lunedì 14 settembre 2020

Spagnolo vs Inglese - 13 settembre 2020

Anche se ad onor del vero, sarebbe scrittrici in lingua spagnola contro scrittrici di lingua inglese. Questa volta, il confronto è in favore delle ispaniche, anche se di poco ed anche se non in modo esaltante. Trascinati da una buona prova di Alicia Gimenez-Bartlet e contenuti da un decente scrittura della guatemalteca Anabella Giracca, si fanno preferire comunque a due oneste, leggibili e da leggere prove della multinazionale Elizabeth Von Arnim (australiana, inglese, tedesca) e dalla molto osannata televisivamente Margaret Atwood.

Elizabeth Von Arnim “Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)

[A: 25/09/2017 – I: 25/03/2020 – T: 27/03/2020] - && e ¾

[tit. or.: The Enchanted April; ling. or.: inglese; pagine: 287; anno 1922]

Un libro piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia dalle libropeute per cure dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono felici. E finalmente letto.

Scoprendo tra l’altro un personaggio interessante, questa Mary Annette Beauchamp, nata nel 1866 in Australia, che sposa a 25 anni il conte Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt (in seguito Cosima Wagner), vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce E.M. Forster e Hugo Walpole. Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Unione poco felice per il carattere impossibile di lui, tanto che nel 1919 si separa da lui, conducendo una vita libera e piena di libri. Libera con molti amanti, anche più giovani come l’editore Alexander Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54) o coetanei, ma molto impegnati, come lo scrittore H. G. Wells. E tanti libri, almeno una trentina tra il 1898 ed il 1940.

Un personaggio interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente usa il cognome del primo marito, ma dopo il grande successo del suo primo libro “Il giardino di Elizabeth”, inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth come nome. Infine, era anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto retroterra si sentirà molto nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho letto). Ma anche avrà riflessi in questo gradevole libro quasi centenario.

Un libro quasi impalpabile, dove succede poco e nulla, ma questo poco e nulla è reso con una dolce grazia di scrittura, ed una specie di salita per una scala a chiocciola, al fine della quale, tutti saranno cambiati. In meglio (certo, un po’ di ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale). Grazie alla magia del posto, un castello ligure, posto in quel di San Salvatore (esistente località tra Genova e La Spezia) che però nasconde il vero luogo dove l’autrice pensò e scrisse il libro, il castello Brown di Portofino.

Nel castello di San Salvatore convergono quattro donne molto diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot, sposa di Frederik, archivista al British, più noto con il nome di Ferdinand Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed imperterrito donnaiolo, Mrs. Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e frequentatrice a suo tempo dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady Caroline Dester, giovane aristocratica stufa dell’elegante vita londinese, nonché della sua bellezza che attira troppo mosconi intorno a lei.

Il motore dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono l’annuncio del castello, decidono di regalarsi una vacanza, ma, non essendo molto abbienti, trovano le altre due signore per dividere le spese. Lotty è angustiata dalla sua difficoltà da rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose, invece, non accetta gli scritti del marito e si dedica ad opere di carità. Una volta lontani dalla brumosa Londra, le quattro donne, ognuna con i propri tempi, sembrano rifiorire. Anche qui il motore di tutto è Lotty, con le sue uscite sempre fuori luogo, che tuttavia smuovono le altre, le costringono a pensare, in fondo mettono anche allegria. Non solo le donne diventano più socievoli, ma accettano altri difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh, che sulla riviera ligure scopre la gioia di vivere della moglie, e ne è contagiato. Poi Frederik che dopo alcune sbandate, si raddrizza, anche perché Rose accetta le sue scritture, ed i due sembrano destinati, finalmente, a comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il proprietario del castello che stringe una amicizia foriera di possibili futuri con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà, accettando la possibilità che, per maturare nella vita, si possa anche cambiare.

Una favola, certo. Un improbabile idillio, anche. Ma la bellezza e la bravura del testo, è quella di presentare i vari caratteri delle donne, magari mutuando l’ambiente che la scrittrice ben conosceva. Non a caso, le tre giovani donne sembreranno avere futuri migliori di quelli che avevano all’inizio del libro. Mentre l’anziana signora sembra invece adombrare gli stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di quel primo libro e del suo amore per la natura, non manca di descrivere con pennellate gradevoli, i giardini del castello e tutte le sfumature bucoliche che lo caratterizzano. Non prende molto, è vero, come tensione verso nuovi orizzonti, essendo, tuttavia, uno specchio di un certo tipo di spaccato social-culturale inglese. Amante delle belle cose, e del sole italiano. Non è un caso che da lì a trenta anni, gli inglesi andranno a colonizzare le colline toscane. Finisco ribadendo che, per l’appunto, è un libro datato, ma che rilassa la mente in tempi di tensione. E quali siano ora questi tempi ben lo sappiamo.

“Mancare a qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi motivo, era comunque meglio della solitudine totale di non mancare a nessuno.” (44)

“Cosa curiosa, sentiva il desiderio di pensare, e di ciò era stupita più di chiunque altro. Mai prima d’allora aveva provato quel desiderio.” (111)

“Ripeté a sé stessa … ora mi metto a pensare, ma non è facile pensare se non lo si è mai fatto prima.” (169)

“Bisognerebbe continuare … a cambiare, per quanto vecchi si diventi.” (213)

Anabella Giracca “Demasiados secretos” Punto de lectura euro 15

[A: 07/09/2019 – I: 05/04/2020 – T: 07/04/2020] - && --

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 217; anno 2009]

Come sapete, quando vado in giro per il mondo, cerco sempre (anche) qualche libro che mi leghi ancora per un po’ al viaggio ed alla terra che ho lasciato. Così, in questo penultimo viaggio del 2019, con un fantastico gruppo, ho percorso in lungo ed in largo il Guatemala, soprattutto pensando e passando per Antigua, una città che adoro. Alla fine, in aeroporto, prima della lunga traversata verso l’Europa, cercando libri, ho trovato solo questo di una scrittrice guatemalteca.

Giracca è una giovane che si occupa di linguistica e lavoro anche per l’UNESCO, che (da quanto ho letto) ha scritto tre o quattro libri, di cui questo è il primo. Lo spagnolo utilizzato è molto “sudamericano”, cioè molto meno complicato dello spagnolo di Spagna, che usa un tono più semplice e comprensibile. Alcuni punti li ho comunque dovuto rileggere, che il mio spagnolo è un poco arrugginito. L’impianto della storia però, pur con delle specificità guatemalteche, è molto legato a tutto un filone di letteratura sudamericana. Tanto che a volte sembra voler rifare il verso (senza ovviamente riuscirci) a certe scritture alla Garcia Marquez.

Storie di famiglie, storie nelle storie, punti tangenti ad un presupposto filone principale. Come se appunto, si seguisse da un lato l’idea di una grande saga familiare, che in effetti occupa tre generazioni. Dall’altro non si possa fare a meno di calarla in una realtà cruenta e militare, come molto spesso accadde nei paesi centro e sudamericani. Non sono un conoscitore di tutta la realtà locale, ma da quello che so, militari o meno, anche in Guatemala c’è stata una forte presenza politica repressiva al potere, ed una guerriglia, prima strisciante e poi palese, che ha dilaniato il paese. Non a caso, nel 1992 venne assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista e pacifista indigena Rigoberta Menchù.

Per tornare allo scritto, l’ossatura è data dalle vicende familiari delle famiglie Mateo e De la Rosa. Nella seconda ci sono Josefina e Rafael Felipe, i capostipiti, ed il loro figlio Javier. Nella prima c’è il padre Juan, e le sei figlie femmine, Elena, Matilde, Consuelo, Nina, Fatima e Cora. Le due famiglie si uniscono per lo sposalizio (forzato) tra Javier ed Elena, che, ancora adolescenti, dopo alcune tornate di sesso, rimangono “embarazatos”, come si dice in spagnolo. Così che Elena darà alla luce Marina (così chiamata perché nasce in riva al mare, ed il suo sarà sempre un odore di sale). Con l’intervento di lato della nutrice Eulalia, che Elena non ha latte.

Qui l’autrice ha il soprassalto “marqueziano”, dove ci racconta delle cinque sorelle, del modo in cui affrontano la vita, come si innamorano, di chi, di chi sposano e di chi non sposano, da chi avranno figli, ed altre amenità “da gossip”. Nonché di Eulalia, che sarà per sempre legata a Marina, e ne capirà la crescita e le pulsioni, anche da lontano. Con una parte “strana”, dovuta al fatto che la madre delle sei donzelle tradisce Juan, questi la caccia, ma dice che è morta, e seppellisce una bara con dentro dei sassi. Ma questo filone, direi familiare, viene ben presto affiancato anche dal filone “politico”. Che Juan Mateo è comunque in contrasto con il potere, mentre Rafael Felipe è sodale del Presidente. Juan mette su un giornale, scrive contro il Presidente, denuncia e forse cerca di mettere in piedi una qualche opposizione. Mal gliene incoglie, che viene preso e fucilato dai militari (faccio qualche semplificazione altrimenti sarebbe tutto tortuoso, che intervengono altri personaggi che sono poco interessanti nell’analisi complessiva). Dopo tutta una serie di passaggi, che benignamente tralascio, Marina si innamora di Agustin, che però è sposato e con figli, e la storia non avrà seguito.

Mentre avrà seguito il processo di maturazione di Marina, sulle orme del nonno Juan. Tanto che, però, come questo si sappiamo dalla storia recente, il paese si avvia alla lotta armata. Ovvio il posto che avranno sia Marina che Agustin, che la quarta di copertina cerca di imbrogliare le carte, ma che, seguendo il filo del racconto, non può che portare a certe conclusioni, un po’ scontate.

Sono stato contento di aver rivisto nella mente i monti intorno ad Antigua, il lago Atitlán, la costa atlantica con Puerto Barrios, laddove noi si stava non tanto lontano in quel di Livingston. Insomma, un omaggio alla memoria, non allo scritto, né all’autrice che spero si sia espressa meglio nelle altre sue opere.

“Pronto cerraron las fronteras para impedir el paso de la epidemia... impediron, por decreto, cualquier tipo de intimidad entre parejas para evitar el contagio. Todos los hogares fueron divididos en una habitacion para hombres y otra para mujeres.” (44) [Presto hanno chiuso i confini per impedire il passaggio dell'epidemia ... hanno impedito, con decreto, qualsiasi tipo di intimità tra le coppie per evitare il contagio. Tutte le case erano divise in una camera per gli uomini e una per le donne.] [si parla di altri tempi ed altri anni, che lo scritto è del 2009, ma noi, ora, lo capiamo meglio]

Alicia Giménez-Bartlett “Dove nessuno ti troverà” Sellerio euro 15

[A: 12/12/2017 – I: 27/05/2020 – T: 30/05/2020] - &&& --  

[tit. or.: Donde nadie te encuentre; ling. or.: spagnolo; pagine: 507; anno 2011]

Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia proprio il primo libro di Giménez-Bartlett che leggo dove non solo non è protagonista Pedra Delicado, ma non è neanche un giallo. È un robusto romanzo dedicato ad uno strano personaggio che attraversa molti anni della oscura storia spagnola nei giorni bui del franchismo. Ed è un’occasione per la scrittrice per dedicarsi ad alcuni temi interessanti: la Spagna degli anni ’50, l’amicizia, la solidarietà, la libertà, l’identità di genere.

Come altri libri di Alicia non gialli, c’è sempre una vena di “storicità” (a volte anche più di una vena). In questo caso la nostra valente e quasi settantenne scrittrice prende il via per raccontarci una grossa fetta della vita di Teresa Pla Meseguer, meglio nota come La Pastora, anche detta Teresot o Florencio.

Da tutta questa serie di nomi capite subito che è un personaggio complesso. Una persona che nasce tra i monti della Spagna, nel 1917, e non ha una sua identità di genere. Si scoprirà tardi nella sua vita che potrebbe essere di sesso maschile, ma con genitali non sviluppati, tanto che, al fine di evitarle vita difficile, la madre la registra come Teresa. Vedendo le foto in calce al libro ed in rete, si capisce che possa essere scambiata per qualsiasi cosa. Vive una vita sui monti, che certo non si andava a scuola a quel tempo. Poi, dopo la guerra, a fronte di insopportabili soprusi, si unisce a bande armate che cercano di resistere al franchismo. Diventa partigiana e resistente, anzi partigiano, che, per non essere comunque coinvolta in confusioni varie, decide di vestirsi sempre da uomo e di farsi chiamare Florencio. Effettua diverse azioni contro la guardia civile ed i collaborazionisti, riuscendo sempre a scappare, che i monti li conosce a memoria. Non a caso ottiene il soprannome di “La Pastora”.

Quando la Resistenza decide di gettare le armi e riparare in Francia, lei ed il suo sodale Francisco rimangono sui monti. Vengono loro attribuiti nefasti a bizzeffe, ma forse solo perché non sono franchisti e non si piegano. Dopo che anche Francisco muore, lei rimane solitaria ed intoccabile sui monti. La storia raccontata finisce così, raccontando, e vedremo come, il suo agire nei luoghi in cui nessuno potrà trovarla.

Sappiamo poi, da altro, che poco dopo verrà arrestata in Andorra, processata, condannata prima a morte, poi al carcere. Finirà graziata con la fine del franchismo, morendo solitaria ma indimenticata nel 2004, a 87 anni. Ma sarebbe troppo facile narrarne la biografia e basta (che giustamente Alicia rimanda al libro ben completo di José Calvo Segarra “Dal monte al mito”), così l’idea è di intrecciare narrati di Teresa con la ricerca dell’imprendibile Pastora da parte di uno psichiatra francese, interessato ad incontrarla e ad esplorare la sua “mente criminale”.

Lucien coinvolge nella ricerca un giornalista spagnolo, Carlos, e tutta una metà della narrazione si svolge sulle loro tracce, sulla ricerca territoriale che fanno, sugli incontri e sulle diverse peripezie. Le due narrazioni fittiziamente convergeranno, per rendere completa la narrazione (anche se la Pastora fu interrogata e narrò la sua storia solo una volta uscita dal carcere), finendo con un colpo di scena di cui vi lascio scoprire i dettagli.

Quello che interessa ad Alicia, e che rende a sua volta interessante la lettura, è il contorno. L’amicizia sia tra Lucien e Carlos sia tra Teresa e Francisco. Ma anche l’esposizione del clima che si respira in Spagna negli anni Cinquanta (la narrazione è ambientata da ottobre a fine dicembre del 1956). Dove il franchismo ormai impera, ma nei monti e nelle piccole cittadine si respirano anche altri climi. Non manca neanche, memori della Guerra Civile del ’36, un accenno alle divisioni della sinistra, che per molti anni non riuscirà a trovare un terreno comune di intervento.

Se da un lato poi c’è lo sguardo poliziesco della Guardia Civile e dei “carabineros”, dall’altro c’è l’umanità delle persone che comunque devono vivere la loro vita, in una povertà che le campagne povere accentuano a dismisura. Teresa incarna anche un sentimento di libertà, se non di ribellione, al fine di vivere in un mondo meno oppresso, pieno solo di piccoli elementi quotidiani: le pecore sui monti, la natura, i balli sull’aia, le piccole cose di non pessimo gusto. Ultimo, ma non meno importante strale all’arco della scrittrice è l’analisi dell’identità di genere. Teresa, secondo studio posteriori, sarebbe affetta da una forma di pseudoermafroditismo, in seguito ad una malformazione genitale. E quando l’autrice fa parlare Teresa in prima persona, molti sono i passaggi in cui lui/lei si interroga sulla sua identità, e soprattutto sul modo che il mondo circostante la vive. Di come non possa che subire continue umiliazioni, e di come solo nel rapporto con la natura possa sviluppare una serenità altrove introvata.

Tirando tutti i fili, politici, sociali e relazionali, rimane la domanda che riporto come prima citazione. Una domanda cui Alicia non risponde, giustamente, ed alla quale personalmente non saprei dare una risposta univoca. Forse, la normalità è solo vivere secondo la propria coscienza, rispettando sé stessi e gli altri. Alla fine, un libro interessante, anche se mi aspettavo un coinvolgimento emozionale maggiore.

“Molte volte … mi sono domandato che cosa sia normale e che cosa no, chi è pazzo e chi non lo è.” (158)

“Prima che gli uomini avvelenassero l’aria … questi posti erano i più belli del mondo. Niente tornerà più come prima.” (331)

Margaret Atwood “Il racconto dell’ancella” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 19/03/2018 – I: 18/06/2020 – T: 20/06/2020] - && e ¾

[tit. or.: The Handmaid’s Tale; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1985]

Uno degli ultimi libri provenienti dalla biblioteca genitoriale, prima che fosse dismessa per la dipartita anche di mamma. Un libro di cui si è parlato tanto e per tanti motivi. La fortunata serie televisiva, innanzi tutto, che non ho visto, ma che sembra sia stata fatta con cura e fedeltà al libro. Il personaggio Atwood, ora poco più che ottantenne, ma che riunisce in sé diversi interessanti caratteri.

Scrittrice, ma anche ambientalista fin dalla gioventù (e sostenitrice del partito verde locale). Canadese e non americana, e questo si sente nello scritto. Infine, attivista femminista ben nota in Nord America. L’opera di scrittura è molto improntata all’immaginazione di futuri non tanto rosei derivanti dalle non rosee situazioni attuali. Tant’è che spesso è ghettizzata nella letteratura fantascientifica. Ghetto da cui la farei uscire di corsa, perché, seppur non parli di scenari reali (non sono propriamente solo “fiction”) si dedica con passione a scenari distopici. Come ben si sa, la distopia è la rappresentazione di uno scenario immaginario, ma prevedibile dall’analisi del presente, soprattutto laddove prevalgono le componenti negative della società. Cioè, se l’utopia è la descrizione di un mondo ideale, la distopia ne è l’immagine cattiva.

Per venire al romanzo, che come vedete in alto è ben datato, anche la sua genesi, oltre che il tipo di mondo che si stava realizzando, ne spiegano i motivi portanti. La scrittrice comincia a scriverlo durante un soggiorno a Berlino Ovest. La presenza del Muro ed altre ben note restrizioni presenti all’epoca nella Germania degli anni Ottanta, si vedono ben presenti quindi nello scritto.

Ma ancor di più sono i rimandi al presente americano: l’avanzare del fondamentalismo religioso, il degrado sempre maggiore dell’ambiente, la deriva a destra dell’amministrazione Reagan. Vista la sua attenzione all’universo femminile, il fulcro della distopia è chiedersi cosa accadrebbe alle donne se le tendenze presenti in quegli anni ’80 si radicalizzassero, creando una situazione in cui l’America stessa possa diventare una potenza teocratica.

Se mi è consentito un salto logico, Atwood cerca di rappresentare un’America che diventa gestita da una cricca “tipo Iran”. La capacità della scrittrice, e l’angoscia che ne deriva, è l’alternarsi, anche solo nei ricordi, tra il mondo di prima e quello di poi. Prima è quanto noi conosciamo, e vediamo in quegli intarsi June con il marito Luke, la figlia Hannah e l’amica Moira. Sono tipici esemplari americani, tra la fine dell’Università e l’ingresso nel mercato del lavoro. Luke è divorziato, e Moira è lesbica. Ad un certo punto, c’è un colpo di stato, dove una banda di talebani fondamentalisti cattolici, uccide il Presidente, i membri del Congresso, e prende il potere.

Primo atto: le donne vengono relegate al ruolo di “produttrici di bambini”. Private dei conti in banca, le donne fertili assumono vari ruoli nella nuova società. Le altre, sterili, omosessuali o comunque non riproduttive, vengono uccise o esiliate nelle cosiddette “Colonie” (che dovrebbero essere la costa pacifica dell’America). Rimangono tre zone libere in America: il Canada, l’Alaska e le Hawaii. Il resto diviene lo “Stato di Galaad”, in onore del paladino che trovò il Santo Graal. Il mondo di Galaad è piramidalmente maschiocentrico. In cima i Comandanti, che detengono il potere. Poi le due ripartizioni. La maschile: gli Angeli, cioè i militari, gli Occhi, la polizia segreta, i Custodi, addetti ai lavori ancillari per i capi, ed in fondo gli uomini comuni. Dall’altro, l’universo femminile: le Mogli, spose dei Comandanti e generalmente sterili ma di bella presenza, le Ancelle, donne fertili assegnate ai Comandanti con fini riproduttivi, le Zie, monache-secondine, le Marte, che si occupano delle faccende domestiche e le Economogli, che sposano gli uomini comuni.

June viene presa mentre tenta di scappare in Canada, Luke viene probabilmente ucciso e la figlia Hannah sequestrata. June viene ricondizionata, e diventerà proprietà e presumibile fattrice del Comandante Fred. Le Ancelle perdono i loro nomi, e June diventerà “Difred”, cioè di proprietà di Fred. In inglese, era indicata come “Offred”, che ha anche un’assonanza con “offered”, cioè “offerta”. Che quello sono le Ancelle, offerte in sacrificio per riprodursi. Seguiamo, senza addentrarci, tutta la vita di un Ancella con gli occhi di Difred-June. I piccoli passi, le possibili scappatoie, il rapporto con il Comandante, con la Moglie di lui, con i servitori della casa.

Non è tanto importante (anche se ha un suo senso seguirlo e leggerne) quello che succede, quanto l’impianto generale, e l’esasperazione dei comportamenti delle persone, in questo mondo possibile ma non reale. Di una possibilità che, ora, a quasi quaranta anni di distanza, potrebbe ancora succedere. Le risorse si esauriscono, il coronavirus relega il mondo in ambienti chiusi e con poche possibili interazioni, il crescere di nazionalismi alla Trump. Insomma, il mondo delle Ancelle è ancora uno scenario possibile, che speriamo non si realizzi mai. Il testo poi è stato a lungo studiato, nelle sue varie composizioni, proprio per sviscerare i mal costumi ipotizzati, le loro premesse e le loro conseguenze.

Dal punto di vista di “social fiction” è un potente impianto da studiare. Personalmente, dal punto di vista della scrittura, l’ho invece trovato più debole, meno incisivo. Un tale scenario potrebbe facilmente diventare teatro ben più crudele. E le consolazioni che la Atwood distribuisce qua e là risultano appunto confortanti, come se, bene o male, ci si aspettasse sempre un lieto fine futuro. Che invece non è garantito. Mi sarebbe forse piaciuto di più se ne avessi letto ai tempi delle mie letture fantascientifiche, tra Asimov e Bradbury, tra Silverberg e Leiber, o forse solo tra Pohl e Kornbluth. Se non li conoscete, ne possiamo parlare.

“Guardiamo le statistiche, cara, valeva proprio la pena, d’innamorarsi? I matrimoni combinati hanno sempre funzionato altrettanto bene, se non meglio.” (224)

“Come tutti gli storici sanno, il passato è un grande spazio buio, colmo di echi.” (313)

Seconda uscita settembrina e quindi con allegato dedicato al tempo che passa ed al nostro rapporto con la sabbia che scivola nella clessidra.

Per il resto si rimane sempre lì, ad essere sospesi tra tante possibilità e poche certezze. Di queste l’unica è l’amicizia che mi circonda.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2020

Un mese in controtendenza, visto che, personalmente, sarei più propenso a soffrire se il tempo non passasse.

TEMPO CHE PASSA, INSOFFERENZA DEL

Dino Buzzati “Il deserto dei tartari”

Se la monotonia delle vostre giornate vi sembra eterna e invincibile, vi manca l’aria e non vedete via di fuga intorno, e tuttavia le ore scorrono una dietro l’altra inarrestabili, ricordatevi che non c’è libro che abbia rappresentato con più esattezza la disperazione del tempo de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Riprendetelo dallo scaffale dove lo avete riposto chissà quando, soffiate via la polvere che vi si sarà depositata sopra e collocatelo sul vostro comodino, accanto alla radio con il display digitale che vi sveglia ogni mattina.

Sfogliarne un capitolo, di tanto in tanto, o anche solo qualche pagina sarà un contravveleno sufficiente per allontanare l’ansia e i cattivi pensieri. Tornerete a indossare l’uniforme del giovane tenente Giovanni Drogo e a camminare lungo le stanze e le mura gialle della Fortezza Bastiani, nell’attesa di vedere apparire dal fondo della pianura un esercito nemico che non si paleserà mai. Ogni anno che passerà capirete sempre meglio che la sua storia, la vostra storia, è una gigantesca metafora della perdita della giovinezza. Come se l’esistenza fosse un avamposto sul confine tra un deserto e un altro, una lunga notte consumata ad aspettare qualcosa che non accadrà mai, una grande occasione, una seconda possibilità.

Quando ve ne accorgerete, buona parte della vita sarà già trascorsa. Ma vi conforterà sapere che questa è una malattia che abbiamo tutti. E che leggere, in fondo, è uno dei modi più interessanti e piacevoli di impiegare il tempo.

Bugiardino

Un libro immobile per un’immobilità dovuta al caldo ed al virus. Dove per vincere il tempo ci aggrappiamo a tutto, anche alla routine mascherina, salute, lavaggio, distanza.

Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari” Repubblica Novecento euro 4,90

[tramato il 20 maggio 2012]

Fino ad ora avevo letto solo racconti o raccolti di racconti del milanese d’adozione Dino Buzzati. E si era sempre sentito parlare, quasi come un eponimo, di questo deserto. Un titolo diventato emblema di stati fisici e psichici. Ora, letto, ha una sua ambivalenza. Da un lato conferma la forza interna dell’idea che diviene simbolo. Dall’altra è comunque un romanzo tutto di testa, che ci fa riflettere sulla vita (sulla nostra vita) ma non ha la forza di prendere altri sentimenti. Niente moti, niente tatto, niente gusto, e soprattutto, e men che mai, niente amore e sentimento. Anche la vicenda, se così possiamo chiamarla, è lineare ed asciutta.

Giovanni Drogo nominato tenente a venti anni, viene destinato alla famosa (famigerata) Fortezza Bastiani. L’ultimo baluardo di una civiltà, al di là del quale c’è una grande e desolata pianura, chiamata deserto, da dove si favoleggia che un tempo ci fu un’invasione di tartari. Fortezza piena di militari, ognuno con il suo compito, la sua routine, che aspettano succeda qualcosa. Essendo militari, aspettano una guerra (ma non è un romanzo guerrafondaio). Ed in quell’attesa, sperata e voluta, passano il tempo, aggrappandosi alla routine quotidiana. Drogo non lascia grandi affetti o amicizie in città, si accorge della desolazione del luogo, pensa di poter andare via. Ma dove? A poco a poco, con piccoli moti dell’anima, piccoli spostamenti progressivi del dispiacere, si incarta nel tempo della Fortezza. Si accende di volontà quando sembra che ci sia realmente un nemico. Ma prima sono solo gente che mette pali di confine. Poi un cavallo. Infine, operai che asfaltano e costruiscono una strada, che si arresta a pochi chilometri della fortezza.

Il tempo trascorre, e mentre Drogo pensa sempre che ci sia il modo, la possibilità di fare, anche se non muove un dito in quella direzione, ecco che sono passati più di trenta anni. Ormai è il comandante in seconda, quasi tutti sono andati via. Drogo si ammala e si avvia nella china verso la morte, e mentre pensa di rassegnarsi anche a questo, ecco che in effetti, arriva un nemico. Ma non è più il suo tempo, ha mancato anche questo, come ha mancato tutti i possibili appuntamenti della vita. E mentre altri ne saranno beneficiari, lui viene rimandato, incurabilmente malato, a casa.

Perché non è un libro guerrafondaio? Perché Buzzati utilizza la metafora della vita militare per rappresentare qualcosa ben ordinato, con delle regole, cui è facile adagiarsi senza domandare. Poteva scegliere altre vicende, altri scenari, ma questo, in realtà, è proprio il più desolante che si possa avere. Poteva rifarsi alla vita di uno scrivano che continua a scrivere e ricopiare pagine su pagine, senza capire cosa siano e perché. Penso alla prima parte di Bartleby di Melville o a Demetrio Pianelli (in quella magistrale interpretazione televisiva che ne diede Paolo Stoppa). Ma non è la storia che importa. Quello che importa è il simbolo. La routine cui aggrapparsi per uscire dal proprio nulla. Un nemico da inventare per darsi qualcosa cui sperare. La chiusura degli occhi e di tutti gli altri sensi di fronte alla vita, che per Buzzati è solitudine e priva di scopo. Talmente priva, che non vale la pena di sforzarsi per modificare il lento binario che porta fino alla morte. Una desolazione infinta. Trenta anni nella fortezza, senza neanche aver letto un libro, soltanto magari qualche partita a carte o a scacchi con gli altri tenenti. E chissà di cosa vivono poi quei soldati, che neanche hanno avuto un passato di cultura elementare come gli ufficiali. Come un sogno, vedo passare i settanta anni dalla scrittura di questo deserto, e vedo Drago e gli altri davanti ad un televisore a “godersi” Grandi Fratelli, Isole dei Famosi ed altre amenità.

Per fortuna, c’è altro nella vita. Forse la solitudine rimane, ma non si può (non si deve) fermare le rotelle del proprio cervello. Non dico che tutti, e sempre, abbiamo dei bei sogni davanti, e la voglia di rischiare per metterli in pratica. Ma tutti, tutti abbiamo la necessità, interiore, impellente, di dire fuori dal nostro sé. Non fosse altro, che per essere noi stessi. E non mi ribattete che spesso ci troviamo davanti muri invalicabili. E non è detto che si abbia la forza di scalarli, o di aggirarli. Non è quello che importa. È importante, per il proprio io, capire di essere davanti ad un muro e non far finta che ci sia sempre qualcuno (magari un tartaro del Nord) che ci viene a salvare. Tutto, ma non l’ignavia. Mi accorgo di aver fatto un lungo pistolone e forse anche fuori contesto, ma che volete, questo mi ha ispirato Buzzati. E questo vi ripropone il vostro narratore di trame.

“Si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.” (160)

“Ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo, egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito ad invecchiare.” (164)

Conclusioni

Ripeto, come detto altrove, che non sempre amo Buzzati. Ma qui è veramente l’emblema di quella che si vuole rappresentare.


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