I più riusciti
sono senz’altro i primi, l’israeliano Kashua ed il nigeriano Achebe. Mi è
dispiaciuto per l’indiano Ghosh, che mi ha spesso deliziato in altre prove.
Così come il nostrano Fabio Volo, che ormai è un po’ troppo ripetitivo e
ripetitivo al ribasso, tanto che di lui salvo soltanto la playlist classica che
riporto in finale.
Sayed Kashua “La
traccia dei mutamenti” Neri Pozza s.p. (regalo di Alessandra)
[A:
21/04/2019 – I: 14/05/2020 – T: 15/05/2020] - &&&
e ½
[titolo:
Aquv acher shinuim - עקוב
אחר שינויים; lingua: ebraico; pagine: 239;
anno: 2017]
Un
altro dei tanti regali di Alessandra, alla vigilia di un nostro viaggio, anche
se non in Terrasanta (in effetti si partiva per il Messico), seguendo lo
stimolo di quei mutamenti che da tanti anni (mai troppi) seguiamo e tracciamo.
Anzi, come direbbe più esattamente il titolo ebraico, il senso della frase
sarebbe “Tenere traccia dei mutamenti”. Una piccola eppur significativa nuance.
Mi
sono accostato al libro seguendone il filo, senza entrare nel metatesto, di cui
parleremo più avanti. Devo però dire che seguirne le tracce non è stato
semplice, che, purtroppo, come molti autori moderni, Sayed mescola anche bene
le acque. Quindi, invece di una trattazione lineare, abbiamo un su e giù nel
tempo e nello spazio, un accumularsi di indizi, che solo alla fine hanno una
forma, seppur non proprio compiuta. O meglio, una forma cui vengono lasciate
ombre su cosa potrebbe succedere dopo aver viaggiato per una ventina di anni
lungo le più di duecento pagine. In un certo senso, sembra quasi
un’autobiografia, che si scosta volutamente dal reale, in modo da sollevare
interrogativi umani e politici.
Il
narratore è, come lo scrittore, un arabo nato in terra d’Israele, entrambi
proveniente dalla città di Tira, che ho scoperto essere a metà strada tra Tel
Aviv e Netanya. Una cittadina a forte presenza araba, visto che è non lontana
(in linea d’aria) da Nablus. Dopo studi vari, il protagonista comincia a fare
il giornalista a basso costo. Un giorno gli viene pubblicato un racconto
(inventato? Ricordato? Non lo sapremo mai veramente) in cui parla di una
ragazza di nome Palestine che fa liberamente l’amore con lui sulla terrazza di
una scuola di Tira. Tornato a casa, scopre che a Tira c’è proprio una ragazza,
anzi una donna, di nome Palestine. Le malelingue la identificano con la libertina
protagonista. Ma Palestine è sposata, ed il marito ne chiede subito il
divorzio. Mentre il narratore viene costretto ad un matrimonio riparatore. Ma
viene anche scacciato dalla famiglia, il padre gli dice di non farsi più
vedere. Così lui e Palestine si sposano, vanno a vivere a Gerusalemme,
vivacchiano.
Nasce
una figlia, Jasmine, forse sua, forse no. Ma il loro rapporto non è d’amore, è
una semplice convivenza. Per andare avanti, il narratore accetta di fare il
ghost writer di persone che vogliono narrare la propria storia, pubblicando una
trentina di romanzi sotto i falsi nomi. La “moglie bianca” (che non dormono
nello stesso letto) si laurea, ha una sua crescita universitaria. Nascono anche
altri due figli, maschi, anche se loro continuano ad essere separati in casa.
Approfittando di un’offerta a Palestine, decidono poi di trasferirsi in
America, vicino Chicago.
In
America, la routine si evolve: il narratore non può più fare il ghost,
mancandogli la materia prima. Dovrebbe studiare, ma si sente “anziano”. Vive
nel campus universitario, si alza la mattina, va da Palestine, prende i figli e
li porta a scuola, per poi gironzolare senza essere molto concludente. Il là a
tutta la vicenda arriva da una telefonata del padre, che si fa vivo dopo
quindici anni, e gli dice di essere in gravi condizioni. Lui prende e si
precipita in Israele. Cercando, oltre a capire meglio il padre, di tirar fuori
la storia della sua famiglia, così come faceva quando scriveva per altri.
Questa, seppur spezzettata, è una delle fasi più intensa, per ripercorrere un
rapporto un tempo saldo, poi spezzato, ed ora cercato disperatamente. Anche
contro la madre, anche contro i fratelli. Ne escono righe molto belle. Ma com’è
ovvio, il padre muore, lui torna in America. Torna alla vita straniante di
prima, con qualche forza in più. Sarà sufficiente a modificare il suo vivere?
Sarà sufficiente a farlo uscire da una ignavia che mi fa ribollire il sangue?
Come
detto, la scrittura è ben registrata, anche se i salti temporali mi spiazzano
sempre. La storia lascia dei margini all’interpretazione, ma è abbastanza
comprensibile. Ritorno infine sull’autore. Che a posteriori ho scoperto essere
stato, quando viveva in Israele, un promotore di spettacoli ironici e di
scritti che mi si dice siano pieni di humor. Ad un certo punto però, così come
il protagonista del libro, decide di andare via. In un’intervista dice che non
ritiene più possibile uno sbocco positivo alla convivenza arabo – israeliana in
terra d’Israele. Si rifugia quindi in America, ed abbandona completamente il
registro ironico che lo aveva caratterizzato. Credo quindi che questo scritto,
così dolente, così pieno di rimembranze, sia un tentativo di esorcizzare questa
realtà che l’autore non condivide e che non sa più come modificare. Una
considerazione amara, che tuttavia, purtroppo, mi ritrova concorde. Anch’io,
ora, nel mio piccolo, ritengo difficile una soluzione positiva, anche se spero
sempre ci possa essere un sorriso che tutti seppellirà.
“La
bambina era nata l’undici ottobre.” (158) [e non dico altro]
“Mi
metterò la camicia button down … ha il logo di un giocatore di polo a cavallo
[ndt: Raplh Lauren? Lamartina?]. … Quando ero uscito dal camerino … lei aveva
commentato: ‘Questa camicia ti sta bene’ … era una delle poche frasi gentili
che lei mi aveva rivolto in tutti questi anni.” (163)
Chinua
Achebe “Il crollo – Ormai a disagio” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba
Petronia)
[A: 27/02/2018
– I: 18/05/2020 – T: 20/05/2020] - &&&
+
[tit.
or.: Things Fall Apart – No Longer at
Ease; ling. or.: inglese; pagine: 341; anno 1958-1960]
Un altro libro della biblioteca genitoriale,
recuperato dalla memoria e letto con interesse. Un libro doppio, che contiene i
primi due capitoli della trilogia fondamentale dello scrittore nigeriano. Una
bella scrittura che riesce a riportarci in Africa, e ben dal di dentro. Si
sente l’amore per la sua terra e l’odio per chi l’ha fatta diventare una
colonia, terra bruciata di conflitti insanabili. Achebe è duro, inflessibile, e
forse per questo, come dice la sua biografia, non fu mai premiato con onori
internazionali. Mostra troppo il suo astio verso l’Occidente per poter ambire a
suo tempo a Nobel ed altro, così come invece successe al suo connazionale Wole
Soyinka. Anche se connazionale fino ad un certo punto, che Achebe è stato
sempre più biafrano che nigeriano. Ma viene ora ai testi, i cui titoli entrambi
derivano da brani di poesie di Yeats.
“Il
crollo”
[tit.
or.: Things Fall Apart; ling. or.: inglese; pagine: 1-168; anno 1958]
Il titolo originale, come dalla recente
ripubblicazione nelle edizioni “La Nave di Teseo” recita in effetti “Le cose
crollano”, ripreso dal brano della poesia di Yeats “The Second Coming”,
dedicato dal poeta irlandese al crollo del suo vecchio mondo, quello cristiano,
corrotto e superato dall’avanzare del mondo stesso. Achebe ne prende lo spunto,
per descrivere quello che fu in verità un crollo. Quello del vecchio mondo
pervaso dalla cultura del suo popolo (gli “igbo”) frantumato dall’avanzata del
colonialismo inglese.
La scrittura di Achebe segue la parabola di
uno dei maggiorenti locali, Okonkwo, che, in alcuni tratti, sembra ripercorrere
la vicenda ancestrale della famiglia Achebe, quasi ne rivedesse il nonno
paterno. Okonkwo è fortemente legato alla cultura igbo, ne segue le leggi, ne
percorre, nel bene e nel male, le parabole di vita. È un uomo che si fa da sé.
Vediamo infatti nella prima parte il conflitto con l’ignavo padre, che si
comporta come una cicala, dissipando al sole le sue scarse fortune, per bere e
cantare con gli amici. Fino a morire povero e solitario.
Okonkwo invece è un gran lavoratore, è stato
il re dei lottatori al culmine dell’adolescenza. E si capisce dai cenni alla
vita locale quanto la lotta sia uno strumento di innalzamento sociale degli
igbo. Si sposa, ha tre mogli e tanti figli, anche se è fortemente legato solo
al suo primogenito Nwoye. La scrittura di Achebe ci porta dentro questa vita
rurale, con tutti i suoi riti: le chiacchiere nella piazza principale, la
semina delle piante sostentamento e nutrimento del popolo igbo, i rapporti con
le mogli, sempre improntati alla supremazia maschile. Strano mi fa leggere che
Okonkwo aspetta il cibo dalle tre mogli, e mangia da tutte e tre, in ordine di
anzianità di sposalizio. Bello è anche l’inciso sulla terza moglie e sulla sua
unica figlia femmina. Poi avvengono due fatti che segnano la vita del nostro
eroe.
Il debito di sangue di un villaggio vicino,
che per riscattarsi dà in pegno al villaggio di Okonkwo un ragazzo, che diventa
il miglior amico di Nwoy. Per tre anni il ragazzo cresce con la famiglia, poi
l’oracolo del villaggio, non si sa in base a quale legge ancestrale, ne decreta
la morte. Sarà proprio Okonkwo che dovrà eseguirla, e questo fatto comincia a
segnare il crollo dei valori su cui il nostro fonda la sua vita.
Il secondo fatto è l’uccisione, pur casuale,
di un membro del villaggio durante una festa da parte dello stesso Okonkwo. In
base alle leggi interne, la famiglia subisce un esilio di sette anni dal
villaggio. Sette anni che vivranno in ristrettezze, che l’esilio comporta
l’abbandono di tutti i beni posseduti. Sette anni che vedono l’ingresso dei
missionari protestanti nel paese. Missionari che cominciano a distruggere tutti
i valori delle loro pur semplici esistenze.
Qui, Achebe ha un grosso scatto di scrittura,
riuscendo a farci percepire lo scontro tra le due culture. La differenza,
anche, tra alcuni missionari, empatici delle situazioni locali, ed altri che
vengono con la presupponenza dell’uomo bianco che vuole imporre la propria
democrazia. Vediamo tutta la cattiveria dell’oppressore. Vediamo anche come,
per diverse ragioni, i locali “cadono” nelle trappole dell’occidente. E per
sventura di Okonkwo, uno dei primi a “passare al nemico” è proprio suo figlio
Nwoye. Altro colpo fatale al nostro eroe. Che tornando dopo sette anni al
villaggio natio, ne vede la degradazione da parte dell’uomo bianco, cerca di
opporsi, finendo con l’uccidere un soldato inglese. Questo porterà al crollo
finale di Okonkwo e del suo credo, con un finale duro e spietato, che però
mette di nuovo a confronto i valori ancestrali con le affettate maniere degli
inglesi invasori.
Non vi porto sino alla fine, se non per
rimarcare come anche la scrittura stessa di Achebe sia parte integrante di
questo processo di sconfitta. Achebe scrive in inglese, ma (e l’ultima versione
de “La Nave di Teseo” meglio ne riporta), gran parte dei dialoghi tra i nativi
è scritta in “igbo”, facendo quindi risaltare la differenza, linguistica ma
anche mentale tra i due idiomi. Molto si perde nella traduzione, e molto se ne
recupera leggendone commentari, soprattutto in alcuni siti africani. Seppur con
qualche lentezza (in particolare nei primi capitoli) è un documento forte,
pieno di pugni allo stomaco.
“Ormai
a disagio”
[tit.
or.: No Longer at Ease; ling. or.: inglese; pagine: 169-341; anno 1960]
Anche il secondo capitolo della trilogia di
Achebe riprende un verso di una poesia di Yeats. Questa volta è “The Journey of
the Magi” i quali, al ritorno nelle loro terre, diranno: “Non siamo più a
nostro agio”. Ed è così che gli igbo si sentono dopo i primi anni di
colonizzazione inglese.
Per farci sentire continuità nel tempo, e
discontinuità nei comportamenti, seguiamo ora le vicende di Obi Okonkwo, il
nipote dell’eroe del primo capitolo, nonché figlio di quel Nwoy che primo si
unì ai missionari protestanti, in aperta sfida del padre, uccisore del suo
amico fraterno di gioventù. Siamo quindi alla seconda generazione, Nwoy cambia
il suo nome in Isaac, e diventa un prelato della chiesa protestante. Il figlio
Obi, educato dalla rigida disciplina paterna, è sempre nella pattuglia di testa
degli studenti locali, tanto che, finite le scuole secondarie, i maggiorenti
igbo gli danno una borsa di studio per laurearsi in Inghilterra. Cosa che Obi
farà, ma in inglese e non in legge come gli aveva chiesto la sua tribù.
Certo, al suo ritorno, con una laurea
inglese, potrà trovare un buon posto, anche se non così remunerativo se avesse
fatto l’avvocato. Il dipinto che Achebe ci fa di Obi è tuttavia, pur se con
qualche condiscendenza, di una persona ormai non più attaccata ai valori
ancestrali, ed anche (o forse per questo) debole e indecisa. Si sentirebbe
meglio a rimanere ad Oxford, fra i suoi libri e i suoi pensieri, ma la borsa è
un prestito, e lui deve restituire quanto ricevuto, seppur con tutti i tempi
del mondo.
Ma una volta nuovamente in patria, la sua
supponenza di laureato, lo pone, intimamente, al di sopra delle miserie locali.
Non si adatta, presuntuoso e poco combattivo, ad essere una ruota qualsiasi.
Cerca protagonismo che non è capace di gestire. E viene anche preso da
ingranaggi più grandi di lui. L’amore con Clara, certo, ma il loro matrimonio è
osteggiato per il fatto che lei è una “osu”, che nel sistema tradizionale delle
caste degli igbo, è una persona reietta e che non può uscire da quel sistema.
Tanto meno sposarsi con un “non-osu”.
Obi prova a portare avanti la relazione, ma
anche la sua famiglia, benché cristiana, lo isola e maledice. Così, quando
Clara rimane incinta, non resta che l’aborto. Ed il conseguente allontanamento
tra i due. Così che i debiti aumentano: per la sua scarsa oculatezza, ad
esempio per pagarsi una macchina per andare a lavorare, e poi per pagarsi
l’assicurazione. Per restituire il prestito, come detto, ma anche per dare i
soldi ai suoi fratelli al fine di pagarne gli studi. Si trova così a lavorare
in un posto di non grande reddito, ma di certo prestigioso, perché si trova a
selezionare i candidati per le borse di studio all’estero, come quella da lui
ricevuta. Un posto che è facilmente al centro di corruzioni più o meno grandi.
Che lui, tra la ferrea dottrina paterna e una giusta rigidità verso gli anziani
già inseriti nelle leve del potere inglese e già (come ben sappiamo) corrotti e
corrompibili, osteggia. Rifiuta regali e servigi vari, ma lo stipendio limitato
non gli consente di essere all’altezza economica della situazione. Cadrà così
in uno stupido tranello della polizia coloniale, e cadrà miseramente in basso
anche da quel poco da cui si era elevato.
La ferocia di Achebe nel dipingere le
sventure della sua Nigeria è qui molto forte. Non usa più la lingua degli
antenati, come nel primo libro. Ora è solo inglese, ed è verso gli inglesi
corruttori ed imbarbaritori delle tradizioni che lancia i suoi strali. Ma anche
contro l’ignavia delle nuove generazioni. Purtroppo, la tensione verso la
costruzione di un’idea e di una denuncia viene a scapito della piena
caratterizzazione dei personaggi, che invece era ben presente e di forte
impatto nel primo libro. Tuttavia, si capisce perché l’Occidente, pur
considerandolo uno scrittore di livello molto interessante, l’ha sempre
lasciato in disparte. Troppo africano e troppo poco occidentale. Ma forse
proprio per questo a me più gradito. Devo dire infatti che mi ci ero accostato
un po’ dubbioso. Seppur non facile, alla fine, la ritengo una lettura
fondamentale per capire il continente ad un passo da noi.
Amitav
Ghosh “L’isola dei fucili” Neri Pozza s.p. (prestito di Fako)
[A:
03/06/2020 – I: 04/06/2020 – T: 05/06/2020] - & e ¾
[tit.
or.: Gun Island; ling. or.: inglese; pagine: 315;
anno 2019]
Dietro
insistenza pressante del prestatore, ho “dovuto” impegnarmi nella lettura di
quest’ultima fatica del generalmente buon scrittore indiano. Purtroppo, preso
dalla necessità di delineare una tesi, il romanzo non decolla mai. E se nella
prima parte ha qualche elemento di interesse, pur nella sua lentezza, la
seconda parte è altamente deludente. Si salvano alcuni elementi di derivazione
lessicale ed un’invettiva quasi finale assolutamente condivisibile.
L’idea
che persegue Amitav è di rileggere una delle tante leggende indiane,
percorrendone alcuni tratti, per aggiornarne i contenuti, ma anche per farci
vedere alcune realtà particolari e di scottante attualità. La leggenda parla di
un mercante di fucili che non vuole omaggiare una delle tante dee indiana, Manasa
Devi, dea dei serpenti. Che farà di tutto per convertirlo al suo culto,
perseguitandolo, uccidendogli i figli, facendolo naufragare e rapire dai
pirati. Chandar fugge per tutto l’orbe terracqueo ma alla fine troverà il modo
di pacificarsi con la dea.
Il
protagonista che cerca di capire la storia è un indiano riparato in America, dove
finisce nel fare il fine bibliofilo a New York. Ma non dimentica certo il suo
retroterra indiano, anzi bengalese. Che il nostro Deen è di Kolkata, ed i suoi
parenti venivano da una delle regioni poi confluite nel Bangladesh. Seguiamo
quindi le peripezie di Deen, con i parenti e gli amici della bellissima città
indiana a me rimasta nel cuore. Conosce una brava signora anch’essa espatriata,
Piya, che lo porta nelle bellissime isole di Sundarban alla ricerca di un raro
tempio della dea dei serpenti.
Per i
pochi amanti della letteratura esotica, ricordo che quelle isole erano il
teatro delle avventure salgariane de “I misteri della jungla nera”. Per chi
invece conosce Ghosh, Piya è la protagonista del libro “Il paese delle maree”,
tutto ambientato nelle Sundarban.
Nell’isola
incontra sia Tipu, un mezzo parente di Piya, tecnologicamente provetto, e Rafi,
discendente islamico dei guardiani dell’isola. Nascono amicizie e conoscenze
che non possono non segnare i protagonisti. Poi comincia una girandola di
spostamenti. Prima a Los Angeles, dove Deen ha incontri poco piacevoli con
serpenti, ragni velenosi (di cui riparleremo in finale) e con gli incendi
americani (di cui ricordo bene uno nel Sequoia National Park). Non manca un
salto a Venice, anche lì teatro di bei ricordi ovviamente miei e non di Deen, e
propedeutico all’ultima parte del viaggio che porterà i nostri eroi a Venezia.
In ordine sparso. Ci arriva Deen per aiutare una troupe a fare un reportage
sugli immigrati bangla. C’è già arrivato Rafi, che scopriamo essere fuggito con
Tipu dall’India, e seguendo le rotte dei migranti, ha fatto il giro di mezza
Asia, con una specie di via della seta veloce, attraverso Pakistan, Iran e Turchia.
Dove Rafi ha perso Tipu, che invece prova a passare via Egitto e barconi in
Sicilia. Ci arriverà Cinta, l’amica dotta di Deen, che per tutto il libro
rimpiange la morte di marito e figlia, e coinvolge Deen con le sue visioni.
Insomma,
una mentalmente vorticosa gita intorno al globo, che ci porta dalle povere
strade di Kolkata ai grandi alberghi di Los Angeles, dal mondo marino e fermo
di Venezia alle turbolenti acque del canale di Sicilia. Ghosh inframmezza anche
momenti ecologisti (lo spiaggiamento dei delfini nelle mangrovie delle
Sundarban, che rimandano a quello sulla foce dell’Irrawaddy dell’altro libro
con Piya), ma soprattutto momenti a favore delle migrazioni globali. Infatti,
quando i nostri corrono al salvataggio di una nave in difficoltà, carica di
migranti ovviamente (anche se inframmezzato da momenti scarsamente coinvolgenti
di catastrofi naturali ed animali) li salvano, in modo che si riesce ed a
chiudere il cerchio narrativo.
Chiusura
in minore, ma che permette, e noi qui siamo con lui, a Ghosh di lanciare una
filippica sacrosanta contro Salvini e le sue posizioni quando questi era
sfortunatamente Ministro. Forse uno dei pochi punti interessanti del libro.
L’altro
elemento coinvolgente è un po’ più complesso da seguire. Siccome tutta la storia
ruota intorno alla vicenda dei Bonduqi Sadagar (uno dei nomi con cui è
conosciuto il fuggitivo dalla dea dei serpenti), che Deen traduce all’impronta
come “mercante di fucili”, dopo lunghi giri, scopriamo che “bunduq”, oltre che
fucile è il nome arabo di Venezia, che in arabo si chiama “al-bunduqia”. E
questo già dall’anno mille, prima dell’avvento della polvere da sparo. Infatti,
la radice “ndq” sta per “eterogeneo, diverso”, e Venezia da sempre è stata
punto d’incontro di culture diverse. Così, tutta la leggenda si rovescia da
“isola di fucili” a “isola veneziana”.
Queste
scoperte filologiche permettono a Deen di reinterpretare in chiave moderna
tutta la leggenda indiana. Cosa che seguiamo con la testa, ma che non
appassiona minimamente. Come lascia freddo un commento relativo all’ascolto
delle storie indiane da parte degli isolani della Sundarban, con grande
partecipazione. Perché lo paragona, in modo rovesciato, al seguito (per lui
minimo) che potrebbe avere la narrazione di un Orlando Furioso. Purtroppo, sono
in completo disaccordo, dopo aver partecipato in gioventù a quell’evento
storico che ne fu la trasposizione teatrale di Ronconi.
Finisco
le citazioni con un’altra piccola chicca personale. I ragni che assalgono Deen
sono del genere “Laxosceles reclusa”. Per chi legge di tutto non può che
ricordarsi siano lo stesso tipo di ragno protagonista del libro di Fred Vargas
“Il morso della reclusa”. Comunque, benché tenti in tutti i modi di tirarne
fuori qualcosa di buono, devo confessare che è un libro che non mi è piaciuto,
e che mi farebbe allontanare da Ghosh se fosse il solo libro dello scrittore
che avessi mai letto nella vita. Fortunatamente c’è stato altro.
Fabio
Volo “Quando tutto inizia” Mondadori euro 7,90 (in realtà, scontato a 6,72
euro)
[A:
12/06/2018 – I: 01/07/2020 – T: 02/07/2020] & e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2017]
Francamente, mi aspettavo qualcosa di meglio
da Fabio Bonetti, che qui di certo non fa certo un grande Volo di gloria. Il
decimo libro del poliedrico autore (anche se ne ho letti solo nove) ripete un
po’ sé stesso, cercando magari di rinnovarsi. Tuttavia, non ci riesce, per i
miei gusti, e così la cosa migliore riamane la musica. Sia la playlist classica
che Silvia “regala” a Gabriele per renderlo edotto di sonorità diverse, sia i
vari pezzi rock & pop che sono invece sparsi qua e là da Gabriele. Come il
bellissimo “For What It’s Worth” dei Buffalo Springfield, su teso di Stephen
Stills ed arpeggi in sottofondo di Neil Young. Senza dimenticarci piccoli
richiami che sottolineano momenti significativi (soprattutto per Gabriele) come
“Never play” di Emily & the Woods, come “Better Things” dei Massive Attack.
O come l’ultimo pezzo rock citato, “Honey Jars” di Bryan John Appleby. Dove il
testo dice ad un certo punto “And there's too much room inside our bed”.
Fabio non lo dice, ma sa che chi conosce la
musica, fa i giusti collegamenti. Purtroppo, essendo il metatesto a
disposizione di tutti, ci accontentiamo di tornare al testo, e di confermare la
poca vivacità e concretezza di questa decima prova.
Volo tenta di spiazzarci, con un primo
capitolo dedicato alla rottura tra i due protagonisti. Per poi passare le
successive cento pagine a spiegare che da una parte è giusto che Gabriele e
Silvia si lascino, e dall’altra a descrivere in che modo hanno cominciato e
proseguito il loro rapporto. Gabriele è un tipico personaggio di Volo, un po’
irrisolto, un po’ timido, ma anche solidamente basato su principi, ancorato a
tradizioni familiari (spesso più verso i nonni che verso i genitori). Ha
passato gran parte della giovinezza e dell’iniziale maturità coltivando molti
rapporti sporadici ed alcuni più duraturi, tuttavia rimanendo ancorato alla
voglia di stare solo, di non crearsi legami, di vedere nel futuro una felicità
per sé, ma di non capire la possibile esistenza di una felicità per noi.
Silvia è sposata, ha un bimbo di tre anni, e
viene colpita dal fascino altro di vivere un momento senza pensieri. Senza i
pensieri della casa, senza i pensieri del figlio piccolo, senza i pensieri
della baby-sitter. Un piccolo colpo di fulmine, concretizzatosi tra una
libreria ed un bar. Iniziato senza troppi pensieri, e senza pensieri continuava
ad essere. Vediamo tutto dal lato Gabriele, osservando solo di riflesso l’agire
di Silvia. È Gabriele che descrive i propri momenti (forse con molta
indulgenza), è Gabriele che ci parla di Silvia, ed ovviamente dal suo punto di
vista. I due momenti topici avvengono in concomitanza di viaggi pensati o
realizzati per stare insieme. Silvia propone a Gabriele un week-end di fuga a
Madrid, e lui si tira indietro per paura di legami. Gabriele propone un
week-end a Verona, dove deve fare una presentazione di una campagna
pubblicitaria (lui è uomo di marketing, lei dà ripetizioni di pianoforte).
Silvia accetta, ma quando Gabriele si dichiara, tutto finisce, al contrario del
titolo.
Gabriele quasi inconsciamente chiede a Silvia
di stare con lui e lasciare alle spalle la sua vita. Per Silvia, il rapporto
con Gabriele è soprattutto una parentesi rosa all’interno di una vita sempre
più complicata. Che Gabriele non capisce, non vede le difficoltà di organizzare
i loro incontri, di incastrare lavoro, marito, baby-sitter. Silvia si accorge
che Gabriele non ha capito molto del loro rapporto. Se ne va. E lui fa una
presentazione ai limiti del licenziamento. Ma questa “fine” serve a Gabriele
per riflettere su di sé, e sulla propria vita. Poi ci sarà il finale.
Vi lascio in sospeso: troveranno un modo di
rimettersi insieme su terreni diversi e magari più intimi o troveranno il modo
di lasciarsi e ricominciare altre vite? Dubbi legittimi, che tuttavia non
portano in alto né la scrittura né il gradimento di un romanzo che, alla fine,
ci pone solo una domanda: per qualche motivo è stato scritto? Cosa ci vuole
dire Volo che non ho capito? Caro Fabio, torniamo alla nostra musica, che là ci
si esprime di certo al meglio.
“Non sopportava il mio modo caotico di
cucinare, mi rimproverava di sporcare troppi cucchiai e padelle per fare un
sugo.” (57)
La playlist classica di Gabriele:
1.
Frédéric Chopin “Preludio in Mi minore n. 4 op.
28”
2.
Sergej Rachmaninov “Vocaliste”
3.
Erik Satie “Je te jeux”
4.
Claude Debussy “Clair de lune”
5.
Ludwig von Beethoven “Sonata n. 14 in Do diesis
minore”
6.
Claude Debussy “Rêverie in Fa maggiore”
7.
Erik Satie “Gymnopédies – 1. Lent et douloureux”
8.
Alfredo Catalani “Ebben! Ne andrò lontana” aria
da “La Wally”
Quarto ed ultimo week-end di settembre, quindi dedito a trame pure senza allegati. A suggellare la fine di un settembre iniziato con molto sole e terminato con molta pioggia. Certo, ci aspetta ottobre, dove tante, innumerevoli, sono le feste che attraverseremo, gli auguri che faremo, le speranze di viaggiare che continueremo a coltivare.
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