Stefan Zweig “Notte
fantastica” Repubblica Duemila 8 euro 9,90
[A:
12/03/2018 – I: 01/05/2020 – T: 02/05/2020] - & e ½
[tit.
or.: vedi racconti; ling. or.: tedesco; pagine: 154;
anno 1914-1928]
Quattro racconti scritti con una maestria
impareggiabile ma che non riescono ad arrivare né al cuore né al cervello né
allo stomaco. Per questo, il mio gradimento è veramente basso, seppur
riscattato dalla scrittura e da alcune piccole chicche. Intanto vediamo di fare
ordine nelle pubblicazioni, che i primi tre racconti, insieme ad altri, escono
in volume nel 1922. Come “quartetto” in realtà verranno solo editi da
Frassinelli nel 1992 e da Adelphi venti anni dopo. Prima di esordire nella
collana dedicata alle “scoperte” del Duemila, pubblicata da Repubblica due anni
fa. È vero che c’è un “fil rouge” conduttore, che, come sempre in Zweig, si
indaga nell’animo umano, nelle sue manifestazioni, magari sviscerando
proustianamente minuto per minuto una vicenda, tanto che sessanta pagine del
secondo racconto sono dedicate a narrare le vicende che avvengono in sole sei
ore.
Il più antico dei quattro è il terzo “Il
vicolo al chiaro di luna” (Die Mondscheingasse) del 1914, dove
seguiamo il protagonista perdersi nelle vie scure di una cittadina e ricevere
le confessioni di un messere ormai ridotto al lastrico ed al lumicino, che
racconta le proprie pene d’amore verso la moglie diventata per una serie di
vicende prostituta di classe. Da dimenticare presto.
Più intenso, forse nonostante tutto il
migliore, il secondo, che poi è il primo ad essere letto. “La donna e il
paesaggio” (Die Frau und die Landschaft) del 1917 è altamente
evocativo. Zweig descrive la collina, l’avvicinarsi e l’allontanarsi della
pioggia, l’albergo, la notte, il sonnambulismo della bella ed il turbamento del
protagonista con una capacità di utilizzo delle parole che raramente avevo
riscontrato altrove. Si sa che Zweig è austriaco, si sa che frequenta
l’intellighenzia locale. E si sente la forte carica onirica del testo, che
risente senza dubbia di letture e frequentazioni sia dello psicanalista Freud
(all’epoca sessantenne) sia dello scrittore Schnitzler (di cinque anni più
giovane di Freud). Mentre Zweig era un baldo trentacinquenne.
Devo dire che mi aspettavo molto dal più
lungo, quello che dà poi titolo alla raccolta. Questa “Notte fantastica”
(Phantastische Nacht) del 1922 ci fa immergere in sei ore della vita di
Friederich Michael von R…, un apatico aristocratico che in seguito ad un evento
fortuito, fa una specie di esame di coscienza, capisce alcune cose di sé e
della propria vita, per poi vivere un anno in questa condizione e quindi morire
nella grande battaglia di Rawa (svoltasi dal 3 all’11 settembre 1914) a fronte
dello sfondamento del fronte austro-ungarico da parte dell’esercito russo.
L’inizio mi aveva di molto preso, che mi sentivo in sintonia con una persona
che andava denudano il proprio animo, a fronte di un avvenimento che ha significato
solo per lui, ma che, a valle del quale, il soggetto si sente diverso ed in
modo diverso si comporta. Mi ricordavano tanti piccoli avvenimenti personali ed
interiori, che hanno senso solo per me, e che le persone a me vicine scoprono
solo per i mutati comportamenti.
L’ultimo e più tardo racconto è “Leporella”
(Leporella) del 1928, apologo che fin dal titolo riprende la vicenda del
servitore di Don Giovanni, seguendo la vita della contadina Costanza. Divenuta
governante in una casa aristocratica, si infatua del signore spensierato e
spendaccione a scapito della moglie aspra e ricca. Farà di tutto per lui, ma
non potrà che scontrarsi con la realtà dello scapestrato che non ne capirà
neanche un’azione, fors’anche la più irreparabile.
Ora, nelle mie letture di Zweig ritornava
ogni volta in mente la bellissima “Novella degli scacchi”, ed il confronto con
questa lettura diventava impietoso. Ma gli scacchi erano già nella parte finale
della vita dello scrittore, mentre qui siamo in un trenta-quarantenne pensieroso
e bisognoso di esprimere alcune urgenze interiori. La psicanalisi, il mondo
onirico, la ricerca di sé, la caduta senza remissione, le scelte sbagliate e le
decisioni conseguenti, per chi è corretto nella vita e verso sé stesso. Ma
questo mondo, tra l’altro senza dialoghi, cosa che a me un po’ è mancata, non
riesce ad avvicinarmi al testo.
Rimangono chicche sparse. Quel parlare sempre
e comunque, anche se non esplicitamente, di Vienna e dell’austricità. In
particolare, nelle passeggiate e nelle camminate del tormentato protagonista
della “Notte”. Dove c’è l’altra chicca matematica: le vicende salienti si
svolgono per 6 ore il 7 giugno (6 e 7/6), e sono legate alla vittoria di un
cavallo che porta il numero 7. Poiché sei è da sempre legato a mio padre, ed il
sette è il mio numero di riferimento, capite bene che mi aspettavo di più. Ma
non importa, mi accontento del rimando a vicende personali ed altamente
insondabili.
“Chi è finalmente riuscito a trovare sé
stesso, non potrà più perdere nulla a questo mondo. E chi è finalmente riuscito
a comprendere l’essere umano che vive in lui, saprà comprenderli tutti.” (101)
Teju
Cole “Città aperta” Repubblica Duemila 42 euro 9,90
[A:
20/11/2017 – I: 04/05/2020 – T: 05/05/2020] - &&&
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[tit. or.: Open City; ling. or.: inglese; pagine: 297; anno 2011]
Una nuova lettura
della collana dedicata ai romanzi del Duemila che riserva qualche bella
sorpresa e qualche lettura di interesse. Qui abbiamo uno scrittore per me
assolutamente sconosciuto, e che anche in rete non è che sia tanto presente.
Tant’è che alcuni siti lo danno originario di New York altri di qualche posto
nel Michigan.
Quello che è certo
è il suo vero nome che suona Obayemi Babajide Adetokunbo Onafuwa, ed il
nome con cui firma le sue opere, cioè Teju Cole. Opere che sono solo un paio di
romanzi, ma anche molte fotografie, di cui pare sia maestro. Quello che è
altrettanto vero è che l’autore è nigeriano, in quanto figlio di nigeriani
seppur emigrati in America, che ha vissuto alcuni anni della giovinezza in
Nigeria, per poi studiare, laurearsi e vivere negli States.
Per
dirla tutta, questa sua prova letteraria non è che sia stravolgente, ma direi
potremmo definirlo un romanzo onesto. Non sbava, non promette più di quello che
mantiene, non è, soprattutto, intriso di velleità narrative particolari. Ci
sono belle e coinvolgenti descrizioni paesaggistiche che mi fanno venire in
mente l’occhio fotografico dell’autore. E ci sono problematiche dure, legate al
rapporto, allo scontro tra mondi diversi.
Per
attenuare alcune asperità (ma anche per accentuarne altre) il romanzo, che
sembra una bio-fiction dello scrittore, si inventa un retroterra mix. Il
narratore è sì nigeriano, ma solo da parte di padre, con una madre tedesca ed
una nonna teutonica che vive a Bruxelles. Inoltre, il narratore si avvia a diventare
psicologo, motivo per cui studia a New York, frequenta un dottorato, ed alla
fine aprirà un suo studio privato, seppur sotto l’egida di un nume tutelare.
Come molte persone, incluso il sottoscritto, camminare è uno dei motivi di
fondo della sua vita non lavorativa, e anche dei suoi spostamenti. Per cui ne
seguiamo i passi, e le descrizioni nei luoghi ove trascorre la sua vita (o ne
ha trascorso, visto che ci sono puntate anche nella natia Africa). Tutto il
percorse del narratore è un attraversare il tempo dallo studio al volare con le
proprie ali, alla ricerca di brandelli di sé. Capiamo che ha avuto grossi ed
insanabili contrasti con la madre, dopo la morte precoce del padre. Lo seguiamo
volare per tre settimane in Belgio alla ricerca di tracce della nonna, che però
non seguirà dedicandosi ad altro.
Incontra
amici, vede gente, ritrova la sorella di un suo vecchio amico nigeriano che non
vedeva da una dozzina di anni. Incontro che lo porterà a scavare dentro di sé,
a tirar fuori una ferita profonda, che però non ha né il coraggio né la voglia
di affrontare. La lascia lì, la ferita, come fanno i bravi psicologi, che più
che risolvere, sanno che c’è un problema e cercano di capire, laddove non si
può guarire, come si può convivere. Inoltre, tutti gli incontri portano il
narratore ad interrogarsi sulla convivenza.
C’è
il bellissimo rapporto con il giapponese Saito, suo mentore all’università, uno
che ha dovuto subire i campi di contenzione americani durante la Seconda Guerra
Mondiale. Quando tutti i giapponesi immigrati in America venivano visti con
sospetto (dopo Pearl Harbour, ovvio). Saito ha tratto riflessioni interessanti
sui rapporti tra razze diverse. Che il narratore confronta con molti altri
incontri di amici di razza mista. Con la sua ex fidanzata. Con l’amica di cui
sopra. Ma in particolare con l’arabo di cui diventa amico in Belgio. Che lo
porta anche sul terreno del confronto tra uguaglianza e differenza. Perché se è
vero che tutti dobbiamo essere trattati in ugual modo, e rispettati per questo,
dobbiamo anche rispettare ed essere rispettati nelle differenze. Non dobbiamo
appiattirle, ma analizzarle e conviverci. Certo, l’arabo, per la sua storia
narrata come un microracconto all’interno del flusso narrativo, è portato ad
estremizzare questa discussione, arrivando ad esaltare Malcom X rispetto a
Ghandi. Ora questo è un terreno interessante, al di là delle controversie sulla
figura di Malcom stesso, ma foriera di pensieri appunto su quanto sia più
importante accettare le differenze, che tentare di egualizzarle.
Alla
fine, Cole ci narra circa un anno della vita del narratore, senza grandi scosse
(eccetto qualche sussulto nel finale che vi lascio scoprire), ma che da buon
psicologo il protagonista accetta cercando in sé quelle radici che lo legano
alla terra. Anzi, alla città aperta che potrebbe essere il nostro mondo se
tutti fossimo meno egocentrati e più portati ad ascoltare l’altro.
Una
piccola chicca, durante le camminate (che ritengo uno degli elementi che mi
accomunano con il narratore) passando per una piazza a East Broadway incontra
la statua di Lin Zexu. Che per molti dirà poco, ma che per chi ha letto i libri
di Amitav Ghosh sulle guerre dell’oppio è senz’altro un altro personaggio
interessante. Come di curiosità è appunto averne una statua a New York, per uno
delle persone più odiate dalla Compagnia delle Indie. Quindi, come riflettevo
durante la lettura, di certo non un capolavoro, ma un romanzo onesto vissuto
con onestà.
“Non credo nelle coincidenze, mi disse. Le
cose succedono o non succedono, le coincidenze non c’entrano niente.” (184)
Mark
Haddon “Una cosa da nulla” Repubblica Duemila 50 euro 9,90
[A:
02/01/2018 – I: 11/06/2020 – T: 12/06/2020] - &&&
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[tit. or.: A Spot of Bother; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2006]
Torno a leggere qualcosa di Haddon dopo molto
tempo dal primo, unico e fortunato caso del cane ucciso a mezzanotte. Mi ero
accostato un po’ titubante, dato il successo del suo “libro della vita”. Devo
dire tuttavia che è invece scorrevole, leggibile e con qualche punto di
interesse. Certo, avrei forse lasciato il più calzante, anche se di poco,
titolo inglese, che parlava di “Un po’ di fastidio”, che è quello che provano
tutti i protagonisti del romanzo. Piuttosto che una cosa da nulla, forse
riferito al protagonista, George Hall, ma che minimizza al di là del titolo i
sentimenti di tutta la cricca.
La struttura del libro ricalca, idealmente,
quella del primo: vedere avvenimenti dall’interno di una persona “irregolare”.
Nel primo era un autistico. Qui abbiamo, e ce ne sentiamo solidali, un ipocondriaco
terminale. George fa montagne di ogni piccolo avvenimento medicale che lo
coinvolge. Certo, ci sono anche elementi reali, ma il motore della vicenda è
l’angoscia di sentirsi malati, e l’angoscia ancor maggiore di non voler sapere
se si è malati veramente.
Da un piccolo eczema, George estrapola di
aver un tumore all’ultimo stadio. Non sappiamo se sia vero, ma di certo soffre
di disturbi legati all’età, mancanza di memoria, svenimenti, ed altre patologie
forse pre-Alzheimer. Il tutto collocato in un contesto sociale e personale
pieno di problematicità.
C’è la moglie Jean che, in mancanza delle
attenzioni di George, trova consolazione, mentale e fisica, con Davide. C’è il
figlio Jamie, omosessuale tormentato, con una relazione complicata con Tony, e
con la difficoltà/impossibilità di condividere i suoi stati d’animo con la
famiglia. C’è infine la figlia Katie, uscita da un matrimonio con Graham, che
la abbandona alla nascita del figlio Jacob, e che ora, dopo un po’ di
convivenza, decide di sposare Roy. Ci sono, infine, e sono l’ossatura dorsale
di tutto il libro, i rapporti interpersonali che, dalle varie situazioni
personali si instaurano.
La meta finale del libro sarà il sospirato,
atteso, negletto, rifiutato e poi celebrato matrimonio tra Katie e Roy. Nel
mezzo, Jean che si consola dell’autismo ipocondriaco del marito con l’amico
Davide. Consolazione che George, inopinatamente, vedrà consumarsi, e che lo
getterà nello sconforto. Perché si sente malato, ed ora anche abbandonato. Si
rinchiude nel suo mondo di auto sofferenza, sia con atteggiamenti
comprensibili, come la paura di andare dal medico, sia con improbabili salti di
tono. Quando si dimentica chi sia e dove sia e si comporta come se… Ma non vi
dico come. Vediamo Jamie che non riesce a trovare il modo di comunicare con
Tony, avendo anche paura del giudizio, che mai ci sarà realmente, della sua
famiglia al suo essere omosessuale.
Haddon gira molto intorno alle paure sociali
di Jamie, riuscendo al fine, a farlo riscattare con una frase, unica e felice,
che riuscirà a dire a Tony. “Ti amo”. Una frase che, al contrario, la sorella
Katie non riesce a dire a Roy. Certo, Roy è un po’ rozzo, meno intellettuale
della famiglia Hall, a volte non in sintonia con quello che accade intorno. Ma
ha una grande pregio, che risalta in controluce. Una modestia verso sé stesso.
Sa di saper fare delle cose, e di non saper farne altre. Allora, è sulle prime
che si butta. In particolare, riuscendo a trovare un modo di essere, di
giocare, di comunicare con Jacob, mostrando quindi a Katie che non sempre
l’intelligenza è nelle parole. A volte, e con più efficacia, è nei fatti.
Ma poi, il pallino torna sempre su George,
sulle sensazioni, che capisco fino in fondo, di chi sente di non essere in
perfetta forma. Lo è stato fino a pochi anni prima, quando lavorava e pensava
ad altro. Ora, pensionato, e forse non proprio convinto di quello che fa, ha
troppo tempo per guardare il proprio ombelico. Certo, pensa di poter costruirsi
uno studio dove riprendere a disegnare come faceva da ragazzo. Si accorge però
che non è più capace, non ha più quella mano, quell’occhio. La malattia, vera e
finta, lo trascina verso uno stato mentale da cui potrebbe non riemergere. Ci
vorranno momenti forti, sensazioni forti, legami ugualmente forti, sebbene a
volte oscurati, per permettere a George di fare un bagno di realtà con sé
stesso. Arriveremo quindi alle nozze, alla catarsi.
Riuscirà Jamie ad essere leale verso i suoi
genitori e verso Tony? Riuscirà Katie e comprendere la differenza tra Roy e
Graham? Riuscirà Jean a vedere nella giusta luce sia Davide che George?
Riuscirà George a capire che c’è sempre una via d’uscita, anche alla paura di
morire? Cari amici ipocondriaci, leggetene che sarà utile a voi come a me, per
essere sinceri con sé stessi. Una sincerità di una difficoltà a volte
insormontabile. Tuttavia, noi pensionati con delle idee in testa, dobbiamo
riuscirci.
“Ed era bello, lì. Perché lui riusciva
anche a fare silenzio. E nella sua esperienza erano pochissimi gli uomini
capaci di fare silenzio.” (84)
Leonard
Gardner “Città amara” Repubblica Duemila 19 euro 9,90
[A:
14/05/2018 – I: 15/06/2020 – T: 16/06/2020] - &&&
e ½
[tit. or.: Fat City; ling. or.: inglese; pagine: 172; anno 1969]
Tutto
sommato, un’altra buona uscita della collana di Repubblica dedicata ai libri
del Novecento che sono stati riscoperti nel Duemila. Gardner non è un autore
particolarmente noto, né particolarmente prolifico. Anzi, è praticamente “one
book writer”, di questo che è un buon libro, e che diventò anche un buon film
nelle mani di John Huston.
Gardner
è giornalista e soprattutto sceneggiatore televisivo, con un grande contributo
alla serie “NYPD”. Ha anche una divertente particolarità numerologica: è nato
il 3 novembre 1933, quindi 3/11/33 (cioè giorno per mese uguale anno). Ma
questo è solo un mio piacere mentale. Come capriccio è stato andare a cercare
il perché del titolo. Ora, l’italiano mi risulta leggermente oscuro, mentre
l’inglese ha un duplice significato. Da un lato, “Fat City” è uno degli antichi
soprannomi di Stockton, la città nativa di Gardner, nonché ambientazione del
libro. Ma ancor più densa di significati è la derivazione del gergo negro.
Quando nello slang dici che vuoi andare a “Fat City”, significa che vuoi fare
una bella vita, piena di soldi e di successo.
Esattamente
il contrario di quanto capita ai due protagonisti della storia: Billy Tully e Ernie
Munger. Gardner segue le loro vicende, inserendole in un ambiente che conosce
bene, quello della boxe di periferia, delle palestre scalcinate e dei pugili
che si battono, vivono e muoiono per poche centinaia di dollari ad incontri.
Nella
memoria un inciso, che mentre lì a Stockton si combatte per una cena, sulla
grande scena ci sono fior di pugili che vivono a fior di dollari (nel ’69
campione del mondo dei pesi massimi era un certo Mohammed Alì). Ma torniamo a
Stockton.
Come
detto abbiamo i due protagonisti la cui storia si intreccia, si interseca, e
poi si lascia, sempre con quel fondo di amarezza e disperazione che permea
tutto il romanzo. Billy ha quasi trent’anni, ha fatto una buona carriera
pugilistica, arrivando quasi ad incontri internazionali. Poi si è sposato, si è
rilassato, ha cominciato a bere. Una volta lasciato dalla moglie, non riesce
più a risalire la china. Prova ad allenarsi di nuovo, ed in palestra si
incontra con Ernie. Nel più giovane intravede possibilità e lo spinge sul ring.
Assistiamo così ancora una volta ai due paralleli. Entrambi sul ring e sulla
vita.
Billy
che tra un incontro e l’altro deve trovare il modo di sopravvivere, visto che
tutti i soldi guadagnati quando era “in carriera” li ha dilapidati con la bella
che lo ha lasciato. Vediamo quindi il caporalato californiano per le più infime
raccolte nei campi, con accenni che ricordano pagine di Steinbeck. Billy prova
ad essere forte come i messicani, come i neri, ma è bianco e fuori allenamento.
E poi, appena ha un soldo, si attacca alla bottiglia.
Dall’altra
parte Ernie è un ventenne che esemplifica alla meglio il giovane senza meta
americano. Poca cultura (anche se studiare non è sempre un toccasana, puoi
essere capace anche nei mestieri, che diamine), un lavoro che non gratifica
nulla (addetto notturno ad una pompa di benzina), una ragazza. Gardner riesce
con pochi tratti anche a farci vedere bene il rapporto tra Ernie e la sua
ragazza. Lui vorrebbe solo divertirsi, e magari fare un po’ di sesso. A lei va
bene, all’inizio. Poi vuole di più. In quella provincia dove al massimo si
segue la televisione, lei fa un po’ il broncio, fa un po’ qualche moina. C’è
affetto (non sembra certo amore). Ed ovviamente lei rimane incinta. Ed
ovviamente lui si sente costretto alle nozze. Anche qui, una vera cartolina
americana: matrimonio, e poi si avvertono i genitori, che sono altrove. Ernie
allora deve anche trovare più soldi, e prova anche a passare tra i pugili
semi-professionisti.
Stiamo
comunque sempre lì, tra il ring e il pub, tra le macchine parcheggiate e le
camminate nella sera. Lo scenario potrebbe essere anche più pugilistico. Ed
anche più desolante. Lo straniamento, la capacità di renderci amare queste
città, è il capovolgimento del classico quasi finale delle storie di pugni.
Dove il pugile viene sconfitto e comincia la sua inarrestabile china. Verso la
fine sia Ernie che Billy hanno incontri importanti, per loro. Ma loro vincono,
anche se questo non basta ad invertire la crisi che vivono dentro. Vincono, ma
non sono contenti. Vincono e l’unico risultato è che bevono un po’ di più,
aspettando altro. Aspettando un Godot che non sanno di aspettare, e che non
riconosceranno se venisse.
Gardner
riesce in questo praticamente isolato romanzo (come detto, è sceneggiatore ed
altro, ma non risultano altre prove di sostanza) a darci una fotografia
americana basata su perdenti ed emarginati, che rimangono tali in qualsiasi
situazione. Una totale mancanza di prospettive. Sarà un libro isolato, ma è ben
scritto, e raggiunge il centro dello stomaco con i suoi pugni, fuori e dentro
il ring. Ed anche con il film, che forse non ha avuto una grande risonanza, ma
che Huston riesce a rendere interessante, così come la recitazione di Jeff
Bridges nella parte di Billy.
Terza
uscita di questo mese anomalmente caldo ed un allegato che gira intorno
all’insicurezza cronica.
Comunque,
non ci possiamo dimenticare che oggi è un giorno molto “simmetrico”, anche se
non completamente. Un bel 20/09/2020 , con quella sfilza di 20 che speriamo
siano di auspicio e non solo di ricordo di una brecci di 150 anni fa (anche se
una breccia fondamentale).
Ma rimaniamo sul vago, sui possibili week-end di relax e, magari, dopo aver parlato ai miei amici avventurieri, ipotizzare che si possa ripartire prima di quanto pensi Fauci.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
SETTEMBRE 2020
Visto che stiamo anche sotto gli internazionali di caldo, parliamo
pure di insicurezza.
BLISTER
D’AUTOSTIMA 4
Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione.
Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di
eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.
Andre Agassi “Open”
Paolo Giordano “La solitudine dei
numeri primi”
Chi
è affetto da insicurezza cronica è perseguitato dalla sensazione di essere un perdente
e l’ansia di un’eventuale sconfitta esercita una tale pressione sulla sua
autostima da inibire del tutto la volontà di affrontare qualunque sfida. Per
contrastare rapidamente questi fastidiosi sintomi, suggerisco di inghiottire la
seguente pillola: «Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una
sconfitta» perché «vincere non cambia niente». Se a formularla fosse una
persona qualunque, non ci sarebbe niente di speciale. Ma se a metterla nero su
bianco in una brillante autobiografia è uno dei più grandi campioni di tennis
di tutti i tempi, uno che ha vinto tutto quello che si poteva vincere, è
un’altra storia. È la storia di Andre Agassi. Chi ne ha seguito la carriera e
le vicende personali sa che il tennista americano non è solo l’uomo dei record
e la sua carriera è stata un continuo sali e scendi tra schiaccianti vittorie e
cocenti sconfitte, sul campo e nella vita, in un alternarsi di grandi imprese e
altrettante delusioni. Personaggio decisamente particolare. Agassi ha portato
scompiglio nell’inflessibile e solenne mondo del tennis con il suo look
anticonvenzionale (capelli da punk, orecchini, pantaloncini jeans, uniche
scelte ribelli in una vita di obblighi), i chiacchierati matrimoni (con Brooke
Shields e Steffi Graf, l’amore della sua vita) e le sconcertanti confessioni,
tra cui l’ammissione di aver fatto uso di droghe e di par-nicchino. Sono anche
queste scomode verità, coraggiosamente svelate al mondo, a rendere terapeutica
e salutare la lettura di “Open. La mia storia”. Ma la rivelazione più
scioccante è quella che sintetizza in una frase tutto il dramma di Agassi:
«Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione
oscura e segreta, l’ho sempre odiato». Tutti immaginiamo che una persona che
per lavoro "gioca (e gioca da campione) e viene pagata (anche bene) per
fare ciò che per il resto dell’umanità è uno sport, come minimo debba amare
alla follia il suo lavoro ed essere l’uomo più felice del mondo. E invece no,
può anche non essere così. Scopriamo allora un’infanzia segnata da un padre
padrone, narcisista, rabbioso e torturatore che lo costringeva a colpire 2.500
palle al giorno convinto che solo così sarebbe stato imbattibile. Insieme al
talento Agassi cova fin da piccolo un sentimento che non lo abbandonerà mai: il
conflitto tra ciò che vuole e ciò che fa. Una questione che tormenta molti di
noi e dalla quale scaturisce quell’insoddisfazione che può avvelenare, più o
meno lentamente e letalmente, una vita intera. In fondo tutti, anche se in modo
differente e meno plateale, viviamo come il campione, costantemente sotto
pressione, con gli occhi di familiari, amici, colleghi e conoscenti puntati
addosso, sempre in sfida con noi stessi per soddisfare le aspettative degli
altri prima che le nostre, sforzandoci di essere sempre vincenti perché perdere
è da sfigati. In sostanza ci ritroviamo tutti dietro lo stesso bancone ad
agitare un cocktail micidiale a base di ricerca di perfezione e autodistruzione
(ovvero le due facce della stessa medaglia). Certo, la maggior parte di noi non
vive sotto i riflettori, ma non per questo la pressione e la paura del
fallimento sono meno forti, né meno pericolosa è la solitudine che ne consegue.
La nostra è probabilmente la “solitudine dei numeri primi” (ne approfitto per
dire che il romanzo omonimo di Paolo Giordano è un rimedio forte per curare
tutti i disagi derivanti dalla solitudine esistenziale) mentre quella di Agassi
è la solitudine del numero uno, ma la sostanza non cambia. Anche chi vive sotto
il peso della notorietà può passare metà della vita a domandarsi chi sia, anche
un campione piange, è agitato, ha paura, è pieno di manie e dolori (la
descrizione del suo faticoso risveglio mattutino, con il corpo che si ribella
in un coro polifonico di dolori e la sensazione di avere novantasei anni quando
non ne ha neanche quaranta, è un potente antinfiammatorio che allevia ogni
eventuale acciacco e rinforza la convinzione di ogni pigro cronico che troppo
sport fa davvero male!). L’originale sincerità di Agassi, i suoi ricordi e le
sue riflessioni, riempiono le pagine di questo memoir che si legge con la
stessa ipnotica attenzione e trepidazione con cui si segue una finale di
tennis, rimbalzando da una pagina all’altra in un ritratto senza veli (e peli
sulla lingua) in cui con ironia corrosiva, autoconsapevolezza, malinconia e
umiltà, il campione passa in rassegna se stesso, «sconfitte, vittorie,
rivalità, capricci, assegni, ragazze, tradimenti, giornalisti, mogli, bambini,
divise, lettere di fan, animosità e sbornie tristi».
È
un errore pensare che “Open” sia una lettura della serie “anche i ricchi
piangono, solo che si soffiano il naso con fazzoletti di seta”, che la
sofferenza del campione sia il prezzo da pagare al successo e che la sua storia
non possa in alcun modo farci stare meglio, perché, come ha scritto Alessandro
Barrico, «quella a cui si assiste è un’unica, grande, affascinante partita
giocata da un ragazzo contro il buco nero che si porta dentro: che poi è la
stessa partita che giochiamo tutti, lo si voglia o no». La storia del campione
diventa quella di un uomo, di ogni uomo alle prese con la vita perché «ogni
match è una vita in miniatura». L’esperienza di Andre Agassi aiuta a riempire
eventuali buchi neri esistenziali, facilitando il recupero di un equilibrio tra
l’insoddisfazione e il senso d’inadeguatezza che, come dice il campione, rende
ugualmente amare le vittorie come le sconfitte. Quando vi sentite sotto
pressione, terrorizzati di non essere all’altezza delle aspettative altrui,
bloccati dalla paura di fallire, stanchi di competere, gareggiare e rischiare
di perdere, “Open” è un valido integratore di sali minerali per ritrovare un
corretto tono psicofisico. Calandoci nei panni di Agassi, indossando le sue
scarpe e facendo quattro passi con lui (per dirla come Atticus Finch de “Il
buio oltre la siepe”), scopriamo che in quelle scarpe da record si può stare
anche parecchio scomodi (fanno venire le vesciche, anche al cervello) e che
terrore, infelicità, panico e agitazione possono tormentare perfino un numero
uno. Il farmaco è anche utile per contrastare i danni causati dalla
competizione che, quando degenera, rischia di sconfinare nell’odio e «l’odio
[mi] mette in ginocchio, l’amore [mi] fa alzare in piedi». Per prevenire i dolori
di schiena causati da una quotidianità eccessivamente pesante, consiglio
l’assunzione di questa compressa di saggezza: «La vita ti getta tra i piedi
qualsiasi cosa, tranne forse il lavello della cucina, e alla fine anche quello.
Sta a te evitare gli ostacoli. Se lasci che ti fermino o ti distraggano, non
stai facendo il tuo dovere, e non farlo ti provocherà dei rimpianti che ti
paralizzeranno più di una schiena malandata». Il farmaco offre un immediato
sollievo anche in caso si fosse totalmente negati per il tennis (e qualsiasi
altro sport, compreso il ping-pong), provocando una piacevole sensazione di
gratitudine nei confronti dei genitori che se ne sono fatti una ragione. Grazie
alla sua capacità di contrastare i danni provocati dall’ossessiva ricerca di
perfezionismo (da considerarsi una delle principali cause di insoddisfazione
cronica e infelicità), il libro può essere d’aiuto a genitori troppo esigenti e
competitivi che, spinti da frustrazione e senso di rivalsa, tendono a
confondere le vittorie dei figli con la loro felicità. Tutto sommato essere una
schiappa ha anche i suoi vantaggi. Campione o schiappa, però, Open ci ricorda
che la partita con noi stessi è sempre aperta. E tocca giocarla al meglio, con
coraggio e consapevolezza.
Se,
pur appassionandovi alle alterne grazie e disgrazie di Agassi, durante la
lettura sentite un dolorino dalle parti del fegato causato da una leggera forma
d’invidia verso un campione del tennis che scrive anche dannatamente bene
(cavoli ce le ha tutte lui, meno male che è pelato!) potete alleviare il
fastidio con la consapevolezza che questa sfida letteraria è un match a due che
Andre ha giocato con il premio Pulitzer J.R. Moehringer.
Avvertenza:
al termine della lettura, i lettori più sensibili potrebbero non essere più in
grado di assistere a una partita di tennis con la stessa spensieratezza.
Un
consiglio: anche quella con il passato è una partita sempre aperta e così, a
quattro anni da “Open”, il padre di Agassi ha pubblicato la sua versione dei
fatti in un’autobiografia scritta con Dominio Cobello: “Indoor. La nostra
storia”. Se vi immaginate un mea culpa, siete fuori strada perché il
padre-padrone rifarebbe tutto allo stesso modo e non si dichiara pentito di
niente. Il suo unico peccato, dice, è stato quello di amare i figli e aiutarli
a vincere. Così è, se vi pare.
A
proposito di padri e figli, Agassi spera che per i suoi bambini “Open” sia «uno
dei molti libri che gli daranno conforto, guida, piacere. Ho scoperto tardi la
magia dei libri. Dei miei errori che vorrei che i miei figli evitassero, questo
è quasi in cima alla lista». “Open” garantisce conforto, guida e piacere a
tutti gli inguaribili lettori.
Commenti
Due libri pieni di rimandi, non sempre bellissimi, non
sempre condivisi. Ma due libri regalati, e quindi con il piacere della loro
ricezione.
Andre Agassi “Open.
La mia storia” Einaudi s.p. (regalo di ConAllegria)
[pubblicato il 24 novembre 2013]
Cominciai
a sentir parlare di questo libro il 13 novembre del 2011, quando, nella pagina
domenicale di Repubblica, Alessandro Baricco cominciò il suo anno di recensioni
(quello poi uscito in libro, anch’esso dolce regalo, con il titolo “Una certa
idea del mondo”, e che è quella che vi sto proponendo in tutti questi anni, con
le mie trame; forse non una certa, ma di certo una mia idea del mondo).
E
lo cominciò proprio con questo libro, che divenne presto un best-seller, ed
ora, due anni dopo, mi è stato regalato dal mitico Roberto (quello allegro, ah
ah) in cambio di tre bottiglie di birra perdutesi nelle Poste. E, a lettura
effettuata, mi trovo (abbastanza) in accordo sia con il piacere di chi me l’ha
donata, sia con le parole di Baricco. Anche se non completamente, che io invece
non riesco a scordarmi che il libro l’ha scritto J. R. Moehringer, premio
Pulitzer del 2000; certo (e Andre lo dice nei ringraziamenti finali), loro si
sono messi a parlare davanti ad un registratore. Ed è lì che Agassi ha tirato
fuori la sua storia. Ma dalle parole al libro c’è voluto il filtro potente del
“ghostwriter”, che ne ha ripulito le frasi, asciugato i sensi, allentato e
ristretto nei punti giusti, donandoci una confezione preziosa. Una confezione
in cui sentiamo “parlare” Agassi e raccontarci la sua vita, mentre leggiamo
quello che ne scrive il padrone della penna. Quindi, fatti gli auguri al
redattore, veniamo al libro “in sé”.
Che
ovviamente è appassionante, per uno sportivo “laterale” come me, sia sul lato
prettamente sportivo (anche se non indulge in troppi tecnicismi) sia sul lato
umano, sulla vicenda che porta il piccolo Andre dal cortile del Nevada ai
grandi cortili del tennis ed alle grandi praterie della vita. Un ribelle, si
diceva quando era nel pieno delle attività. Uno che perdeva più punti mandando
a quel paese gli arbitri delle partite che direttamente dall’avversario. Scopriamo
così che, proprio da quelle costrizioni infantili, dove a sette anni il padre
lo costringe a colpire per ore le palle da tennis sputate da una macchina,
arriva ciò che non ha mai espresso: l’odio per il tennis. E poi per il padre, e
le ribellioni, verso la famiglia ed il mondo. Ma tutte queste ribellioni (che
seguiamo con arguzia sulla carta) lo porteranno poi a confessare, verso la fine
della carriera, che in fondo, il tennis, è l’unica cosa che sa fare per
guadagnarsi la vita.
Intanto
lo vediamo crescere, portando avanti le rivincite del padre (un profugo
iraniano, eliminato come pugile al primo turno delle Olimpiadi di Londra e di
Helsinki). Poi passare all’accademia tennistica (quasi lager) del famigerato
Nick Bollettieri. E cominciare a vincere, perché di tennis è bravo. Ma anche
fare “lo strano”: capelli da mohicano, mechati, hot pants jeans, orecchino. Ed
anche a contornarsi a poco a poco di persone sempre più simili a lui: il
fratello, l’amico Perry, l’allenatore Brad (Gilbert, per chi non lo conoscesse
un tennista di valore), il preparatore atletico Gil. Per ognuno c’è una storia,
c’è un momento della vita di Andre che viene fuori (il piacere di mangiare McD,
la scivolata verso qualche anfetamina, poi passata, i grandi sperperi di
denaro, poi rientrati). Persone piene di sensi (generalmente buoni) e di
sensibilità.
Seguiamo
anche la sua grande storia d’amore con Brooke Shields, che probabilmente ancora
risente degli strascichi ribelli giovanili. E poi la ricerca, la conquista e la
vita piacevole quando confessa a sé stesso di amare Stefanie Graff. Che
corteggia, che sposa, con cui fa due figli. E con la quale mette su una serie
di iniziative benefiche per dedicarsi “agli altri”. Ecco, qui, con Baricco, mi
trovo d’accordo sul fatto che sia un po’ troppo “melenso” il finale buonista
(il ribelle che si sposa, mette famiglia e scopre l’altruismo). Certo, è così,
ed è questo che vediamo in Agassi (anche fuori dal libro).
Ma
possibile che tutto il resto si appiani miracolosamente? Che faccia la pace con
il padre? Che non pensi di mandare a quel paese un giorno sì e l’altro puro
Pete Sampras o Boris Becker? O almeno i giornalisti che continuano a rompere.
Ma nel complesso, è una bella storia, proprio per far vedere una storia di chi
cerca sé stesso, lo trova, e trova la sua vita. Prima o poi.
“A
pochi di noi è concessa la grazia di conoscere sé stessi, e finché non ci riusciamo,
la cosa migliore che possiamo fare è essere coerenti.” (260)
Paolo Giordano “La
solitudine dei numeri primi” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)
[pubblicato il 25 dicembre 2011]
Ecco un altro premiato che viene dalla fucina dei prestiti
di Ale. Qui lo Strega lo vince il 26enne Giordano con questo libro d’esordio,
che solo ora, lasciatolo decantare come un bel vino di corpo, ho letto e, devo
dire, discretamente gustato. Ci sono degli spunti interessanti. C’è una
scrittura sapiente ed accattivante. C‘è tanta tristezza (leggendolo mi veniva
in mente il titolo di uno dei libri di Peter Handke “Infelicità senza
desideri”). Ci sono anche situazioni irrisolte ed una visione globalmente
funerea della vita adulta che un po’ mi lascia perplesso.
Lo spunto interessante è quello che fa da filo conduttore e
materia prima della nascita del libro. Giordano è un fisico, e quindi sa
maneggiare anche i numeri (non come un matematico, certo) e ci presenta le
storie dei due protagonisti come fossero numeri primi gemelli. Ora, penso
(spero) che tutti sappiano cosa siano i numeri primi. Quelli gemelli sono i
numeri primi separati solo da un numero (tipo 5 e 7, 11 e 13 o che so 1997 e
1999). Numeri primi già di per sé singolari, perché isolati, come Mattia e
Alice. I primi gemelli poi sono vicini, ma non si toccano mai. E Mattia ed
Alice sono singolari.
Lei, vittima di un incidente di sci a sette anni, rimane un
po’ claudicante, e quel suo passo mancante la fa rimanere sempre un po’ in
ritardo. Con le compagne di scuola sicure di sé e ben tronfie. Con le decisioni
della vita, il lavoro, lo studio, l’amore. Sarà sempre in cerca di non pesare
mai sulla terra, tanto da viverla anoressicamente (e non solo in senso
metaforico).
Lui che vede scomparire la sorella gemella nel nulla. Morta?
Rapita? Chissà? Ma il suo interno senso di colpa di averla lasciata sola non lo
abbandonerà. E dovrà rivolgersi alle cose materiali, ferme, della vita stessa,
per continuare a vivere. Per questo studia (i libri non tradiscono, dice). Per
questo si dedica ai numeri, e farà il matematico in un’Università del Nord
Europa. Giordano segue le loro vite parallele dai sette ai trentadue anni. Che
si incrociano, si mescolano, forse trovano dei sensi. Ma sono loro stessi
gemelli e non usciranno mai dalle loro singolarità in questo scarsamente aiutati
dagli adulti.
In primo luogo, dai genitori che non li capiscono, che non
li aiutano, che rimangono figure sterili come a dire che si possono avere
sprazzi di lucidità e di gioia da adolescenti, ma arrivati all’età adulta non
si può far altro che mettersi in un angolo, magari leggere il giornale e
guardare la tv. Ecco, questa visione della vita è quella che meno mi convince,
che meno mi prende. Possibile che non ci sia nessuno che si rimbocchi le
maniche e si sporchi le mani in questa storia che sta sempre lì lì per
diventare altro, per svoltare verso altipiani sereni. E non lo fa mai.
Anche quando sembra che Alice ritrovi Michela scomparsa.
Sarà vero? Non lo sapremo mai, che Alice stessa si tira indietro. E Mattia non
trova la forza di uscire dal suo bozzolo per fare una domanda cruciale. La
domanda che ci aspettiamo dalle prime pagine. E quindi tutto scorre, con una
dolenza di fondo che lascia molti amari in bocca. Ma la scrittura è buona,
coinvolgente, tanto che dopo le prime cinquanta pagine un po’ direi normali, mi
ha preso nella morsa di seguire le loro vicende. E sono andato avanti tutta la
notte, senza riuscire a staccarmi. Ecco, questo è senz’altro un merito
dell’autore.
Chiuso il libro, mi frullano ancora nella testa loro due, e
quello che faranno poi. Anche questo, un merito dei buoni libri. Non so,
vedremo poi, se Giordano riuscirà a produrre nuove cose, o rimarrà chiuso nel
limbo degli autori “primi” e premiati, come Piperno per capirci. Aspettiamo
fiduciosi.
“Passavo così tanto tempo da solo che una persona normale
sarebbe impazzita nel giro di un mese.” (207)
“Alzò gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro
del soffitto, spenta. Si era fulminata appena un mese dopo il suo arrivo e lui
non l’aveva mai sostituita. [Erano sette anni che] mangiava ancora con la luce
accesa nell’altra stanza.” (208)
Finalino
D’accordo con l’inserimento di Agassi. Mentre penso che
Giordano poteva anche essere tralasciato.
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