[A: 05/09/2017– I: 06/12/2019 – T:
08/12/2019] - &&
e ¾
[tit. or.: El Juego de Ripper; ling.
or.: spagnolo; pagine: 524; anno 2013]
Sinceramente
mi aspettavo qualcosa di meglio da questo che credo sia un po’ un
divertissement uscito dalla penna della mia, comunque amata, scrittrice
sudamericana. Certo, questo libro nasce in maniera un po’ trasversale, iniziato
come un romanzo a quattro mani con William C. Gordon, all’epoca della scrittura
secondo marito di Isabel. Gordon cui comunque viene dedicato il libro, ma dove
la scrittura in comune era risultata complicata, tanto che nei ringraziamenti
Isabel confessa che, se non avesse continuato da sola, la co-scrittura avrebbe
portati ad un divorzio. Cosa che comunque avviene due anni dopo, anche se in
una intervista ad un giornale latino-americano l’autrice dice che si sono
lasciati in amicizia, essendo finito l’innamoramento. Forse è anche
classificabile come “juvenilia”, un po’ nella tendenza di Theodore Boone di
Grisham, anche perché, sebbene ci siano personaggi adulti e storie adulte,
anche troppo, quella che rimane al centro del gioco è la diciassettenne Amanda.
Che il libo ci presenta nella sua complicata situazione familiare. C’è la
madre, Indiana (come Indiana Jones, per capirci), che dopo percorsi vari, ora
si dedica alle medicine alternative, in una fantomatica “Clinica Olisitca”. C’è
il padre (ovviamente i due sono divorziati), Bob Martin, che sposa Indiana
quando lei ha 16 anni, incinta di Amanda, e dopo tre anni divorziano. C’è
Blake, il nonno, nonché padre di Amanda, l’unico che è rimasto sempre vicino ad
Amanda in tutti i periodi di crescita. C’è la famiglia di Bob, in particolare
Encarnación, con i suoi manicaretti e la sua empatia. In mezzo c’è questo
gioco, “Ripper”, che in effetti fu un video games in auge nei primi anni
Novanta, e che qui viene ripreso più come “role play” alla D&D, con una
forte iniezione di quello che da noi è noto come “Cluedo”. Amanda ed alcuni
suoi amici e coetanei, sparsi per il mondo e collegati in rete, cercano di
risolvere misteriose morti, seguendo le regole del gioco. Ora però, essendo la
San Francisco di Amanda percorsa da una vera serie di misteriose uccisioni, i
nostri decidono di dedicarsi a risolvere il caso, usando Blake come pedina
d’avanscoperta, e cercando di coinvolgere Bob, il padre di Amanda, che è un
poliziotto, ed è anche incaricato delle indagini. Benché sia abile, come
sappiamo da tutte le letture che si sono fatte, nel gioco corale, e benché
riesca a gestire tutti i personaggi (e ce ne sono altri, ma sarebbe lungo
entrare in tutti, e forse, qualcuno direbbe che parlo troppo delle trame e la
gente non legge più i libri, ma finiamola qui), la trama risulta poco incisiva.
Certo, si entra, nei differenti capitoli, nella vita di molte persone, se ne
seguono vicende passate e presenti. In particolare, oltre ai menzionati
protagonisti, non possiamo dimenticare Alan, l’amante di Indiana, e Ryan, il
discreto innamorato, nonché ex-marine con un piede in meno (quasi emulo del
Cormoran Strike della Rowling, o viceversa, essendo entrambi i libri del 2013).
Per quattro mesi, da gennaio ad aprile, con una scrittura veramente lenta,
seguiamo le indagini, anche su alcuni delitti avvenuti poco prima (tipo
ottobre). Poi, finalmente, da pagina 400 entriamo nel vivo. Si avvera la
profezia della quarta di copertina, ed il gioco di Ripper diventa il modo di
entrare nelle indagini e di avvicinarci meglio alla trama più marcatamente
gialla. Le ultime 100 pagine lasciano il tono da divertimento giovanile per
passare ad una trama poliziesca. Abbiamo persone in pericolo, abbiamo Amanda
che cerca di prendere il comando delle indagini, a dispetto del padre e del nonno.
Per arrivare alla ricerca del colpevole di tutte le malefatte fin ad allora
narrate. La scrittrice fa un grosso sforzo per far tornare tutti i conti,
riuscendo a trovare un filo rosso che lega tutte le morti e tutte le modalità
di uccisione. Sforzo lodevole, che lascia ben presto il passo alla
consapevolezza di aver capito chi c’è dietro gli efferati delitti. Ora si
tratta solo di trovare il modo di far quadrare il cerchio. Nelle ultime pagine
“normali”, avevamo intanto assistito anche alla morte del cosiddetto fidanzato
di Indiana, il poco simpatico Alan. Ed all’avvento in prima persona di Ryan,
con tutti i misteri della sua presenza e delle sue attività (misteri che,
purtroppo, non saranno tutti svelati, lasciandoci un po’ di amaro in fondo allo
stomaco). Ci si domanda solo se Ryan, che comunque è un personaggio
improbabile, sia coinvolto, e, se non lo è, in che modo far sì che ne possa
uscire. O che possa avere un suo spazio. Alla fine, anche se non per un happy
end totale, la maggior parte delle azioni hanno il loro risvolto positivo. Che
non vi narro, e che vi lascio leggere, se volete. Sottolineo soltanto che,
nonostante tutti gli sforzi, i giocatori del gioco di Ripper non sembrano avere
la tempra giusta per balzare in primo piano come protagonisti. Solo Amanda ha,
ha avuto ed avrà, un suo spazio ed un suo ruolo. Insomma, un librone lungo più
del dovuto, con tante storie che si affastellano, ma che non soddisfa né noi
vecchi lettori della Allende, né chi cercava un giallo. Speriamo che il ritorno
alla scrittura della scrittrice cilena acquisti di nuovo il suo passo, quello
de “La casa degli spiriti” per intenderci.
John
Banville “False piste” Repubblica Noirissimo 29 euro 7,90
[A: 27/12/2017 – I: 16/02/2020 – T: 20/02/2020]
&
+
[titolo: Vengeance; lingua: inglese; pagine: 316; anno:
2012]
Continuo a leggere imperterrito questi libri
sperando in un miracolo. Tutti parlano bene di Banville, Citati lo indica come
uno dei migliori romanzieri degli ultimi quaranta anni, alcuni lo vedono anche
candidato al Nobel. Io continuo ad essere perplesso. Sia per le sue cosiddette
opere maggiori (e confesso che “Il mare” non è che sia riuscito a digerirlo
bene), sia per questo finale che, è bene rammentare, si inserisce
tangenzialmente alla sua opera. Tanto che all’inizio ne pubblica sotto lo
pseudonimo di Benjamin Black. Quasi a rimarcare che si tratta di opere diverse
dalla sua scrittura abituale. L’idea iniziale, quella di mettere al centro
della vicenda un personaggio strambo come può essere un anatomopatologo nella
Dublino degli anni Cinquanta, è sembrata abbastanza originale. Ma Quirke non è
stato un personaggio che ho preso in simpatia. Ed anche l’autore si è accorto
che, da solo, aveva poco spessore giallo (forse spessore narrativo sì, ma
allora sarebbero altre tipologie di scritti), così da affiancarlo ben presto
nelle indagini con l’ispettore Hackett, che magari è di andatura diesel, ma con
quell’andatura arriva sempre a soluzione. Qui, inoltre, ho anche una difficoltà
dovuta al salto librario, che dopo aver letto i primi due episodi della serie,
per vicende incontrollate, ora leggo il quinto episodio. Dove, rispetto a
quanto lasciato nella trama precedente, vediamo una maggiore distensione tra
Quirke e la figlia. Non solo, vediamo la stessa accompagnarsi con Sinclair, il
secondo di Quirke nelle analisi dei cadaveri. Rimangono così sospesi una serie
di puntini di congiunzione, una serie di personaggi che spariscono, e magari qualcuno
che compare, senza che John-Benjamin si periti di spiegarlo. Ad esempio, la
donna che per una breve notte si accompagna con Quirke, e la cui presenza viene
data per nota (cosa falsa) e viene fatta scomparire dopo poche pagine, senza
alcun motivo plausibile. Certo, rimane l’atmosfera irlandese degli anni
Cinquanta, ma è l’atmosfera della classe alta (o almeno così a me pare). Sono
gli anni dei primi governi di Eamon de Valera, ancora devono arrivare le lotte
e la guerriglia. Mentre qui si parla di un sodalizio tra due famiglie entrate
in società agli inizi del Novecento. Samuel Delahaye e Philip Clancy avevano
cominciato con il carbone; poi Samuel aveva intuito le possibilità delle
automobili, ed i due avevano aperto autofficine, riparazioni meccaniche ed
altro. Ora ci sono i nuovi, i figli, Victor e Jack. Ma sono sempre i Delahaye
che tengono il timone, mentre i Clancy sono sempre in secondo piano. È Victor
che dopo la morte della prima moglie che gli aveva dato due gemelli, sposa la
giovane Mona. Mentre Jack, sposato con Sylvia (che gli perdona tutte le sue
“uscite dal guscio”), ha avuto con il figlio Davy, e cerca di capire come
uscire dall’ombra di Victor. In questo clima da lotte di potere, si instaurano
due elementi “gialli”. Victor esce in barca con il giovane Davy, gli fa strani
discorsi sull’indipendenza, prende una pistola e si uccide davanti a lui. Poco
dopo, Jack, esperto velista, affonda con la sua barca e annega. Qui interviene
il nostro Quirke, che rileva la possibilità del primo fatto e l’impossibilità
del secondo, che Jack ha anche un forte ed inspiegabile colpo in testa. Questa
volta Quirke, rispetto alle ritrosie del precedente romanzo tramato, non si
tira indietro, ne parla con Hackett, ed i due cominciano ad indagare. Scoprono
ben presto che la vita dell’azienda stava per essere rivoluzionata. Jack,
lavorando nell’ombra, aveva acquistato azioni e interessi vari, ed ora aveva in
mano la forza per estromettere l’odiato Samuel dall’azienda. Samuel lo aveva
capito, come aveva capito che la giovane moglie Mona lo tradiva con un Clancy.
Distrutto ed incapace di trovare una via d’uscita pensa bene di inscenare il
suicidio, sperando, forse, che andando alla deriva la barca travolga ed uccida
Davy, poco uomo di mare. Qualcuno, ovviamente, capisce la trama, e pensa di
trovare (giustamente? ingiustamente?) in Jack il capro espiatorio, inscenando
una complessa trama che porta Jack alla morte. La narrazione di Banville
procede lentamente, senza mai coinvolgere più di tanto. Fortunatamente, c’è la
figlia Phoebe, ora legata appunto a Sinclair (sarebbe interessante averne
seguito l’evoluzione, ma tant’è), che collega alcuni fatti apparentemente
scollegati, che prende due puntini distanti e riesce a trovare i collegamenti.
Si scivola un po’ nella tensione, nel finale. Anche se la trama, almeno quella
gialla, appare presto chiara. Mentre la trama “romantica e romanzata” delle
vicende economica è già ben palese sin dalle prime pagine. Cosa resta allora?
Un’ottima capacità di descrizione delle atmosfere irlandesi di un tempo, con
l’utilizzo dei ragionamenti per arrivare al punto nodale. Visto che non siamo
ai nostri tempi, quelli dei laboratori alla “Bones” (tanto per rimanere
nell’anatomopatologia). Continuo, ancora, ad essere perplesso di questi libri.
E continuo a non capirne il successo editoriale.
Sascha
Arango “La verità e altre bugie” Repubblica Noirissimo 22 euro 7,90
[A: 06/11/2017 – I: 10/03/2020 – T:
11/03/2020] - &&
e ¾
[tit. or.: Die Wahrheit und andere Lügen;
ling. or.: tedesco; pagine: 285; anno 2014]
Continuiamo un periodo di alternanza tra noir e
fiction, con un autore che non conoscevo. Dove, guardando le mie note, mi sono
ricordato che era anche citato nell’antologia dei “Libri che ci aiutano a
vivere felici”, come esempio eponimo (come direbbe mio cugino Stefano) di un
libro sulla bugia e sulla verità, come d’altronde dice bene il titolo (che
questa volta è lasciato intonso, e ne rendiamo merito agli editori). L’autore è
uno sceneggiatore sessantenne molto noto e molto premiato in patria, figlio di
madre tedesca e padre colombiano. E la matrice televisiva (e filmica in genere)
si sente in alcuni passaggi del libro. Che, nonostante la buona scrittura, il sapiente
dosaggio tra noir classico e commedia nera (c’è dell’humor anche se non è che
si rida a crepapelle), mi ha lasciato dei punti oscuri. Dove il nostro Henry,
il protagonista ha delle visioni poco comprensibili e poco funzionali al testo.
E dove alcuni punti rimarranno volutamente oscuri, ed io, nella mia mania di
sapere tutto, sono sempre alla ricerca di chiarimenti. L’altro corno del
dilemma che il romanzo non ha un eroe cui identificarsi, che non sempre è un
male, ma lascia un po’ sbalestrati. Che all’inizio sembra ci si possa
appoggiare proprio ad Henry, poi però tutto si modifica. Ed io rimango sospeso
sul filo del dubbio. Il noir si incentra su pochi personaggi principali: Henry,
il personaggio misterioso, sua moglie Martha, l’editor della sua casa editrice
Betty. Attori non protagonisti il capo di Betty, Claes, la sua segretaria
Honor, lo strano Gabriel ed il pescatore Obradin. Sullo sfondo, l’ispettore
Jenssen e gli altri poliziotti. Arango riesce (e questo gli diamo merito) ad
introdurre la trama con astuzia e con molta calma. Non c’è fretta in questa
cittadina tedesca in riva ad un qualche mare del Nord. Scopriamo, ma con molte
pagine che consentono alcuni “colpetti di scena”, che c’è questo Henry che
pubblica thriller di successo presso una casa editrice dove l’ha scoperto la
grassottella Betty. Henry è un tipo d’uomo che non dice mai di no ad un corpo
femminile, e, pur mantenendo amore (e profondo sembra) con la moglie Martha,
intavola una relazione sessualmente soddisfacente con Betty. Fino a che questa
non rimane incinta. Che fare? Confessare tutto alla moglie? Trovare il modo di
disfarsi del nascituro? O forse anche della madre? Mentre Henry si dibatte in
questo dilemma, scopriamo che in realtà chi scrive i libri è la moglie, che
però non ha nessun interesse a comparire e lascia, consensualmente, gli oneri
del palcoscenico ad Henry. Che questo riesce bene ad impersonare: l’uomo di
successo, ricco, ben vestito, con Maserati e tavoli riservati nei migliori
ristoranti della zona. La svolta al libro, alla trama ed ai comportamenti dei
protagonisti avviene quando Henry decide che il modo migliore di risolvere la
questione è spingere la macchina di Betty, con Betty dentro, in una scogliera a
strapiombo sul mare. Cosa che fa con successo. Peccato che il caso ci metta lo
zampino: per qualche misterioso caso o decisione improvvida, Martha era andata
da Betty dicendo che sapeva tutto (anche senza le confessioni di Henry) e
avendo la macchina in panne, chiede in prestito quella di Betty. Così Henry ha
ucciso Martha, non solo, ma la vera scrittrice non aveva ancora finito il libro
che doveva uscire a breve (e che Henry non sarebbe capace di portare avanti
neanche di un rigo). Da qui cominciano gli intrecci del caso, e le misteriose
storie che ci giungono sul conto di Henry. Che di certo è strano, tanto che
Gabriel, suo compagno di orfanotrofio e che lo sta pedinando per scrivere una
biografia non autorizzata, confessa di aver trovato su di lui notizie fino agli
undici anni e poi negli ultimi nove anni in cui è diventato un personaggio
pubblico. Nel mezzo, il vuoto (e questo il punto che mi ha convinto poco, che
vuoto rimarrà sempre). Henry è impanicato: moderatamente addolorato della morte
di Martha, timoroso di essere scoperto. Tanto che comincia a costruire brandelli
di possibili alternative, sempre con un pizzico di verità, che le bugie devono
contenere un pizzico di verità per essere credibili. Con la sua diabolica
abilità di bugiardo, riesce a far convergere i sospetti su Betty, spera che
Betty sposi Claes, liberandolo del peso di un nascituro indesiderato. Quando
questa sottotrama fallisce, trova il modo di far sparire anche Betty, con un
alibi perfetto ed una costruzione micidiale di piccole prove indiziarie. Alla
fine, tra una chiavetta USB che contiene quasi tutto il romanzo, una misteriosa
lettera postuma di Martha con il finale del libro, con la polizia che non
troverà neanche mezza prova a carico, con Honor che sposa Claes in fin di vita,
Henry sparisce inviando una misteriosa cartolina all’amico Obradin. Di certo il
nostro senso di giustizia rimane colpito. Ma ripeto è gradevole e scorrevole
l’incastrarsi del caso nella vita di Henry. E l’abilità del nostro bugiardo
laureato di costruire castelli di menzogne che alla fine, miracolosamente, non
crollano. Lettura discretamente veloce ed autore da tenere a mente.
Ian
Manook “Yeruldelgger. Morte nella steppa” Repubblica Noirissimo 15 euro 7,90
[A: 05/10/2017 – I: 07/04/2020 – T:
09/04/2020] - &&&
e ½
[tit. or.: Yeruldelgger; ling. or.: francese; pagine: 574; anno 2013]
Il libro mi è discretamente piaciuto, e di
questo ne parliamo più avanti. Meno per alcune cose che elenco immediatamente.
Il titolo italiano che ha dovuto aggiungerci quel “Morte nella steppa”, non
presente nell’originale, e che non si capisce perché. Il fatto che, come per le
saghe lapponi di Olivier Turc, l’autore non è, nonostante il nome, un mongolo
ma un francese, anche discretamente simpatico, perché scrittore e viaggiatore
(tra l’altro). Il cui vero nome è Patrick Manoukian, e si capisce che l’origine
è armena. Lo pseudonimo gli deriva dall’agenzia “Manook” che fonda nel 1987,
che si occupa in vario modo di turismo. Veniamo allora al libro, ed ai motivi
del gradimento, ed alla storia, ed a quant’altro mi ha fatto venire in mente il
libro. Intanto, ammirevolmente, l’autore scrive questo primo libro della
trilogia di Yeruldelgger a 64 anni, e quindi c’è sempre speranza. Si
vede, anzi si legge tra le righe, che Ian conosce bene la Mongolia, i suoi usi
e costumi. Cosa che mi fa tornare la voglia, mai sopita, di andarci un giorno,
come promisi dodici anni fa a mio padre ricoverato in via finale al
Policlinico, promessa che ancora non sono riuscito a mantenere. Il libro, deve
dire, e si capisce dal numero delle pagine, mette molta carne al fuoco, forse
anche troppa. Iniziando come un giallo, travestendosi ben presto in un
cantastorie che ci parla dei mongoli e della loro terra, e delle loro lotte con
i popoli vicini, per poi tornare ad essere un giallo, anzi un noir, di cui
sappiamo cosa siano e cosa facciano tutti i personaggi, ed aspettiamo solo di
capire se i buoni vinceranno, e di quanto. Come avete capito, quindi, c’è un
mix tra storia personale, storia legale e storia poliziesca. Il personale segue
appunto l’eroe, il commissario di polizia di Ulan Bator Yeruldelgger Khaltar
Guichyguinkhen, che per brevità chiameremo solo con il primo nome. Un valente
poliziotto, alcuni anni prima (cinque, credo) coinvolto in un problema giallo –
personale. Mentre indaga su appalti truccati, la figlia di cinque anni viene
rapita, per farlo desistere. Lui non molla, la piccola muore. La moglie perde
il senno, e l’altra sua figlia, Saraa, si allontana da lui e si invischia in
torbide trame con malavitosi di vario genere. Gli rimangono invece sempre
accanto, la sua aiutante, Oyun, ed il medico legale, la dottoressa Solongo (che
è anche molto innamorata di lui). Invece, lo osteggiano ai limiti della
legalità (ed anche fuori) il suo vice, Chuluum, ed il suo capo Mike Sukhbataar
(soprannominato Mickey, cioè “topolino” nello slang disneyano). Il via alla
vicenda viene dato da due episodi “noir”: il ritrovamento nella steppa del
corpo di una bambina di cinque anni, ancora in sella ad un triciclo, e
l’uccisione di tre cinesi all’interno di una fabbrica (più che uccisione,
massacro, con evirazioni ed altre efferatezze). Le indagini saranno tortuose,
coinvolgeranno Saraa (che rischia di morire) in quanto legata ad una banda di
nazisti mongoli (che sostituiscono l’Yin e Yang della bandiera nazionale con la
croce uncinata), nonché le lotte contro gli stranieri che stanno occupando
l’economia mongola. Uscita infatti, dal giogo sovietico, la Mongolia viene
stritolata dall’invasione dell’economia cinese, cui a volte tenta di
ribellarsi, magari appoggiandosi (anche fraudolentemente) a capitali coreani. Questa,
seppur interessante antropologicamente, è la parte meno coinvolgente del libro,
che ne capiamo i connotati, ma ne seguiamo con poca voglia le vicende. Legate,
pare, alla scoperta in terra mongola di grossi depositi di “terre rare”,
fondamentali nelle tecnologie avanzate (superconduttori e fibre ottiche), che
sembravano a disposizione solo della Cina, ma che gruppi mongoli vogliono
vendere ai coreani. E non sembra un caso che il capo di queste cordate sia
Erdenbat, il patrigno di Yeruldelgger. Non entro in tutte le complicate vicende
poliziesche, che vi consiglio di leggere nel libro. Dove andrà avanti anche la
storia personale di Yeruldelgger, che farà pace con la figlia ed inizierà una
storia con Solongo. Peccato (ma è ovvio sapendo che è una trilogia) che Manook
non chiuda tutte le parentesi che apre, così da potersi concedere le successive
puntate. Quello che invece vorrei sottolineare sono gli aspetti mongoli del
libro, che molto di più mi hanno affascinato. La geografia, innanzi tutto. La
visione del fiume Tuul che attraversa la capitale. Le avventure che si svolgono
nei boschi e nei monti e nelle steppe intorno a Ulan Bator: la regione di Khentii
(dove non si capisce perché il traduttore non usi la traslitterazione italiana
di Hentij, regione legata alle origini di Gengis Khan), le scorribande in quad
nelle Flaming Cliffs (anche qui perché non usare l’italiano “Colline
fiammeggianti” o il nome locale di Bajanzag), nonché il Parco Nazionale di Khustain
Nuruu (dove vive il raro cavallo della Mongolia, in via di estinzione). Altro
elemento per me bellissimo riguarda la cucina. Con le bevande, dal tè mongolo
(servito salato con una noce di burro), all’arkhi (delicato liquore di latte)
per finire con la principale bevanda nazionale, l'airag, ottenuto da latte di
cavalla fermentato. Nonché i due piatti base della tradizione. L’uno in tutte
le cucine, i khuushuur, simili a frittelle, che sono in pratica dei ravioli
fritti ripieni di carne. L’altro solo in occasioni speciali: il boodog, una
marmotta svuotata, che viene cotta inserendo pietre calde nello stomaco,
ricucendolo, ed avvicinandolo ad altre pietre bollenti, in modo che la carne si
cuocia dall'interno e dall'esterno. Infine, una serie di notizie sulle tipicità
mongole: la vita nomade nelle yurte, la descrizione delle stesse, la visione
delle yurte all'interno delle città stesse, le modalità di rapportarsi tra
abitanti delle yurte e visitatori. Nonché il rito finale, quando ce ne andiamo
dalle yurte, e chi rimane sparge latte ai quattro punti cardinali per augurarci
un felice viaggio. Latte che aspergo anche io, sperando sia di augurio per la
ripresa del nostro “normale” cammino nella vita.
“La
vita non fa niente di noi. Siamo noi a fare la vita, a suon di rinunce, paure,
abbandoni, imbrogli, furori! Siamo noi a impedire di fare della vita una cosa
diversa da quello che è.” (510)
Come
molti sanno, quando siamo alla quarta settimana del mese, ci si prende una
pausa da notizie ed inserti vari. Tanto si ha tempo per riprendersi, così come,
con giusta lentezza, ci stiamo riprendendo da questa pandemia. Al secondo mese
di quarantena personale, scelta e non subita, sono felice di questa parte di
esperienza. Che sarebbe bello integrare con altro. Speriamo presto. Intanto non
posso che concludere con un grande augurio a mio fratello Paolo per il suo
genetliaco (accomunandolo quanto meno all'amica Anto).
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