Come da regalo amorevole di alcuni anni fa. Quindi continuiamo con la collana dedicata alle letterature intorno, visto che non si riesce (ancora) a viaggiare. Con la particolarità di avere una trama senza anglofoni. C’è Aramburu, un basco spagnolo, il migliore, c’è Abad, uno spagnolo di Colombia, c’è l’austriaco Vermes e per ultima quello che meno mi ha convinto, il Nobel cinese Mo Yan.
Fernando Aramburu “Patria” Repubblica Mondo
13 euro 9,90
[A: 24/02/2019 – I: 21/05/2021 – T:
25/05/2021] - &&&&
[tit. or.: Patria; ling. or.: spagnolo; pagine: 634; anno 2016]
Un libro non facile, non certo per la
scrittura, anche se ci mette del suo, ma sicuramente per i temi trattati.
Ovvio, dolorosi e presenti nei Paesi Baschi della vicenda (e dello scrittore),
ma che non possono non aprire riflessioni in tutti i paesi in cui c’è stato
terrorismo, indipendentismo, lotta armata.
Fernando Aramburu Irigoyen, intanto, è anche
lui basco, di San Sebastian (una città che ricorre molto in questi miei giorni,
nelle letture, e nell’ultimo film di Woody Allen; bisognerà andarci). Ma a 26
anni, dopo una laurea in filologia ispanica, decide di trasferirsi in Germania,
dove insegna spagnolo fino ai suoi sessanta anni, e dove vive tuttora. E forse
solo da lontano si riesce a scrivere di fatti, di personaggi, talmente forti,
talmente vicini alla propria sensibilità (e forse alla propria infanzia) che
l’allontanamento è l’unico modo per trattarli.
Certo, il libro è pieno anche di “altri”
fatti: amori, dolori, famiglie e rapporti genitori e figli, scelta della
propria identità, fuga, accettazione, figli, amicizia, e poi, ancora e sempre e
di nuovo, amore. Si entra in molti “topos” della cultura spagnola, catalana e
castigliana, ma soprattutto, in molti luoghi della cultura basca. Perché, oltre
questi fatti che riempiono, come è ovvio, la vita di ognuno, il punto centrale
è la lotta del popolo basco per l’indipendenza, adottando per cinquanta anni,
tra la fine del franchismo ed il post-franchismo, una strategia (anche) di lotta
armata. Ed in queste più di seicento pagine, ci si domanda se sia stata una
scelta giusta, se sia stata una scelta, se le conseguenze che ne sono derivate
(e ne derivano) sono sopportabili, giuste, spiegabili.
La vicenda principale si snoda attraverso
l’evolversi del rapporto tra due famiglie basche, un tempo legate da amicizia
anche profonda tra i genitori. Le diverse opportunità della vita ne fanno
divergere un po’ gli atteggiamenti, anche se non in forma ancora irreparabile.
L’una, proletaria, barcamena la propria vita nelle necessità quotidiane.
L’altra trova un suo benessere borghese seguendo il patriarca che ha un’impresa
di trasporti con discreto successo economico. La rottura si comincia a compiere
quando il secondogenito della prima famiglia decide di passare in clandestinità
affiliandosi all’ETA (acronimo per Euskadi Ta Askatasuna, cioè “Paese Basco e
Libertà”). La rottura si approfondisce quando il patriarca della seconda decide
di non pagare le “tasse rivoluzionarie” all’ETA. E diventa definitiva quando
l’ETA lo uccide.
Aramburu decide di dare al romanzo una
struttura complessa, andando avanti e indietro nel tempo, e facendoci così
scoprire (o riscoprire) gli avvenimenti. Unico punto fermo, l’inizio che
coincide con l’annuncio della fine della lotta armata dell’ETA, il 20 ottobre
2011.
Non credo di essere capaci di ricostruire
agevolmente la complessa storia, preferisco allora passare in rassegna i
personaggi principali, le due famiglie.
In una abbiamo il padre, soprannominato il
Txato (credo voglia dire “il chiacchierone”), imprenditore, proprietario di
un’azienda di trasporti. Per quieto vivere, per un po’ paga una tassa all’ETA
ma poi decide di sospendere il tutto. Pensa di trasferirsi, ma è preso di mira,
ed alla fine, in una giornata di pioggia, assassinato da un comando. Sposato
con Bittori (Vittoria in basco), si allontana dalla cittadina dopo
l’assassinio, ma vi ritorna dopo l’ottobre di cui sopra. È malata, si
riavvicina alla figlia maggiore dell’altra famiglia, ma non all’amica di un
tempo. E lotta, fino alla fine, per ricevere un perdono da Joxe Mari (vedi
oltre). Hanno due figli. Xabier, medico, con qualche storia femminile alle
spalle, ma si capisce che in gioventù era innamorato di Arantxa, e forse lo è
ancora. E Nerea, che seguiamo prima in diverse storie d’amore sfortunate, e poi
in un ancor più complicato matrimonio.
Nell’altra c’è il padre, Joxian, legatissimo
al Txato, che non ne accetterà/comprenderà mai la morte, andando a poco a poco
in una deriva alcolica. Ma soprattutto c’è Miren (Maria in basco), che si
radicalizza con il figlio, che ha un senso di incompleta rivalsa tra le sue
sfortune e le pretese fortune del Txato. Accetterà mai la fine della
contrapposizione? Loro hanno tre figli. Gorka (Jorge in basco) il minore cerca
subito di dissociarsi da tutto, sia dalla lotta armata, che dall’ambiente
familiare. Tanto che andrà vivere fuori, e si sposerà con uomo. C’è la
maggiore, Arantxa (nome che deriva dal vezzeggiativo basco del biancospino),
mal sposata con due figli, la vediamo sin dall’inizio su di una sedia a
rotelle, a seguito di un ictus. Come dice lei “prigioniera del mio corpo, in
una prigione che non finirà mai”. È però il personaggio più solare, più
coraggioso, quello che cerca e trova il modo di riavvicinarsi a Bittori. E
forse a Xabier? Infine, c’è Joxe Mari, il figlio che decide di passare in
clandestinità, di far parte dei comandi dell’ETA, fino a guidarne uno nella sua
regione natale. È lui che organizza il colpo a Txato, anche se non sappiamo se
sia lui a sparare. Attraverso di lui vediamo momenti della lotta armata, dei
passaggi di frontiera tra le regioni basche di Francia e Spagna. All’inizio è
solo un ribelle, ma acquisterà col tempo anche la coscienza della lotta. Alla
fine, viene arrestato, e condannato a 126 anni di carcere. Dove ha tempo di
riflettere, e di interrogarsi sul passato, e soprattutto sul futuro.
Questo in sintesi sui personaggi, che avremmo
potuto seguire meglio, ma che credo diano il senso del romanzo. Con quella
parte poco espressa, sulle ragioni della lotta (quasi che anche noi, non
spagnoli, ne dovessimo sapere). E con quelle domande sui dolori che cinquanta
anni e quasi mille morti hanno lasciato sulla pelle dei baschi e non solo.
Un romanzo che fa riflettere, non sempre ben
riuscito (a volte si sente che Aramburu scrive da lontano, quasi prendendo
distanze che non si dovrebbero prendere). Ma val la pena di fare uno sforzo di
lettura e di utilizzarlo come spunto di riflessione. Anche per altre situazioni,
ed altre nazioni, ed altre lotte. Se ne può parlare, allora.
“Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un
ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quel che le va.” (259)
“Chiedere perdono richiede più coraggio che
sparare.” (617)
Héctor Abad “L’oblio che saremo” Repubblica
Mondo 2 euro 9,90
[A: 01/12/2018 – I: 27/05/2021 – T: 29/05/2021]
- &&&
e ½
[tit. or.: El olvido que seremos; ling.
or.: spagnolo; pagine: 250; anno 2006]
Un’altra buona, se non ancora ottima, prova
della collana dedicata alla letteratura in giro per il mondo uscita circa tre
anni fa con Repubblica. Questa volta, ancora, vengo trasportato in una zona del
mondo che conosco in parte, ma in una nazione che non ho (ancora) visitato: la
Colombia. Inoltre, un sentimento di vicinanza mi aveva subito attratto ad
inizio lettura: quel titolo ripreso da un verso di Borges, dedicato alla
fugacità della vita (“Noi siamo già l'oblio che saremo”).
Non sono certo un conoscitore della
letteratura colombiana (a parte Garcia Marquez, che poi prende la cittadinanza
messicana), ma questo scritto di Abad, tra cronaca e memoria, è interessante e
coinvolgente. Per due principali ragioni: l’analisi del rapporto tra lo
scrittore e suo padre e le descrizioni (personali ma non meno toccanti) del
clima di violenza nella Colombia degli anni tra il sessanta (Abad è del ’58) ed
il ’90 (il padre viene ucciso nell’agosto dell’87 e Hector ripara per lunghi
anni in Italia).
È tutto giocato sulla memoria, e sul
tentativo (riuscito) di dare una dimensione personale all’uomo pubblico che fu
il padre, ed alle sensazioni che si provavano a vivere in quegli anni a
Medellin. Prima che la città stessa divenisse preda incontrastata di Pablo
Escobar e del suo cartello della droga.
Vediamo così, in tutta la prima parte, quella
dimensione privata della vita della famiglia Abad. Una famiglia molto
“femminile”, visto che ci sono cinque sorelle ed Hector unico maschio. E come
maschio, ha un rapporto privilegiato con il padre, liberale, ateo, professore
di medicina dedito alla salute igienista più che alle cure mediche in sé.
Soprattutto dopo un’operazione a lui mal riuscita. Ma la Colombia povera aveva
bisogno di qualche sprone per la pulizia, il curare di malattie endemiche, la
mancanza di acqua corrente, ed altri momenti di mancanza igienica che Abad
padre denuncia e tenta di sovvertire.
Ma dicevo, la prima parte è anche personale,
le passeggiate tra i due, le letture del padre, la musica a tutto volume
(classica, ovvio). E le lontananze, che il padre spesso è in rotta di
collisione con il potere e decide in quei casi di accettare offerte in giro per
il mondo, specialmente dall’OMS, per vivere e passare a momenti migliori.
Il primo momento di rottura della felicità,
secondo Hector, avviene quando alla sorella Maria Cecilia viene diagnostico un
melanoma maligno a sedici anni, dove, nonostante tutte le cure, nulla si potrà
fare. Quella morte segna il carattere del padre, che, internamente, sembra non
riprendersi più. Una domanda che spesso mi sono fatto: come fa un genitore a
superare la morte di un figlio? Penso che sia una delle cose di un dolore
talmente forte che non se ne uscirà mai indenni.
Si butta allora vieppiù nel personaggio
pubblico. Anche in anni in cui la Colombia comincia ad essere dilaniata da spaccature
politiche profonde, nonché da una guerra civile in cui sempre più spazio
prendevano i guerriglieri delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de
Colombia), contrastate con tutti i mezzi, spesso illegali, dai conservatori al
potere, attraverso forze paramilitari. Forze che dall’85 in poi falcidiano la
sinistra ed i liberali in genere. Mattanza che vedrà cadere sotto i suoi colpi
anche Hector Abad Gomez. Uccisione che lo scrittore descrive, analizza,
vivisezione in lunghe e dolorose pagine. Che, dal punto di vista privato, fanno
ancor più risaltare l’umanità e l’amore che il padre aveva per la madre di
Hector, Cecilia Faciolince.
Poi, come detto, Hector fugge, si lascia alle
spalle Medellin, la lotta, i morti, e poi la droga, e solo più di venti anni dopo
tornerà in patria.
Ora, è di sicuro uno scritto potente sul
piano umano, che mi ha fatto pensare e ripensare a mio padre, ed alla sua
figura, anche ora che son quattordici anni che ci ha lasciato. Ma che, dal
punto di vista del testo, forse, lascia un po’ troppo in controluce i dissidi
profondi della Colombia dello scorso fine di secolo. Ma è un libro
coinvolgente, e di una collana che sta mantenendo le promesse iniziali.
Speriamo continui.
“Io lo amo così com’è, completamente, con
tutte le sue qualità e tutti i suoi difetti, e di lui mi piacciono anche le
cose su cui non siamo d’accordo.” (105)
“A me l’intelligenza è servita solo a essere
stupido.” (200)
“[da “Stanze per la morte del padre” di Jorge
Manrique] se anche la vita perdette / ci lasciò totale conforto / la sua
memoria.” (211)
Timur Vermes “Lui è tornato” Repubblica
Mondo XX euro 9,90
[A: 09/04/2019 – I: 26/10/2021 – T:
28/10/2021] - &&
e ¾
[tit. or.: Er ist wieder da; ling. or.:
tedesco; pagine: 394; anno 2012]
Ne
avevo sentito parlare, ma non mi aveva abbastanza convinto all’acquisto in
libreria. Solo in seguito, grazie alla collana sulle letterature del mondo è
entrato in biblioteca ed ora, letto e meditato, ne parliamo con attenzione. Che
è un libro particolare, in un certo senso poco etichettabile con un genere o un
filone narrativo. Ma è ben scritto e, soprattutto, altamente documentato.
Solo
il finale mi ha lasciato perplesso. Quasi che, alla fine, Timur non riuscisse a
risolversi se girare completamente sul versante ironico oppure rimane su di un
crinale possibilista che lasciasse il lettore alla mercè di suoi possibili
finali. Così l’autore si maschera dietro un nulla di fatto, o meglio su di un
crinale aperto a paure possibili (ma forse anche a rassicurazioni probabili).
Il
coraggio di Timur è stato quello di affrontare un argomento veramente spinoso e
sensibile per il popolo tedesco. Il coraggio di affrontare Adolf Hitler senza
porsi dietro a barriere ideologiche preconcette. E Hitler, per mia conoscenza,
non è mai stato completamente anti demonizzato, così come succede a molti
dittatori del passato, Mussolini in testa.
Certo,
il romanzo chiede al lettore di sospendere un passo di realtà, ed una volta
fattolo, di giudicare le parole e le azioni per quello che esprimono, non per
quello che sono state e per le loro tragiche conseguenze. La sospensione ci
domanda di credere alla possibilità che, una mattina, in un parco di Berlino,
si svegli una persona che ha fatto un salto temporale di 65 anni. In quel
parco, vestito con l’uniforme indossata al momento del suicidio nel bunker,
troviamo uno stralunato Adolf Hitler, che non sa come e perché sia lì.
Ci
vogliono un po’ di capitoli perché capisca di non essere più nel 1945 ma di
essere nel 2011. Ma lui sa di essere sé stesso, e con tutta la carica di quanto
ha detto, scritto e fatto nella sua vita, si accinge a capire cosa fare in
questo mondo “nuovo”.
L’autore
utilizza alcuni differenti timbri espressivi per coinvolgerci in questa
irrealtà. Innanzi tutto, c’è lo stupore per le cose che non c’erano, o erano
differenti. Ad esempio, il televisore (differente) o il computer (inesistente).
Poi ci sono gli altri, che prendono Adolf per un attore che interpreta
magistralmente una parte. Questo porta certo a situazioni stralunanti, laddove
Hitler continua ad essere sé stesso, venendo preso invece per un comico, per
questo osannato, per questo portato in palma di mano da uno show business
irrispettoso di ogni regola.
Il
testo è tutto in soggettiva, laddove seguiamo i pensieri del dittatore, e
vedendone i risvolti esterni siamo portati sia a riflettere sul passato, sia a
capire quanto sia facile, in quest’epoca dell’apparire, portare sugli allori un
personaggio televisivo che, analizzandone le parole, rievoca solo morte e
distruzione. Il gioco sta tutta nella contrapposizione tra eventi attuali visti
con una mentalità degli anni Quaranta. Facendone vedere contemporaneamente le
due assurdità: quella di una mente dittatoriale di allora e quella di alcuni
aspetti dei giorni nostri.
L’aspetto
a me meno congeniale è il sovente rimando ad aspetti della politica tedesca
attuale che, nonostante le ottime note in calce, mi rimane abbastanza lontano.
Cosa che invece non è lontana ma avvicina è la lunga postfazione dove lo
spirito giornalistico dell’autore ci rimanda, citazione per citazione le
affermazioni di “zio Wolf”, inserendole nel loro contesto reale, effettuando la
contro straniazione rispetto alle stesse frasi inserite nel contesto narrativo.
Concordo
infine con chi è rimasto deluso dal finale, come detto sopra. Anch’io avrei
preferito qualcosa di meno volatile. Di certo, in ogni caso, il testo di Vermes
ci fa riflettere sulle modalità con cui una persona dai marcati assolutismi
possa aver avuto l’appoggio di molte persone comuni. Perché è in dubbio che ne
abbia avuto.
Citerei
in finale la chiusa che anche Vermes usa citando a pagina 338 quanto secondo
lui disse Peter Ustinov: “Chi non ha dubbi, è pazzo”. Non ne ho trovato
traccia, ma la faccio mia, assecondandola ad un che invece è sicuramente reale,
di Voltaire: “Solo gli imbecilli non hanno dubbi”. Io di dubbi ne ho molti,
meno uno: leggete questo libro.
“È
preferibile non sposarsi. Questa è la cosa brutta nel matrimonio: crea dei
diritti. È molto meglio avere un’amante (citazione da “Monologhi dal quartier
generale del Führer” di Adolf Hitler)” (377)
Mo Yan “I quarantuno colpi” Repubblica
Mondo 3 euro 9,90
[A: 07/12/2018 – I: 13/06/2021 – T:
16/06/2021] - & +
[tit. or.: 四十一炮 Sishiyi pao; ling. or.: cinese; pagine: 476; anno 2003]
Premessa obbligatoria: non sono mai stato un
amante della letteratura orientale, che leggo con difficoltà; ma, in
particolare, non sono mai entrato in sintonia con gli scrittori cinesi (direi
praticamente nulla per quanto riguarda gli autori cinesi contemporanei, se non
quelli espatriati, come Qiu Xiaolong, o emigrati a Taiwan, come Chan Ho Kei).
Detto ciò, ero quindi curiosamente portato
alla lettura di questo libro, forse non il migliore, di Mo Yan. Anche se, per
questo e per l’insieme della sua opera, nel 2012, ha ricevuto il Nobel per la
letteratura, primo cinese ufficiale ad ottenere il premio, che prima di lui era
stato attribuito nel 2000 a Gao Xingjian, ma questi era già espatriato, ed
aveva ottenuto la cittadinanza francese, qualche anno prima.
Invece, Mo Yan è “cinese – cinese”, e come
tutti i maggiori scrittori, questo è lo pseudonimo di Guan Moye. Scrittore
nativo della cittadina rurale di Gaomi, con qualche imprecisione sulle date: 2
febbraio (wiki Italia), 17 febbraio (il miglior sito wiki, quello norvegese) o
5 marzo (Encyclopedia Britannica), sempre nel 1955. Non entro nella necessità o
nel vezzo dell’usare nomi altri, rilevo solo che “Mo Yan” in cinese significa
“non parlare”.
Io invece, parlo, e confesso che il libro non
mi è piaciuto neanche un po’. C’è chi accosta la prosa di Mo Yan al realismo
mistico, a Garcia Marquez o altro. Personalmente, constato solo che non mi ha
preso, non mi ha coinvolto. Ho cercato di trovare spunti, o riflessioni, nella
storia di Luo Xiaotong, ma, a parte lo scorrere delle sue parole narranti, le
immagini suscitate, la descrizione della vita rurale e del suo passaggio ad una
dimensione industriale, non mi ci sono trovato.
Soprattutto, perché lo scrittore utilizza,
bene ma non mi piace, un suo andare su e giù nel tempo, scandito visivamente
dal passaggio della scrittura dal corsivo all’italico. Il corsivo si svolge nel
presente, dove Luo Xiaotong racconta ad un monaco buddista custode del tempio
delle deità Wutong (su cui torneremo più avanti) la sua storia, come catarsi
per diventare anche lui monaco. L’italico è invece il passato, collocato
intorno al 1990, dove lo stesso protagonista racconta la storia del suo
villaggio e della sua famiglia.
Nel passato assistiamo a tutta la
trasformazione della campagna cinese da agricola ad industriale. Su due binari:
privato e pubblico. Nel primo vediamo il padre di Luo fuggire con l’amante,
vediamo la madre stringere la cinghia per andare avanti ed eventualmente
vendicarsi del marito, tanto da diventare (probabilmente) anche l’amante del
capo villaggio, vediamo il padre tornare dopo cinque anni, l’amante morta, insieme
ad una figlia da lei avuta, vediamo la crescita di Luo che diventa un fulcro
della vita industriale del villaggio, l’agnizione del padre che uccide la
moglie fedifraga, i tentativi finali di Luo per una catarsi di difficile
realizzazione.
Nel secondo, c’è tutta la parte “politica” di
Mo Yan (anche se lui la nega). Il villaggio agricolo che, per denaro, diventa
il “Villaggio del mattatoio”, dove i cittadini diventano feticisti, amanti così
tanto della carne (che si tratti di carne d'asino, barbecue mongolo o
"teppanyaki di quaglia") che le costruiscono un tempio. Non solo,
diventano avidi, vendono, per soldi, carne adulterata. Ed i contadini si
convertono in macellai senza scrupoli, poi si consorziano, industrializzano i
loro processi. Si arricchiscono a dismisura. Qui Mo Yan tenta di portare
l’attenzione ai pericoli della capitalizzazione cinese. Ma lo fa rivestendo le
parole di tutte le allegorie possibili.
Come ad esempio vediamo nel presente,
irrompere nel tempio automobili, donne discinte, e tante cose anche
iperboliche, ma che sembra dirci l’autore, come se il monaco cercasse di
mettere in difficoltà il futuro discepoli, con tentazioni “a cui non può
resistere”.
Se avrete la forza di resistere alle quasi
cinquecento pagine, ne vedrete di trasformazioni. Ma vedrete anche quanto
lontano sia la cultura cinese dalla nostra (o quanto noi abbiamo difficoltà a
conoscerla). Ad esempio, il tempio dove Luo parla al monaco è dedicato alle
deità Wutong ed a pagina 404, l’autore cita un passaggio dello scrittore Pu
Songling. Allora, forse pochi sanno che in effetti le “Wutong Shen” sono
un gruppo di cinque divinità sinistre, dedicate (anche) ai piaceri della carne.
Oltre ad esserne reali (ci sono templi a loro dedicati nella Cina meridionale),
lo scrittore Pu Songling, vissuto a cavallo del 1700, ne scrisse a lungo nel
suo testo fondamentale “Racconti straordinari dello studio Liao” una raccolta
di oltre 400 favole popolari cinesi. Questo chiude il cerchio che avevo aperto
all’inizio: se conosci tutto ciò, forse apprezzi Mo Yan, altrimenti le
aspettative di capire qualcosa decadono e lasciano poco piacere nella lettura.
Un
ultimo accenno: Luo nel finale spara 41 colpi di cannone contro il capo
villaggio (non vi dirò neanche se lo colpisce o meno), così come 41 sono i
capitoli del libro. E 41 sono tradizionalmente i colpi di cannone che vengono
sparati nelle onorificenze pubbliche, sotto l’esempio della tradizione
britannica. Ricordo che furono appunto sparati 41 colpi per le onoranze funebri
di Filippo d’Inghilterra. E ricordo che in cinese “cannonata” sta anche a
significare “vanteria” fuori misura. Saranno allora cannonate tutte le parole
che ci ha elargito Luo in tutto il romanzo?
Speravo decisamente meglio nella puntata
della collana dedicata alla Cina ed al suo premio Nobel.
“Se
vuoi il mio latte fatti avanti … Magari berlo è peccato, ma non soddisfare un
desiderio è un peccato ancora più grande.” (84)
Seconda
trama del mese, dedicata questo mese a combattere la xenofobia.
Invece, finiamo non con la paura del diverso,
ma con un inno al rispetto di ognuno. Rispetto che continuo a praticare in
questo giorno che segna un’importante svolta: finito il trasloco, ho uno studio
tutto mio dal quale vi scrivo. Dove sto rimettendo in ordine i libri,
ripensando ad un risibile commento dell’ottimo Fabio Stassi che, in un
libro para-scacchistico (dove ogni volta penso al mio amico Mauro), intitolato “La rivincita di Capablanca” scriveva “per i libri si era iscritto
alla New York Public Library e ne saccheggiava le riserve aurifere con puntuale
cadenza: un romanzo ogni tre giorni”. Se fate i conti sono circa 120 romanzi
all’anno. Che dire se quest’anno ho superato quota 200?
Ma non è questo che mi preme condividere, quanto la contentezza di questa fase, per cui ancora con più gioia tutti vi abbraccio.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2021
Cosa meglio che finire un anno ed
un libro con una citazione verso la paura dell’altro.
XENOFOBIA
Se vi capita di aver paura, o
addirittura di provare disgusto per chi proviene da un paese diverso dal
vostro, tuffatevi in questi libri di autori extraeuropei. Scritti da persone
originarie dei paesi dove sono ambientati, dimostrano quanto tutti noi siamo
sostanzialmente identici sotto la pelle e ci ricordano la nostra comune umanità
I DIECI
MIGLIORI ROMANZI PER CURARE LA XENOFOBIA
Jorge Amado “Jubiabà”
James Baldwin “Gridalo
forte”
David Grossman “Vedi alla voce: amore”
Harper Lee “Il buio oltre la
siepe”
Camara Laye “Un bambino nero”
Melania Mazzucco “Vita”
Harriet Beecher
Stowe “La capanna dello zio Tom”
Alice Walker “Il colore viola”
Richard Wright “Ragazzo negro”
Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano seguite dai
Taccuini di appunti”
Bugiardino
Per
la mia cultura e propensione personale, avrei aggiunto al titolo, oltre che “curare
la xenofobia”, “coltivare il rispetto”. Che ritengo sia il vero fondamento
della vita e dei rapporti umani.
Intanto,
di questa decina, Amado, Wright e Yourcenar li ho letti agli inizi degli anni ’80,
e li ritengo tuttora di una estrema vitalità. Lo zio Tom, addirittura, lo lessi
al liceo, e, purtroppo, è rimasto solo nella memoria remota. Grossman, come
molti autori israeliani, è stato il pane dei miei anni ’90. Rimangono fuori,
non letti e che forse non leggerò Baldwin e l’unica italiana, Melania Mazzucco.
Quindi parleremo del razzismo americano con Harper Lee e Alice Walker, e di
quello africano con Camara Laye. Insomma, si parla sempre di gente di colore
più scuro del nostro.
Harper Lee “Il buio oltre la siepe”
Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)
[tramato il 14 settembre 2008]
Un libro pieno di sorpresa, o
almeno tre: la prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse
un uomo. La seconda è la dura gradevolezza. La terza è che Atticus Fintch anche
nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck. Unico libro degno di nota
della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita, mantiene la sua forza, la
sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi,
con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da
una sordida fine i fratellini Fintch.
Vogliamo parlare del nero
accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde?
Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle
scuole lo stupendo film.
A Maycomb, Jem e Scout (figli
di Atticus Fintch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno
amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo
pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare
del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre.
Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom
Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che
avrebbe perso.
Al processo, Atticus dimostra,
senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre
della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi.
Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita,
quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene
ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio
un po’ di buio, infondo alla siepe.
Note di merito alla
traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera.
Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò
che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il
vicino di casa dei Fintch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non
conoscono. E, infatti, anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non
la spaventava più, ma non le appariva meno buia. Nel testo, invece, ci sono
diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa:
Uccidere un usignolo). L’usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo
cinguettio. Ucciderlo è quindi un peccato doppiamente grave.
Come usuale nelle mie prime
letture, inserisco in finale delle note biografiche. Harper Lee nasce il 28 aprile 1926 (toro!) a
Monroeville, Alabama, da padre avvocato (come nel suo libro), ma segregazionista,
e da una madre costantemente invalida per una persistente depressione. Ultima
di due sorelle e un fratello, Nelle Harper Lee frequentò la scuola pubblica del
suo paese e l’Huntington College, una scuola privata solo per donne. Si
iscrisse poi dal 1944 al 1949 all’University dell’Alabama, dove fece parte
della “sorority” Chi Omega e dove tenne su “Rammer-Jammer”, il giornale
umoristico degli studenti, da lei diretto, una rubrica intitolata
"Commento Caustico". Seguì un corso alla Oxford University con il
progetto di laurearsi in legge, ma lo interruppe sei mesi prima della laurea.
Nel 1949 si trasferì a New York, raggiungendo il suo amico d'infanzia Truman
Capote (da lei ritratto nel personaggio di Dill). Qui lavorò come impiegata per
la Eastern Air Lines e la British Overseas Airways; e, nel frattempo, scrisse
vari racconti e sviluppò "Il buio oltre la siepe", più volte
rifiutato dagli editori. I suoi amici, nel 1956, le regalarono un anno di
libertà economica per dedicarsi esclusivamente alla scrittura e lei si licenziò
dall’impiego. Dopo la pubblicazione presso le edizioni Lippincott del suo unico
e celebre libro, che in un anno vendette mezzo milione di copie, Lee collaborò
con Capote alla ricerca su un episodio di cronaca in Kansas che ha fornito la
base per il romanzo dello scrittore "A sangue freddo" (1965). Il
lavoro di Lee fu determinante per la stesura di questo testo; tuttavia, Capote
non lo riconobbe adeguatamente, limitandosi ad una dedica, per di più condivisa
con il proprio amante gay Jack Dunphy.
Harper Lee, che nel frattempo
aveva pubblicato soltanto gli articoli “Love – In Other Words” nella rivista
“Vogue”, “Christmas To Me” e “When Children Discover America” in “McCalls”, si
dedicò poi alla stesura di un secondo romanzo, "The Reverend”, ma non lo
diede mai alle stampe, per motivi che restano ignoti e che lei non chiarì.
La chiave dell'enigma legato
al suo ritiro e alla sua decisione di smettere di pubblicare, rinunciando a
sfruttare la propria notorietà e l'ondata di successo, sta nella sua
"personalità paradossale". Secondo sua sorella, il manoscritto di
“The Reverend” le venne rubato subito dopo il completamento e lei, semplicemente,
lo prese come un segno del destino. Quanto alla sua scelta esistenziale di
eterna “single”, Harper lo ha sinteticamente spiegato così: “Prima di poter
vivere con altra gente, devo riuscire a vivere con me stessa”. Il resto è
silenzio.
Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50
[tramato il 08 marzo 2015]
Un
bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi
(ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come
altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio
avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison,
ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura
come un romanzo epistolare.
Seguiamo
le vicende di Celie attraverso le sue lettere, prima a Dio, quando giovane e
spaventata, non sa a chi rivolgere le sue parole e come affrontare una vita
molto complicata. Poi alla sorella Nettie, da cui viene separata a forza.
Finendo poi nelle risposte che la sorella invia e che non sappiamo se arrivano.
Quindi mai una narrazione diretta, sempre una ricostruzione attraverso le
parole dei protagonisti. Siamo nella prima metà del ventesimo secolo, nel più
profondo Sud degli Stati Uniti, dove i neri si sposano solo per avere una
persona che curi i numerosi figli che nascono dentro e fuori il matrimonio.
Celie, abusata dal patrigno, vede sparire i suoi due figli. Poi, per salvare la
sorella Nettie dagli stessi abusi, accetta di sposare l’anziano (ma non
vecchio) Albert, e di fare la cameriera per tutti.
Così
Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le tracce per buona
parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta Harpo, il maggiore,
a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo di Shug, una cantante
(professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni l’amante di Albert.
La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare Celie (e lo
vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio diffidenza tra le
due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E grazie all'aiuto di
Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a spedirle, e che il
marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così che la sorella,
seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui erano stati
affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per un programma
di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel continente.
Attraverso
le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura con Dio, e si affida
alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo alla progressiva
demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo da parte della
rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di schiaffeggiare il
sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal marito. Celie,
attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare tutto e tutti. E
quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con Shug, mettendo a
frutto il suo talento, creando una piccola attività di sartoria. Sembra un bel
momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni dopo, sposata con un
ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di tornare al paese
natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità a Celie. Anche
Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio, si cura dei
figli e dei nipoti.
Intanto
Nettie cerca di tornare con i figli di Celie, ma nella traversata vengono
affrontati da navi tedesche (siamo ormai in guerra) e se ne perdono le tracce.
Il mondo sembra crollare, ma è proprio l’ex-marito che la sostiene nel piccolo
e le da quella pur poco consistente serenità per andare avanti. Per far
ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi avanti al ritorno di Shug, e finalmente
dichiarare apertamente l’amore che da sempre provava, e di viverlo. E quando
meno se lo aspetta, arriva Nettie con la sua nuova famiglia. Portando
definitivamente la felicità nella casa in cui tanti anni prima, tutto era
cominciato.
Si
sente molto che Alice Walker è un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa
in un modo corretto verso tutti. Si sente molto, e ne viene una grande rabbia,
il modo come i bianchi (che poco entrano direttamente sulla scena) tengono i
neri sotto il tallone. Si sente molto la capacità che può avere una donna
quando viene messa in grado di poter sfruttare al meglio le proprie capacità.
Si sente molto la bravura di una scrittrice che ha ragione di esistere anche
solo per aver scritto questo libro (probabilmente ne ha scritti molti altri, ma
per ora questo mi è sufficiente).
“Siamo qui … per far domande. Per chiedere.
E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle
piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)
Camara Laye “Un bambino nero” Aiep Editore euro 12 (in realtà, scontato
a 10,20 euro)
[scritto il 15 agosto 2021 e
non ancora pubblicato]
Uno
dei tanti libri di cui non conoscevo l’esistenza, e che le ormai mie mitiche
“libropeute” me ne consigliarono, e non invano, la lettura. Un libro che ci
porta tanto lontano, nello spazio e nel tempo. Nel tempo, che ci si muove in
un’Africa della fine degli anni ’40. Nel tempo, che l’autore ci porta in
Guinea. Anzi, per l’esattezza, in quella che viene chiamata Guinea-Conakry, per
distinguerla dall’altre Guinee. Ed ancor più precisamente, nella cosiddetta
“Alta Guinea”, la regione con capoluogo Kourussa, ai confini con il Mali.
Camara
scrive il libro agli inizi degli anni ’50, che mi porta a prima della mia
infanzia, suscitando anche scalpore, per la gentilezza con cui affrontava temi
non molto alla moda, al tempo. Ma anche perché qualcuno sostenne che fu aiutato
da “scrittori ombra”. Noi ci disinteressiamo delle polemiche, e vediamo il
risultato di un libro che nel tempo è divenuto un libro fondamentale della
francofonia. Che la Guinea di Camara era una colonia francese, al contrario
della Guinea-Bissau portoghese o della Guinea Equatoriale spagnola.
Lo
scritto ci porta fino ai primi ricordi dell’autore, alle sue esperienze presso
la famiglia avita, nella campagna di Tindican, e nella casa parentale di
Kourussa, la capitale della regione. Quindi seguiamo le parole di Camara, in
primis accogliendo con riverenza la proprietà di linguaggio. Si nota, anche
nella traduzione, che si parte da una lingua non propria ma ben introiettata,
con uso corretto di sintassi e costruzioni varie. Poi, vediamo che ci parla della
città e della campagna, della famiglia con tutte le sue estensioni, del lavoro
del padre, orafo da sempre, legato al mestiere e per questo riverito e ben
voluto.
Seguiamo
anche, nel corso degli eventi, quel misto di fede mussulmana e di tradizioni
animiste, ben presenti allora in quest’Africa narrata, ma che è sempre viva in
quella zona del mondo. D’altra parte, Camara non pretende di raccontarci tutto
il territorio (“L’Africa è vasta”, scrive). Ma non ci addentriamo nella fede,
se non per tornarci più avanti, quanto ci immergiamo nell’atmosfera selvatica
degli incontri che il giovane Camara effettua nelle camminate verso la scuola.
Un susseguirsi di leoni, cinghiali, capre, scimmie. Spaesando la nostra
percezione, o almeno quella delle nostre campagne, dove tuttalpiù si
incontravano conigli.
Ricco
di riferimenti culturali di un mondo che via via è scomparso, Camara arriva al
punto cruciale, quando parla del passaggio all’età adulta, che, come in ogni
paese mussulmano, passa per le pratiche mutilatorie. Si accenna, senza però
approfondirla, alla escissione femminile. Mentre si parla e si gira a lungo
sulla circoncisione. Sui sentimenti di attesa e di paura che provoca, sul fatto
di sapere (forse) cosa dovrebbe accadere, ma rimanerne tuttavia meravigliati, e
poi scossi. Anche se poi apprezziamo la bravura e la velocità del tagliatore di
prepuzi che svolge la sua opera su decine e decine di giovani in tempi
rapidissimi.
Ma
Camara sta stretto nella regione natia, e trova il modo di volare alto. Prima
nella capitale e poi addirittura in Francia. E mentre ne seguiamo il percorso,
apprezziamo la delicatezza con cui ci parla di tante piccole cose: la nascita
di sentimenti romantici verso l’altro, la sua famiglia, complessa ed allargata,
anche nella non facile convivenza con le plurimogli del padre (fantastica la
scena del regale della seconda moglie per la sua partenza). Poi la scoperta
della grande città, la descrizione commossa di Conakry, sia al suo arrivo, ma
in particolare durante le sue passeggiate. Lì, ha la possibilità di ottenere
una borsa di studio per Parigi. Lì vediamo la difficoltà di convincere la madre
alla partenza. Lì lo vediamo partire insieme alla sua amica Marie.
Lì
finisce la storia del ragazzo negro. Forse comincerà quella dell’uomo. Ma sarà
di certo un'altra, e scritta altrove. Noi restiamo ad apprezzare un piccolo
gioiellino, che serve ai giovani lettori per addentrarsi nella lingua francese,
ed a noi per evocare un mondo che solo in parte non c’è più. Una buona prova,
di certo, forse letto troppo tardi per apprezzarne in pieno le sfumature. Ai
giovani l’ardua sentenza.
Conclusioni
Finiscono così dopo cinque anni i libri “curativi”. Se ci
saranno ritorno, sarà per libri letti dopo la scrittura di queste note. Non arrabbiatevi
di tutto ciò, ma continuiamo con il motivo conduttore di questo mese (e di
questi anni): il rispetto.
Buona fine dell’anno, come buona è a fine di questo libro.
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