domenica 24 maggio 2020

Un nero viaggio - 24 maggio 2020


[A: 05/09/2017– I: 06/12/2019 – T: 08/12/2019] - && e ¾
[tit. or.: El Juego de Ripper; ling. or.: spagnolo; pagine: 524; anno 2013]
Sinceramente mi aspettavo qualcosa di meglio da questo che credo sia un po’ un divertissement uscito dalla penna della mia, comunque amata, scrittrice sudamericana. Certo, questo libro nasce in maniera un po’ trasversale, iniziato come un romanzo a quattro mani con William C. Gordon, all’epoca della scrittura secondo marito di Isabel. Gordon cui comunque viene dedicato il libro, ma dove la scrittura in comune era risultata complicata, tanto che nei ringraziamenti Isabel confessa che, se non avesse continuato da sola, la co-scrittura avrebbe portati ad un divorzio. Cosa che comunque avviene due anni dopo, anche se in una intervista ad un giornale latino-americano l’autrice dice che si sono lasciati in amicizia, essendo finito l’innamoramento. Forse è anche classificabile come “juvenilia”, un po’ nella tendenza di Theodore Boone di Grisham, anche perché, sebbene ci siano personaggi adulti e storie adulte, anche troppo, quella che rimane al centro del gioco è la diciassettenne Amanda. Che il libo ci presenta nella sua complicata situazione familiare. C’è la madre, Indiana (come Indiana Jones, per capirci), che dopo percorsi vari, ora si dedica alle medicine alternative, in una fantomatica “Clinica Olisitca”. C’è il padre (ovviamente i due sono divorziati), Bob Martin, che sposa Indiana quando lei ha 16 anni, incinta di Amanda, e dopo tre anni divorziano. C’è Blake, il nonno, nonché padre di Amanda, l’unico che è rimasto sempre vicino ad Amanda in tutti i periodi di crescita. C’è la famiglia di Bob, in particolare Encarnación, con i suoi manicaretti e la sua empatia. In mezzo c’è questo gioco, “Ripper”, che in effetti fu un video games in auge nei primi anni Novanta, e che qui viene ripreso più come “role play” alla D&D, con una forte iniezione di quello che da noi è noto come “Cluedo”. Amanda ed alcuni suoi amici e coetanei, sparsi per il mondo e collegati in rete, cercano di risolvere misteriose morti, seguendo le regole del gioco. Ora però, essendo la San Francisco di Amanda percorsa da una vera serie di misteriose uccisioni, i nostri decidono di dedicarsi a risolvere il caso, usando Blake come pedina d’avanscoperta, e cercando di coinvolgere Bob, il padre di Amanda, che è un poliziotto, ed è anche incaricato delle indagini. Benché sia abile, come sappiamo da tutte le letture che si sono fatte, nel gioco corale, e benché riesca a gestire tutti i personaggi (e ce ne sono altri, ma sarebbe lungo entrare in tutti, e forse, qualcuno direbbe che parlo troppo delle trame e la gente non legge più i libri, ma finiamola qui), la trama risulta poco incisiva. Certo, si entra, nei differenti capitoli, nella vita di molte persone, se ne seguono vicende passate e presenti. In particolare, oltre ai menzionati protagonisti, non possiamo dimenticare Alan, l’amante di Indiana, e Ryan, il discreto innamorato, nonché ex-marine con un piede in meno (quasi emulo del Cormoran Strike della Rowling, o viceversa, essendo entrambi i libri del 2013). Per quattro mesi, da gennaio ad aprile, con una scrittura veramente lenta, seguiamo le indagini, anche su alcuni delitti avvenuti poco prima (tipo ottobre). Poi, finalmente, da pagina 400 entriamo nel vivo. Si avvera la profezia della quarta di copertina, ed il gioco di Ripper diventa il modo di entrare nelle indagini e di avvicinarci meglio alla trama più marcatamente gialla. Le ultime 100 pagine lasciano il tono da divertimento giovanile per passare ad una trama poliziesca. Abbiamo persone in pericolo, abbiamo Amanda che cerca di prendere il comando delle indagini, a dispetto del padre e del nonno. Per arrivare alla ricerca del colpevole di tutte le malefatte fin ad allora narrate. La scrittrice fa un grosso sforzo per far tornare tutti i conti, riuscendo a trovare un filo rosso che lega tutte le morti e tutte le modalità di uccisione. Sforzo lodevole, che lascia ben presto il passo alla consapevolezza di aver capito chi c’è dietro gli efferati delitti. Ora si tratta solo di trovare il modo di far quadrare il cerchio. Nelle ultime pagine “normali”, avevamo intanto assistito anche alla morte del cosiddetto fidanzato di Indiana, il poco simpatico Alan. Ed all’avvento in prima persona di Ryan, con tutti i misteri della sua presenza e delle sue attività (misteri che, purtroppo, non saranno tutti svelati, lasciandoci un po’ di amaro in fondo allo stomaco). Ci si domanda solo se Ryan, che comunque è un personaggio improbabile, sia coinvolto, e, se non lo è, in che modo far sì che ne possa uscire. O che possa avere un suo spazio. Alla fine, anche se non per un happy end totale, la maggior parte delle azioni hanno il loro risvolto positivo. Che non vi narro, e che vi lascio leggere, se volete. Sottolineo soltanto che, nonostante tutti gli sforzi, i giocatori del gioco di Ripper non sembrano avere la tempra giusta per balzare in primo piano come protagonisti. Solo Amanda ha, ha avuto ed avrà, un suo spazio ed un suo ruolo. Insomma, un librone lungo più del dovuto, con tante storie che si affastellano, ma che non soddisfa né noi vecchi lettori della Allende, né chi cercava un giallo. Speriamo che il ritorno alla scrittura della scrittrice cilena acquisti di nuovo il suo passo, quello de “La casa degli spiriti” per intenderci.
John Banville “False piste” Repubblica Noirissimo 29 euro 7,90
[A: 27/12/2017 – I: 16/02/2020 – T: 20/02/2020] & + 
[titolo: Vengeance; lingua: inglese; pagine: 316; anno: 2012]
Continuo a leggere imperterrito questi libri sperando in un miracolo. Tutti parlano bene di Banville, Citati lo indica come uno dei migliori romanzieri degli ultimi quaranta anni, alcuni lo vedono anche candidato al Nobel. Io continuo ad essere perplesso. Sia per le sue cosiddette opere maggiori (e confesso che “Il mare” non è che sia riuscito a digerirlo bene), sia per questo finale che, è bene rammentare, si inserisce tangenzialmente alla sua opera. Tanto che all’inizio ne pubblica sotto lo pseudonimo di Benjamin Black. Quasi a rimarcare che si tratta di opere diverse dalla sua scrittura abituale. L’idea iniziale, quella di mettere al centro della vicenda un personaggio strambo come può essere un anatomopatologo nella Dublino degli anni Cinquanta, è sembrata abbastanza originale. Ma Quirke non è stato un personaggio che ho preso in simpatia. Ed anche l’autore si è accorto che, da solo, aveva poco spessore giallo (forse spessore narrativo sì, ma allora sarebbero altre tipologie di scritti), così da affiancarlo ben presto nelle indagini con l’ispettore Hackett, che magari è di andatura diesel, ma con quell’andatura arriva sempre a soluzione. Qui, inoltre, ho anche una difficoltà dovuta al salto librario, che dopo aver letto i primi due episodi della serie, per vicende incontrollate, ora leggo il quinto episodio. Dove, rispetto a quanto lasciato nella trama precedente, vediamo una maggiore distensione tra Quirke e la figlia. Non solo, vediamo la stessa accompagnarsi con Sinclair, il secondo di Quirke nelle analisi dei cadaveri. Rimangono così sospesi una serie di puntini di congiunzione, una serie di personaggi che spariscono, e magari qualcuno che compare, senza che John-Benjamin si periti di spiegarlo. Ad esempio, la donna che per una breve notte si accompagna con Quirke, e la cui presenza viene data per nota (cosa falsa) e viene fatta scomparire dopo poche pagine, senza alcun motivo plausibile. Certo, rimane l’atmosfera irlandese degli anni Cinquanta, ma è l’atmosfera della classe alta (o almeno così a me pare). Sono gli anni dei primi governi di Eamon de Valera, ancora devono arrivare le lotte e la guerriglia. Mentre qui si parla di un sodalizio tra due famiglie entrate in società agli inizi del Novecento. Samuel Delahaye e Philip Clancy avevano cominciato con il carbone; poi Samuel aveva intuito le possibilità delle automobili, ed i due avevano aperto autofficine, riparazioni meccaniche ed altro. Ora ci sono i nuovi, i figli, Victor e Jack. Ma sono sempre i Delahaye che tengono il timone, mentre i Clancy sono sempre in secondo piano. È Victor che dopo la morte della prima moglie che gli aveva dato due gemelli, sposa la giovane Mona. Mentre Jack, sposato con Sylvia (che gli perdona tutte le sue “uscite dal guscio”), ha avuto con il figlio Davy, e cerca di capire come uscire dall’ombra di Victor. In questo clima da lotte di potere, si instaurano due elementi “gialli”. Victor esce in barca con il giovane Davy, gli fa strani discorsi sull’indipendenza, prende una pistola e si uccide davanti a lui. Poco dopo, Jack, esperto velista, affonda con la sua barca e annega. Qui interviene il nostro Quirke, che rileva la possibilità del primo fatto e l’impossibilità del secondo, che Jack ha anche un forte ed inspiegabile colpo in testa. Questa volta Quirke, rispetto alle ritrosie del precedente romanzo tramato, non si tira indietro, ne parla con Hackett, ed i due cominciano ad indagare. Scoprono ben presto che la vita dell’azienda stava per essere rivoluzionata. Jack, lavorando nell’ombra, aveva acquistato azioni e interessi vari, ed ora aveva in mano la forza per estromettere l’odiato Samuel dall’azienda. Samuel lo aveva capito, come aveva capito che la giovane moglie Mona lo tradiva con un Clancy. Distrutto ed incapace di trovare una via d’uscita pensa bene di inscenare il suicidio, sperando, forse, che andando alla deriva la barca travolga ed uccida Davy, poco uomo di mare. Qualcuno, ovviamente, capisce la trama, e pensa di trovare (giustamente? ingiustamente?) in Jack il capro espiatorio, inscenando una complessa trama che porta Jack alla morte. La narrazione di Banville procede lentamente, senza mai coinvolgere più di tanto. Fortunatamente, c’è la figlia Phoebe, ora legata appunto a Sinclair (sarebbe interessante averne seguito l’evoluzione, ma tant’è), che collega alcuni fatti apparentemente scollegati, che prende due puntini distanti e riesce a trovare i collegamenti. Si scivola un po’ nella tensione, nel finale. Anche se la trama, almeno quella gialla, appare presto chiara. Mentre la trama “romantica e romanzata” delle vicende economica è già ben palese sin dalle prime pagine. Cosa resta allora? Un’ottima capacità di descrizione delle atmosfere irlandesi di un tempo, con l’utilizzo dei ragionamenti per arrivare al punto nodale. Visto che non siamo ai nostri tempi, quelli dei laboratori alla “Bones” (tanto per rimanere nell’anatomopatologia). Continuo, ancora, ad essere perplesso di questi libri. E continuo a non capirne il successo editoriale.
Sascha Arango “La verità e altre bugie” Repubblica Noirissimo 22 euro 7,90
[A: 06/11/2017 – I: 10/03/2020 – T: 11/03/2020] - && e ¾ 
[tit. or.: Die Wahrheit und andere Lügen; ling. or.: tedesco; pagine: 285; anno 2014]
Continuiamo un periodo di alternanza tra noir e fiction, con un autore che non conoscevo. Dove, guardando le mie note, mi sono ricordato che era anche citato nell’antologia dei “Libri che ci aiutano a vivere felici”, come esempio eponimo (come direbbe mio cugino Stefano) di un libro sulla bugia e sulla verità, come d’altronde dice bene il titolo (che questa volta è lasciato intonso, e ne rendiamo merito agli editori). L’autore è uno sceneggiatore sessantenne molto noto e molto premiato in patria, figlio di madre tedesca e padre colombiano. E la matrice televisiva (e filmica in genere) si sente in alcuni passaggi del libro. Che, nonostante la buona scrittura, il sapiente dosaggio tra noir classico e commedia nera (c’è dell’humor anche se non è che si rida a crepapelle), mi ha lasciato dei punti oscuri. Dove il nostro Henry, il protagonista ha delle visioni poco comprensibili e poco funzionali al testo. E dove alcuni punti rimarranno volutamente oscuri, ed io, nella mia mania di sapere tutto, sono sempre alla ricerca di chiarimenti. L’altro corno del dilemma che il romanzo non ha un eroe cui identificarsi, che non sempre è un male, ma lascia un po’ sbalestrati. Che all’inizio sembra ci si possa appoggiare proprio ad Henry, poi però tutto si modifica. Ed io rimango sospeso sul filo del dubbio. Il noir si incentra su pochi personaggi principali: Henry, il personaggio misterioso, sua moglie Martha, l’editor della sua casa editrice Betty. Attori non protagonisti il capo di Betty, Claes, la sua segretaria Honor, lo strano Gabriel ed il pescatore Obradin. Sullo sfondo, l’ispettore Jenssen e gli altri poliziotti. Arango riesce (e questo gli diamo merito) ad introdurre la trama con astuzia e con molta calma. Non c’è fretta in questa cittadina tedesca in riva ad un qualche mare del Nord. Scopriamo, ma con molte pagine che consentono alcuni “colpetti di scena”, che c’è questo Henry che pubblica thriller di successo presso una casa editrice dove l’ha scoperto la grassottella Betty. Henry è un tipo d’uomo che non dice mai di no ad un corpo femminile, e, pur mantenendo amore (e profondo sembra) con la moglie Martha, intavola una relazione sessualmente soddisfacente con Betty. Fino a che questa non rimane incinta. Che fare? Confessare tutto alla moglie? Trovare il modo di disfarsi del nascituro? O forse anche della madre? Mentre Henry si dibatte in questo dilemma, scopriamo che in realtà chi scrive i libri è la moglie, che però non ha nessun interesse a comparire e lascia, consensualmente, gli oneri del palcoscenico ad Henry. Che questo riesce bene ad impersonare: l’uomo di successo, ricco, ben vestito, con Maserati e tavoli riservati nei migliori ristoranti della zona. La svolta al libro, alla trama ed ai comportamenti dei protagonisti avviene quando Henry decide che il modo migliore di risolvere la questione è spingere la macchina di Betty, con Betty dentro, in una scogliera a strapiombo sul mare. Cosa che fa con successo. Peccato che il caso ci metta lo zampino: per qualche misterioso caso o decisione improvvida, Martha era andata da Betty dicendo che sapeva tutto (anche senza le confessioni di Henry) e avendo la macchina in panne, chiede in prestito quella di Betty. Così Henry ha ucciso Martha, non solo, ma la vera scrittrice non aveva ancora finito il libro che doveva uscire a breve (e che Henry non sarebbe capace di portare avanti neanche di un rigo). Da qui cominciano gli intrecci del caso, e le misteriose storie che ci giungono sul conto di Henry. Che di certo è strano, tanto che Gabriel, suo compagno di orfanotrofio e che lo sta pedinando per scrivere una biografia non autorizzata, confessa di aver trovato su di lui notizie fino agli undici anni e poi negli ultimi nove anni in cui è diventato un personaggio pubblico. Nel mezzo, il vuoto (e questo il punto che mi ha convinto poco, che vuoto rimarrà sempre). Henry è impanicato: moderatamente addolorato della morte di Martha, timoroso di essere scoperto. Tanto che comincia a costruire brandelli di possibili alternative, sempre con un pizzico di verità, che le bugie devono contenere un pizzico di verità per essere credibili. Con la sua diabolica abilità di bugiardo, riesce a far convergere i sospetti su Betty, spera che Betty sposi Claes, liberandolo del peso di un nascituro indesiderato. Quando questa sottotrama fallisce, trova il modo di far sparire anche Betty, con un alibi perfetto ed una costruzione micidiale di piccole prove indiziarie. Alla fine, tra una chiavetta USB che contiene quasi tutto il romanzo, una misteriosa lettera postuma di Martha con il finale del libro, con la polizia che non troverà neanche mezza prova a carico, con Honor che sposa Claes in fin di vita, Henry sparisce inviando una misteriosa cartolina all’amico Obradin. Di certo il nostro senso di giustizia rimane colpito. Ma ripeto è gradevole e scorrevole l’incastrarsi del caso nella vita di Henry. E l’abilità del nostro bugiardo laureato di costruire castelli di menzogne che alla fine, miracolosamente, non crollano. Lettura discretamente veloce ed autore da tenere a mente.
Ian Manook “Yeruldelgger. Morte nella steppa” Repubblica Noirissimo 15 euro 7,90
[A: 05/10/2017 – I: 07/04/2020 – T: 09/04/2020] - &&& e ½ 
[tit. or.: Yeruldelgger; ling. or.: francese; pagine: 574; anno 2013]
Il libro mi è discretamente piaciuto, e di questo ne parliamo più avanti. Meno per alcune cose che elenco immediatamente. Il titolo italiano che ha dovuto aggiungerci quel “Morte nella steppa”, non presente nell’originale, e che non si capisce perché. Il fatto che, come per le saghe lapponi di Olivier Turc, l’autore non è, nonostante il nome, un mongolo ma un francese, anche discretamente simpatico, perché scrittore e viaggiatore (tra l’altro). Il cui vero nome è Patrick Manoukian, e si capisce che l’origine è armena. Lo pseudonimo gli deriva dall’agenzia “Manook” che fonda nel 1987, che si occupa in vario modo di turismo. Veniamo allora al libro, ed ai motivi del gradimento, ed alla storia, ed a quant’altro mi ha fatto venire in mente il libro. Intanto, ammirevolmente, l’autore scrive questo primo libro della trilogia di Yeruldelgger a 64 anni, e quindi c’è sempre speranza. Si vede, anzi si legge tra le righe, che Ian conosce bene la Mongolia, i suoi usi e costumi. Cosa che mi fa tornare la voglia, mai sopita, di andarci un giorno, come promisi dodici anni fa a mio padre ricoverato in via finale al Policlinico, promessa che ancora non sono riuscito a mantenere. Il libro, deve dire, e si capisce dal numero delle pagine, mette molta carne al fuoco, forse anche troppa. Iniziando come un giallo, travestendosi ben presto in un cantastorie che ci parla dei mongoli e della loro terra, e delle loro lotte con i popoli vicini, per poi tornare ad essere un giallo, anzi un noir, di cui sappiamo cosa siano e cosa facciano tutti i personaggi, ed aspettiamo solo di capire se i buoni vinceranno, e di quanto. Come avete capito, quindi, c’è un mix tra storia personale, storia legale e storia poliziesca. Il personale segue appunto l’eroe, il commissario di polizia di Ulan Bator Yeruldelgger Khaltar Guichyguinkhen, che per brevità chiameremo solo con il primo nome. Un valente poliziotto, alcuni anni prima (cinque, credo) coinvolto in un problema giallo – personale. Mentre indaga su appalti truccati, la figlia di cinque anni viene rapita, per farlo desistere. Lui non molla, la piccola muore. La moglie perde il senno, e l’altra sua figlia, Saraa, si allontana da lui e si invischia in torbide trame con malavitosi di vario genere. Gli rimangono invece sempre accanto, la sua aiutante, Oyun, ed il medico legale, la dottoressa Solongo (che è anche molto innamorata di lui). Invece, lo osteggiano ai limiti della legalità (ed anche fuori) il suo vice, Chuluum, ed il suo capo Mike Sukhbataar (soprannominato Mickey, cioè “topolino” nello slang disneyano). Il via alla vicenda viene dato da due episodi “noir”: il ritrovamento nella steppa del corpo di una bambina di cinque anni, ancora in sella ad un triciclo, e l’uccisione di tre cinesi all’interno di una fabbrica (più che uccisione, massacro, con evirazioni ed altre efferatezze). Le indagini saranno tortuose, coinvolgeranno Saraa (che rischia di morire) in quanto legata ad una banda di nazisti mongoli (che sostituiscono l’Yin e Yang della bandiera nazionale con la croce uncinata), nonché le lotte contro gli stranieri che stanno occupando l’economia mongola. Uscita infatti, dal giogo sovietico, la Mongolia viene stritolata dall’invasione dell’economia cinese, cui a volte tenta di ribellarsi, magari appoggiandosi (anche fraudolentemente) a capitali coreani. Questa, seppur interessante antropologicamente, è la parte meno coinvolgente del libro, che ne capiamo i connotati, ma ne seguiamo con poca voglia le vicende. Legate, pare, alla scoperta in terra mongola di grossi depositi di “terre rare”, fondamentali nelle tecnologie avanzate (superconduttori e fibre ottiche), che sembravano a disposizione solo della Cina, ma che gruppi mongoli vogliono vendere ai coreani. E non sembra un caso che il capo di queste cordate sia Erdenbat, il patrigno di Yeruldelgger. Non entro in tutte le complicate vicende poliziesche, che vi consiglio di leggere nel libro. Dove andrà avanti anche la storia personale di Yeruldelgger, che farà pace con la figlia ed inizierà una storia con Solongo. Peccato (ma è ovvio sapendo che è una trilogia) che Manook non chiuda tutte le parentesi che apre, così da potersi concedere le successive puntate. Quello che invece vorrei sottolineare sono gli aspetti mongoli del libro, che molto di più mi hanno affascinato. La geografia, innanzi tutto. La visione del fiume Tuul che attraversa la capitale. Le avventure che si svolgono nei boschi e nei monti e nelle steppe intorno a Ulan Bator: la regione di Khentii (dove non si capisce perché il traduttore non usi la traslitterazione italiana di Hentij, regione legata alle origini di Gengis Khan), le scorribande in quad nelle Flaming Cliffs (anche qui perché non usare l’italiano “Colline fiammeggianti” o il nome locale di Bajanzag), nonché il Parco Nazionale di Khustain Nuruu (dove vive il raro cavallo della Mongolia, in via di estinzione). Altro elemento per me bellissimo riguarda la cucina. Con le bevande, dal tè mongolo (servito salato con una noce di burro), all’arkhi (delicato liquore di latte) per finire con la principale bevanda nazionale, l'airag, ottenuto da latte di cavalla fermentato. Nonché i due piatti base della tradizione. L’uno in tutte le cucine, i khuushuur, simili a frittelle, che sono in pratica dei ravioli fritti ripieni di carne. L’altro solo in occasioni speciali: il boodog, una marmotta svuotata, che viene cotta inserendo pietre calde nello stomaco, ricucendolo, ed avvicinandolo ad altre pietre bollenti, in modo che la carne si cuocia dall'interno e dall'esterno. Infine, una serie di notizie sulle tipicità mongole: la vita nomade nelle yurte, la descrizione delle stesse, la visione delle yurte all'interno delle città stesse, le modalità di rapportarsi tra abitanti delle yurte e visitatori. Nonché il rito finale, quando ce ne andiamo dalle yurte, e chi rimane sparge latte ai quattro punti cardinali per augurarci un felice viaggio. Latte che aspergo anche io, sperando sia di augurio per la ripresa del nostro “normale” cammino nella vita.
“La vita non fa niente di noi. Siamo noi a fare la vita, a suon di rinunce, paure, abbandoni, imbrogli, furori! Siamo noi a impedire di fare della vita una cosa diversa da quello che è.” (510)
Come molti sanno, quando siamo alla quarta settimana del mese, ci si prende una pausa da notizie ed inserti vari. Tanto si ha tempo per riprendersi, così come, con giusta lentezza, ci stiamo riprendendo da questa pandemia. Al secondo mese di quarantena personale, scelta e non subita, sono felice di questa parte di esperienza. Che sarebbe bello integrare con altro. Speriamo presto. Intanto non posso che concludere con un grande augurio a mio fratello Paolo per il suo genetliaco (accomunandolo quanto meno all'amica Anto). 

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