Elizabeth Von Arnim
“Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 25/09/2017 – I: 25/03/2020 – T: 27/03/2020]
- && e ¾
[tit. or.: The Enchanted April; ling. or.: inglese; pagine: 287; anno 1922]
Un libro
piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia dalle libropeute per cure
dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono felici. E finalmente letto.
Scoprendo tra
l’altro un personaggio interessante, questa Mary Annette Beauchamp, nata nel
1866 in Australia, che sposa a 25 anni il conte Henning August von
Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt (in seguito Cosima Wagner),
vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce E.M. Forster e Hugo Walpole.
Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John Francis Stanley Russell, fratello
maggiore di Bertrand Russell. Unione poco felice per il carattere impossibile
di lui, tanto che nel 1919 si separa da lui, conducendo una vita libera e piena
di libri. Libera con molti amanti, anche più giovani come l’editore Alexander
Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54) o coetanei, ma molto impegnati, come lo
scrittore H. G. Wells. E tanti libri, almeno una trentina tra il 1898 ed il
1940.
Un personaggio
interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente usa il cognome del primo marito,
ma dopo il grande successo del suo primo libro “Il giardino di Elizabeth”,
inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth come nome. Infine, era
anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto retroterra si sentirà molto
nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho letto). Ma anche avrà riflessi
in questo gradevole libro quasi centenario.
Un libro quasi
impalpabile, dove succede poco e nulla, ma questo poco e nulla è reso con una
dolce grazia di scrittura, ed una specie di salita per una scala a chiocciola,
al fine della quale, tutti saranno cambiati. In meglio (certo, un po’ di
ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale). Grazie alla magia del posto, un
castello ligure, posto in quel di San Salvatore (esistente località tra Genova
e La Spezia) che però nasconde il vero luogo dove l’autrice pensò e scrisse il
libro, il castello Brown di Portofino.
Nel castello di
San Salvatore convergono quattro donne molto diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa
del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot,
sposa di Frederik, archivista al British, più noto con il nome di Ferdinand
Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed imperterrito donnaiolo, Mrs.
Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e frequentatrice a suo tempo
dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady Caroline Dester, giovane
aristocratica stufa dell’elegante vita londinese, nonché della sua bellezza che
attira troppo mosconi intorno a lei.
Il motore
dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono l’annuncio del castello, decidono di
regalarsi una vacanza, ma, non essendo molto abbienti, trovano le altre due
signore per dividere le spese. Lotty è angustiata dalla sua difficoltà da
rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose, invece, non accetta gli scritti
del marito e si dedica ad opere di carità. Una volta lontani dalla brumosa
Londra, le quattro donne, ognuna con i propri tempi, sembrano rifiorire. Anche
qui il motore di tutto è Lotty, con le sue uscite sempre fuori luogo, che
tuttavia smuovono le altre, le costringono a pensare, in fondo mettono anche
allegria. Non solo le donne diventano più socievoli, ma accettano altri
difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh, che sulla riviera ligure scopre
la gioia di vivere della moglie, e ne è contagiato. Poi Frederik che dopo
alcune sbandate, si raddrizza, anche perché Rose accetta le sue scritture, ed i
due sembrano destinati, finalmente, a comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il
proprietario del castello che stringe una amicizia foriera di possibili futuri
con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà,
accettando la possibilità che, per maturare nella vita, si possa anche
cambiare.
Una favola, certo.
Un improbabile idillio, anche. Ma la bellezza e la bravura del testo, è quella
di presentare i vari caratteri delle donne, magari mutuando l’ambiente che la
scrittrice ben conosceva. Non a caso, le tre giovani donne sembreranno avere
futuri migliori di quelli che avevano all’inizio del libro. Mentre l’anziana
signora sembra invece adombrare gli stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di
quel primo libro e del suo amore per la natura, non manca di descrivere con
pennellate gradevoli, i giardini del castello e tutte le sfumature bucoliche
che lo caratterizzano. Non prende molto, è vero, come tensione verso nuovi
orizzonti, essendo, tuttavia, uno specchio di un certo tipo di spaccato
social-culturale inglese. Amante delle belle cose, e del sole italiano. Non è
un caso che da lì a trenta anni, gli inglesi andranno a colonizzare le colline
toscane. Finisco ribadendo che, per l’appunto, è un libro datato, ma che
rilassa la mente in tempi di tensione. E quali siano ora questi tempi ben lo
sappiamo.
“Mancare a
qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi motivo, era comunque meglio della
solitudine totale di non mancare a nessuno.” (44)
“Cosa curiosa,
sentiva il desiderio di pensare, e di ciò era stupita più di chiunque altro.
Mai prima d’allora aveva provato quel desiderio.” (111)
“Ripeté a sé
stessa … ora mi metto a pensare, ma non è facile pensare se non lo si è mai
fatto prima.” (169)
“Bisognerebbe
continuare … a cambiare, per quanto vecchi si diventi.” (213)
Anabella
Giracca “Demasiados secretos” Punto de lectura euro 15
[A: 07/09/2019
– I: 05/04/2020 – T: 07/04/2020] - &&
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[tit.
or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 217;
anno 2009]
Come
sapete, quando vado in giro per il mondo, cerco sempre (anche) qualche libro
che mi leghi ancora per un po’ al viaggio ed alla terra che ho lasciato. Così,
in questo penultimo viaggio del 2019, con un fantastico gruppo, ho percorso in
lungo ed in largo il Guatemala, soprattutto pensando e passando per Antigua,
una città che adoro. Alla fine, in aeroporto, prima della lunga traversata
verso l’Europa, cercando libri, ho trovato solo questo di una scrittrice
guatemalteca.
Giracca
è una giovane che si occupa di linguistica e lavoro anche per l’UNESCO, che (da
quanto ho letto) ha scritto tre o quattro libri, di cui questo è il primo. Lo
spagnolo utilizzato è molto “sudamericano”, cioè molto meno complicato dello
spagnolo di Spagna, che usa un tono più semplice e comprensibile. Alcuni punti
li ho comunque dovuto rileggere, che il mio spagnolo è un poco arrugginito.
L’impianto della storia però, pur con delle specificità guatemalteche, è molto
legato a tutto un filone di letteratura sudamericana. Tanto che a volte sembra
voler rifare il verso (senza ovviamente riuscirci) a certe scritture alla
Garcia Marquez.
Storie
di famiglie, storie nelle storie, punti tangenti ad un presupposto filone
principale. Come se appunto, si seguisse da un lato l’idea di una grande saga
familiare, che in effetti occupa tre generazioni. Dall’altro non si possa fare
a meno di calarla in una realtà cruenta e militare, come molto spesso accadde
nei paesi centro e sudamericani. Non sono un conoscitore di tutta la realtà
locale, ma da quello che so, militari o meno, anche in Guatemala c’è stata una
forte presenza politica repressiva al potere, ed una guerriglia, prima
strisciante e poi palese, che ha dilaniato il paese. Non a caso, nel 1992 venne
assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista e pacifista indigena
Rigoberta Menchù.
Per
tornare allo scritto, l’ossatura è data dalle vicende familiari delle famiglie
Mateo e De la Rosa. Nella seconda ci sono Josefina e Rafael Felipe, i
capostipiti, ed il loro figlio Javier. Nella prima c’è il padre Juan, e le sei
figlie femmine, Elena, Matilde, Consuelo, Nina, Fatima e Cora. Le due famiglie
si uniscono per lo sposalizio (forzato) tra Javier ed Elena, che, ancora
adolescenti, dopo alcune tornate di sesso, rimangono “embarazatos”, come si
dice in spagnolo. Così che Elena darà alla luce Marina (così chiamata perché
nasce in riva al mare, ed il suo sarà sempre un odore di sale). Con
l’intervento di lato della nutrice Eulalia, che Elena non ha latte.
Qui
l’autrice ha il soprassalto “marqueziano”, dove ci racconta delle cinque
sorelle, del modo in cui affrontano la vita, come si innamorano, di chi, di chi
sposano e di chi non sposano, da chi avranno figli, ed altre amenità “da
gossip”. Nonché di Eulalia, che sarà per sempre legata a Marina, e ne capirà la
crescita e le pulsioni, anche da lontano. Con una parte “strana”, dovuta al
fatto che la madre delle sei donzelle tradisce Juan, questi la caccia, ma dice
che è morta, e seppellisce una bara con dentro dei sassi. Ma questo filone,
direi familiare, viene ben presto affiancato anche dal filone “politico”. Che
Juan Mateo è comunque in contrasto con il potere, mentre Rafael Felipe è sodale
del Presidente. Juan mette su un giornale, scrive contro il Presidente,
denuncia e forse cerca di mettere in piedi una qualche opposizione. Mal gliene
incoglie, che viene preso e fucilato dai militari (faccio qualche
semplificazione altrimenti sarebbe tutto tortuoso, che intervengono altri
personaggi che sono poco interessanti nell’analisi complessiva). Dopo tutta una
serie di passaggi, che benignamente tralascio, Marina si innamora di Agustin,
che però è sposato e con figli, e la storia non avrà seguito.
Mentre
avrà seguito il processo di maturazione di Marina, sulle orme del nonno Juan.
Tanto che, però, come questo si sappiamo dalla storia recente, il paese si
avvia alla lotta armata. Ovvio il posto che avranno sia Marina che Agustin, che
la quarta di copertina cerca di imbrogliare le carte, ma che, seguendo il filo
del racconto, non può che portare a certe conclusioni, un po’ scontate.
Sono
stato contento di aver rivisto nella mente i monti intorno ad Antigua, il lago
Atitlán, la costa atlantica con Puerto Barrios, laddove noi si stava non tanto
lontano in quel di Livingston. Insomma, un omaggio alla memoria, non allo
scritto, né all’autrice che spero si sia espressa meglio nelle altre sue opere.
“Pronto cerraron las fronteras para
impedir el paso de la epidemia... impediron, por decreto, cualquier tipo de
intimidad entre parejas para evitar el contagio. Todos los hogares fueron
divididos en una habitacion para hombres y otra para mujeres.” (44)
[Presto hanno chiuso i confini per impedire il passaggio dell'epidemia ...
hanno impedito, con decreto, qualsiasi tipo di intimità tra le coppie per
evitare il contagio. Tutte le case erano divise in una camera per gli uomini e
una per le donne.] [si parla di altri tempi ed altri anni, che lo scritto è del
2009, ma noi, ora, lo capiamo meglio]
Alicia
Giménez-Bartlett “Dove nessuno ti troverà” Sellerio euro 15
[A: 12/12/2017 – I: 27/05/2020 – T:
30/05/2020] - &&& --
[tit. or.: Donde
nadie te encuentre; ling. or.: spagnolo; pagine: 507; anno 2011]
Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia proprio il
primo libro di Giménez-Bartlett che leggo dove non solo non è protagonista
Pedra Delicado, ma non è neanche un giallo. È un robusto romanzo dedicato ad
uno strano personaggio che attraversa molti anni della oscura storia spagnola
nei giorni bui del franchismo. Ed è un’occasione per la scrittrice per
dedicarsi ad alcuni temi interessanti: la Spagna degli anni ’50, l’amicizia, la
solidarietà, la libertà, l’identità di genere.
Come altri libri di Alicia non gialli, c’è sempre
una vena di “storicità” (a volte anche più di una vena). In questo caso la
nostra valente e quasi settantenne scrittrice prende il via per raccontarci una
grossa fetta della vita di Teresa Pla Meseguer, meglio nota come La Pastora,
anche detta Teresot o Florencio.
Da tutta questa serie di nomi capite subito che è
un personaggio complesso. Una persona che nasce tra i monti della Spagna, nel
1917, e non ha una sua identità di genere. Si scoprirà tardi nella sua vita che
potrebbe essere di sesso maschile, ma con genitali non sviluppati, tanto che,
al fine di evitarle vita difficile, la madre la registra come Teresa. Vedendo
le foto in calce al libro ed in rete, si capisce che possa essere scambiata per
qualsiasi cosa. Vive una vita sui monti, che certo non si andava a scuola a
quel tempo. Poi, dopo la guerra, a fronte di insopportabili soprusi, si unisce
a bande armate che cercano di resistere al franchismo. Diventa partigiana e
resistente, anzi partigiano, che, per non essere comunque coinvolta in
confusioni varie, decide di vestirsi sempre da uomo e di farsi chiamare
Florencio. Effettua diverse azioni contro la guardia civile ed i
collaborazionisti, riuscendo sempre a scappare, che i monti li conosce a
memoria. Non a caso ottiene il soprannome di “La Pastora”.
Quando la Resistenza decide di gettare le armi e
riparare in Francia, lei ed il suo sodale Francisco rimangono sui monti.
Vengono loro attribuiti nefasti a bizzeffe, ma forse solo perché non sono
franchisti e non si piegano. Dopo che anche Francisco muore, lei rimane
solitaria ed intoccabile sui monti. La storia raccontata finisce così,
raccontando, e vedremo come, il suo agire nei luoghi in cui nessuno potrà
trovarla.
Sappiamo poi, da altro, che poco dopo verrà
arrestata in Andorra, processata, condannata prima a morte, poi al carcere.
Finirà graziata con la fine del franchismo, morendo solitaria ma indimenticata
nel 2004, a 87 anni. Ma sarebbe troppo facile narrarne la biografia e basta
(che giustamente Alicia rimanda al libro ben completo di José Calvo Segarra
“Dal monte al mito”), così l’idea è di intrecciare narrati di Teresa con la
ricerca dell’imprendibile Pastora da parte di uno psichiatra francese,
interessato ad incontrarla e ad esplorare la sua “mente criminale”.
Lucien coinvolge nella ricerca un giornalista
spagnolo, Carlos, e tutta una metà della narrazione si svolge sulle loro
tracce, sulla ricerca territoriale che fanno, sugli incontri e sulle diverse
peripezie. Le due narrazioni fittiziamente convergeranno, per rendere completa la
narrazione (anche se la Pastora fu interrogata e narrò la sua storia solo una
volta uscita dal carcere), finendo con un colpo di scena di cui vi lascio
scoprire i dettagli.
Quello che interessa ad Alicia, e che rende a sua
volta interessante la lettura, è il contorno. L’amicizia sia tra Lucien e
Carlos sia tra Teresa e Francisco. Ma anche l’esposizione del clima che si
respira in Spagna negli anni Cinquanta (la narrazione è ambientata da ottobre a
fine dicembre del 1956). Dove il franchismo ormai impera, ma nei monti e nelle
piccole cittadine si respirano anche altri climi. Non manca neanche, memori
della Guerra Civile del ’36, un accenno alle divisioni della sinistra, che per
molti anni non riuscirà a trovare un terreno comune di intervento.
Se da un lato poi c’è lo sguardo poliziesco della
Guardia Civile e dei “carabineros”, dall’altro c’è l’umanità delle persone che
comunque devono vivere la loro vita, in una povertà che le campagne povere
accentuano a dismisura. Teresa incarna anche un sentimento di libertà, se non
di ribellione, al fine di vivere in un mondo meno oppresso, pieno solo di
piccoli elementi quotidiani: le pecore sui monti, la natura, i balli sull’aia,
le piccole cose di non pessimo gusto. Ultimo, ma non meno importante strale
all’arco della scrittrice è l’analisi dell’identità di genere. Teresa, secondo
studio posteriori, sarebbe affetta da una forma di pseudoermafroditismo, in
seguito ad una malformazione genitale. E quando l’autrice fa parlare Teresa in
prima persona, molti sono i passaggi in cui lui/lei si interroga sulla sua
identità, e soprattutto sul modo che il mondo circostante la vive. Di come non
possa che subire continue umiliazioni, e di come solo nel rapporto con la
natura possa sviluppare una serenità altrove introvata.
Tirando tutti i fili, politici, sociali e
relazionali, rimane la domanda che riporto come prima citazione. Una domanda
cui Alicia non risponde, giustamente, ed alla quale personalmente non saprei
dare una risposta univoca. Forse, la normalità è solo vivere secondo la propria
coscienza, rispettando sé stessi e gli altri. Alla fine, un libro interessante,
anche se mi aspettavo un coinvolgimento emozionale maggiore.
“Molte volte … mi sono domandato che cosa sia
normale e che cosa no, chi è pazzo e chi non lo è.” (158)
“Prima che gli uomini avvelenassero l’aria … questi
posti erano i più belli del mondo. Niente tornerà più come prima.” (331)
Margaret
Atwood “Il racconto dell’ancella” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 19/03/2018
– I: 18/06/2020 – T: 20/06/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: The Handmaid’s Tale; ling. or.: inglese; pagine: 313;
anno 1985]
Uno
degli ultimi libri provenienti dalla biblioteca genitoriale, prima che fosse
dismessa per la dipartita anche di mamma. Un libro di cui si è parlato tanto e
per tanti motivi. La fortunata serie televisiva, innanzi tutto, che non ho
visto, ma che sembra sia stata fatta con cura e fedeltà al libro. Il
personaggio Atwood, ora poco più che ottantenne, ma che riunisce in sé diversi
interessanti caratteri.
Scrittrice,
ma anche ambientalista fin dalla gioventù (e sostenitrice del partito verde
locale). Canadese e non americana, e questo si sente nello scritto. Infine,
attivista femminista ben nota in Nord America. L’opera di scrittura è molto
improntata all’immaginazione di futuri non tanto rosei derivanti dalle non
rosee situazioni attuali. Tant’è che spesso è ghettizzata nella letteratura
fantascientifica. Ghetto da cui la farei uscire di corsa, perché, seppur non
parli di scenari reali (non sono propriamente solo “fiction”) si dedica con
passione a scenari distopici. Come ben si sa, la distopia è la rappresentazione
di uno scenario immaginario, ma prevedibile dall’analisi del presente,
soprattutto laddove prevalgono le componenti negative della società. Cioè, se
l’utopia è la descrizione di un mondo ideale, la distopia ne è l’immagine
cattiva.
Per
venire al romanzo, che come vedete in alto è ben datato, anche la sua genesi,
oltre che il tipo di mondo che si stava realizzando, ne spiegano i motivi
portanti. La scrittrice comincia a scriverlo durante un soggiorno a Berlino
Ovest. La presenza del Muro ed altre ben note restrizioni presenti all’epoca
nella Germania degli anni Ottanta, si vedono ben presenti quindi nello scritto.
Ma
ancor di più sono i rimandi al presente americano: l’avanzare del
fondamentalismo religioso, il degrado sempre maggiore dell’ambiente, la deriva
a destra dell’amministrazione Reagan. Vista la sua attenzione all’universo
femminile, il fulcro della distopia è chiedersi cosa accadrebbe alle donne se
le tendenze presenti in quegli anni ’80 si radicalizzassero, creando una situazione
in cui l’America stessa possa diventare una potenza teocratica.
Se mi
è consentito un salto logico, Atwood cerca di rappresentare un’America che
diventa gestita da una cricca “tipo Iran”. La capacità della scrittrice, e
l’angoscia che ne deriva, è l’alternarsi, anche solo nei ricordi, tra il mondo
di prima e quello di poi. Prima è quanto noi conosciamo, e vediamo in quegli
intarsi June con il marito Luke, la figlia Hannah e l’amica Moira. Sono tipici
esemplari americani, tra la fine dell’Università e l’ingresso nel mercato del
lavoro. Luke è divorziato, e Moira è lesbica. Ad un certo punto, c’è un colpo
di stato, dove una banda di talebani fondamentalisti cattolici, uccide il
Presidente, i membri del Congresso, e prende il potere.
Primo
atto: le donne vengono relegate al ruolo di “produttrici di bambini”. Private
dei conti in banca, le donne fertili assumono vari ruoli nella nuova società.
Le altre, sterili, omosessuali o comunque non riproduttive, vengono uccise o
esiliate nelle cosiddette “Colonie” (che dovrebbero essere la costa pacifica
dell’America). Rimangono tre zone libere in America: il Canada, l’Alaska e le
Hawaii. Il resto diviene lo “Stato di Galaad”, in onore del paladino che trovò
il Santo Graal. Il mondo di Galaad è piramidalmente maschiocentrico. In cima i
Comandanti, che detengono il potere. Poi le due ripartizioni. La maschile: gli
Angeli, cioè i militari, gli Occhi, la polizia segreta, i Custodi, addetti ai
lavori ancillari per i capi, ed in fondo gli uomini comuni. Dall’altro, l’universo
femminile: le Mogli, spose dei Comandanti e generalmente sterili ma di bella
presenza, le Ancelle, donne fertili assegnate ai Comandanti con fini
riproduttivi, le Zie, monache-secondine, le Marte, che si occupano delle
faccende domestiche e le Economogli, che sposano gli uomini comuni.
June
viene presa mentre tenta di scappare in Canada, Luke viene probabilmente ucciso
e la figlia Hannah sequestrata. June viene ricondizionata, e diventerà
proprietà e presumibile fattrice del Comandante Fred. Le Ancelle perdono i loro
nomi, e June diventerà “Difred”, cioè di proprietà di Fred. In inglese, era
indicata come “Offred”, che ha anche un’assonanza con “offered”, cioè
“offerta”. Che quello sono le Ancelle, offerte in sacrificio per riprodursi.
Seguiamo, senza addentrarci, tutta la vita di un Ancella con gli occhi di
Difred-June. I piccoli passi, le possibili scappatoie, il rapporto con il
Comandante, con la Moglie di lui, con i servitori della casa.
Non è
tanto importante (anche se ha un suo senso seguirlo e leggerne) quello che
succede, quanto l’impianto generale, e l’esasperazione dei comportamenti delle
persone, in questo mondo possibile ma non reale. Di una possibilità che, ora, a
quasi quaranta anni di distanza, potrebbe ancora succedere. Le risorse si esauriscono,
il coronavirus relega il mondo in ambienti chiusi e con poche possibili
interazioni, il crescere di nazionalismi alla Trump. Insomma, il mondo delle
Ancelle è ancora uno scenario possibile, che speriamo non si realizzi mai. Il
testo poi è stato a lungo studiato, nelle sue varie composizioni, proprio per
sviscerare i mal costumi ipotizzati, le loro premesse e le loro conseguenze.
Dal
punto di vista di “social fiction” è un potente impianto da studiare.
Personalmente, dal punto di vista della scrittura, l’ho invece trovato più
debole, meno incisivo. Un tale scenario potrebbe facilmente diventare teatro
ben più crudele. E le consolazioni che la Atwood distribuisce qua e là
risultano appunto confortanti, come se, bene o male, ci si aspettasse sempre un
lieto fine futuro. Che invece non è garantito. Mi sarebbe forse piaciuto di più
se ne avessi letto ai tempi delle mie letture fantascientifiche, tra Asimov e
Bradbury, tra Silverberg e Leiber, o forse solo tra Pohl e Kornbluth. Se non li
conoscete, ne possiamo parlare.
“Guardiamo le statistiche, cara, valeva
proprio la pena, d’innamorarsi? I matrimoni combinati hanno sempre funzionato
altrettanto bene, se non meglio.” (224)
“Come tutti gli storici sanno, il passato
è un grande spazio buio, colmo di echi.” (313)
Seconda
uscita settembrina e quindi con allegato dedicato al tempo che passa ed al
nostro rapporto con la sabbia che scivola nella clessidra.
Per il resto si rimane sempre lì, ad essere sospesi tra tante possibilità e poche certezze. Di queste l’unica è l’amicizia che mi circonda.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2020
Un mese in controtendenza, visto
che, personalmente, sarei più propenso a soffrire se il tempo non passasse.
TEMPO CHE PASSA, INSOFFERENZA DEL
Dino
Buzzati “Il deserto dei tartari”
Se la monotonia delle vostre
giornate vi sembra eterna e invincibile, vi manca l’aria e non vedete via di
fuga intorno, e tuttavia le ore scorrono una dietro l’altra inarrestabili,
ricordatevi che non c’è libro che abbia rappresentato con più esattezza la
disperazione del tempo de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Riprendetelo
dallo scaffale dove lo avete riposto chissà quando, soffiate via la polvere che
vi si sarà depositata sopra e collocatelo sul vostro comodino, accanto alla
radio con il display digitale che vi sveglia ogni mattina.
Sfogliarne un capitolo, di tanto
in tanto, o anche solo qualche pagina sarà un contravveleno sufficiente per
allontanare l’ansia e i cattivi pensieri. Tornerete a indossare l’uniforme del
giovane tenente Giovanni Drogo e a camminare lungo le stanze e le mura gialle
della Fortezza Bastiani, nell’attesa di vedere apparire dal fondo della pianura
un esercito nemico che non si paleserà mai. Ogni anno che passerà capirete
sempre meglio che la sua storia, la vostra storia, è una gigantesca metafora
della perdita della giovinezza. Come se l’esistenza fosse un avamposto sul
confine tra un deserto e un altro, una lunga notte consumata ad aspettare
qualcosa che non accadrà mai, una grande occasione, una seconda possibilità.
Quando ve ne accorgerete, buona
parte della vita sarà già trascorsa. Ma vi conforterà sapere che questa è una
malattia che abbiamo tutti. E che leggere, in fondo, è uno dei modi più
interessanti e piacevoli di impiegare il tempo.
Bugiardino
Un
libro immobile per un’immobilità dovuta al caldo ed al virus. Dove per vincere
il tempo ci aggrappiamo a tutto, anche alla routine mascherina, salute,
lavaggio, distanza.
Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato
il 20 maggio 2012]
Fino ad ora avevo
letto solo racconti o raccolti di racconti del milanese d’adozione Dino
Buzzati. E si era sempre sentito parlare, quasi come un eponimo, di questo
deserto. Un titolo diventato emblema di stati fisici e psichici. Ora, letto, ha
una sua ambivalenza. Da un lato conferma la forza interna dell’idea che diviene
simbolo. Dall’altra è comunque un romanzo tutto di testa, che ci fa riflettere
sulla vita (sulla nostra vita) ma non ha la forza di prendere altri sentimenti.
Niente moti, niente tatto, niente gusto, e soprattutto, e men che mai, niente
amore e sentimento. Anche la vicenda, se così possiamo chiamarla, è lineare ed
asciutta.
Giovanni Drogo
nominato tenente a venti anni, viene destinato alla famosa (famigerata)
Fortezza Bastiani. L’ultimo baluardo di una civiltà, al di là del quale c’è una
grande e desolata pianura, chiamata deserto, da dove si favoleggia che un tempo
ci fu un’invasione di tartari. Fortezza piena di militari, ognuno con il suo
compito, la sua routine, che aspettano succeda qualcosa. Essendo militari,
aspettano una guerra (ma non è un romanzo guerrafondaio). Ed in quell’attesa,
sperata e voluta, passano il tempo, aggrappandosi alla routine quotidiana.
Drogo non lascia grandi affetti o amicizie in città, si accorge della desolazione
del luogo, pensa di poter andare via. Ma dove? A poco a poco, con piccoli moti
dell’anima, piccoli spostamenti progressivi del dispiacere, si incarta nel
tempo della Fortezza. Si accende di volontà quando sembra che ci sia realmente
un nemico. Ma prima sono solo gente che mette pali di confine. Poi un cavallo.
Infine, operai che asfaltano e costruiscono una strada, che si arresta a pochi
chilometri della fortezza.
Il tempo
trascorre, e mentre Drogo pensa sempre che ci sia il modo, la possibilità di
fare, anche se non muove un dito in quella direzione, ecco che sono passati più
di trenta anni. Ormai è il comandante in seconda, quasi tutti sono andati via.
Drogo si ammala e si avvia nella china verso la morte, e mentre pensa di rassegnarsi
anche a questo, ecco che in effetti, arriva un nemico. Ma non è più il suo
tempo, ha mancato anche questo, come ha mancato tutti i possibili appuntamenti
della vita. E mentre altri ne saranno beneficiari, lui viene rimandato,
incurabilmente malato, a casa.
Perché non è un libro
guerrafondaio? Perché Buzzati utilizza la metafora della vita militare per
rappresentare qualcosa ben ordinato, con delle regole, cui è facile adagiarsi
senza domandare. Poteva scegliere altre vicende, altri scenari, ma questo, in
realtà, è proprio il più desolante che si possa avere. Poteva rifarsi alla vita
di uno scrivano che continua a scrivere e ricopiare pagine su pagine, senza
capire cosa siano e perché. Penso alla prima parte di Bartleby di Melville o a
Demetrio Pianelli (in quella magistrale interpretazione televisiva che ne diede
Paolo Stoppa). Ma non è la storia che importa. Quello che importa è il simbolo.
La routine cui aggrapparsi per uscire dal proprio nulla. Un nemico da inventare
per darsi qualcosa cui sperare. La chiusura degli occhi e di tutti gli altri
sensi di fronte alla vita, che per Buzzati è solitudine e priva di scopo.
Talmente priva, che non vale la pena di sforzarsi per modificare il lento
binario che porta fino alla morte. Una desolazione infinta. Trenta anni nella
fortezza, senza neanche aver letto un libro, soltanto magari qualche partita a
carte o a scacchi con gli altri tenenti. E chissà di cosa vivono poi quei
soldati, che neanche hanno avuto un passato di cultura elementare come gli
ufficiali. Come un sogno, vedo passare i settanta anni dalla scrittura di
questo deserto, e vedo Drago e gli altri davanti ad un televisore a “godersi”
Grandi Fratelli, Isole dei Famosi ed altre amenità.
Per fortuna, c’è
altro nella vita. Forse la solitudine rimane, ma non si può (non si deve)
fermare le rotelle del proprio cervello. Non dico che tutti, e sempre, abbiamo
dei bei sogni davanti, e la voglia di rischiare per metterli in pratica. Ma
tutti, tutti abbiamo la necessità, interiore, impellente, di dire fuori dal
nostro sé. Non fosse altro, che per essere noi stessi. E non mi ribattete che
spesso ci troviamo davanti muri invalicabili. E non è detto che si abbia la
forza di scalarli, o di aggirarli. Non è quello che importa. È importante, per
il proprio io, capire di essere davanti ad un muro e non far finta che ci sia
sempre qualcuno (magari un tartaro del Nord) che ci viene a salvare. Tutto, ma
non l’ignavia. Mi accorgo di aver fatto un lungo pistolone e forse anche fuori
contesto, ma che volete, questo mi ha ispirato Buzzati. E questo vi ripropone
il vostro narratore di trame.
“Si accorse come
gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se
uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé
una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male,
anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.” (160)
“Ha quindici anni
da vivere in meno. Purtroppo, egli non si sente gran che cambiato, il tempo è
fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito ad invecchiare.” (164)
Conclusioni
Ripeto, come detto altrove, che
non sempre amo Buzzati. Ma qui è veramente l’emblema di quella che si vuole rappresentare.
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