Ecco che sta finendo un altro anno, e terminiamo
anche una collana dalle premesse interessanti e dai risultati altalenanti. L’idea
di Repubblica era decente: pubblicare un racconto per un decina di “Grandi
Investigatori”. Allora qui ne abbiamo gli ultimi cinque, con delle scelte che
premiano tre grandi classici: Sherlock Holmes, Hercule Poirot ed Ellery Queen. Mentre
quelli che più mi stanno vicino al cuore, hanno subito scelte di pubblicazione
mediocri per il commissario Ricciardi ed assolutamente pessime per Pepe
Carvalho.
[A: 07/05/2021 – I: 05/06/2021 – T:
05/06/2021] &&&
--
[titolo: A Scandal in Bohemia;
lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1891]
Devo dire che, tra tutti i Gran di
Investigatori, non ho mai avuto una soverchia passione per Sherlock Holmes.
Forse perché non ho grande empatia con la scrittura di Sir Arthur. Fatto sta
che, pur trovando in un certo qual senso brillanti le idee del nostro, la loro
trasposizione cartacea non mi ha mai soddisfatto a pieno. Forse anche perché,
alla fin fine, sono pochi i romanzi, ma molti i racconti con il nostro che fa
da protagonista.
Altrettanto poca empatia mi suscita il pur
bonaccione dr. John Watson, che mi sembra sempre sia troppo “meravigliato” da
quello che succede, teso a riportarne su carta gli svolgimenti, ma poco teso a
capirne qualcosa.
Sebbene avesse già scritto due romanzi,
questo è il primo racconto imperniato su Sherlock, uscito nell’antologia “The
adventures of Sherlock Holmes”. Ed è l’unico in cui compare una donna, Irene
Adler. È anche considerato da Holmes uno dei suoi più grandi fallimenti. Il
nostro viene ingaggiato dal re di Boemia (regno esistente realmente alla
scrittura del testo) indicato con il nome di Wilhelm Gottsreich Sigismond von
Ormstein (completamente inventato) con il compito di recuperare delle foto
compromettenti che lo ritraggono insieme ad una tal Irene Adler, attrice e
(secondo la fama) avventuriera. Travestito da vagabondo si aggira nei dintorni
della casa di Irene, venendo casualmente coinvolto come testimone nel di lei
matrimonio segreto con l'avvocato Godfrey Norton. Per capire dove sia la famosa
foto, Holmes si travesta da prete, inscena una rissa, si finge ferito e si fa
accogliere in casa. Watson lo aiuta dall’esterno lanciando un fumogeno, così
che, con la sua acuta capacità d’osservazione, Sherlock comprende il vero
nascondiglio. Il giorno dopo Holmes, Watson e il duca, si presentano a casa di
Irene, che però aveva capito il trucco di Holmes, ed era scappata con il
marito, portando con sé la foto, e sostituendola con una sua personale, con
dedica a Sherlock, dove si complimenta per l’arguzia del nostro investigatore.
Holmes rimane basito, e come pagamento da parte del duca, sceglie di tenere
solo la foto, senza accettare nessun compenso in denaro.
Per la precisione storica, gli avvenimenti
descritti da Conan Doyle avvengono a Londra il 20 e 21 marzo 1888. Per
l’imprecisione letteraria, Irene non compare più direttamente (solo accenni),
anche se gli epigoni di Sir Arthur costruiranno montagne di storie con la sua
presenza. L’unica che a me è piaciuta, per l’inventiva e la freschezza,
comunque è la serie per ragazzi, scritta da Alessandro Gatto dal titolo “Sherlock,
Lupin e io”, dove l’autore inventa un’amicizia giovanile tra Irene Adler,
Sherlock Holmes e Arséne Lupin. Dal punto di vista delle stranezze attribuite
ad Irene, in una fantasiosa biografia, dopo la finta morte di Holmes, questi si
rifugia in Montenegro, dove è raggiunto da Irene, vivono tre anni insieme
facendo gli attori girovaghi, e generando un figlio, cui viene imposto il nome
di … Nero Wolfe. Non faccio commenti.
Passiamo
al solito a vedere le caratteristiche del personaggio “Sherlock”, anche se,
data la sua grande fama, forse ne sapete meglio voi. Comunque, analizzando i
vari scritti, arriviamo a queste considerazioni generali. Sherlock nasce il 6
gennaio 1954, è sempre celibe, anche se ha una donna nel suo cuore, l’Irene di
questo racconto. Ha occhi di colore chiaro, che risultano “acuti e penetranti”.
I capelli sono neri, corti, e pettinati all’indietro. Di corporatura magra, è
alto circa un metro e novanta. La carnagione anche è pallida, e veste
sobriamente, con abiti tendenti al nero. È deciso, sicuro di sé, molto attivo
quando ha un nuovo caso che lo appassiona. Altrimenti diventa apatico,
indolente e scontroso. La sua dimora abituale è, ovviamente, il 221b di Baker
Street. Ha una cultura varia, senza una specializzazione particolare, seppur
molto ferrato in chimica e botanica.
Infine,
ci sono due cose da sottolineare, una vera e l’altra inventata. La vera è una
frase che dice ne “Il segno dei quattro”: “Una volta eliminato l'impossibile,
ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Frase che
sottolinea la necessità di osservare e non solo di vedere. Come in questo
racconto, dove Watson vede dei gradini, e lui dice che sono diciassette. La
falsa è la frase “Elementare, Watson!”, da lui mai pronunciata, ma che fu
inserita dall’attore William Gillette nel testo teatrale “Sherlock Holmes”,
rappresentato per la prima volta al Garrick Theatre di Broadway, New York, il 6
novembre 1899. In quella prima, Gillette inoltre indosso il famoso cappello da
cacciatore (il “deerstalker”) e fumò la pipa ricurva (la “calabash”). Possiamo
quindi concludere che, senza Gillette, non avremmo lo Sherlock che conosciamo.
Maurizio de Giovanni “L’omicidio Carosino”
Repubblica “I Grandi Investigatori” 8 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T:
18/06/2021] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno:
2012]
È la terza volta che mi imbatto in Carosino,
dalla prima lettura che ne feci nel 2013, nella breve antologia “I primi casi
del commissario Ricciardi”, passando per “L’ultimo passo di tango”, letto
cinque anni dopo e che, nella poco sincera quarta sostiene contenere tutti i
racconti di de Giovanni. Affermazione vera solo per i racconti con Ricciardi, e
questo in particolare. Infine, questa poco brillante serie in omaggio con
Repubblica, di cui non finirò mai di parlarne male.
Intanto, al fine di non ripetermi, riporto
quanto scrissi qualche anno fa:
“Il primo testo [di “L’ultimo passo di
tango”, regalo della mia amica Otto], poi, è in assoluto la prima uscita del
commissario, nato quasi per scommessa come risposta ad un concorso letterario
cui l’autore non voleva partecipare. E mentre pensa (come confessa nella
postfazione) seduto al Gambrinus, gli viene fuori la storia di questo
commissario che vede i morti. Solo i morti di morte violenta, che gli ripetono,
come in un film che si inceppa, le ultime parole prima della morte. Un dono (o
una maledizione) che sappiamo anche dai romanzi gli deriva dall’infanzia, e
forse gli viene trasmessa dalla madre. Ed anche qui, ne “L’omicidio Carosino”,
è la frase della duchessa che gli fa venire in mente la reale soluzione
dell’omicidio. La duchessa è donna di mondo, si accompagna con un giornalista
sposato, e sarà la moglie di questi (non svelo nulla che viene ben presto
detto) a spararle al petto. Ma noi ed il commissario sappiamo che la duchessa è
già morta. E la frase, nel giro di tre pagine, lo porta alla soluzione. Che
forse non porterà alla condanna perché poi il commissario è anche empatico con
le situazioni che affronta. E, benché nel pieno dell’era fascista, è sempre al
limite della ribellione.”
Chi poi ha seguito la serie tv dedicata al
commissario, ricorderà lo svolgimento dei fatti. Laddove, lo sceneggiato,
dilatando i tempi, riesce a dare una visione migliore e più completa delle
parti in causa: la baronessa Carosino ed il suo sfarfalleggiare nel bel mondo,
il giornalista amante, la moglie tradita, il portiere ladruncolo, le famiglie
affamate in quegli anni Trenta non certo agevoli. Uno dei pochi casi in cui mi
ha soddisfatto più la sceneggiatura che il testo originale.
Come al solito, in questa serie, vediamo
anche un po’ più da vicino questo nono Grande Investigatore.
Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte,
nasce il 1° giugno 1900, quindi durante la maggior parte delle indagini, è
sulla trentina. Presto orfano dei genitori, si trasferisce a Napoli, si laurea
con lode in giurisprudenza ed entra nella squadra mobile della regia Questura.
A Napoli è accudito dalla tata Rosa Vaglio, e, alla morte di questa, dalla
nipote Nelide. È frugale, in genere pranzo con una sfogliatella al caffè
Gambrinus o al massimo un trancio di pizza, cena leggero la sera, e non porta
il cappello. Non desidera fare carriera, ma soltanto risolvere i casi che gli
arrivano, aiutato da quello che lui chiama il “Fatto”, e di cui parliamo più
avanti. Per questo è abbastanza isolato in Questura, e si accompagna soltanto
con il fedele brigadiere Raffaele Maione (che vive nei Quartieri Spagnoli) e
dal razionale e antifascista medico legale Bruno Modo. Non ha un gran rapporto
con le donne, proprio a causa del “Fatto”. Viene spudoratamente corteggiato
dalla bella e ricca ex cantante lirica Livia Lucani (vedova del famosissimo
tenore Arnaldo Vezzi), ma, sebbene lusingato, non cede alle di lei profferte.
Anche perché è da sempre innamorato a distanza di Enrica Colombo, una timida
vicina di casa con la quale, inizialmente, scambia solo occhiate dalla finestra.
Anche se alla fine, spinto prima da Rosa, poi da Nelide, darà vita ad una
timida storia d’amore (per saperne di più leggete gli ultimi due romanzi della
serie).
Dicevamo, la sua vita è condizionata dal
“Fatto”: la capacità di percepire le ultime parole e i sentimenti delle vittime
di morte violenta. Parole e visi che poi pian piano svaniscono, ma che gli
danno modo di indirizzare le indagini. O di consolare il fido Maione dalla
morte del figlio Luca. Aiutato dal “Fatto” e dalla sua storia personale, è dotato
di un profondo senso di giustizia che lo spinge a indagare a fondo tutte le
sfaccettature di un caso, anche dopo aver ottenuto una confessione dal presunto
colpevole, pur di non mandare in galera un innocente.
Riccardi è il protagonista di 12 romanzi scritti
da de Giovanni, che giura il dodicesimo essere l’ultimo, senza altri episodi.
Staremo a vedere.
Agatha Christie “Il sogno” Repubblica “I
Grandi Investigatori” 7 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T:
18/06/2021] &&&
[titolo: The Dream; lingua: inglese; pagine: 46; anno:
1938]
Si
riconosce subito quando una persona, una scrittrice, sa scrivere. Si riconosce
subito quando sa scrivere si gialli. Si riconosce subito quando conosce come
gestire un romanzo o un racconto. Tutto ciò per dire che Agatha Christie è
insuperabile, soprattutto in questa dimensione.
Sa
farci entrare nell’atmosfera, caratterizzare il giusto i personaggi, non
dilungarsi in descrizioni utili solo a fuorviare il lettore. Ha inoltre il
giusto tocco di ironia e sfida, quando il personaggio dice di aver capito quasi
tutto, mentre noi brancoliamo nel buio totale.
Non
è quindi un caso che in questa breve (e poco fortunata) collana entrino
entrambi i suoi due personaggi. Ho parlato già di Miss Marple. Qui ci occupiamo
di Hercule Poirot.
Intanto,
occupiamoci del racconto. Costruito alla tipica maniera di Agatha. Si
introducono i personaggi: entra Poirot, che non ha bisogno di presentazioni, si
incontra con Farley, un facoltoso signore, o meglio, entra in contatto con un
tizio che gli racconta di aver paura di morire a fronte di un sogno ricorrente
da lui fatto, in cui, alla fine, si suicida. Elemento fondamentale della trama
è la lettera che Farley ha scritto a Poirot per convocarlo, il fatto che la
rivoglia indietro, l’errore di Poirot di scambiarla con la lista della lavanderia,
errore ignorato da Farley, e rimessa in ordine dei pezzi di carta al loro posto
prima di lasciare la magione. Senza peraltro esser riuscito a rasserenare
Farley sul futuro.
Ovvio
che dopo qualche tempo, Farley viene trovato morto, apparentemente suicida.
Ovvio quindi che, trovando la lettera tra le carte di Farley, Poirot venga
convocato come “persone esperta dei fatti”. Tutto fa pensare al suicidio: il
sogno, la stanza chiusa, nessuno che vi possa entrare né da porte né da
finestre. Moglie e segretario che insistono sulla paura di Farley a fronte del
famoso sogno. Ma Poirot ha un cervellino molto funzionante, e, a parte avere in
dubbio le dichiarazioni di molti presenti, quando scopre che il morto odiava
chinarsi e, per raccogliere oggetti, usava delle mollette estensibili (anche se
questo è il nome dato all’epoca a quegli oggetti che ora vengono venduti come
“pinza telescopica”), la soluzione arriva lampante e il suicidio viene rivelato
come essere un vero e proprio, nonché meditato, omicidio.
Veniamo
allora al nostro piccolo investigatore belga. Fisicamente, quando compare nelle
storie della Christie, è un uomo già maturo, con la testa a forma d’uovo,
capelli tinti, occhi verdi, e soprattutto un paio di baffetti sempre ben
curati. Inoltre, veste impeccabilmente, dall’aria quasi di un dandy wildiano.
Anche se sappiamo aver avuto una donna nel cuore: la contessa russa Vera
Rossakoff, che appare in un paio di romanzi.
Poirot
è belga, sfidando così i detti sornioni alla francese, che trattano i belgi come
noi, nelle barzellette, trattiamo i carabinieri. Era capo della polizia a
Bruxelles, poi pensionato. Durante la Prima Guerra mondiale, ferito ad un gamba
per cui sarà sempre un po’ claudicante, viene evacuato verso la Gran Bretagna,
dove da allora vivrà per sempre. È lì che risolve il suo primo caso (“Poirot a
Styles Court”, uscito nel 1920). Ed è a Londra che si stabilisce al 56B
Whitehaven Mansions, Charterhouse Square, Smithfield, London W1.
Poirot
è orgoglioso, fiero del suo cervello, ama essere lodato, ed applica il suo
metodo infallibile per risolvere i casi: ordine e metodo. Tanto che dirà ad un
suo sodale ispettore inglese, di preferire un approccio psicologico al crimine,
e quindi che, usando le sue "cellule grigie", riuscirebbe a risolvere
i casi, stando comodamente seduto in poltrona. Come tutti gli scrittori di
intelligente capacità, Agatha scrive anche un ultimo romanzo con Poirot, che si
intitola “Sipario”, dove Poirot muore a seguito di complicazioni
cardiovascolari, dovute al fatto che Poirot uccide un serial killer. L'azione
crea a Poirot, ormai anziano e malato, un senso di colpa che lo conduce alla
morte. Ma Poirot è talmente noto che l’uscita del libro provoca il giorno dopo
l’uscita di un necrologio, scritto da Thomas Lask, che iniziava con queste due
frasi: “Hercule Poirot, detective belga divenuto famoso a livello
internazionale, è morto in Inghilterra. La sua età era sconosciuta."
Ricordiamo
infine la genesi del nome, che venne in mente alla scrittrice unendo due metà
di personaggi letterari, all’epoca abbastanza noti: il nome deriverebbe da
Hercule Popeau, pensionato della polizia francese, personaggio descritto
“piccolo e rotondetto”, creato nel 1912 dalla scrittrice franco britannica Marie
Adélaïde Lowndes Belloc. Il cognome sarebbe invece una storpiatura di Jules
Poiret, ufficiale della polizia francese, ritiratosi a Londra, e creato nel
1909 dal gallese Francis (Frank) Howel Evans. Vedete bene come i vari caratteri
si intreccino. L’originalità della Christie è l’aver messo l’accento sul
Belgio.
Manuel Vazquez Montalban “La dea nuda”
Repubblica “I Grandi Investigatori” 9 s.p. (in omaggio con Repubblica)
[A: 22/05/2021 – I: 19/06/2021 – T:
19/06/2021] - &
[tit. or.: La diosa desnuda; ling. or.:
spagnolo; pagine: 46; anno 2011]
Penso
che sia abbastanza noto il mio amore per Vazquez Montalban, sia per i 18 libri
suoi che sono nella mia biblioteca, sia per quel breve incontro, avuto ai tempi
dell’estate romana a Massenzio, quando si riusciva a parlare di libri, si riusciva
ad incontrare gli autori. Cose ora impossibili, non tanto (o non solo) per
problemi pandemici, ma soprattutto perché nessuno in Italia investe più nella
cultura.
Ricordo
solo, in quell’incontro, che parlai con lui dei suoi primi libri, riuscendo ad
avere un autografo in “Yo maté Kennedy”, che avevo portato appositamente da
casa. Momenti irripetibili.
Ciò
detto, non posso passare sotto silenzio l’inutilità di questo racconto. Non ha
nerbo, non ha quasi storia, mi sembra proprio che Montalban non avesse molto
nelle sue corde questa dimensione. Aveva bisogno di spazio, di tempo, per dar
modo ai suoi personaggi di entrare nelle loro manie, nella loro quotidianità.
Qui, se non sapessimo chi è il nostro Pepe, potremmo leggerlo come un qualsiasi
racconto con un qualsiasi personaggio alla ricerca non di risolvere un giallo,
e forse neanche un mistero.
Un
tizio ingaggia il nostro ispettore perché capisca cosa faccia la figlia,
libertaria e sbandatella. Il tizio è insopportabile. La figlia ha atteggiamenti
provocatori con tutti. Con il padre, con il vecchio amante che usa solo per
innervosire il padre. Con Pepe, cui si mostra discinta oltre il limite. Bella è
bella, e “desnuda” appare più di quanto sia utile al racconto. Pepe la segue,
cerca di capire le sue frequentazioni con gli ambienti un po’ out di
Barcellona. Ne conosce la madre ed il fratellastro problematico, dal punto di
vista fisico.
E
poi capisce perché la dea frequenta chi frequenta, cerca le cose che cerca,
compra la droga sottobanco, ed altro. Ma non per uso personale, bensì… Beh, se
volete saperlo leggetelo pure, tanto ci si mette una mezzoretta, neanche tanto
gradevole.
Ma
dov’è Charo, dov’è Biscuter, dov’è la villetta di Vallvidrera ed il suo
imperdibile camino? Dove sono le Ramblas ed il suo ufficio? In fondo, dov’è la
sua e la nostra Barcellona? Da nessuna parte. Un libro decisamente inutile.
Non
inutile, invece, cercare di delineare il personaggio Carvalho. Secondo i cenni
che ho tratto dai molti libri letti, nasce in Galizia, probabilmente intorno al
1939, verso la fine della Guerra Civile. Partecipa da giovane alla lotta
clandestina antifranchista, conosce il carcere. Incongruentemente (nel primo
libro di cui sopra) lavora quattro anni come agente della Cia. Poi torna a
Barcellona a fare l’investigatore privato. È un antieroe solitario, che, pur
amando la sua città, ama viaggiare (ah, come lo capsico).
Non
ha mai avuto una connotazione precisa dal punto di vista fisico, che l’autore
ha invece insistito sul lato “umano”, sulle debolezze e le forze. Ad esempio,
leggendario è il camino della libreria di Vallvidrera, dove brucia i libri
letti nel passato. Libri che non gli servono più per capire il mondo. Anche se
ha sempre delle remore, quando si avvicina a Conrad (in parte, ma solo in
parte, lo capisco).
La
passione vera è invece la cucina, sia nelle vesti di cuoco sia in quelle di
commensale. Tanto che sono uno dei non tanti possessori di un libro invece
imperdibile: “Las recetas de Carvalho”, che trovai in un delle mie escursioni
spagnole. Pieno di ricette, e di suggerimenti. Perché, come dice Montalban: “La
cucina è, come la letteratura, un altro modo di creare mondi immaginari”.
E
non è un caso che io abbia la tetralogia completa delle ricette “da
investigatori”: posseggo i ricettari della signora Maigret, di Nero Wolfe, di
Pepe Carvalho e di Salvo Montalbano.
Per
finire con il nostro, ci sono alcune imprecisioni sul nome, a volte riportato
come José Carvalho Tourón e altre volte come José Carvalho Larios. Inoltre, nel
“Quintetto di Buenos Aires”, il doganiere leggendo il passaporto, lo chiama
Pepe Carvalho Tourón. È anche portato verso l’oblio dall’autore, che
nell’incompiuto “Millennio”, ne fa perdere le tracce in giro per il mondo (un
libro di cui ho sentito parlare, ma che non ho mai avuto il cuore di leggere).
Ellery Queen “L’avventura della signora
barbuta” Repubblica “I Grandi Investigatori” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 22/05/2021 – I: 27/06/2021 – T: 27/06/2021]
&&&
---
[titolo: The Adventure of the Bearded Lady; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1933]
Con
questo, in anticipo rispetto alla programmazione pubblicizzata, Repubblica
chiude il ciclo degli omaggi dedicati ai grandi Investigatori. Pur tirando le
orecchie all’editore per la sua scarsa professionalità, devo dire che è una
chiusura in bellezza. Non tanto per il racconto in sé, che pure è ben fatto ed
esemplare, ma per l’omaggio ad uno dei più longevi personaggi delle scene
investigative. Ed anche per la complessità della sua “nascita”.
Infatti,
i romanzi ed i racconti vengono pubblicati a nome Ellery Queen, che è il personaggio
centrale delle indagini. Ma questo è solo il nome dietro cui si nascondono i
due cugini Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee. Due cugini newyorchesi,
di origine ebraica, cresciuti a Brooklyn, e nati entrambi nel 1905, con il vero
nome di Daniel Nathan per Frederick e Manford Lepovski per Manfred. Insomma,
una bella matrioska gialla.
Prima
di tornare al personaggio, vediamo intanto questo racconto. Sono passati cinque
anni dalla nascita di Queen sulla carta, e sei romanzi. Questo è invece il quarto
racconto. Come i romanzi avevano la caratteristica di includere il termine
“Mystery” nel titolo, i racconti erano caratterizzati dall’iniziale “The
Adventure of…”, anche se il termine ha un’accezione leggermente diversa che il
nostro “Avventura”. Come in questo caso che la “signora barbuta” non è che sia
un’avventura vera e propria.
Il
racconto segue le tracce del classico degli Anni Trenta “whodunit”, cioè “chi
l’ha fatto”, ricerca del colpevole attraverso gli indizi. Questo, inoltre è il
primo racconto che utilizza un espediente poi spesso ripreso, denominato “dying
clue”: indizio di chi muore, cioè un indizio lasciato dalla vittima
immediatamente prima di essere uccisa.
La
storia è una scatola cinese complicata di eredità, di morti normali, e di possibili
successioni palesi o meno. Il morto non accidentale è un dottore, da anni
ospite di una casa signorile dove la morte della capostipite lascia un conto
aperto verso la successione. Che la vecchia, disereda i nipoti poco prima della
sua morte per infarto, nominando una parente da anni trasferitasi in
Inghilterra. Parente figlia di un fratello del di lei marito (il possidente
capostipite), fuggita con lui e con il fratello lontano dall’America per
dedicarsi al teatro. Morto lo zio (sicuro), morto il fratello (probabile ma non
certo), Edith torna nella casa dove vivono appunto il dottore, ed i due figli
del possidente.
Il
dottore è anche un appassionato di quadri, ed Ellery lo trova nel suo atelier,
pugnalato, mentre stava finendo di dipingere la riproduzione del quadro di
Rembrandt “L’artista e sua moglie”. Il dottore ci lascia però l’indizio chiave:
disegna una bella barba sulla faccia della moglie di Rembrandt. Non dico altro,
che il mistero è tutto qui, e ben chiaro. Anche ben scritto, che alla fine, Ellery
in quattro pagine ricapitola tutta la storia e chiarisce tutti i punti oscuri.
Ben fatto, anche se, appunto, il mistero è abbastanza esile.
Venendo
al personaggio, si scoprirà ad un certo punto che nasce, come i cugini, nel
1905. A metà strada, essendo uno di gennaio, l’altro di ottobre, Ellery nasce a
giugno. La madre, probabilmente facoltosa, muore presto, lasciando ad Ellery di
che studiare (si laurea ad Harvard) e di che vivere senza lavorare. Il padre,
Richard, è ispettore capo della Squadra Omicidi, e spesso, nelle prime
avventure, Ellery da una mano al padre per risolvere i misteri.
Anche
la vita privata di Ellery è misteriosa. Nei primi romanzi, c’è una specie di
flashback dove si dice Ellery essersi sposato, avere una figlia ed essersi
trasferito a vivere in Italia, vicino a Fiesole. Poi questi indizi scompaiono,
rimane lui, un po’ dandy, un po’ gigione, nella sua casa di arenaria al centro
di New York. Sempre nella prima fase, sembra anche dimostrare un discreto
interesse verso l’altro sesso. Ad esempio, qui parla con garbato interesse di
una fanciulla spagnola, e verso la fine chiede ad un avvocato l’indirizzo della
bella infermiera che circola nel palazzo, di cui aveva intravisto le belle
fattezze in controluce al chiaro di luna.
Tuttavia,
tutti questi piccoli vezzi esteriori a poco a poco spariscono. Rimane
l’investigatore che per il gusto intellettuale di svelare i misteri, viene
chiamato sulle scene dei crimini, e che non ha pace fino a che non riesce a
risolverli. Una formula asettica, che mette una bella barriera tra il
personaggio ed i suoi autori. Talmente ben fatta, che negli ultimi venti anni
di scrittura (l’eroe termina di esistere nel 1971) spesso i due cugini affidano
la stesura dei romanzi a “scrittori fantasma”.
Terza trama, niente cure librarie, niente
libri felici, ma tante citazioni del vostro Ireneo Funés (super citazione, a
voi scoprirla).
Ci avviciniamo al Natale, oltre ad essere
sempre i più buoni, abbiamo novità e molte. Ho iniziato a costruirmi uno studio
tutto mio dove lavorare, abbiamo fatto un trasloco, si è sposata mia nipote (i
lutti ci sono stati, ma quelli li porto dentro il cuore, da solo). E pensando
al padre della sposa, cioè mio fratello, mi è venuta in mente questa citazione
di Janet Evanovich tratta dal suo primo romanzo, “Bastardo Numero Uno”: “indossai una
t-shirt … e misi le scarpe da jogging… arrancai per il primo chilometro… il mio
corpo non è stato progettato per correre. Il mio corpo è stato progettato per
star seduto in una macchina costosa e guidarla”.
Dato infine che a Natale siamo tutti più buoni e rispettosi, io non mi esimo da pensare a tutti voi, ad abbracciarvi.
Citazioni dagli appunti di
Giovanni
Citazioni di dicembre
“E
mi addormento come in un letargo”, un ex ergo che forse solo i Borgogni coglieranno,
ma che introduce una nuova tornata di citazioni, che accumulai dal gennaio al
marzo del 2009. Citazioni, spesso, che vengono a grappoli, spesso più di una
per libro.
La
prima tornata risale alla fine di gennaio. Lunghissime rimembranze da un breve
racconto di Simona Vinci, tratto dalla collana del “Corti di Carta” del
Corriere. Si trattava di “Un’altra solitudine”, e sfidava la mia voglia di
essere solo insieme a qualcun altro. Simona cominciava dicendo: “quando un uomo incomincia a essere solo dentro la sua
testa, non si può convincerlo a tornare indietro” (ed io solo in testa non lo
sono mai stato); poi “quando si è immersi nella Natura non si è mai soli” (ed
io continuavo a spingere per i miei viaggi africani). E sempre sui viaggi,
concordavo: “una persona che non ha mai fatto un viaggio da sola, si conosce
poco”. Inoltre, sosteneva: “la solitudine, al contrario del suo compagno
cattivo, l’isolamento, può essere uno straordinario esercizio di libertà”.
Concludendo, infine “la maggior parte delle persone che si sentono sole sono
single, oltre i 54 anni” (che era proprio l’età di quell’anno).
All’inizio di febbraio mi imbattevo in un autore molto
acclamato seppur di nicchia (e di
nicchia rimane). Lessi “Parenti lontani”
di Gaetano Cappelli. Dove mi
rimasero due frasi, una di storie allora già passate, una di storie forse
future forse sognate. La prima “sto vivendo il decorso di ogni storia
tra un uomo e una donna: all’inizio ti sembra un sogno che vorresti non finisse
mai; dopo, non molto dopo, le cose si complicano, ci sono regole, imposizioni,
divieti ed eccoti il sogno bell’e trasformato in incubo da cui vuoi sloggiare”.
E la seconda: “è una gran donna: ha un corpo statuario e un talento naturale da
geisha… è bravissima in cucina quanto a letto!!”.
Non esimendomi poi dai viaggi (anche se
quell’anno dovevo aspettare agosto per coronare un mio sogno), aderii in toto
alla frase di Marcello Fois, che “In
Sardegna non c’è il mare” riportava: “come Seneca dice a Lucillo: non è
spostandosi che si risolvono i problemi”.
A cavallo dei grandi compleanni di febbraio, mi dedicavo
alle letture francesi. Dove c’era un illuminante Georges Simenon che ne “La pazza di Itteville” in un Maigret prima di Maigret affermava: “mi
è capitato, in qualche salotto, di sentire qualcuno chiedersi scioccamente se è
possibile amare due donne allo stesso tempo… io non lo so… non sono uno
psicologo”.
Mentre la mia amata Fred Vargas in “Sous les vents de Neptun” sottolineava un analogo concetto scrivendo: “il faut deux fenêtres pour faire un
courant d’air” [cioè : c’è bisogno di due finestre per fare una corrente d’aria].
A metà mese, ripresi invece la lettura dei “Corti di
Carta”, dove l’esimio storico Valerio
Massimo Manfredi sosteneva in “Midget War”: “quello che sappiamo proviene sempre dalla
nostra esperienza” (un po’ tautologico…), mentre l’esimio saggista Gabriele Romagnoli riprendeva in “L’unico al mondo”: “tutti gli enigmi del mondo si dissolvono in
una carezza”.
Mentre la fine di febbraio fu completamente occupata
da un altro dei miei idoli letterari, Amos
Oz e da uno dei suoi più bei libri: “Una storia d’amore e di tenebra”. Una meta autobiografia, con alcune perle fondamentali: “se non ti restano più lacrime per
piangere, non piangere. Ridi”, “quando si vuol bene si perdona tutto fuorché il
tradimento”, “l’unico viaggio da cui non si torna a mani vuote è quello dentro
noi stessi”. Per terminare con una citazione del profeta Geremia, ripresa in
altro contesto da un romanzo di J. T. Leroy: “Il cuore è ingannevole più di
ogni altra cosa, è incurabile. Chi lo può conoscere”.
L’inizio di marzo si scontrò con altri racconti editi
da Repubblica, questa volta interessanti, in quanto bilingue (cioè tradotti con
testo a fronte, un esercizio utile per vedere le difficoltà della traduzione,
le scelte dei traduttori, il loro “tradimento”). Due mi sono rimaste impresse.
Una di Saul Bellow che in “Un piatto d’argento” mi
dice: “Sono di solito gli
egoisti a essere soprattutto amati. Fanno quello che tu neghi a te stesso ed è
per questo che li ami”. L’altra dell’amato-odiato Ernest Hemingway, che nel
bellissimo “La breve vita felice
di Francis Macomber” sostiene: “non
c’è piacere in nessuna cosa che aspetti troppo a lungo”.
In un passaggio di metà
mese,
Gianluca Morozzi nel purtroppo poco interessante “Despero” comunque tira fuori una
frase da riflessione: “è meglio aver amato e perduto che non aver amato per niente”.
Ci fu poi una bella accelerazione nelle ultime due
tronate marzoline. In una spiccavano il libro unico ma molto intenso di Pascal Mercier “Treno di notte per Lisbona”
ed uno dei tanti libri della poco valutata Maeve Brennan, qui letta ne “La
visitatrice”.
Pascal è pieno di riflessioni.
La prima arriva da una citazione: “Marco Aurelio: … è breve la vita per ciascuno. E questa tu l’hai quasi
interamente consumata senza portarti rispetto, ma anzi hai riposto nelle anime
di altri la tua felicità… quelli che non seguono i moti della propria anima è
inevitabile che siano infelici”. Proseguendo con una constatazione valida per
molti: “mi è capitato mai di dare retta davvero a qualcun altro?”. Un pensiero
al corretto uso dell’amicizia: “non si può fare degli altri … i portatori
d’acqua nella rincorsa alla propria felicità”. Ed una sequenza di frasi sullo
scorrere del tempo e sul nostro esistere in esso: “Perché tutte quelle cose
facevano ancora male? Perché in venti, trenta anni non era riuscito a
scrollarsele di dosso?”; “La vita non è ciò che viviamo; è ciò che ci
immaginiamo di vivere”; “quando il tempo di un’esistenza è agli sgoccioli, non
ci sono più regole che contano. E allora è come se a uno desse di volta il
cervello e fosse maturo per il manicomio. Ma in realtà è esattamente il
contrario: al manicomio dovrebbero andarci quelli che non vogliono ammettere
che il tempo è agli sgoccioli. Quelli che continuano come se niente fosse.”: “fai
del tuo tempo qualcosa che valga la pena … [bisogna] … combattere contro
l’errore di credere che ci sia sempre il tempo per farlo, più in là…. Non
mancare nei confronti di sé stessi”.
Maeve invece ha una solo
frase: “soltanto … ciò che non chiedi a gran voce … è irresistibile”.
Altri due maestri mi
accompagnarono in quella fine di marzo. Il grande Robert Louis Stevenson oltre a diversi capolavori
che ben conosciamo, scriveva anche piccoli pamphlet, come questo: “Elogio
dell’ozio” (che
mi pare fondamentale). Anche perché fa due affermazioni, la prima delle quali è
strabiliante: “non vi è
dovere che sottostimiamo maggiormente che quello di essere felici. Quando siamo
felici disseminiamo il mondo di anonimi doni che rimangono sconosciuti anche a
noi stessi, o, quando vengono rivelati, sorprendono il benefattore più di
chiunque altro” e la seconda mi ricorda qualche amico e parente: “se non si sa essere
felici senza rimane pigri, bisognerebbe restare inattivi”.
Infine, sebbene non ami le poesie, non potevo tirarmi
indietro alla lettura di un capolavoro come “Poesie d’amore e libertà” di
Jacques Prévert. Già allora, aveva un afflato ecologico,
sostenendo: “tante foreste sacrificate per fornire la carta / ai
miliardi di giornali che ogni anno /attirano l’attenzione dei lettori sui
rischi del disboscamento”.
Per finire con una delle
poesie d’amore che rimarrà per sempre nella memoria, nel cuore, negli occhi (e
che riporto anche in originale, che è bellissima):
Trois allumettes une à
une allumées dans la nuit La première pour voir
ton visage tout entier La seconde pour voir
tes yeux La dernière pour voir
ta bouche Et l’obscurité tout
entière pour me rappeler tout cela En te serrant dans mes bras |
Tre fiammiferi accesi uno ad uno nella notte Il primo per vederti tutto il viso Il secondo per vederti gli occhi L’ultimo per vedere la tua bocca E tutto il buio per ricordarmi queste cose Mentre ti stringo fra le mie braccia |
Un
nuovo mese di pensieri ripresi, masticati e condivisi. Sperando che anche il
lettore vi rifletta.
Nessun commento:
Posta un commento