il macello. Qui c’è tutta una parte molto legata al Corano su come, dove ed in che modo seppellire Abele, ma poco significativa per il contesto generale. Perché a quel punto il Signore chiede ragione del suo gesto a Caino, e non vedendone il pentimento, lo condanna. Come diceva anche Saramago, lo condanna a vita. Cioè a continuare a vivere con la colpa. La cosa strana (per me che non sono un conoscitore a fondo dei testi sacri) è che a quel punto l’errante Caino fa tante cose: costruisce città, laddove prima erano solo nomadi. Da solo agricoltore, si trasforma e trasforma parte nella sua discendenza, in allevatori di bestiame. Inventa strumenti musicali, trova il modo di forgiare il metallo. E tante altre attive, pur complesse. In pratica, tutto il mondo moderno. Così che, con Camilleri, possiamo sottolineare come dal male non sempre scende il male, come dal bene non scende sempre il bene, come anche riporto nella bellissima battuta di Orson Wells. Camilleri, come al suo solito, non giudica, essendo troppo umano per farlo. Presenta, argomenta possibilità. A me, al solito, viene in mente la genesi del Giuda di Oz, che potrebbe aver senso anche qui. Perché se il Signore sa, ed organizza in modo di, ecco che Caino è anche un suo strumento per mostrare. Che c’è sempre il modo di scegliere. Che scegliere male è un peccato e non una condanna. Che senza il male, non ci può essere il bene. Caino fa riflettere. Soprattutto in questi tempi tormentati.
“Questo finché vivrà il mondo sarà l’impegno dell’uomo: fare le giuste scelte.” (59)
“In Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù.” (78) [dal film ‘Il terzo uomo’]
Andrea Camilleri “Il re di Girgenti” Sellerio s.p. (prestito di Fako)
[A: 07/01/2018 – I: 09/04/2020 – T: 11/04/2020] - & e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 448; anno 2001]
E con questo, abbiamo esaurito tutti i libri di Camilleri che sono entrati nella mia biblioteca, tra acquistati, prestati e regalati. Ora aspettiamo solo che Sellerio, prima o poi, decida di far uscire il famoso “Montalbano postumo”. Qui, siamo di nuovo nel filone “storico” di Camilleri, quello che, attraverso vicende di varia estrazione, ripercorre le vicende legate a Vigata, intesa come luogo fantastico che poi ci porterà sino a Salvo sia come luogo territoriale più o meno imprecisato, ma collocabile tra Agrigento e Porto Empedocle da un lato e Scicli e Ragusa dall’altro. Purtroppo, spesso queste storie sono abbastanza intricate, ed anche quando, come in questo caso, hanno degli agganci “reali” non sempre riescono a prendere. Non sono come le prime, fulminanti, come l’inarrivabile “Birraio di Preston”. In questo romanzo, Camilleri parte sì da un piccolo nocciolo storico, ma lo utilizza con una duplice funzione: espletare il suo pensiero in difesa dei deboli e dei diseredati e tratteggiare, in maniera magari non convenzionale, elementi storici concreti. Il nocciolo, come confessa in finale, deriva da alcune note lette in una “Storia di Agrigento”, dove si parla del piccolo regno di poche giornate che nel 1718 coinvolse la città di Girgenti, portando in quei pochi giorni sul trono un tal “Zosimo”. Quelli erano giorni particolari per la Sicilia, in quanto si stava consumando l’ardua lotta tra i Sabaudi, con a capo il re Vittorio Amedeo II, e gli spagnoli che avevano ceduto l’isola ai piemontesi nel 1713, comandati da Filippo V. Una lotta con qualche scaramuccia, “feritine e ammazzatine”, e che si concluse due anni dopo, in maniera diversa dall’aspettato, in quanto i Savoia decidono di scambiare la Sicilia con la Sardegna, dando l’isola agli Asburgo di Carlo VI. Da questa piccola nota, Camilleri con la sua indubbia capacità narrativa, che anche qui non viene meno, imbastisce la lunga parabola di codesto “Zosimo”, che lui fa diventare Michele Zosimo figlio di Gisué e Filonia. Retrocedendo quindi al concepimento di Michele, nella prima parte del romanzo, che è senza dubbio la più gradevole e meglio riuscita. Vediamo Gisué salvare un nobile da morte certa, ma poi, convinto da questo, ad aiutarlo al suicidio visto che il nobile stesso ormai aveva perduto tutti i suoi averi al gioco. Vediamo lo spagnolo che, barando, lo aveva derubato, ma che, afflitto da “impotentia generandi”, baratta la vita di Gisué con una sua prestazione sessuale che ingravida la moglie. E dopo nove mesi, nascono i due fratellastri. Noi ci si aspettava un loro incontro – scontro nel futuro, cosa che l’autore accenna, ma di passaggio, lasciandoci la bocca un po’ amara di questo episodio mancato. Perché invece, da quel punto in poi, seguiamo un doppio binario: la vita della famiglia Zosimo e quella delle terre di Sicilia. Mentre tuttavia la prima ha qualche momento di interesse, la seconda è una inutile sbrodolatura di fatti che poco coinvolgono. Vediamo nascere alcuni fratelli a Michele, senza poco sugo. Vediamo Michele, unico della famiglia, studiare, imparare a leggere e far di conto, con una viva intelligenza che lo porta anche a sapere di latino e di leggi. Vediamo Michele sposare la dolce Cicinna, e con lei mettere su famiglia, nascere e morire figli. Vediamo la triste morte di Cicinna. Vediamo come Michele diventi punto di riferimento della vita del territorio. Vediamo anche l’inizio dell’intreccio con la storia alta. Le lotte dei poveri, i soprusi dei latifondisti, le diatribe infinite tra Chiesa e Stato. Anche se poi la Chiesa di Roma si vede solo sullo sfondo, e mai si intravede la figura dell’urbinate papa Albani, eletto al soglio pontificio con il nome di Clemente XI. Tra l’altro, anche se sarebbe necessaria una diversa sede, il pontificato di Clemente XI fu discretamente interessante e pieno di avvenimenti religiosi e civili. Come dicevo tutta questa parte, seppur potrebbe essere di interesse per uno storico più ferrata di me, nell’economia del piacere del testo e di quanto ci comunica, rimane molto fredda. Fatto sta che, alla fine, Michele Zosimo decide di mettersi a capo delle lotte contadine (almeno nell’immaginario di Camilleri) e per tre giorni governerà con mano ferma il regno di Girgenti, cercando anche di intavolare un “compromesso storico” con i latifondisti. Ovviamente tutto questo non avrà buon fine. Michele ed i suoi sodali saranno sconfitti senza possibilità di scampo. Con un bel finale, tuttavia, legato ai ricordi infantili di Michele verso il suo primo aquilone che voleva libero nei cieli. Così come liberi sognava di far diventare i suoi concittadini poveri e senza terra. Camilleri ci dice che era un’illusione. E forse che l’illusione dura ancora. E per molto. Interpreti più ferrati di me, legavano anche il testo a “Croniche” medioevali, ed altre cantate popolari che nella sua grande cultura Camilleri conosceva e ci riproponeva, senza farci lo sforzo di studiare. Un lavoro che nel corso degli anni si è andato sempre più raffinando, fino a quel testo su Tiresia che ho tramato poco sopra, e che rimane un punto finale insuperato nella sua produzione. Addio, grande maestro. Aspetto con ansia le tue ultime parole.
“A cangiari una poisia è facili … lu difficile è cangiari lu munnu.” (327) [una verità scritta venti anni fa e sempre viva, ora più che mai in questi tempi virali]
Anche l’allegato di oggi è in tema con il nostro momento, visto che parliamo di solitudine.
Come detto all’inizio, una Pasqua diversa nel modo, ma non, per me, nello spirito. Certo, stiamo a casa, certo non facciamo l’usale gita di Pasquetta, che quest’anno volevamo andare al mare. Ma sono sereno, perché noi, anche rinchiusi, siamo sempre noi. Ed io vi penso, leggo anche per voi.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
APRILE 2020
Siamo in casa, abbiamo nulli contatti fisici. Ma non siamo soli, ed allora possiamo parlarne.
Solitudine
Philip Pullman               “La bussola d’oro”
Robert Graves               “Io, Claudio”
Armistead Maupin        “I racconti di San Francisco”
Non potete sentirvi soli con una stanza piena di romanzi – e nemmeno con l’unico che portereste su un’isola deserta: abbiamo tutti i nostri amici letterari preferiti. Ma è inevitabile che arrivino tempi di siccità letteraria. Può capitare che non si abbiano affatto romanzi a portata di mano, e per quei momenti dovete essere certi di avere popolato in via preventiva il vostro cervello con una folla di personaggi, idee e dialoghi interessanti, raccolti nella vostra esperienza di lettori, come garanzia che potrete sempre fare affidamento sulla vostra memoria e sul vostro mondo interiore per tenervi compagnia.
Uno dei migliori di questi vaccini contro la solitudine è “La bussola d’oro” di Philip Pullman, insieme agli altri due romanzi che compongono la trilogia “Queste oscure materie”. Perché nel mondo immaginario che più assomiglia al nostro – Pullman ha creato molti altri mondi all’interno dei suoi libri – i personaggi umani hanno tutti un daimon, ovvero un animale che sta sulle loro spalle e li accompagna per tutta la vita. I daimon non sono solo dei compagni, però, ma anche rappresentazioni dello spirito di una persona. Se un daimon si allontana troppo dal proprio umano entrambi si sentono fisicamente compromessi, e se il daimon si fa male, anche l’uomo sente dolore. Un po’ migliore amico, un po’ partner, un po’ manifestazione fisica della propria anima, un uomo con un daimon non è mai solo.
Il terrore, in questo avvincente romanzo, arriva quando l’“Autorità” – l’organizzazione religiosa che governa sul paese, come ai tempi di Cromwell – decide di separare i bambini dal loro daimon, ufficialmente per il bene della loro anima. Lyra, una grintosa preadolescente, soffre moltissimo quando arriva molto vicina a perdere il suo daimon Pantalaimon, che si mostra per lo più sotto forma di martora (il daimon non acquista una forma definitiva fino all’adolescenza del compagno). Mentre verrete coinvolti dal tentativo di Lyra di prevenire questa atrocità e salvare Roger e gli altri bambini dagli “Ingoiatori” tra i ghiacci del Nord del paese, vi convincerete dell’assoluta necessità dei daimon - e sicuramente saprete quale forma potrebbe avere il vostro.
È difficile pensare che Robert Graves si sia mai sentito solo, per quanto sono affollate di personaggi intriganti le sue lunghe e popolose storie. Dallo splendido angolo di Maiorca dove abitava, Graves scrisse i suoi due romanzi più riusciti, “Io, Claudio” e “Il divo Claudio”, per finanziare il suo stile di vita esuberante – non visse solo con una garrula moltitudine di personaggi nella testa, ma ospitò anche parecchia gente in casa. Scrittori alla moda, artisti e stelle del cinema accorrevano alle sue feste e prendevano parte alle rappresentazioni teatrali da lui organizzate. Utilizzate i suoi scritti per far continuare la festa nella vostra testa.
“Io, Claudio” è l’autobiografia immaginaria di un nobile che inizia la propria vita come uno sciocco balbuziente, deriso e ignorato dalla sua odiosa famiglia, per poi arrivare assai più in alto di tutti loro. I sicofanti e i personaggi infidi che lo circondano sono una compagnia assai variegata e divertente: tra di loro, il saggio Augusto e la moglie Livia, sua complice, il sadico Tiberio e il decisamente folle Caligola.  Con la famiglia sempre divisa da lotte intestine, e tutti che cercano di continuo di avvelenarsi a vicenda, Claudio è sempre in mezzo a una folla di gente. Tutto questo dà il senso, vivace e affascinante, di come doveva essere la vita nell’Impero Romano del primo secolo. Una volta messo giù il volume, potreste addirittura scoprirvi contenti della vostra solitudine.
A volte, quando siamo soli – capita perché non abbiamo abbastanza energia per nuovi amici -, sono i vecchi amici, quelli più intimi, che vorremmo accanto. In questo caso, vi raccomandiamo di includere di nuovo nella vostra vita gli abitanti del 28 di Barbary Lane, i personaggi della sinfonia per San Francisco di Armistead Maupin (se non li conoscete già, non ci vorranno più di un paio di pagine per sentirsi parte della banda). Creati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, Mary Ann Singleton, Mona Ramsey, Michael “Mouse” Tolliver, Brian Hawkins e la loro padrona di casa che coltiva marijuana, la signora Madrigal, sono ancora sorprendentemente freschi. Con la sua forma episodica (è quanto di più simile a guardare la televisione esista in letteratura), questo romanzo e i suoi sette sequel dovrebbero stare in cucina insieme ai libri di ricette. Non mangiate da soli, ma con la spiritosa Mona, che vi farà ridere mentre vi cuoce un uovo all’occhio di bue, Mouse prepara un po’ di rassicurante caffè forte e la signora Madrigal vi toglie la tazza dalle mani e la sostituisce con qualche perla di saggezza e uno spinello. Chi ha bisogno di uscire il venerdì, quando ha in casa i libri di Maupin?

Bugiardino

Conosco sia i libri Pullman (di cui ho letto altro) sia la scrittura di Graves, ma ho letto e commentato solo il divertente libro di Maupin.
Armistead Maupin “I racconti di San Francisco” BUR euro 10 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[tramato il 7 settembre 2014]
Un libro allegro, scanzonato, fuori le righe, certo, sicuramente datato (ha quasi quarant’anni!). Anche, se vogliamo, pieno di luoghi comuni (San Francisco città della gioia, dove tutto è permesso e tutto è possibile, ma anche città della tristezza dove non si realizza nulla e si va alla deriva). Sarà, comunque Maupin proprio quaranta anni fa, nel 1974, inizia a scrivere prima su un giornale locale, poi sul più diffuso “San Francisco Chronicle”, dei piccoli pezzi sulla città. E non a caso questi si chiamavano “Tales of the City” (Racconti della città). In cui si parlava di rapporti, di lavoro, di gay, di spinelli, di licenziamenti, di appartamenti, di strade. Quasi come tanti anni dopo, anche se con meno allegria, farà McCall Smith con Edimburgo e il 44 di Scotland Street. Dopo due anni di raccontini, l’editore gli chiede di omogeneizzarli nello stile, e di dar loro una veste “libresca”. Esce così il libro che ho appena finito di leggere. Che per molti versi è irraccontabile. Proprio perché è un continuo “episodizzare”, anche se, volendo tirare un filo, possiamo seguire Mary Ann Singleton (cognome tutto un programma, che, in effetti, è forse la sola che non riuscirà a concludere nessuna storia) che decide di lasciare la triste e natia Cleveland per cercare fortuna nella grande città. Trova un posto da dormire al 28 di Barbary Lane, dalla simpatica Anna Madrigal, che nel retro della casa ha una piccola coltivazione di “maria”, ed accoglie gli ospiti offrendo loro uno spinello augurale. Trova anche lavoro presso il boss Halcyon, che è il contraltare come atmosfera di Barbary Lane: posto di lavoro duro, dove si licenzia facile, ma che vive una vita parallela con la casa. E spesso i personaggi si mischiano. Quando si innescano giri alla Schnitzler, con Michael, abitante della casa, gay sfortunato che ha una storia con Jon, il quale lo lascia, ed in una sauna è rimorchiato da Beauchamp, il genero di Halcyon, la cui moglie è in cura dal ginecologo Jon (si quello gay). E così sfreccia la vita, dove appunto, sono più i personaggi che fanno la storia che la storia in sé. Oltre alla sunnominata Mary Ann, ne abbiamo tanti. Anna Madrigal, come detto la proprietaria della casa, che cerca un rapporto materno con ciascuno dei suoi inquilini, solo un po’ più aggressivo con Mona Ramsey; spinge sempre Mary Ann verso qualche “avventura”, ma più che altro, intreccia una tenera storia d’amore con il morente Edgar Halcyon (sempre nell’intreccio tra i due filoni). Mona Ramsey il contraltare di Mary Ann, bohemien, e malinconica, si ritrova disoccupata, licenziata da Beauchamp dopo una giornata tremenda in ufficio, convince il suo amico gay Michael a restare con lei, fino a che non decide di riallacciare un rapporto con la sua vecchia fiamma D'orothea Wilson, una strana modella di colore. Michael 'Mouse' Tolliver, il migliore amico di Mona ed il confidente di Mary Ann; Mouse è fiducioso che alla fine tutto andrà bene, anche se passa di storia in storia, e tutte gli vanno male, anche quella che sembrava promettente con il ginecologo Jon. Brian Hawkins un cameriere per scelta dopo aver abbandonato la professione di avvocato a seguito dei moti del ’68; considerato un donnaiolo, passa quasi tutto il suo tempo alla ricerca di discoteche e taverne dove rimorchiare. Norman Neal Williams vive nel sottotetto della casa, ed è schizzato da tutti, solo Mary Ann prova ad avere una relazione con lui, che finirà male quando si scopriranno segreti che non vi narro (volete leggerlo o no questo libro?). Jon Fielding, il ginecologo, si fidanza con Mouse per un breve periodo, ma lui è della cerchia dei gay di alta levatura, gli omosessuali snob che fanno una casta a sé stante, oltre però ad essere il centro di quel girotondo che ho accennato sopra. Beauchamp Day è il marito narcisista e donnaiolo di DeDe, che trova modo di avere relazioni extraconiugali sia con Mary Ann (che è segretaria di Edgar, ma con cui esce una volta sola) e con Jon. DeDe Halcyon è una delle infelici donzelle d’alto bordo della parte “ricca” di SiFi (come viene chiamata San Francisco per contrapposizione con LA – Los Angeles), per noia ha una relazione con un fattorino cinese, che la mette incinta, poi va in una clinica sofisticata per dimagrire, dovendo al ritorno, magra ed agguerrita, combattere con la gravidanza e le scappatelle del marito. Infine, Edgar Halcyon, capo della ditta dove transitano molti dei nostri, allontanatosi da Frannie, la moglie alcolista, che si accompagna con Anna durante la fatale malattia. Il tutto per restituirci il senso della vita nella città, al tempo in cui tutto sembrava possibile. E Maupin lo fa con una scrittura fresca, che attraversa con ironia anche i momenti cupi, e rende plausibile ogni eccesso (ma poi scopriamo che si fanno veramente le gare di ballo in mutande per soli gay…). Chiudendo, come fa l’autore nella bella postfazione che percorre anche i fatti ed i libri successivi a questo primo, con la “gioiosa accettazione della differenza che è il bello della vita a Barbary Lane”.

Conclusioni

Con un libro, non si è mai soli. Ma soprattutto, stare soli è di una abissale diversità rispetto a soffrire di solitudine. Questa è un sentirsi (o essere) abbandonati. Quella è una scelta di vivere momenti privati, per poi, e sempre condividerli. Per ora, da lontano. Presto, invece…

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