Giorgio Amendola
“Un’isola” Rizzoli s.p. (dalla Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 27/02/2018
– I: 12/05/2020 – T: 14/05/2020] &&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 1980]
Durante
il doloroso trasloco dei libri della casa genitoriale in altre sedi
(Santamaura, Soriano e altri), ho trovato alcuni libri che mi ero segnato da
leggere e che non avevo ancora iniziato. Questo è il primo della serie, che ho
letto con piacere per una serie elencabile di motivi. È scritto in un italiano
scorrevole, partecipato e che si legge con facilità. Parla, più o meno, di 10
anni della vita italiana, dal 1930 al 1940, in molti sensi eredi dell’inizio
del secolo e forieri di messaggi per la ricostruzione. Ci coinvolge con le
avventure pubbliche e private di una delle personalità di spicco del mondo
italiano, soprattutto dal ’45 alla morte. Mi fa sentire vicine tutta una serie
di voci, che hanno vibrato sin dalla mia infanzia, in particolare quella di mio
padre Franco e di mio zio Adriano.
Con
la straziante immagine di copertina, di un quadro di Germaine, seguiamo la
metaforica isola anche in un contesto concreto. Abbiamo infatti tutta una serie
di isole che vagano per l’universo italico in quegli anni, ed intorno alla
persona di Amendola. C’è Giorgio isolato nella sua Napoli che non raccoglie
l’eredità liberale del padre Giovanni, ma la prende e la spinge sempre più a
sinistra. E poi Giorgio isolato nella fuga a Parigi, nell’inizio del lavoro
clandestino di cucitura tra le varie anime della sinistra. Un lavoro di Sisifo,
che non solo non avrà fine allora, ma che ancora adesso continua ad essere
improbo ed irrealizzato. C’è l’isola d’amore che si spande intorno a Giorgio e
Germaine (che mi piace pensare uniti, in quella doppia G, in quel “G&G”),
quando si conoscono a Parigi nel 1931, quando si sposano nel 1934, fino a
quando (anche se non è detto nel libro, ma noi lo sappiamo bene), moriranno a
poche ore di distanza il 5 giugno del 1980. E c’è l’isola-isola, cioè Ponza.
Isola di confinati dal regime, ma anche isola delle nozze di G&G.
Nelle
parole vibranti di Amendola, seguiamo le vicende che partono dalla sua fuga da
Napoli nel 1931. Ma anche, con una serie di piccoli flash, con quelle che
successe prima proprio lì a Napoli. L’uccisione del padre nel ’26 dalle squadre
fasciste, l’allontanarsi dall’Italia della madre lituana (sempre
sull’esterofilia che contraddistinse la famiglia), le discussioni con gli
amici, l’adesione al Partito Comunista. Poi appunto la fuga, con l’aiuto della
rete clandestina, i lunghi giri in treno per sfuggire alla polizia, i documenti
falsi.
La
vita a Parigi, tra un tocco bohemienne e la vita di funzionario di partito
(inciso personale ad uso dei miei amici più cari, un ricordo del funzioMario).
Le discussioni feroci e gli incontri significativi. Come il viaggio ad Oxford
per incontrare Sraffa e riportare a Togliatti alcune lettere di Gramsci. Ed
ancora le discussioni, le aperture e le rotture. Il tentativo di Amendola, da
sempre considerato vicino all’ala destra del Partito, di fare un fronte comune
con i socialisti contro il fascismo. Tentativo mandato a monte dalle direttive
di Mosca. Dove nessuno metteva in discussione gli ordini di Stalin. E ne
vediamo i guasti: rotture interne, odio (ahi quanto immotivato) con troskisti e
bordighiani. Le liti per accettare una direzione del partito all’estero prima
affidata a Togliatti, e poi a Ruggero Grieco, con la sottomissione dello
scalpitante Longo.
La
lotta interna, mai sopita anche dopo la Guerra, tra Amendola e Pajetta. Le
sconfitte dovute a tradimenti vari, che portano all’arresto di Amendola nel
1934, quando, su ordine del Partito, tenta di tornare in Italia per organizzare
la lotta clandestina. Ed allora, eccoci a Ponza, alla vita da confinati,
isolati, certo, ma in grado di leggere e studiare. Una strana contraddizione,
in un’Italia purtroppo sempre più vicina alla Germania. Ma a Ponza arriva
l’amata Germaine, arriva il matrimonio, ed arriverà anche la nascita
dell’adorata figlia Ada. Qui Amendola, con tocco lieve ma fermo, ci riporta
anche al lato privato della sua vita, alla presenza della suocera, al ritorno
della madre, alle discussioni con la sorella, al sodalizio con il fratello
Pietro. Pieni di umanità, i ritratti dei sodali al confino, dove ancora più
forte si fa (e Amendola ben la sente sulla sua pelle) la differenza tra
intellettuali ed operai. Ed infine l’amnistia, il ritorno a Roma, e la nuova
ultima fuga verso Parigi, preceduto da Germaine e Ada. Qui i ricordi si
fermano, accennando a poche cose, e adombrando l’avvicinarsi della Guerra. Qui
sarebbe dovuto cominciare un nuovo capitolo, se la morte a soli 73 anni non lo
avesse portato via.
Rimane
nella mente un ultimo ricordo, con tutte le persone incontrate e nominate, cui
Amendola, con tocco lieve, ne dice il futuro. Quasi tutti moriranno, chi nella
Guerra Civile spagnola chi sul fronte della Resistenza partigiana. Si nota
l’empatia che Amendola comunque ha per tutti. Per tutti quelli che, seguendo
un’idea e le proprie convinzioni, hanno votato la vita ad un ideale di libertà.
Un ricordo che per me rimarrà indelebile, anche per tutte le vicende private
che, di lì a poco, avrebbero visto in prima linea una grossa fetta dei miei
parenti. Consiglio quindi di far seguire a questa lettura quella di “Un’isola
sul Tevere” di Adriano Ossicini.
“È
necessario un ‘comunismo nazionale’ che parta dalle condizioni concrete
esistenti nel nostro paese.” (58) [da una discussione con Rodolfo Morandi nel
1932]
“Preferivo
starmene solo, conoscere Parigi … ero accusato di individualismo piccolo-borghese,
ma me ne fregavo.” (78)
“Ogni
crisi non può durare in eterno e deve avere uno sbocco, o rivoluzionario o
capitalistico.” (123)
Toshikazu
Kawaguchi “Finché il caffè è caldo” Garzanti s.p. (Regalo
di Alessandra)
[A: 07/05/2020
– I: 30/06/2020 – T: 01/07/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: コーヒーが冷めないうちに Kohi Ga Samenai Uchi Ni; ling. or.: giapponese; pagine: 177;
anno 2015]
Un
regalo super gradito (visto che sono dipendente dal caffè, e soprattutto lo
bevo caldo). Purtroppo, mitigato da alcune colpe, in parte dovute alla
distribuzione ed in parte dovute alle edizioni (che a me, personalmente, la
Garzanti non mi piace molto).
Allora,
veniamo subito alle pecche. La prima è il titolo, che, da attente ricerche, in
giapponese significa: “Prima che il caffè si raffreddi”. Che è quasi simile ma
con una piccola sfumatura. Nuance che poi ha un importante risvolto nel romanzo
stesso (e ne parleremo poi).
La
seconda, e molto più grave, è che la traduzione è di seconda mano, essendo
stata fatta (come si confessa nelle pagine dei “credits”) dalla versione
inglese del romanzo e non dall’originale. La storia poi del romanzo in sé e
dell’autore è altrettanto singolare (ed io, sinceramente, ne avrei fatto
oggetto di una qualche nota o pre o post-fazione).
Kawaguchi
è uno sceneggiatore e regista teatrale giapponese sulla cinquantina. Una decina
di anni fa mette su un laboratorio teatrale con un suo testo sperimentale
appoggiato da una classe di suoi allievi attori. Sono quattro quadri ambientati
in un caffè. Il successo è buono, ed un editore presente lo convince a farlo
diventare un romanzo. Cosa che si avvera dopo cinque anni. Non solo, ma il
romanzo avrà anche altri due seguiti, sempre preceduti da episodi teatrali. Il
successo anche qui è di buon livello, tanto che si decide di farne un film. Che
purtroppo, avrà l’assurdo titolo di “Caffè Funiculì Funiculà” (almeno nella
distribuzione europea).
L’idea
di base su cui Kawaguchi ha sviluppato le sue trame teatrali, cinematografiche
e di scrittura, è quella di un caffè dove si possa viaggiare nel tempo. Però,
con delle regole precise ed inderogabili:
1. Non
si possono incontrare persone che non sono mai state al caffè.
2. Anche
se interferisci nel passato, il presente non cambierà (o anche il futuro).
3. C'è
solo una sedia nel caffè che ha il potere di farti viaggiare nel tempo e se è
occupata, devi aspettare che il cliente lasci.
4. Quando
vai nel passato o nel futuro, resta sulla sedia.
5. Puoi
rimanere nel passato o nel futuro finché il caffè nella tua tazza è caldo e
devi finirlo prima che si raffreddi.
Capite
anche, dall’ultima regola, il motivo del titolo originale come ho riportato
sopra.
Su
questo palcoscenico (un caffè ed un viaggio nel tempo), che è molto teatrale,
l’autore imbastisce alcune storie. Che vedono alla ribalta alcuni personaggi
fissi, ed altri che ruotano intorno, e che a volte ritornano.
C’è
Nagare, il gestore del caffè, con la moglie Kei con problemi al cuore e la
cugina di Nagare, Kazu. C’è Hirai che gestisce una tavola calda lì vicino, ma
passa la maggior parte del tempo al caffè. C’è il signor Fusagi, seduto in un
angolo a leggere riviste. E c’è una donna che non parlerà mai, un fantasma che
occupa permanentemente la sedia del viaggio. Poi, appunto, ci sono personaggi
che entrano ed escono. Kotake, la moglie del signor Fusagi, Kumi, la sorella di
Hirai e Fumiko, una giovane donna in carriera. Intorno a questi personaggi, si
costruisce, nel romanzo, l’intreccio di quattro storie, di quattro racconti.
Legati certo, ma anche episodi che si possono montare in una scatola seriale,
come è stato poi per i libri successivi e per una miniserie uscita in Giappone.
La storia di Fumiko che nel caffè è stata lasciata da Gore e che vorrebbe
tornare indietro per spiegare quello che non è riuscita a dire. Ci sono Fusagi
e signora, legati dal progressivo Alzheimer di lui. Ci sono Kumi e Hirai che
dovrebbero trovare il modo di fare pace. C’è infine Kei che vorrebbe sapere se riuscirà
a portare a termine una gravidanza difficile.
Utilizzando
abilmente i vincoli sopra esposti, l’autore riesce a trovare il modo di
rispettarli, ma anche di fare in modo che i quattro nodi si risolvano. Forse
non sempre in modo positivo, ma di certo in modi interessanti. A volte può
essere ripetitivo (una volta capito il meccanismo, non vale la pena ripeterlo
ad ogni capitolo), ma si intuisce lo sforzo teatrale che c’è stato. Quasi si
tocca con mano, per noi che un po’ conosciamo i laboratori di teatro, l’impegno
degli alunni a portare avanti una trama, ad intrecciarla, lasciando poi a
Kawaguchi, il maestro, di annodare i fili che si possono allentare. Insomma, un
tentativo interessante, che poteva aspirare di più senza le pecche riportate in
alto.
“Capisco solo adesso quanto devi aver
sofferto ad avermi come sorella maggiore.” (132) [o fratello maggiore]
“Aveva pianto al funerale, ma da quel
giorno in poi non si era più mostrata triste.” (160)
Frank
McCourt “Le ceneri di Angela” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 22/01/2018
– I: 18/07/2020 – T: 20/07/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: Angela’s Ashes; ling. or.: inglese; pagine: 377;
anno 1996]
Ne avevo sentito parlare molto e non avevo
mai capito se mi andava di leggerlo o meno. Ma nella testa a volte si
confondeva con altri titoli, non mi veniva in mente il film di Alan Parker.
Insomma, una confusione totale, che finalmente decido di prendere per le corna.
Ne risulta tuttavia una lettura assai datata, poco coinvolgente. Certo con una
scrittura efficace, ma con una storia talmente “dickensiana” da sembrare finta.
L’autore, americano figlio di irlandesi immigrati, scrive qui l’autobiografia
dei suoi primi diciannove anni, ma la scrive quando ne ha sessantasei, dopo
aver insegnato letteratura inglese per più di quaranta anni in una scuola
americana. Con un successo immediato e folgorante, tanto da portarlo l’anno
successivo al Premio Pulitzer, e poi a scrivere altre parti autobiografiche,
seppur con minor successo.
Forse, quello che spinse più di altro al
successo, è proprio quel sentimento americano che tutti, impegnandosi, riescono
nella vita. McCourt, dopo l’infanzia qui narrata, torna in America che aveva
lasciato a quattro anni, fa lavoretti, studia, si laurea, e poi, come detto,
insegna. E da pensionato, scrive queste memorie.
La famiglia McCourt, in effetti, sembra
essere una delle famiglie più sfortunate e peggio assortite di tutta la storia
irlandese. I genitori sono Malachy senior di Belfast e Angela Sheehan di
Limerick. Con il mito di altri immigrati vanno negli Stati Uniti. Ovvio che
capitano nella Grande Depressione del 1929. Malachy non troverà mai, né qui né
altrove, un lavoro. Tutto quello che, eventualmente, ottiene, in genere lo
beve, essendo un alcolista perduto (anche se poi morirà a 84 anni). E lì in
America nascono Frank (il 19 agosto del ’30) e Malachy jr. (il 30 settembre del
’31). Poi vengono due gemelli. Poi una femmina, l’unica, che muore dopo venti
giorni. Angela ha un crollo verticale, e la famiglia McCourt decide di tornare
in Irlanda. Prima dalla famiglia di lui, nel Nord, ma i parenti di Malachy sr.
Praticamente li buttano fuori casa (il figlio ha sposato una cattolica…). Così
che si rifugiano a Limerick, dalla famiglia di Angela. Dove non saranno mai
bene accolti, solo sopportati. Per due ragioni fondamentali: non hanno mai un
soldo ed il genitore è del Nord (oltre ad essere un ubriacone impenitente).
Lì a Limerick assistiamo alla morte dei due
gemelli. E poi alla nascita di Michael e di Alphie. Sempre con gli occhi di Frank
assistiamo alle sciagure di Limerick: la vita tra fame, fanghiglia, pulci; il
padre disoccupato che, quando trova un lavoro precario, si beve al pub i soldi
della paga, torna a casa ubriaco, poi finisce col non tornarci più e sparire;
la madre costretta a mendicare, a raccogliere il carbone per terra, ad andare a
letto con un parente in cambio dell'alloggio per sé e per i figli; e dopo i
fratellini morti di stenti, il gabinetto in mezzo alla via, i troppi funerali,
la casa sempre allagata. E via discorrendo, chi più ne ha più ne metta, di
disastri che già sarebbero indecenti appunto nella Londra dickensiana
dell’Ottocento, sono spaventosi in questa Irlanda nella Seconda Guerra
Mondiale.
Nonostante tutto, Frank cresce, legge, si
ammala, guarisce, fa mille lavori visto che il padre sparisce, fattorino, porta
giornali. Finendo anche per fare lo scrivano di missive minatorie per una
usuraia locale. E quando muore, le ruba anche l’ultima parte dei soldi che gli
servono per comprare un biglietto in nave e tornare in America. Dove il Frank
scrittore farà le attività sopra elencate, mentre il libro finisce con
un’imprevista sortita amorosa, e con l’idea che, quando sarà, le ceneri della
“povera” mamma, torneranno comunque in Irlanda.
Mi aspettavo sinceramente un libro di
formazione più intenso, anche perché (solito mio pallino rompiscatole), un
bimbo di tre anni difficilmente parla come il Frank del libro, ragiona come il
Frank del libro, ed altro. Qualcosa riesce a farci immedesimare. Quando non
capisce le parole e le cerca sul vocabolario. Quando non capisce gli adulti che
gli dicono che capirà quando sarà grande. Quando si interroga su comportamenti
assurdi per un tredicenne (le vergini suicide rimarranno sempre per lui un
mistero). Ritengo, al fine, che sia un libro imprescindibile per una sana e
variata biblioteca. Anche se non imperdibile.
Vorrei finire con una piccola citazione. Nel
libro, proprio alla fine, tornando in America sbarca a Poughkeepsie, che per
noi “informatici” rimarrà sempre la sede dell’IBM. Mentre per i letterati è
anche la sede del Vassar College, la prima Università completamente femminile
americana. Vassar che diventerà mista solo nel 1969. Vassar che vedrà tra le
sue allieve, tanto per fare due nomi a caso, Jacqueline Kennedy e Meryl Streep.
“Shakespeare è come il purè di patate, non
ti basta mai.” (283)
Joël
Dicker “L’enigma della camera 622” La Nave di Teseo s.p. (Regalo di Kikko &
Bene)
[A: 24/06/2020 – I: 12/08/2020 – T: 15/08/2020]
- &&&& --
[tit. or.: L’énigme
de la Chambre 622; ling. or.: francese; pagine: 632; anno 2020]
Interessante secondo libro letto dello
svizzero Dicker. Molto metatesto, ma intriga, coinvolge ed alla fine propone
uno scioglimento globale delle vicende interne ed esterne che soddisfa.
Dicker è ormai abbonato a best-seller che
vendono e vendono. Tuttavia, gli altri due libri usciti non hanno avuto il
successo editoriale di “Harry Quebert” e di questo Enigma. Un libro, in un
certo senso, anche doloroso, in cui l’autore entra ed esce dal testo, non a
caso il protagonista si chiama Joël Dicker. E nasce da un blocco e da uno
sblocco. Il blocco è il tipico blocco dello scrittore che sente di avere una
storia, ma che non riesce a farla uscire. Lo sblocco deriva da un fatto
doloroso, che verrà riproposto più volte nel corso del libro. La morte del
mentore dello scrittore (uso il minuscolo per l’autore ed il Maiuscolo per il
protagonista), l’editore Bernard de Fallois. Colui che aveva spinto lo
scrittore a pubblicare, che lo aveva consigliato, aiutato, pubblicato. Varie
volte lo Scrittore ci fa uscire dal corso della storia, ci porta dai suoi
momenti con Bernard, che sono belli e toccanti. Poiché poi Bernard aveva detto
allo scrittore che doveva solo scrivere, quello fa, e ci porta in questa
multi-dimensione abbastanza affascinante.
Lo Scrittore pensa il suo blocco derivi dalla
sfortunata storia d’amore che sta vivendo con Sloane, che con un freddo
biglietto lo lascia il 22 giugno. Per distrarre la mente, decide di fuggire in
un paesaggio incantato nel pieno delle alpi svizzere, rifugiandosi nel lussuoso
Palace de Verbier. Lì gli viene assegnata la stanza 623, e recandovisi, scopre
che c’è la stanza 621, poi la 621 bis, poi la 623. Non la 622. Si incuriosisce
ma non andrebbe avanti se un’ospite dello stesso hotel non lo coinvolgesse in
questo mistero. Entra così in scena la dinamica Scarlett Leonas. Ed insieme
scoprono tante cose.
Quindici anni prima si stava svolgendo
nell’hotel un grand gala organizzato da una delle più potenti banche d’affari
svizzere. Morto l’anno precedente il patriarca, si doveva nominare il successore:
il figlio Macaire o il rampante Lev? Tuttavia, prima della proclamazione, una
persona muore assassinata nella stanza 622. La bravura dello scrittore, a
questo punto, è portare avanti tutta la storia, per dire chi sia morto solo
dopo quattrocento pagine.
In tutto questo, insieme a Scarlett, entra
nella storia della banca, nella storia dei personaggi, nei loro intrecci. C’è
appunto Macaire, abbastanza bravo, ma prima succube del padre, poi incapace di
volare con le proprie gambe, sposato con la bella Anastasia, ed in
amicizia/competizione con il molto più bravo Lev. C’è Anastasia che sposò
sbadatamente Macaire, pur amando Lev. E, ritrovandolo, si trovano a tessere
trame altre, sia tradendo Macaire, sia pensando a futuri congiunti. C’è Lev, di
cui veniamo a brandelli a conoscere la storia, con il padre attore/fantasista
che fa mille mestieri per sopravvivere. Lui viene accolto dal padrone del
Palace de Verbier, che lo fa studiare, che lo mette in condizione di fare
grandi opere e grandi soldi, anche perché vuole che diventi il suo successore.
Ci sono gli altri due membri del Consiglio d’Amministrazione, padre e figlio,
che vorrebbero pesare di più nella Banca. Infine, c’è il misterioso Sinior
Tarnogol, un finanziere entrato nella banca a fronte di una incauta vendita di
azioni da parte di Macaire.
Scartabellando, facendo entrare altri
personaggi, lo scrittore scrive e lo Scrittore indaga. Nel flusso della storia
compaiono rivoli di narrazioni intriganti. Macaire è realmente una spia dei
Servizi Segreti? Dov’è finito il padre di Lev? E, soprattutto, chi è morto
nella stanza 622 e perché?
La bravura dello scrittore è portarci passo
dopo passo anche verso il finale, quando grazie al pensiero del suo mentore
Bernard, finisce il libro, scioglie l’enigma della stanza. Ed esce dalle
multi-dimensioni testuali. Per spiegare a Denise, la sua segretaria che lo
Scrittore ha finito il libro, e lo Joël confessa che la coprotagonista si
chiama Scarlett perché adora “Via col Vento”, che l’autista tuttofare di Lev si
chiama come il segretario di Marcel Proust.
Noi che siamo attenti lettori poi non
possiamo che notare come il cognome di Scarlett, Leonas, non sia altro che un
anagramma della fiamma dello scrittore (Sloane). E che la stanza porta un
numero che non è altro che la data dell’abbandono di Sloane scritta all’inglese
(22 giugno à 22/6 à 622).
Alla fine, un buon romanzo, che mi ha portato
in giro fra le mie rimembranze di scrittori che si insinuano nelle pagine, e
nel mondo dei piccoli editori. Dicker mi rimanda a Fallois ed alla sua casa
editrice, che mi fa venire in mente Nicolas Bouvier ed i suoi “scrittori
viaggiatori”, per portarmi ai piccoli editori svizzeri, ed all’opera poco
conosciuta ed a me cara di Vladimir Dimitrijević. Insomma, se si comincia a
fare metatesto non si finisce più. Ma io finisco, tributando il dovuto omaggio
ad un libro che va letto.
“Il
successo di un libro … non si misura dal numero delle copie vendute, ma dalla
felicità e dal piacere che si prova a editarlo.” (196) [e a leggerlo…]
“Quando
sei un artista, lo sei per sempre! Ce l’hai nel sangue.” (287)
“La
vita è un romanzo di cui già si conosce la fine: il protagonista muore. La cosa
più importante, in fondo, non è come va a finire. Ma in che modo ne riempiamo
le pagine.” (632)
Sebbene sia la terza settimana, non metterò
alcun allegato, che, avendo praticamente esaurito i libri felici, devo
spulciare le mie raccolte per vedere se sia rimasto qualcosa.
È vero, siamo ad una ripresa dei contagi e
del virus, anche se (come dicono i miei amici matematici), i numeri sono diversi
da marzo e aprile (essendo aumentati il numero di controlli effettuati). Sebbene
quindi con molta cautela, spero di non avere occasione di inviarvi altre mail
per il mese di ottobre, augurandomi di poter fare quello che programmo da mesi.