Gunnar Gunnarsson “Il pastore d’Islanda”
Corriere della Sera Boreali 35 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 04/04/2019 – T: 07/04/2019]
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[tit. or.: Advent; ling. or.: danese; pagine: 96; anno 1936]
Iniziamo
con questo titolo un lungo excursus della letteratura mi verrebbe da dire
scandinava, anche se, più in generale, dovrei riferirmi ai tre paesi nordici
(Norvegia, Svezia e Finlandia) con l’aggiunta della mia amata Islanda, e
qualche possibile puntata danese. Lungo viaggio che costeggerà i bordi delle
edizioni “Iperborea”, mediate dalle scelte degli editor del Corriere della
Sera. La fortuna vuole che inizi con uno scrittore assolutamente centrale per
questo tipo di letteratura. Uno dei due grandi scrittori islandesi. L’altro è Halldór
Laxness, premio Nobel nel 1955, grande innovatore delle tradizioni locali, ed
orientato politicamente a sinistra. Qui invece parliamo di Gunnar Gunnarsson,
di una quindicina di anni più anziano, il primo forse a far uscire dal limbo
gli scritti islandesi, anche perché decise per tutta la prima parte della sua
vita di scrivere in danese, così che i suoi scritti potessero avere maggior
diffusione. Gunnar però fu a lungo tenuto anche in ombra, perché si era troppo
avvicinato ai movimenti nazisti negli anni Trenta, anche se, secondo i suoi
ammiratori, era solo un onesto e coerente conservatore. Qui, in questo breve
scritto c’è tutta la “poetica” dell’autore. Avvenimenti minimi, riflessioni,
scenari potenti come solo l’Islanda riesce a regalarci. Purtroppo, nel
passaggio di anni e traduzioni, il titolo è andato ramingo. L’autore volle
chiamarlo “Avvento”, e vedremo che è un titolo con un suo senso. Per non urtare
la suscettibilità religiosa, poi, quando prima del ’40 venne pubblicato in
Germania, si adottò il titolo “Il pastore delle alte terre”. Che in effetti,
Benedikt è un pastore, e si aggira nelle alte terre islandesi, quelle del Nord
per intenderci. Trasmigrato il libro in Inghilterra, cercando un nuovo
collegamento tra il pastore delle anime ed il tempo dell’Avvento, venne fuori
“Il Buon Pastore”, che appunto crea quel collegamento fattivo religioso con la
Parabola del Vangelo di Giovanni. Infine, ora che si pubblica in Italia, si fa
un mix di tutto, e si trova un titolo che alla fine non dice nulla: “Il Pastore
d’Islanda”. Ma cosa dice, invece, il testo? Come si vede dalla lunghezza, più
che un romanzo, è un racconto lungo. Protagonista è Benedikt, il pastore del
titolo, che insieme ai suoi amici – amici, non solo meri accompagnatori o
aiutanti – affronta un viaggio sui gelidi altipiani islandesi, tra le montagne,
nel mese più rigido, cioè dicembre, alla ricerca delle pecore sperdute durante
il rientro al pascolo dell’autunno. Benedikt non salva le pecore per denaro o
per altri scopi privati: le salva per salvarle, per rendere un servigio alla
sua comunità rurale. Già qui esce fuori lo spirito islandese, dell’amicizia e
della natura. Già qui iniziamo a commuoverci, per il viaggio pericoloso di
questo anziano, per i parametri locali. Benedikt ha 54 anni ed inizia, come da
consuetudine, anno dopo anno, la domenica dell’Avvento il suo ventisettesimo
viaggio per le alte terre, alla ricerca delle pecore smarrite. Viaggia, come
dicevamo sopra, con due amici veramente speciali, due amici a quattro zampe.
Leo, un cane da pastore, forte, intelligente, seppure caciarone a volte. E
Roccia, un montone, mite e solido, come ricorda il nome, e noi lo immaginiamo
coperto di pesante pelo lanoso, che avanza sprofondando nella neve senza però
mai farsi abbattere. La santa trinità – così li chiamano – si mette in cammino.
E come ogni cammino, seppure già noto perché percorso e ripercorso, anche in
questo caso arriveranno ostacoli, problemi, piani risolutori e cambi di
traiettoria. Un vero “Avvento”, insomma: un percorso di scoperta e riscoperta,
insieme di riflessione, di superamento di difficoltà, di considerazioni e
anche, infine, di cambiamento. Una piccola rivoluzione su e giù per le
montagne, con qualche pizzico di riferimento religioso, a partire dal titolo e
poi nei pensieri di Benedikt, che ci fa sapere dalla pagina di Vangelo letta
alla partenza che quel giorno Gesù entrava a Gerusalemme salutato con rami di
palma verdi, col sole dentro. Perché Benedikt sarà chiamato anche ad altre
opere perché non si può dire di no ai suoi amici. Comunque, alla fine, come
nella parabola, l’agnello perduto viene ritrovato e salvato. Ma oltre alla
parabola in sé, che Gunnarsson ripropone come fosse un’antica fiaba locale,
sono i paesaggi che, chi come me ama l’Islanda, non può dimenticare: le
grandi descrizioni dei ghiacci. La montagna, i rifugi caldi, la solidarietà tra
uomini del grande Nord, e poi le bufere di neve, la barba ghiacciata. Una sfida
costante in mezzo a una natura che non è mai male, è, e basta, come sa bene
Benedikt che quelle montagne le conosce, le rispetta, le ama senza mai odiarle,
anche se lo mettono in pericolo. Un buon assaggio d’Islanda, anche se la troppo
palese lettura biblica in controluce ne frena una lettura solo distensiva.
Tomas Tranströmer “I ricordi mi guardano” Corriere
della Sera Boreali 31 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 07/04/2019 – T: 08/04/2019]
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[tit. or.: Minnena ser mig; ling. or.: svedese; pagine: 77; anno 1993]
Nel mio mondo immaginato, popolato di parole,
ci sono forme espressive che con maggior difficoltà riesco a fare mie. I miei
assidui frequentatori sanno di certo che i racconti sono uno dei caposaldi di
questa difficoltà. L’altro è la poesia, che a volte affascina per la sintesi
che riesce a compiere, ma che più spesso non riesce a farmi entrare nei suoi
meccanismi comunicativi. Per questo, quando nel 2011 venne dato il Nobel a Tomas
Tranströmer rinunciai ad entrare nel suo mondo, sapevo che era uno sforzo troppo
grande. Qui, nella seconda lettura della collana Boreali il poeta ritorna. Ed
avrei fatto lo sforzo di leggere le sue liriche. Invece, doppio peccato, non ci
sono poesie in questi ricordi. Anzi sono otto brevi racconti. La fortuna è che
l’autore riesce, parlando di sé, a legare questi momenti progressivi della sua
vita, ed a farmi dimenticare che avrei volentieri letto una sua poesia. Ma
Tomas fa di più, che riesce, e ne parleremo poi, a farci vedere la nascita di
una grande missione interiore. Cercando di andar per traverso, saltando la
genesi, pensando all’uomo, vediamo Tranströmer che si racconta, attraverso le
sue prime età. Compie prima tre, poi cinque, poi sette, poi nove anni. In
questo nucleo di ricordi, ci addentriamo nella storia di Tomas e nella sua
storia familiare. Una storia lunga due generazioni. Vediamo la Stoccolma degli
anni Trenta (e che ne direbbe la mia amica Bergy?), l’emozione della scoperta
del museo nazionale di Storia Naturale, dove le stanze avevano un odore di
ossa, e dove scheletri di balena pendevano dal soffitto, così come io anni dopo
ne vidi in Islanda. A nove anni si affaccia sull’orlo della guerra, con la
paura di dover abbandonare la città. Il bimbo Tomas segue la guerra quasi fosse
un gioco, ed ora, dopo sessanta anni, può giocare ancora con quelle frecce nere
che penetrano nel territorio francese, con l’odio, mai più così forte, verso i
nemici tedeschi. Il piccolo Tomas, magro e mingherlino, è ancora all’interno di
un bozzolo che lo difende. Bisognerà aspettare due anni prima di veder
germogliare in Tomas quello che sarà l’impegno più grande, la passione che lo
guiderà verso il ricordo più caro: la lettura. A soli undici anni infatti lo
scrittore, a Söder, scopre la “casa del Cittadino” utilizzata come biblioteca.
Luogo che Tomas frequenterà per anni, così vicina ai bagni pubblici, con una
perfetta acustica che serviva a riempire le voci di coloro che leggono. Il
poeta l’ha sempre preferita alla pur meglio organizzata Biblioteca Centrale,
quella all’angolo tra Odengatan e Sveavagen. Tomas seleziona letture di
saggistica, storia e soprattutto geografia lasciandosi rapire dalle immagini
dell’Africa su cui sogna a occhi aperti spedizioni come esploratore o come
entomologo alla ricerca di nuove specie di insetti. I libri diventano il mezzo
per conoscere il mondo, scoprirlo, analizzarlo, controllarlo, come fa uno
scienziato con la sua materia. Il bambino e l’adolescente si formano
sull’attenzione che diviene osservazione matura negli anni adulti. Nei suoi
ricordi rileggiamo tutte le scoperte che lo hanno accompagnato nei passaggi
iniziatici più importanti della vita, e che il poeta è riuscito a custodire
dentro di sé come gli insetti che amava collezionare. Questo capitolo dedicato
alla Biblioteca è cruciale nella genesi del Tranströmer attuale, dove la
lettura si coniuga con lo studio del latino e quello della metrica classica al
liceo, che lo avvicinarono al sublime, al distacco dal quotidiano, da cui
prenderà l’avvio la sua poesia essenziale. L’atteggiamento dell’autore nei confronti
del reale è quello dello scienziato dell’anima, che ripercorre le tappe della
sua vita, ricostruendo con le immagini della sua memoria, un mondo perduto, ma
sicuramente vivo nella poesia-prosa del suo raccontare. Uno dei momenti che più
intensi, per me lettore, è la descrizione di quando il piccolo Tomas, in una
calca di shopping per qualche festa, perde la mano della madre. Si trova solo,
senza nessuno cui rivolgersi, un’esperienza che per Tomas rappresentava la cosa
più vicina alla morte che potesse immaginarsi. Alla fine, accompagniamo Tomas
fuori da questi ricordi, dentro gli anni Cinquanta, e verso tutta quella
trafila di piccole espressività che lo portarono ad essere uno dei maggiori
poeti viventi nei primi anni Dieci di questo secolo. Speravo qualcosa in più,
ma poteva essere molto meno. Cari Nordici, vedremo come proseguirà.
“Ci
si sente sempre più giovani di quanto non si è. Dentro di me porto tutti i miei
volti passati come un albero i suoi cerchi. La loro somma sono ‘io’. Lo
specchio vede solo il mio ultimo volto, io sento tutti i miei precedenti.” (40)
Stig Dagerman “Il viaggiatore” Corriere
della Sera Boreali 29 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 21/04/2019 – T: 25/04/2019]
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[tit. or.: Dikter, noveller, prosafragment;
ling. or.: svedese; pagine: 134; anno 1983]
Il viaggiatore è una raccolta di racconti,
saggi e poesie, pubblicati tra il 1947 e il 1955 a Stoccolma, conosciuta in
lingua originale come “Dikter, noveller, prosafragment”, cioè “Poesie,
racconti, frammenti di prosa”, raccolti in volume solo nel trentennale della
morte di Stig. Da cui si capisce che alcuni “frammenti” erano di già postumi
all’epoca della collazione. Stig è stata una meteora ma anche figura di spicco
nel panorama svedese. Nasce nel ’23, vicino ad Uppsala, abbandonato subito
dalla madre, lasciato dal padre ai nonni, che i soldi sono pochi. Il padre lo
avvicina all’anarco-sindacalismo. I nonni gli fanno vivere un’infanzia serena.
Poi, nel ’40 il nonno viene ucciso da uno squilibrato, la nonna ha un infarto e
muore. Stig si trasferisce a Stoccolma, sposa una profuga tedesca e dal ’45 al
’49 ha la sua “stagione d’oro”. È un periodo particolare per la Svezia, dove in
parallelo sullo schermo comincia a brillare un altro giovane, di qualche anno
più anziano di Stig. Sono gli anni dei primi film di Ingmar Bergman (tra
l’altro anche lui di Uppsala). Ma Ingmar ha più forza, più sostegno dalle sue
donne. Stig lascia la prima moglie, sposa l’attrice Anita Bjork, ma non riesce
ad uscire dalla depressione. Non riesce a scrivere, e se scrive, non riesce a
farsi pubblicare. Immaginando non poter più raggiungere i fast precedenti, a 31
anni, si chiude in garage, e si suicida con il monossido di carbonio. Inciso:
la moglie Anita farà molta televisione e teatro negli anni ’80 sotto la regia
di Ingmar Bergman, dopo aver avuto una lunga relazione con lo scrittore Graham
Greene. Venendo comunque al testo, è una raccolta-omaggio, molto disomogenea.
Essendo una collazione non può avere intenti comuni, anche se c’è un filo che
lega tutto l’insieme. Inquietudine, angoscia profonda, che spesso, seppur con
proporzioni sempre diverse, si coagula in una tragedia. C’è la tragedia
dell’automobilista che investe per sbaglio un bambino (in “Uccidere un bambino”),
quella di uno studente costretto ad affrontare il mutismo di un professore che
ha perso la stima per lui (in “La scacchiera da viaggio”); dalla disperazione
della presa di coscienza del significato della miseria da parte di bambini
poverissimi (in “L’auto di Stoccolma”), a quella di un adulterio sognato, ma
non portato a termine per pavidità e ingenuità (nel racconto dal significativo
titolo “Una tragedia minore”). Uno degli elementi-cifra di Stig è che molti
personaggi sono giovani se non bambini. Che vanno incontro alla disperazione di
conoscere l’inganno della vita, nella costante ricerca di qualcosa che è
impossibile trovare. Non hanno paura della morte, perché, come volle fosse
inciso sulla sua tomba, questa è la sensazione che pervade tutta l’opera e la
vita di Dagerman: “Morire è viaggiare / sempre così brevemente / dal ramo di un
albero / alla solida terra”. Anche se, in questa raccolta, il verso che
racchiude il viaggio di Stig, è il coccodrillo postumo, che si auto-scrisse
anni prima del suicidio: “Qui riposa / uno scrittore svedese / caduto per
niente / sua colpa fu l’innocenza / dimenticatelo spesso”. Questi i due pallini
che rimbalzano: l’innocenza e la tragedia. Innocenza come colpa, dovuta al solo
fatto di essere al mondo, che parta a tutte le tragedie della vita, senza
possibilità di scampo. Emblematico in questo senso è l’incipit di Una tragedia
minore (che tenta anche un lontano parallelo con Tolstoj): “le grandi tragedie
sono già tutte accadute da molto tempo. Possiamo leggerle nei libri o vederle a
teatro. Ai nostri giorni accadono soltanto tragedie minori”. Una cupa foschia
di tregenda, che non lascia spazio alla speranza. Una foschia che ricolma ogni
pagina di questo florilegio. Non dà tregua. Non lascia il barcaiolo che
accompagna il Lord sul lago, dove la piccola malsicura imbarcazione che annaspa
nella nebbia è una magnifica preda della solitudine (in “Ho remato per un lord”).
Non abbandona mai Régine, l’ebra polacca riparata in Francia, dove, in un
freddo inverno parigino abbraccia con lo sguardo l’umanità deserta, in fuga
dalla cortina di ferro, ma nessuno al di là di una momentanea consolazione
trovata nella sua ospitalità è in grado di ricostruirsi come essere umano (in “L'inverno
a Belleville”). Frammenti di sensazioni, che il contesto solleva molto sopra il
testo stesso. Dagerman ha intuizioni molto in anticipo con i suoi tempi.
Conditi da quella disperazione che lo porta in quel garage, il 4 novembre 1954.
Lettura molto intrigante, seppur disomogenea, e minore nelle parti non prosastiche.
Dag Solstad “Timidezza e dignità” Corriere della Sera Boreali 13 euro
8,90
[A: 21/05/2018 – I: 20/05/2020 – T: 21/05/2020] - &&&&
[tit. or.: Genanse og
verdighet; ling. or.: norvegese; pagine: 168; anno 1994]
Finalmente, grazie alla collana Boreali,
riesco a leggere un autore norvegese che non appartiene al filone noir, che
tanta gloria ha dato negli ultimi tempi alla penisola Scandinava. Veramente un
romanzo interessante; stavo per dire “bello”, ma non credo sia aggettivo
appropriato. Intanto mi ha dato anche agio di scoprire un autore considerato in
patria tra le punte di diamante. Certo, Dag Solstad è un personaggio strano,
intrinsecamente politico, per anni legato prima al Partito Comunista norvegese,
per poi passare presto nelle file della frangia maoista molto in voga tra gli
intellettuali locali negli anni Settanta. Poi, con le varie vicissitudini
post-maoiste e post caduta del Muro di Berlino, si allontana dalla politica, ma
non dalla scrittura. Produce libri dai titoli interessanti, come (anche se non
so sia stato tradotto) “Tentativo di descrivere l'impenetrabile”, e come questo
di cui stiamo parlando. È di certo un libro molto politico, ma anche costruito
magistralmente, intorno al personaggio principale, che, partendo da un episodio
marginale, costruisce una carrellata sulla sua vita, portando l’autore (e noi
con lui) a riflettere sul ruolo dell’intellettuale e sulla “sconfitta” di una
generazione. Consentitemi le virgolette che è un termine che non condivido in
tutte le sue sfaccettature. Ma di sicuro, e questo lo condividiamo, una
generazione che dovrebbe mantenere comunque una sua propria dignità, pur nelle
avversità, ed una vergogna (che il traduttore italiano battezza, forse
impropriamente o forse seguendo il modello inglese, timidezza) verso quanto non
si è riusciti a fare. Come in molte opere di Solstad, il personaggio è un
professore, Elias Rukla, che cominciamo a seguire nel corso di una lezione di
letteratura norvegese per la classe dell’ultimo anno di liceo dove insegna. In
questa prima parte vediamo la sconfitta interna di un insegnante che da anni
tenta di far entrare nelle “zucche vuote” dei suoi studenti, le tematiche
complesse (e molto interessanti) dei drammi di Ibsen. Qui, in particolare,
siamo alle prese con “L’anatra selvaggia”, e Solstad, per bocca di Elias, ce ne
illustra alcuni elementi che, in altri contesti, sarebbero senz’altro di
interesse. Il ruolo feroce della verità, e quello consolatorio della menzogna,
entrando nei temi minuti, non solo di Ibsen, ma di molta letteratura norvegese
(che conosco poco) ed internazionale (di cui sarebbe bello entrare nel merito
ma che vi lascio percorrere con l’autore). I tentativi di Elias (che vanno
avanti da una ventina d’anni) si scontrano con l’indifferenza della classe.
Come ad esempio, l’uscita degli studenti, al suono della campanella, anche se
Elias non ha finito la sua lezione. Tutto ciò monta in Elias un senso di
frustrazione, che si esacerba uscendo, scoprendo che piove, e non riuscendo ad
aprire l’ombrello. Talmente fuori di giri da tutto l’accumulo, prende a male
parole gli studenti. Da qui, allontanandosi sotto la pioggia, Elias inizia
tutto un altro percorso, personale e che serve a noi lettori per svelare,
momento dopo momento, chi sia Elias, che faccia lì, come ha vissuto la sua
vita. Seguiamo così il giovane Elias, la sua entrata all’Università, l’incontro
con quello che sarà per anni il suo grande amico e sodale, Johan. Elias il
letterato e Johan il filosofo. Johan che segue lezioni su Wittgenstein, che è
di poco più grande, che si laurea con una tesi sull’influenza kantiana in Marx.
Seguiamo tutta l’ammirazione verso il più grande, verso tutte le giravolte
politiche di quella generazione. L’impegno, le grandi idee, a volte molto, troppo
grandi. Ma anche nei risvolti privati, che Johan, ovvio, è anche un “tombeur de
femme”, fino a che non incappa nella più bella, quella dalla “bellezza
indescrivibile”, Eva. Che Johan sposa, e con cui fa una figlia (Camilla). E via
ancora, in quegli anni Settanta con una vita bohemienne quasi alla “Jules e
Jim”. Fino a che Johan decide che non c’è più spazio per lottare il capitalismo
dall’interno. E lui, che sempre aveva seguito le bandelle pubblicitarie
ritenendole esempio della vita reale, lascia tutto e tutti, e se ne va in
America. Dove, è ovvio, farà una riuscita folgorante. Mentre Elias rimane lì, a
Oslo, a insegnare, e poi a prendersi cura di Eva e Camilla. Quest’ultima fino a
che non è abbastanza grande da spiccare il volo da sé. Ma qui intanto si è
ricongiunto il carosello schnitzelriano iniziato mentre Elias faceva colazione
prima di andare a scuola. Nella casa dove vive con Eva, la cui bellezza, benché
sfiorita, si intravede nelle pieghe della carne ingrossata, nelle rughe, nelle
vene varicose. Perché poi Elias la sposa Eva. Ma in tutta questa dignità che
porta avanti, con coerenza, anche se con rassegnazione (apparente) c’è il
montare di una infelicità insopportabile. Che sbotterà con l’episodio
dell’ombrello. E dato che Elias sta lì a spaccare il capello in quattro, lo
vedremo macerarsi per l’impossibilità (sua interna) di ripresentarsi a scuola
in un futuro. Tuttavia, la bellezza del romanzo è per il flusso che ci
trasporta tra tutte le situazioni, senza lasciarci mai cadere nella noia. È nel
tratteggiare queste figure di sconfitti. È nel porci domande cui non siamo qui
in grado di rispondere, ma che ci ripetiamo: quanto di Elias c’è nella nostra
parabola di vita? Abbiamo, personalmente, la dignità di sentirci senza
rimpianti, seppur con tanti rimorsi? Finisco, consegnando Dag nello scaffale
dei libri di cui tener conto, per essere anche riletti. E non è certo poco.
Tove Jansson “Il libro dell’estate” Corriere
della Sera Boreali 31 euro 8,90
[A: 26/06/2018 – I: 23/05/2020 – T: 24/06/2020]
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[tit. or.: Sommarboken; ling. or.: svedese; pagine: 155; anno 1972]
Un libro mediamente interessante per la
delicatezza delle descrizioni, e per molto contesto che porta sulle spalle.
Legato principalmente all’autrice, essendo il nome femminile come tutti i
conoscitori del finlandese. Che subito si lega alla seconda particolarità, che
la Jansson è sì nata ad Helsinki, ma faceva parte della minoranza svedese ivi
residente, ed ha sempre scritto, quando ha cominciato a scrivere, in svedese.
Ed ha scritto, se qualcuno è un cultore della letteratura dell’infanzia, una
delle saghe più note che ci vengono dai paesi scandinavi, dopo quella di Pippi
Långstrump (cioè “Calzelunghe”). Infatti, dal 1945 al 1980 Tove Jansson ha
scritto, tra romanzi, racconti e libri illustrati, quindici libri dedicati alla
saga dei Moomin (o Mumin in italiano). Tove, in realtà, nasce proprio come
pittrice, figlia di artisti, nota in patria per gli affreschi presenti ad
Helsinki, e per altre realizzazioni, tra cui una pala d’altare per la chiesa di
Teuva. Dopo la guerra, per risollevare gli spiriti adolescenziali, appunto,
comincia a scrivere libri per giovani. Poi, dal 1970, si impegna anche in
romanzi e ricordi, di cui questo è il primo. Forse non riuscitissimo, ma
delicato appunto come una pittura, e con una trasposizione verso il mondo
incantato delle vacanze estive che mi ha rapito e fatto cadere nei miei ricordi
delle estati al mare. Certo, le isolette di fronte ad Helsinki non sono le
spiaggione adriatiche della mia infanzia. Eppur tuttavia, le parole e le
descrizioni, riportano alla mente paesaggi, sensazioni, momenti a volte
lasciati forse troppo presto cadere in fondo alla memoria. Per questo passaggio
verso il vasto pubblico, Tove si butta sulla propria infanzia, facendone un
auto-ritratto che ritrae altro. L’ambiente, appunto, è un0isola del Golfo di
Finlandia che si apre verso il mare aperto. Un’isola come quella dell’infanzia
di Tove. Un’isola come quella che sarà il rifugio dei suoi anni migliori, finno
alla sua morte, insieme all’amata Tooti. In quest’isola si aggirano i tre
personaggi del romanzo: Sofia, la bimba, che nelle parole di Tove ricalca
proprio sua nipote, la nonna, sembra plasmata sull’impronta di mamma Signe, e
la presenza impalpabile, ma che riveste quelle estati della sicurezza matura
degli uomini forti, il padre. Sono però Sofia e la nonna che animano i ventidue
piccoli quadri che quasi come tessere di un mosaico ricompongono tutte le
estati della giovane Sofia, come fosse una lunga e sola estate. La nonna, pur
con la testa che pian pianino si evanesce, fa da mentore, contraltare e
specchio alla crescita di Sofia. Insegna senza essere dottrinale. Permette, che
bisogna anche fare delle esperienze. Così consente a Sofia di camminare
sull’orlo del crepaccio, di fare il bagno dove non si tocca, di dormire nella
casetta quasi isolata. Sofia che gioca per un’estate con Berenice dai riccioli
naturali, anche se non ne sopporta le paure. Sofia che gioca con il gatto
Mappe, o vorrebbe giocare. Ma tutto il mondo di Mappe è chiuso nella caccia
agli animali, con cui omaggia Sofia. Che ovviamente non gradisce. Litigano, lei
lo caccia, per poi accorgersi che è meglio avere qualcuno che ti tiene testa.
Così come lei tiene testa a tutti gli isolani, quando non è al centro delle
attenzioni, tanto da evocare una tempesta, e battibeccare con la nonna e con
Dio. Fino al dolente racconto finale, “Agosto”, che per noi è l’estate piena,
mentre per quelli del Nord è l’inizio della fine, quando bisogna riporre le
barche, i fiori, chiudere le case, e tornare sulla terraferma in attesa che
torni una nuova estate. Come detto il padre è presente ma non agisce. Sulla
scena del teatrino isolano rimangono, con la forza dell’innocenza e la maturità
della crescita, Sofia piccola donna che cresce, e la nonna, bambina con tanti
anni sulle spalle. I loro quattro occhi, ognuno con il retroterra del poco o
tanto vissuto, guardano l’isola e la natura che lì vive. Perché questa è poi
l’altra protagonista del libro, l’isola. Un’isola che fa le veci della madre
che Sofia non ha più (e che per consolarsi potrà dormire da sola nel letto
grande). Sull’isola ci si cammina, si cercano piante, si soffre la tempesta ed
il maremoto. Poi si cresce, e si va via. Tove, che nelle foto ha un’aria da
eterna giovinetta, ci ritorna, perché appunto bambina dentro. Lasciandoci un
giro di pagine lievi, che accarezzano il tempo che passa.
“Quando si è vecchi … ci sono tante cose che
non si possono più fare…” (76)
“Ognuno deve poter sbagliare di persona … a
volte ci si rende conto delle cose quando è troppo tardi e non si ha più la
forza di ricominciare da capo,” (87)
“Non faceva che leggere e non gliene
importava niente di come andava a finire.” (114)
Sappiamo ormai che la quarta domenica del
mese è dedicata al riposo mentale, per cui non ci si aggiungono cure, felicità,
o rimandi vari. Solo un bel pacchetto di libri e qualche considerazione. Che l’estate
avanza, ma la quarantena non sparisce. Che si disegnano vacanze, ma non con i
soliti modi usuali. Rimangono gli affetti, che difficilmente spariscono.