domenica 27 settembre 2020

Due su e due giù - 27 settembre 2020

Avevo pensato ad una “disfida di Barletta” tra Mondadori e Neri Pozza, ma il risultato è una deludente parità. Un buon libro ciascuno per le due case editrici, ed un libro evitabile a testa. Anche qui, poi, torniamo a scrittori di patria non anglofona, anche se due scrivono in inglese.

I più riusciti sono senz’altro i primi, l’israeliano Kashua ed il nigeriano Achebe. Mi è dispiaciuto per l’indiano Ghosh, che mi ha spesso deliziato in altre prove. Così come il nostrano Fabio Volo, che ormai è un po’ troppo ripetitivo e ripetitivo al ribasso, tanto che di lui salvo soltanto la playlist classica che riporto in finale.

Sayed Kashua “La traccia dei mutamenti” Neri Pozza s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 21/04/2019 – I: 14/05/2020 – T: 15/05/2020] - &&& e ½

[titolo: Aquv acher shinuim - עקוב אחר שינויים; lingua: ebraico; pagine: 239; anno: 2017]

Un altro dei tanti regali di Alessandra, alla vigilia di un nostro viaggio, anche se non in Terrasanta (in effetti si partiva per il Messico), seguendo lo stimolo di quei mutamenti che da tanti anni (mai troppi) seguiamo e tracciamo. Anzi, come direbbe più esattamente il titolo ebraico, il senso della frase sarebbe “Tenere traccia dei mutamenti”. Una piccola eppur significativa nuance.

Mi sono accostato al libro seguendone il filo, senza entrare nel metatesto, di cui parleremo più avanti. Devo però dire che seguirne le tracce non è stato semplice, che, purtroppo, come molti autori moderni, Sayed mescola anche bene le acque. Quindi, invece di una trattazione lineare, abbiamo un su e giù nel tempo e nello spazio, un accumularsi di indizi, che solo alla fine hanno una forma, seppur non proprio compiuta. O meglio, una forma cui vengono lasciate ombre su cosa potrebbe succedere dopo aver viaggiato per una ventina di anni lungo le più di duecento pagine. In un certo senso, sembra quasi un’autobiografia, che si scosta volutamente dal reale, in modo da sollevare interrogativi umani e politici.

Il narratore è, come lo scrittore, un arabo nato in terra d’Israele, entrambi proveniente dalla città di Tira, che ho scoperto essere a metà strada tra Tel Aviv e Netanya. Una cittadina a forte presenza araba, visto che è non lontana (in linea d’aria) da Nablus. Dopo studi vari, il protagonista comincia a fare il giornalista a basso costo. Un giorno gli viene pubblicato un racconto (inventato? Ricordato? Non lo sapremo mai veramente) in cui parla di una ragazza di nome Palestine che fa liberamente l’amore con lui sulla terrazza di una scuola di Tira. Tornato a casa, scopre che a Tira c’è proprio una ragazza, anzi una donna, di nome Palestine. Le malelingue la identificano con la libertina protagonista. Ma Palestine è sposata, ed il marito ne chiede subito il divorzio. Mentre il narratore viene costretto ad un matrimonio riparatore. Ma viene anche scacciato dalla famiglia, il padre gli dice di non farsi più vedere. Così lui e Palestine si sposano, vanno a vivere a Gerusalemme, vivacchiano.

Nasce una figlia, Jasmine, forse sua, forse no. Ma il loro rapporto non è d’amore, è una semplice convivenza. Per andare avanti, il narratore accetta di fare il ghost writer di persone che vogliono narrare la propria storia, pubblicando una trentina di romanzi sotto i falsi nomi. La “moglie bianca” (che non dormono nello stesso letto) si laurea, ha una sua crescita universitaria. Nascono anche altri due figli, maschi, anche se loro continuano ad essere separati in casa. Approfittando di un’offerta a Palestine, decidono poi di trasferirsi in America, vicino Chicago.

In America, la routine si evolve: il narratore non può più fare il ghost, mancandogli la materia prima. Dovrebbe studiare, ma si sente “anziano”. Vive nel campus universitario, si alza la mattina, va da Palestine, prende i figli e li porta a scuola, per poi gironzolare senza essere molto concludente. Il là a tutta la vicenda arriva da una telefonata del padre, che si fa vivo dopo quindici anni, e gli dice di essere in gravi condizioni. Lui prende e si precipita in Israele. Cercando, oltre a capire meglio il padre, di tirar fuori la storia della sua famiglia, così come faceva quando scriveva per altri. Questa, seppur spezzettata, è una delle fasi più intensa, per ripercorrere un rapporto un tempo saldo, poi spezzato, ed ora cercato disperatamente. Anche contro la madre, anche contro i fratelli. Ne escono righe molto belle. Ma com’è ovvio, il padre muore, lui torna in America. Torna alla vita straniante di prima, con qualche forza in più. Sarà sufficiente a modificare il suo vivere? Sarà sufficiente a farlo uscire da una ignavia che mi fa ribollire il sangue?

Come detto, la scrittura è ben registrata, anche se i salti temporali mi spiazzano sempre. La storia lascia dei margini all’interpretazione, ma è abbastanza comprensibile. Ritorno infine sull’autore. Che a posteriori ho scoperto essere stato, quando viveva in Israele, un promotore di spettacoli ironici e di scritti che mi si dice siano pieni di humor. Ad un certo punto però, così come il protagonista del libro, decide di andare via. In un’intervista dice che non ritiene più possibile uno sbocco positivo alla convivenza arabo – israeliana in terra d’Israele. Si rifugia quindi in America, ed abbandona completamente il registro ironico che lo aveva caratterizzato. Credo quindi che questo scritto, così dolente, così pieno di rimembranze, sia un tentativo di esorcizzare questa realtà che l’autore non condivide e che non sa più come modificare. Una considerazione amara, che tuttavia, purtroppo, mi ritrova concorde. Anch’io, ora, nel mio piccolo, ritengo difficile una soluzione positiva, anche se spero sempre ci possa essere un sorriso che tutti seppellirà.

“La bambina era nata l’undici ottobre.” (158) [e non dico altro]

“Mi metterò la camicia button down … ha il logo di un giocatore di polo a cavallo [ndt: Raplh Lauren? Lamartina?]. … Quando ero uscito dal camerino … lei aveva commentato: ‘Questa camicia ti sta bene’ … era una delle poche frasi gentili che lei mi aveva rivolto in tutti questi anni.” (163)

Chinua Achebe “Il crollo – Ormai a disagio” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 27/02/2018 – I: 18/05/2020 – T: 20/05/2020] - &&& +

[tit. or.: Things Fall Apart – No Longer at Ease; ling. or.: inglese; pagine: 341; anno 1958-1960]

Un altro libro della biblioteca genitoriale, recuperato dalla memoria e letto con interesse. Un libro doppio, che contiene i primi due capitoli della trilogia fondamentale dello scrittore nigeriano. Una bella scrittura che riesce a riportarci in Africa, e ben dal di dentro. Si sente l’amore per la sua terra e l’odio per chi l’ha fatta diventare una colonia, terra bruciata di conflitti insanabili. Achebe è duro, inflessibile, e forse per questo, come dice la sua biografia, non fu mai premiato con onori internazionali. Mostra troppo il suo astio verso l’Occidente per poter ambire a suo tempo a Nobel ed altro, così come invece successe al suo connazionale Wole Soyinka. Anche se connazionale fino ad un certo punto, che Achebe è stato sempre più biafrano che nigeriano. Ma viene ora ai testi, i cui titoli entrambi derivano da brani di poesie di Yeats.

“Il crollo”

[tit. or.: Things Fall Apart; ling. or.: inglese; pagine: 1-168; anno 1958]

Il titolo originale, come dalla recente ripubblicazione nelle edizioni “La Nave di Teseo” recita in effetti “Le cose crollano”, ripreso dal brano della poesia di Yeats “The Second Coming”, dedicato dal poeta irlandese al crollo del suo vecchio mondo, quello cristiano, corrotto e superato dall’avanzare del mondo stesso. Achebe ne prende lo spunto, per descrivere quello che fu in verità un crollo. Quello del vecchio mondo pervaso dalla cultura del suo popolo (gli “igbo”) frantumato dall’avanzata del colonialismo inglese.

La scrittura di Achebe segue la parabola di uno dei maggiorenti locali, Okonkwo, che, in alcuni tratti, sembra ripercorrere la vicenda ancestrale della famiglia Achebe, quasi ne rivedesse il nonno paterno. Okonkwo è fortemente legato alla cultura igbo, ne segue le leggi, ne percorre, nel bene e nel male, le parabole di vita. È un uomo che si fa da sé. Vediamo infatti nella prima parte il conflitto con l’ignavo padre, che si comporta come una cicala, dissipando al sole le sue scarse fortune, per bere e cantare con gli amici. Fino a morire povero e solitario.

Okonkwo invece è un gran lavoratore, è stato il re dei lottatori al culmine dell’adolescenza. E si capisce dai cenni alla vita locale quanto la lotta sia uno strumento di innalzamento sociale degli igbo. Si sposa, ha tre mogli e tanti figli, anche se è fortemente legato solo al suo primogenito Nwoye. La scrittura di Achebe ci porta dentro questa vita rurale, con tutti i suoi riti: le chiacchiere nella piazza principale, la semina delle piante sostentamento e nutrimento del popolo igbo, i rapporti con le mogli, sempre improntati alla supremazia maschile. Strano mi fa leggere che Okonkwo aspetta il cibo dalle tre mogli, e mangia da tutte e tre, in ordine di anzianità di sposalizio. Bello è anche l’inciso sulla terza moglie e sulla sua unica figlia femmina. Poi avvengono due fatti che segnano la vita del nostro eroe.

Il debito di sangue di un villaggio vicino, che per riscattarsi dà in pegno al villaggio di Okonkwo un ragazzo, che diventa il miglior amico di Nwoy. Per tre anni il ragazzo cresce con la famiglia, poi l’oracolo del villaggio, non si sa in base a quale legge ancestrale, ne decreta la morte. Sarà proprio Okonkwo che dovrà eseguirla, e questo fatto comincia a segnare il crollo dei valori su cui il nostro fonda la sua vita.

Il secondo fatto è l’uccisione, pur casuale, di un membro del villaggio durante una festa da parte dello stesso Okonkwo. In base alle leggi interne, la famiglia subisce un esilio di sette anni dal villaggio. Sette anni che vivranno in ristrettezze, che l’esilio comporta l’abbandono di tutti i beni posseduti. Sette anni che vedono l’ingresso dei missionari protestanti nel paese. Missionari che cominciano a distruggere tutti i valori delle loro pur semplici esistenze.

Qui, Achebe ha un grosso scatto di scrittura, riuscendo a farci percepire lo scontro tra le due culture. La differenza, anche, tra alcuni missionari, empatici delle situazioni locali, ed altri che vengono con la presupponenza dell’uomo bianco che vuole imporre la propria democrazia. Vediamo tutta la cattiveria dell’oppressore. Vediamo anche come, per diverse ragioni, i locali “cadono” nelle trappole dell’occidente. E per sventura di Okonkwo, uno dei primi a “passare al nemico” è proprio suo figlio Nwoye. Altro colpo fatale al nostro eroe. Che tornando dopo sette anni al villaggio natio, ne vede la degradazione da parte dell’uomo bianco, cerca di opporsi, finendo con l’uccidere un soldato inglese. Questo porterà al crollo finale di Okonkwo e del suo credo, con un finale duro e spietato, che però mette di nuovo a confronto i valori ancestrali con le affettate maniere degli inglesi invasori.

Non vi porto sino alla fine, se non per rimarcare come anche la scrittura stessa di Achebe sia parte integrante di questo processo di sconfitta. Achebe scrive in inglese, ma (e l’ultima versione de “La Nave di Teseo” meglio ne riporta), gran parte dei dialoghi tra i nativi è scritta in “igbo”, facendo quindi risaltare la differenza, linguistica ma anche mentale tra i due idiomi. Molto si perde nella traduzione, e molto se ne recupera leggendone commentari, soprattutto in alcuni siti africani. Seppur con qualche lentezza (in particolare nei primi capitoli) è un documento forte, pieno di pugni allo stomaco.

“Ormai a disagio”

[tit. or.: No Longer at Ease; ling. or.: inglese; pagine: 169-341; anno 1960]

Anche il secondo capitolo della trilogia di Achebe riprende un verso di una poesia di Yeats. Questa volta è “The Journey of the Magi” i quali, al ritorno nelle loro terre, diranno: “Non siamo più a nostro agio”. Ed è così che gli igbo si sentono dopo i primi anni di colonizzazione inglese.

Per farci sentire continuità nel tempo, e discontinuità nei comportamenti, seguiamo ora le vicende di Obi Okonkwo, il nipote dell’eroe del primo capitolo, nonché figlio di quel Nwoy che primo si unì ai missionari protestanti, in aperta sfida del padre, uccisore del suo amico fraterno di gioventù. Siamo quindi alla seconda generazione, Nwoy cambia il suo nome in Isaac, e diventa un prelato della chiesa protestante. Il figlio Obi, educato dalla rigida disciplina paterna, è sempre nella pattuglia di testa degli studenti locali, tanto che, finite le scuole secondarie, i maggiorenti igbo gli danno una borsa di studio per laurearsi in Inghilterra. Cosa che Obi farà, ma in inglese e non in legge come gli aveva chiesto la sua tribù.

Certo, al suo ritorno, con una laurea inglese, potrà trovare un buon posto, anche se non così remunerativo se avesse fatto l’avvocato. Il dipinto che Achebe ci fa di Obi è tuttavia, pur se con qualche condiscendenza, di una persona ormai non più attaccata ai valori ancestrali, ed anche (o forse per questo) debole e indecisa. Si sentirebbe meglio a rimanere ad Oxford, fra i suoi libri e i suoi pensieri, ma la borsa è un prestito, e lui deve restituire quanto ricevuto, seppur con tutti i tempi del mondo.

Ma una volta nuovamente in patria, la sua supponenza di laureato, lo pone, intimamente, al di sopra delle miserie locali. Non si adatta, presuntuoso e poco combattivo, ad essere una ruota qualsiasi. Cerca protagonismo che non è capace di gestire. E viene anche preso da ingranaggi più grandi di lui. L’amore con Clara, certo, ma il loro matrimonio è osteggiato per il fatto che lei è una “osu”, che nel sistema tradizionale delle caste degli igbo, è una persona reietta e che non può uscire da quel sistema. Tanto meno sposarsi con un “non-osu”.

Obi prova a portare avanti la relazione, ma anche la sua famiglia, benché cristiana, lo isola e maledice. Così, quando Clara rimane incinta, non resta che l’aborto. Ed il conseguente allontanamento tra i due. Così che i debiti aumentano: per la sua scarsa oculatezza, ad esempio per pagarsi una macchina per andare a lavorare, e poi per pagarsi l’assicurazione. Per restituire il prestito, come detto, ma anche per dare i soldi ai suoi fratelli al fine di pagarne gli studi. Si trova così a lavorare in un posto di non grande reddito, ma di certo prestigioso, perché si trova a selezionare i candidati per le borse di studio all’estero, come quella da lui ricevuta. Un posto che è facilmente al centro di corruzioni più o meno grandi. Che lui, tra la ferrea dottrina paterna e una giusta rigidità verso gli anziani già inseriti nelle leve del potere inglese e già (come ben sappiamo) corrotti e corrompibili, osteggia. Rifiuta regali e servigi vari, ma lo stipendio limitato non gli consente di essere all’altezza economica della situazione. Cadrà così in uno stupido tranello della polizia coloniale, e cadrà miseramente in basso anche da quel poco da cui si era elevato.

La ferocia di Achebe nel dipingere le sventure della sua Nigeria è qui molto forte. Non usa più la lingua degli antenati, come nel primo libro. Ora è solo inglese, ed è verso gli inglesi corruttori ed imbarbaritori delle tradizioni che lancia i suoi strali. Ma anche contro l’ignavia delle nuove generazioni. Purtroppo, la tensione verso la costruzione di un’idea e di una denuncia viene a scapito della piena caratterizzazione dei personaggi, che invece era ben presente e di forte impatto nel primo libro. Tuttavia, si capisce perché l’Occidente, pur considerandolo uno scrittore di livello molto interessante, l’ha sempre lasciato in disparte. Troppo africano e troppo poco occidentale. Ma forse proprio per questo a me più gradito. Devo dire infatti che mi ci ero accostato un po’ dubbioso. Seppur non facile, alla fine, la ritengo una lettura fondamentale per capire il continente ad un passo da noi.

Amitav Ghosh “L’isola dei fucili” Neri Pozza s.p. (prestito di Fako)

[A: 03/06/2020 – I: 04/06/2020 – T: 05/06/2020] - & e ¾

[tit. or.: Gun Island; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 2019]

Dietro insistenza pressante del prestatore, ho “dovuto” impegnarmi nella lettura di quest’ultima fatica del generalmente buon scrittore indiano. Purtroppo, preso dalla necessità di delineare una tesi, il romanzo non decolla mai. E se nella prima parte ha qualche elemento di interesse, pur nella sua lentezza, la seconda parte è altamente deludente. Si salvano alcuni elementi di derivazione lessicale ed un’invettiva quasi finale assolutamente condivisibile.

L’idea che persegue Amitav è di rileggere una delle tante leggende indiane, percorrendone alcuni tratti, per aggiornarne i contenuti, ma anche per farci vedere alcune realtà particolari e di scottante attualità. La leggenda parla di un mercante di fucili che non vuole omaggiare una delle tante dee indiana, Manasa Devi, dea dei serpenti. Che farà di tutto per convertirlo al suo culto, perseguitandolo, uccidendogli i figli, facendolo naufragare e rapire dai pirati. Chandar fugge per tutto l’orbe terracqueo ma alla fine troverà il modo di pacificarsi con la dea.

Il protagonista che cerca di capire la storia è un indiano riparato in America, dove finisce nel fare il fine bibliofilo a New York. Ma non dimentica certo il suo retroterra indiano, anzi bengalese. Che il nostro Deen è di Kolkata, ed i suoi parenti venivano da una delle regioni poi confluite nel Bangladesh. Seguiamo quindi le peripezie di Deen, con i parenti e gli amici della bellissima città indiana a me rimasta nel cuore. Conosce una brava signora anch’essa espatriata, Piya, che lo porta nelle bellissime isole di Sundarban alla ricerca di un raro tempio della dea dei serpenti.

Per i pochi amanti della letteratura esotica, ricordo che quelle isole erano il teatro delle avventure salgariane de “I misteri della jungla nera”. Per chi invece conosce Ghosh, Piya è la protagonista del libro “Il paese delle maree”, tutto ambientato nelle Sundarban.

Nell’isola incontra sia Tipu, un mezzo parente di Piya, tecnologicamente provetto, e Rafi, discendente islamico dei guardiani dell’isola. Nascono amicizie e conoscenze che non possono non segnare i protagonisti. Poi comincia una girandola di spostamenti. Prima a Los Angeles, dove Deen ha incontri poco piacevoli con serpenti, ragni velenosi (di cui riparleremo in finale) e con gli incendi americani (di cui ricordo bene uno nel Sequoia National Park). Non manca un salto a Venice, anche lì teatro di bei ricordi ovviamente miei e non di Deen, e propedeutico all’ultima parte del viaggio che porterà i nostri eroi a Venezia. In ordine sparso. Ci arriva Deen per aiutare una troupe a fare un reportage sugli immigrati bangla. C’è già arrivato Rafi, che scopriamo essere fuggito con Tipu dall’India, e seguendo le rotte dei migranti, ha fatto il giro di mezza Asia, con una specie di via della seta veloce, attraverso Pakistan, Iran e Turchia. Dove Rafi ha perso Tipu, che invece prova a passare via Egitto e barconi in Sicilia. Ci arriverà Cinta, l’amica dotta di Deen, che per tutto il libro rimpiange la morte di marito e figlia, e coinvolge Deen con le sue visioni.

Insomma, una mentalmente vorticosa gita intorno al globo, che ci porta dalle povere strade di Kolkata ai grandi alberghi di Los Angeles, dal mondo marino e fermo di Venezia alle turbolenti acque del canale di Sicilia. Ghosh inframmezza anche momenti ecologisti (lo spiaggiamento dei delfini nelle mangrovie delle Sundarban, che rimandano a quello sulla foce dell’Irrawaddy dell’altro libro con Piya), ma soprattutto momenti a favore delle migrazioni globali. Infatti, quando i nostri corrono al salvataggio di una nave in difficoltà, carica di migranti ovviamente (anche se inframmezzato da momenti scarsamente coinvolgenti di catastrofi naturali ed animali) li salvano, in modo che si riesce ed a chiudere il cerchio narrativo.

Chiusura in minore, ma che permette, e noi qui siamo con lui, a Ghosh di lanciare una filippica sacrosanta contro Salvini e le sue posizioni quando questi era sfortunatamente Ministro. Forse uno dei pochi punti interessanti del libro.

L’altro elemento coinvolgente è un po’ più complesso da seguire. Siccome tutta la storia ruota intorno alla vicenda dei Bonduqi Sadagar (uno dei nomi con cui è conosciuto il fuggitivo dalla dea dei serpenti), che Deen traduce all’impronta come “mercante di fucili”, dopo lunghi giri, scopriamo che “bunduq”, oltre che fucile è il nome arabo di Venezia, che in arabo si chiama “al-bunduqia”. E questo già dall’anno mille, prima dell’avvento della polvere da sparo. Infatti, la radice “ndq” sta per “eterogeneo, diverso”, e Venezia da sempre è stata punto d’incontro di culture diverse. Così, tutta la leggenda si rovescia da “isola di fucili” a “isola veneziana”.

Queste scoperte filologiche permettono a Deen di reinterpretare in chiave moderna tutta la leggenda indiana. Cosa che seguiamo con la testa, ma che non appassiona minimamente. Come lascia freddo un commento relativo all’ascolto delle storie indiane da parte degli isolani della Sundarban, con grande partecipazione. Perché lo paragona, in modo rovesciato, al seguito (per lui minimo) che potrebbe avere la narrazione di un Orlando Furioso. Purtroppo, sono in completo disaccordo, dopo aver partecipato in gioventù a quell’evento storico che ne fu la trasposizione teatrale di Ronconi.

Finisco le citazioni con un’altra piccola chicca personale. I ragni che assalgono Deen sono del genere “Laxosceles reclusa”. Per chi legge di tutto non può che ricordarsi siano lo stesso tipo di ragno protagonista del libro di Fred Vargas “Il morso della reclusa”. Comunque, benché tenti in tutti i modi di tirarne fuori qualcosa di buono, devo confessare che è un libro che non mi è piaciuto, e che mi farebbe allontanare da Ghosh se fosse il solo libro dello scrittore che avessi mai letto nella vita. Fortunatamente c’è stato altro.

Fabio Volo “Quando tutto inizia” Mondadori euro 7,90 (in realtà, scontato a 6,72 euro)

[A: 12/06/2018 – I: 01/07/2020 – T: 02/07/2020] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2017]

Francamente, mi aspettavo qualcosa di meglio da Fabio Bonetti, che qui di certo non fa certo un grande Volo di gloria. Il decimo libro del poliedrico autore (anche se ne ho letti solo nove) ripete un po’ sé stesso, cercando magari di rinnovarsi. Tuttavia, non ci riesce, per i miei gusti, e così la cosa migliore riamane la musica. Sia la playlist classica che Silvia “regala” a Gabriele per renderlo edotto di sonorità diverse, sia i vari pezzi rock & pop che sono invece sparsi qua e là da Gabriele. Come il bellissimo “For What It’s Worth” dei Buffalo Springfield, su teso di Stephen Stills ed arpeggi in sottofondo di Neil Young. Senza dimenticarci piccoli richiami che sottolineano momenti significativi (soprattutto per Gabriele) come “Never play” di Emily & the Woods, come “Better Things” dei Massive Attack. O come l’ultimo pezzo rock citato, “Honey Jars” di Bryan John Appleby. Dove il testo dice ad un certo punto “And there's too much room inside our bed”.

Fabio non lo dice, ma sa che chi conosce la musica, fa i giusti collegamenti. Purtroppo, essendo il metatesto a disposizione di tutti, ci accontentiamo di tornare al testo, e di confermare la poca vivacità e concretezza di questa decima prova.

Volo tenta di spiazzarci, con un primo capitolo dedicato alla rottura tra i due protagonisti. Per poi passare le successive cento pagine a spiegare che da una parte è giusto che Gabriele e Silvia si lascino, e dall’altra a descrivere in che modo hanno cominciato e proseguito il loro rapporto. Gabriele è un tipico personaggio di Volo, un po’ irrisolto, un po’ timido, ma anche solidamente basato su principi, ancorato a tradizioni familiari (spesso più verso i nonni che verso i genitori). Ha passato gran parte della giovinezza e dell’iniziale maturità coltivando molti rapporti sporadici ed alcuni più duraturi, tuttavia rimanendo ancorato alla voglia di stare solo, di non crearsi legami, di vedere nel futuro una felicità per sé, ma di non capire la possibile esistenza di una felicità per noi.

Silvia è sposata, ha un bimbo di tre anni, e viene colpita dal fascino altro di vivere un momento senza pensieri. Senza i pensieri della casa, senza i pensieri del figlio piccolo, senza i pensieri della baby-sitter. Un piccolo colpo di fulmine, concretizzatosi tra una libreria ed un bar. Iniziato senza troppi pensieri, e senza pensieri continuava ad essere. Vediamo tutto dal lato Gabriele, osservando solo di riflesso l’agire di Silvia. È Gabriele che descrive i propri momenti (forse con molta indulgenza), è Gabriele che ci parla di Silvia, ed ovviamente dal suo punto di vista. I due momenti topici avvengono in concomitanza di viaggi pensati o realizzati per stare insieme. Silvia propone a Gabriele un week-end di fuga a Madrid, e lui si tira indietro per paura di legami. Gabriele propone un week-end a Verona, dove deve fare una presentazione di una campagna pubblicitaria (lui è uomo di marketing, lei dà ripetizioni di pianoforte). Silvia accetta, ma quando Gabriele si dichiara, tutto finisce, al contrario del titolo.

Gabriele quasi inconsciamente chiede a Silvia di stare con lui e lasciare alle spalle la sua vita. Per Silvia, il rapporto con Gabriele è soprattutto una parentesi rosa all’interno di una vita sempre più complicata. Che Gabriele non capisce, non vede le difficoltà di organizzare i loro incontri, di incastrare lavoro, marito, baby-sitter. Silvia si accorge che Gabriele non ha capito molto del loro rapporto. Se ne va. E lui fa una presentazione ai limiti del licenziamento. Ma questa “fine” serve a Gabriele per riflettere su di sé, e sulla propria vita. Poi ci sarà il finale.

Vi lascio in sospeso: troveranno un modo di rimettersi insieme su terreni diversi e magari più intimi o troveranno il modo di lasciarsi e ricominciare altre vite? Dubbi legittimi, che tuttavia non portano in alto né la scrittura né il gradimento di un romanzo che, alla fine, ci pone solo una domanda: per qualche motivo è stato scritto? Cosa ci vuole dire Volo che non ho capito? Caro Fabio, torniamo alla nostra musica, che là ci si esprime di certo al meglio.

“Non sopportava il mio modo caotico di cucinare, mi rimproverava di sporcare troppi cucchiai e padelle per fare un sugo.” (57)

La playlist classica di Gabriele:

1.    Frédéric Chopin “Preludio in Mi minore n. 4 op. 28”

2.    Sergej Rachmaninov “Vocaliste”

3.    Erik Satie “Je te jeux”

4.    Claude Debussy “Clair de lune”

5.    Ludwig von Beethoven “Sonata n. 14 in Do diesis minore”

6.    Claude Debussy “Rêverie in Fa maggiore”

7.    Erik Satie “Gymnopédies – 1. Lent et douloureux”

8.    Alfredo Catalani “Ebben! Ne andrò lontana” aria da “La Wally”

Quarto ed ultimo week-end di settembre, quindi dedito a trame pure senza allegati. A suggellare la fine di un settembre iniziato con molto sole e terminato con molta pioggia. Certo, ci aspetta ottobre, dove tante, innumerevoli, sono le feste che attraverseremo, gli auguri che faremo, le speranze di viaggiare che continueremo a coltivare. 

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