domenica 19 dicembre 2021

Ultimi Grandi Investigatori - 19 dicembre 2021

Ecco che sta finendo un altro anno, e terminiamo anche una collana dalle premesse interessanti e dai risultati altalenanti. L’idea di Repubblica era decente: pubblicare un racconto per un decina di “Grandi Investigatori”. Allora qui ne abbiamo gli ultimi cinque, con delle scelte che premiano tre grandi classici: Sherlock Holmes, Hercule Poirot ed Ellery Queen. Mentre quelli che più mi stanno vicino al cuore, hanno subito scelte di pubblicazione mediocri per il commissario Ricciardi ed assolutamente pessime per Pepe Carvalho.

Arthur Conan Doyle “Uno scandalo in Boemia” Repubblica “I Grandi Investigatori” 6 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 07/05/2021 – I: 05/06/2021 – T: 05/06/2021] &&& --

[titolo: A Scandal in Bohemia; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1891]

Devo dire che, tra tutti i Gran di Investigatori, non ho mai avuto una soverchia passione per Sherlock Holmes. Forse perché non ho grande empatia con la scrittura di Sir Arthur. Fatto sta che, pur trovando in un certo qual senso brillanti le idee del nostro, la loro trasposizione cartacea non mi ha mai soddisfatto a pieno. Forse anche perché, alla fin fine, sono pochi i romanzi, ma molti i racconti con il nostro che fa da protagonista.

Altrettanto poca empatia mi suscita il pur bonaccione dr. John Watson, che mi sembra sempre sia troppo “meravigliato” da quello che succede, teso a riportarne su carta gli svolgimenti, ma poco teso a capirne qualcosa.

Sebbene avesse già scritto due romanzi, questo è il primo racconto imperniato su Sherlock, uscito nell’antologia “The adventures of Sherlock Holmes”. Ed è l’unico in cui compare una donna, Irene Adler. È anche considerato da Holmes uno dei suoi più grandi fallimenti. Il nostro viene ingaggiato dal re di Boemia (regno esistente realmente alla scrittura del testo) indicato con il nome di Wilhelm Gottsreich Sigismond von Ormstein (completamente inventato) con il compito di recuperare delle foto compromettenti che lo ritraggono insieme ad una tal Irene Adler, attrice e (secondo la fama) avventuriera. Travestito da vagabondo si aggira nei dintorni della casa di Irene, venendo casualmente coinvolto come testimone nel di lei matrimonio segreto con l'avvocato Godfrey Norton. Per capire dove sia la famosa foto, Holmes si travesta da prete, inscena una rissa, si finge ferito e si fa accogliere in casa. Watson lo aiuta dall’esterno lanciando un fumogeno, così che, con la sua acuta capacità d’osservazione, Sherlock comprende il vero nascondiglio. Il giorno dopo Holmes, Watson e il duca, si presentano a casa di Irene, che però aveva capito il trucco di Holmes, ed era scappata con il marito, portando con sé la foto, e sostituendola con una sua personale, con dedica a Sherlock, dove si complimenta per l’arguzia del nostro investigatore. Holmes rimane basito, e come pagamento da parte del duca, sceglie di tenere solo la foto, senza accettare nessun compenso in denaro.

Per la precisione storica, gli avvenimenti descritti da Conan Doyle avvengono a Londra il 20 e 21 marzo 1888. Per l’imprecisione letteraria, Irene non compare più direttamente (solo accenni), anche se gli epigoni di Sir Arthur costruiranno montagne di storie con la sua presenza. L’unica che a me è piaciuta, per l’inventiva e la freschezza, comunque è la serie per ragazzi, scritta da Alessandro Gatto dal titolo “Sherlock, Lupin e io”, dove l’autore inventa un’amicizia giovanile tra Irene Adler, Sherlock Holmes e Arséne Lupin. Dal punto di vista delle stranezze attribuite ad Irene, in una fantasiosa biografia, dopo la finta morte di Holmes, questi si rifugia in Montenegro, dove è raggiunto da Irene, vivono tre anni insieme facendo gli attori girovaghi, e generando un figlio, cui viene imposto il nome di … Nero Wolfe. Non faccio commenti.

Passiamo al solito a vedere le caratteristiche del personaggio “Sherlock”, anche se, data la sua grande fama, forse ne sapete meglio voi. Comunque, analizzando i vari scritti, arriviamo a queste considerazioni generali. Sherlock nasce il 6 gennaio 1954, è sempre celibe, anche se ha una donna nel suo cuore, l’Irene di questo racconto. Ha occhi di colore chiaro, che risultano “acuti e penetranti”. I capelli sono neri, corti, e pettinati all’indietro. Di corporatura magra, è alto circa un metro e novanta. La carnagione anche è pallida, e veste sobriamente, con abiti tendenti al nero. È deciso, sicuro di sé, molto attivo quando ha un nuovo caso che lo appassiona. Altrimenti diventa apatico, indolente e scontroso. La sua dimora abituale è, ovviamente, il 221b di Baker Street. Ha una cultura varia, senza una specializzazione particolare, seppur molto ferrato in chimica e botanica.

Infine, ci sono due cose da sottolineare, una vera e l’altra inventata. La vera è una frase che dice ne “Il segno dei quattro”: “Una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Frase che sottolinea la necessità di osservare e non solo di vedere. Come in questo racconto, dove Watson vede dei gradini, e lui dice che sono diciassette. La falsa è la frase “Elementare, Watson!”, da lui mai pronunciata, ma che fu inserita dall’attore William Gillette nel testo teatrale “Sherlock Holmes”, rappresentato per la prima volta al Garrick Theatre di Broadway, New York, il 6 novembre 1899. In quella prima, Gillette inoltre indosso il famoso cappello da cacciatore (il “deerstalker”) e fumò la pipa ricurva (la “calabash”). Possiamo quindi concludere che, senza Gillette, non avremmo lo Sherlock che conosciamo.

Maurizio de Giovanni “L’omicidio Carosino” Repubblica “I Grandi Investigatori” 8 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T: 18/06/2021] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2012]

È la terza volta che mi imbatto in Carosino, dalla prima lettura che ne feci nel 2013, nella breve antologia “I primi casi del commissario Ricciardi”, passando per “L’ultimo passo di tango”, letto cinque anni dopo e che, nella poco sincera quarta sostiene contenere tutti i racconti di de Giovanni. Affermazione vera solo per i racconti con Ricciardi, e questo in particolare. Infine, questa poco brillante serie in omaggio con Repubblica, di cui non finirò mai di parlarne male.

Intanto, al fine di non ripetermi, riporto quanto scrissi qualche anno fa:

“Il primo testo [di “L’ultimo passo di tango”, regalo della mia amica Otto], poi, è in assoluto la prima uscita del commissario, nato quasi per scommessa come risposta ad un concorso letterario cui l’autore non voleva partecipare. E mentre pensa (come confessa nella postfazione) seduto al Gambrinus, gli viene fuori la storia di questo commissario che vede i morti. Solo i morti di morte violenta, che gli ripetono, come in un film che si inceppa, le ultime parole prima della morte. Un dono (o una maledizione) che sappiamo anche dai romanzi gli deriva dall’infanzia, e forse gli viene trasmessa dalla madre. Ed anche qui, ne “L’omicidio Carosino”, è la frase della duchessa che gli fa venire in mente la reale soluzione dell’omicidio. La duchessa è donna di mondo, si accompagna con un giornalista sposato, e sarà la moglie di questi (non svelo nulla che viene ben presto detto) a spararle al petto. Ma noi ed il commissario sappiamo che la duchessa è già morta. E la frase, nel giro di tre pagine, lo porta alla soluzione. Che forse non porterà alla condanna perché poi il commissario è anche empatico con le situazioni che affronta. E, benché nel pieno dell’era fascista, è sempre al limite della ribellione.”

Chi poi ha seguito la serie tv dedicata al commissario, ricorderà lo svolgimento dei fatti. Laddove, lo sceneggiato, dilatando i tempi, riesce a dare una visione migliore e più completa delle parti in causa: la baronessa Carosino ed il suo sfarfalleggiare nel bel mondo, il giornalista amante, la moglie tradita, il portiere ladruncolo, le famiglie affamate in quegli anni Trenta non certo agevoli. Uno dei pochi casi in cui mi ha soddisfatto più la sceneggiatura che il testo originale.

Come al solito, in questa serie, vediamo anche un po’ più da vicino questo nono Grande Investigatore.

Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte, nasce il 1° giugno 1900, quindi durante la maggior parte delle indagini, è sulla trentina. Presto orfano dei genitori, si trasferisce a Napoli, si laurea con lode in giurisprudenza ed entra nella squadra mobile della regia Questura. A Napoli è accudito dalla tata Rosa Vaglio, e, alla morte di questa, dalla nipote Nelide. È frugale, in genere pranzo con una sfogliatella al caffè Gambrinus o al massimo un trancio di pizza, cena leggero la sera, e non porta il cappello. Non desidera fare carriera, ma soltanto risolvere i casi che gli arrivano, aiutato da quello che lui chiama il “Fatto”, e di cui parliamo più avanti. Per questo è abbastanza isolato in Questura, e si accompagna soltanto con il fedele brigadiere Raffaele Maione (che vive nei Quartieri Spagnoli) e dal razionale e antifascista medico legale Bruno Modo. Non ha un gran rapporto con le donne, proprio a causa del “Fatto”. Viene spudoratamente corteggiato dalla bella e ricca ex cantante lirica Livia Lucani (vedova del famosissimo tenore Arnaldo Vezzi), ma, sebbene lusingato, non cede alle di lei profferte. Anche perché è da sempre innamorato a distanza di Enrica Colombo, una timida vicina di casa con la quale, inizialmente, scambia solo occhiate dalla finestra. Anche se alla fine, spinto prima da Rosa, poi da Nelide, darà vita ad una timida storia d’amore (per saperne di più leggete gli ultimi due romanzi della serie).

Dicevamo, la sua vita è condizionata dal “Fatto”: la capacità di percepire le ultime parole e i sentimenti delle vittime di morte violenta. Parole e visi che poi pian piano svaniscono, ma che gli danno modo di indirizzare le indagini. O di consolare il fido Maione dalla morte del figlio Luca. Aiutato dal “Fatto” e dalla sua storia personale, è dotato di un profondo senso di giustizia che lo spinge a indagare a fondo tutte le sfaccettature di un caso, anche dopo aver ottenuto una confessione dal presunto colpevole, pur di non mandare in galera un innocente.

Riccardi è il protagonista di 12 romanzi scritti da de Giovanni, che giura il dodicesimo essere l’ultimo, senza altri episodi. Staremo a vedere.

Agatha Christie “Il sogno” Repubblica “I Grandi Investigatori” 7 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 13/05/2021 – I: 18/06/2021 – T: 18/06/2021] &&& 

[titolo: The Dream; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1938]

Si riconosce subito quando una persona, una scrittrice, sa scrivere. Si riconosce subito quando sa scrivere si gialli. Si riconosce subito quando conosce come gestire un romanzo o un racconto. Tutto ciò per dire che Agatha Christie è insuperabile, soprattutto in questa dimensione.

Sa farci entrare nell’atmosfera, caratterizzare il giusto i personaggi, non dilungarsi in descrizioni utili solo a fuorviare il lettore. Ha inoltre il giusto tocco di ironia e sfida, quando il personaggio dice di aver capito quasi tutto, mentre noi brancoliamo nel buio totale.

Non è quindi un caso che in questa breve (e poco fortunata) collana entrino entrambi i suoi due personaggi. Ho parlato già di Miss Marple. Qui ci occupiamo di Hercule Poirot.

Intanto, occupiamoci del racconto. Costruito alla tipica maniera di Agatha. Si introducono i personaggi: entra Poirot, che non ha bisogno di presentazioni, si incontra con Farley, un facoltoso signore, o meglio, entra in contatto con un tizio che gli racconta di aver paura di morire a fronte di un sogno ricorrente da lui fatto, in cui, alla fine, si suicida. Elemento fondamentale della trama è la lettera che Farley ha scritto a Poirot per convocarlo, il fatto che la rivoglia indietro, l’errore di Poirot di scambiarla con la lista della lavanderia, errore ignorato da Farley, e rimessa in ordine dei pezzi di carta al loro posto prima di lasciare la magione. Senza peraltro esser riuscito a rasserenare Farley sul futuro.

Ovvio che dopo qualche tempo, Farley viene trovato morto, apparentemente suicida. Ovvio quindi che, trovando la lettera tra le carte di Farley, Poirot venga convocato come “persone esperta dei fatti”. Tutto fa pensare al suicidio: il sogno, la stanza chiusa, nessuno che vi possa entrare né da porte né da finestre. Moglie e segretario che insistono sulla paura di Farley a fronte del famoso sogno. Ma Poirot ha un cervellino molto funzionante, e, a parte avere in dubbio le dichiarazioni di molti presenti, quando scopre che il morto odiava chinarsi e, per raccogliere oggetti, usava delle mollette estensibili (anche se questo è il nome dato all’epoca a quegli oggetti che ora vengono venduti come “pinza telescopica”), la soluzione arriva lampante e il suicidio viene rivelato come essere un vero e proprio, nonché meditato, omicidio.

Veniamo allora al nostro piccolo investigatore belga. Fisicamente, quando compare nelle storie della Christie, è un uomo già maturo, con la testa a forma d’uovo, capelli tinti, occhi verdi, e soprattutto un paio di baffetti sempre ben curati. Inoltre, veste impeccabilmente, dall’aria quasi di un dandy wildiano. Anche se sappiamo aver avuto una donna nel cuore: la contessa russa Vera Rossakoff, che appare in un paio di romanzi.

Poirot è belga, sfidando così i detti sornioni alla francese, che trattano i belgi come noi, nelle barzellette, trattiamo i carabinieri. Era capo della polizia a Bruxelles, poi pensionato. Durante la Prima Guerra mondiale, ferito ad un gamba per cui sarà sempre un po’ claudicante, viene evacuato verso la Gran Bretagna, dove da allora vivrà per sempre. È lì che risolve il suo primo caso (“Poirot a Styles Court”, uscito nel 1920). Ed è a Londra che si stabilisce al 56B Whitehaven Mansions, Charterhouse Square, Smithfield, London W1.

Poirot è orgoglioso, fiero del suo cervello, ama essere lodato, ed applica il suo metodo infallibile per risolvere i casi: ordine e metodo. Tanto che dirà ad un suo sodale ispettore inglese, di preferire un approccio psicologico al crimine, e quindi che, usando le sue "cellule grigie", riuscirebbe a risolvere i casi, stando comodamente seduto in poltrona. Come tutti gli scrittori di intelligente capacità, Agatha scrive anche un ultimo romanzo con Poirot, che si intitola “Sipario”, dove Poirot muore a seguito di complicazioni cardiovascolari, dovute al fatto che Poirot uccide un serial killer. L'azione crea a Poirot, ormai anziano e malato, un senso di colpa che lo conduce alla morte. Ma Poirot è talmente noto che l’uscita del libro provoca il giorno dopo l’uscita di un necrologio, scritto da Thomas Lask, che iniziava con queste due frasi: “Hercule Poirot, detective belga divenuto famoso a livello internazionale, è morto in Inghilterra. La sua età era sconosciuta."

Ricordiamo infine la genesi del nome, che venne in mente alla scrittrice unendo due metà di personaggi letterari, all’epoca abbastanza noti: il nome deriverebbe da Hercule Popeau, pensionato della polizia francese, personaggio descritto “piccolo e rotondetto”, creato nel 1912 dalla scrittrice franco britannica Marie Adélaïde Lowndes Belloc. Il cognome sarebbe invece una storpiatura di Jules Poiret, ufficiale della polizia francese, ritiratosi a Londra, e creato nel 1909 dal gallese Francis (Frank) Howel Evans. Vedete bene come i vari caratteri si intreccino. L’originalità della Christie è l’aver messo l’accento sul Belgio.

Manuel Vazquez Montalban “La dea nuda” Repubblica “I Grandi Investigatori” 9 s.p. (in omaggio con Repubblica)

[A: 22/05/2021 – I: 19/06/2021 – T: 19/06/2021] - &  

[tit. or.: La diosa desnuda; ling. or.: spagnolo; pagine: 46; anno 2011]

Penso che sia abbastanza noto il mio amore per Vazquez Montalban, sia per i 18 libri suoi che sono nella mia biblioteca, sia per quel breve incontro, avuto ai tempi dell’estate romana a Massenzio, quando si riusciva a parlare di libri, si riusciva ad incontrare gli autori. Cose ora impossibili, non tanto (o non solo) per problemi pandemici, ma soprattutto perché nessuno in Italia investe più nella cultura.

Ricordo solo, in quell’incontro, che parlai con lui dei suoi primi libri, riuscendo ad avere un autografo in “Yo maté Kennedy”, che avevo portato appositamente da casa. Momenti irripetibili.

Ciò detto, non posso passare sotto silenzio l’inutilità di questo racconto. Non ha nerbo, non ha quasi storia, mi sembra proprio che Montalban non avesse molto nelle sue corde questa dimensione. Aveva bisogno di spazio, di tempo, per dar modo ai suoi personaggi di entrare nelle loro manie, nella loro quotidianità. Qui, se non sapessimo chi è il nostro Pepe, potremmo leggerlo come un qualsiasi racconto con un qualsiasi personaggio alla ricerca non di risolvere un giallo, e forse neanche un mistero.

Un tizio ingaggia il nostro ispettore perché capisca cosa faccia la figlia, libertaria e sbandatella. Il tizio è insopportabile. La figlia ha atteggiamenti provocatori con tutti. Con il padre, con il vecchio amante che usa solo per innervosire il padre. Con Pepe, cui si mostra discinta oltre il limite. Bella è bella, e “desnuda” appare più di quanto sia utile al racconto. Pepe la segue, cerca di capire le sue frequentazioni con gli ambienti un po’ out di Barcellona. Ne conosce la madre ed il fratellastro problematico, dal punto di vista fisico.

E poi capisce perché la dea frequenta chi frequenta, cerca le cose che cerca, compra la droga sottobanco, ed altro. Ma non per uso personale, bensì… Beh, se volete saperlo leggetelo pure, tanto ci si mette una mezzoretta, neanche tanto gradevole.

Ma dov’è Charo, dov’è Biscuter, dov’è la villetta di Vallvidrera ed il suo imperdibile camino? Dove sono le Ramblas ed il suo ufficio? In fondo, dov’è la sua e la nostra Barcellona? Da nessuna parte. Un libro decisamente inutile.

Non inutile, invece, cercare di delineare il personaggio Carvalho. Secondo i cenni che ho tratto dai molti libri letti, nasce in Galizia, probabilmente intorno al 1939, verso la fine della Guerra Civile. Partecipa da giovane alla lotta clandestina antifranchista, conosce il carcere. Incongruentemente (nel primo libro di cui sopra) lavora quattro anni come agente della Cia. Poi torna a Barcellona a fare l’investigatore privato. È un antieroe solitario, che, pur amando la sua città, ama viaggiare (ah, come lo capsico).

Non ha mai avuto una connotazione precisa dal punto di vista fisico, che l’autore ha invece insistito sul lato “umano”, sulle debolezze e le forze. Ad esempio, leggendario è il camino della libreria di Vallvidrera, dove brucia i libri letti nel passato. Libri che non gli servono più per capire il mondo. Anche se ha sempre delle remore, quando si avvicina a Conrad (in parte, ma solo in parte, lo capisco).

La passione vera è invece la cucina, sia nelle vesti di cuoco sia in quelle di commensale. Tanto che sono uno dei non tanti possessori di un libro invece imperdibile: “Las recetas de Carvalho”, che trovai in un delle mie escursioni spagnole. Pieno di ricette, e di suggerimenti. Perché, come dice Montalban: “La cucina è, come la letteratura, un altro modo di creare mondi immaginari”.

E non è un caso che io abbia la tetralogia completa delle ricette “da investigatori”: posseggo i ricettari della signora Maigret, di Nero Wolfe, di Pepe Carvalho e di Salvo Montalbano.

Per finire con il nostro, ci sono alcune imprecisioni sul nome, a volte riportato come José Carvalho Tourón e altre volte come José Carvalho Larios. Inoltre, nel “Quintetto di Buenos Aires”, il doganiere leggendo il passaporto, lo chiama Pepe Carvalho Tourón. È anche portato verso l’oblio dall’autore, che nell’incompiuto “Millennio”, ne fa perdere le tracce in giro per il mondo (un libro di cui ho sentito parlare, ma che non ho mai avuto il cuore di leggere).

Ellery Queen “L’avventura della signora barbuta” Repubblica “I Grandi Investigatori” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 22/05/2021 – I: 27/06/2021 – T: 27/06/2021] &&& --- 

[titolo: The Adventure of the Bearded Lady; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 1933]

Con questo, in anticipo rispetto alla programmazione pubblicizzata, Repubblica chiude il ciclo degli omaggi dedicati ai grandi Investigatori. Pur tirando le orecchie all’editore per la sua scarsa professionalità, devo dire che è una chiusura in bellezza. Non tanto per il racconto in sé, che pure è ben fatto ed esemplare, ma per l’omaggio ad uno dei più longevi personaggi delle scene investigative. Ed anche per la complessità della sua “nascita”.

Infatti, i romanzi ed i racconti vengono pubblicati a nome Ellery Queen, che è il personaggio centrale delle indagini. Ma questo è solo il nome dietro cui si nascondono i due cugini Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee. Due cugini newyorchesi, di origine ebraica, cresciuti a Brooklyn, e nati entrambi nel 1905, con il vero nome di Daniel Nathan per Frederick e Manford Lepovski per Manfred. Insomma, una bella matrioska gialla.

Prima di tornare al personaggio, vediamo intanto questo racconto. Sono passati cinque anni dalla nascita di Queen sulla carta, e sei romanzi. Questo è invece il quarto racconto. Come i romanzi avevano la caratteristica di includere il termine “Mystery” nel titolo, i racconti erano caratterizzati dall’iniziale “The Adventure of…”, anche se il termine ha un’accezione leggermente diversa che il nostro “Avventura”. Come in questo caso che la “signora barbuta” non è che sia un’avventura vera e propria.

Il racconto segue le tracce del classico degli Anni Trenta “whodunit”, cioè “chi l’ha fatto”, ricerca del colpevole attraverso gli indizi. Questo, inoltre è il primo racconto che utilizza un espediente poi spesso ripreso, denominato “dying clue”: indizio di chi muore, cioè un indizio lasciato dalla vittima immediatamente prima di essere uccisa.

La storia è una scatola cinese complicata di eredità, di morti normali, e di possibili successioni palesi o meno. Il morto non accidentale è un dottore, da anni ospite di una casa signorile dove la morte della capostipite lascia un conto aperto verso la successione. Che la vecchia, disereda i nipoti poco prima della sua morte per infarto, nominando una parente da anni trasferitasi in Inghilterra. Parente figlia di un fratello del di lei marito (il possidente capostipite), fuggita con lui e con il fratello lontano dall’America per dedicarsi al teatro. Morto lo zio (sicuro), morto il fratello (probabile ma non certo), Edith torna nella casa dove vivono appunto il dottore, ed i due figli del possidente.

Il dottore è anche un appassionato di quadri, ed Ellery lo trova nel suo atelier, pugnalato, mentre stava finendo di dipingere la riproduzione del quadro di Rembrandt “L’artista e sua moglie”. Il dottore ci lascia però l’indizio chiave: disegna una bella barba sulla faccia della moglie di Rembrandt. Non dico altro, che il mistero è tutto qui, e ben chiaro. Anche ben scritto, che alla fine, Ellery in quattro pagine ricapitola tutta la storia e chiarisce tutti i punti oscuri. Ben fatto, anche se, appunto, il mistero è abbastanza esile.

Venendo al personaggio, si scoprirà ad un certo punto che nasce, come i cugini, nel 1905. A metà strada, essendo uno di gennaio, l’altro di ottobre, Ellery nasce a giugno. La madre, probabilmente facoltosa, muore presto, lasciando ad Ellery di che studiare (si laurea ad Harvard) e di che vivere senza lavorare. Il padre, Richard, è ispettore capo della Squadra Omicidi, e spesso, nelle prime avventure, Ellery da una mano al padre per risolvere i misteri.

Anche la vita privata di Ellery è misteriosa. Nei primi romanzi, c’è una specie di flashback dove si dice Ellery essersi sposato, avere una figlia ed essersi trasferito a vivere in Italia, vicino a Fiesole. Poi questi indizi scompaiono, rimane lui, un po’ dandy, un po’ gigione, nella sua casa di arenaria al centro di New York. Sempre nella prima fase, sembra anche dimostrare un discreto interesse verso l’altro sesso. Ad esempio, qui parla con garbato interesse di una fanciulla spagnola, e verso la fine chiede ad un avvocato l’indirizzo della bella infermiera che circola nel palazzo, di cui aveva intravisto le belle fattezze in controluce al chiaro di luna.

Tuttavia, tutti questi piccoli vezzi esteriori a poco a poco spariscono. Rimane l’investigatore che per il gusto intellettuale di svelare i misteri, viene chiamato sulle scene dei crimini, e che non ha pace fino a che non riesce a risolverli. Una formula asettica, che mette una bella barriera tra il personaggio ed i suoi autori. Talmente ben fatta, che negli ultimi venti anni di scrittura (l’eroe termina di esistere nel 1971) spesso i due cugini affidano la stesura dei romanzi a “scrittori fantasma”.

Terza trama, niente cure librarie, niente libri felici, ma tante citazioni del vostro Ireneo Funés (super citazione, a voi scoprirla).

Ci avviciniamo al Natale, oltre ad essere sempre i più buoni, abbiamo novità e molte. Ho iniziato a costruirmi uno studio tutto mio dove lavorare, abbiamo fatto un trasloco, si è sposata mia nipote (i lutti ci sono stati, ma quelli li porto dentro il cuore, da solo). E pensando al padre della sposa, cioè mio fratello, mi è venuta in mente questa citazione di Janet Evanovich tratta dal suo primo romanzo, “Bastardo Numero Uno”: “indossai una t-shirt … e misi le scarpe da jogging… arrancai per il primo chilometro… il mio corpo non è stato progettato per correre. Il mio corpo è stato progettato per star seduto in una macchina costosa e guidarla”.

Dato infine che a Natale siamo tutti più buoni e rispettosi, io non mi esimo da pensare a tutti voi, ad abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di dicembre

“E mi addormento come in un letargo”, un ex ergo che forse solo i Borgogni coglieranno, ma che introduce una nuova tornata di citazioni, che accumulai dal gennaio al marzo del 2009. Citazioni, spesso, che vengono a grappoli, spesso più di una per libro.

La prima tornata risale alla fine di gennaio. Lunghissime rimembranze da un breve racconto di Simona Vinci, tratto dalla collana del “Corti di Carta” del Corriere. Si trattava di “Un’altra solitudine”, e sfidava la mia voglia di essere solo insieme a qualcun altro. Simona cominciava dicendo: “quando un uomo incomincia a essere solo dentro la sua testa, non si può convincerlo a tornare indietro” (ed io solo in testa non lo sono mai stato); poi “quando si è immersi nella Natura non si è mai soli” (ed io continuavo a spingere per i miei viaggi africani). E sempre sui viaggi, concordavo: “una persona che non ha mai fatto un viaggio da sola, si conosce poco”. Inoltre, sosteneva: “la solitudine, al contrario del suo compagno cattivo, l’isolamento, può essere uno straordinario esercizio di libertà”. Concludendo, infine “la maggior parte delle persone che si sentono sole sono single, oltre i 54 anni” (che era proprio l’età di quell’anno).

All’inizio di febbraio mi imbattevo in un autore molto acclamato seppur di nicchia (e di nicchia rimane). Lessi “Parenti lontani” di Gaetano Cappelli. Dove mi rimasero due frasi, una di storie allora già passate, una di storie forse future forse sognate. La prima “sto vivendo il decorso di ogni storia tra un uomo e una donna: all’inizio ti sembra un sogno che vorresti non finisse mai; dopo, non molto dopo, le cose si complicano, ci sono regole, imposizioni, divieti ed eccoti il sogno bell’e trasformato in incubo da cui vuoi sloggiare”. E la seconda: “è una gran donna: ha un corpo statuario e un talento naturale da geisha… è bravissima in cucina quanto a letto!!”.

Non esimendomi poi dai viaggi (anche se quell’anno dovevo aspettare agosto per coronare un mio sogno), aderii in toto alla frase di Marcello Fois, che “In Sardegna non c’è il mare” riportava: “come Seneca dice a Lucillo: non è spostandosi che si risolvono i problemi”.

A cavallo dei grandi compleanni di febbraio, mi dedicavo alle letture francesi. Dove c’era un illuminante Georges Simenon che ne “La pazza di Itteville” in un Maigret prima di Maigret affermava: “mi è capitato, in qualche salotto, di sentire qualcuno chiedersi scioccamente se è possibile amare due donne allo stesso tempo… io non lo so… non sono uno psicologo”.

Mentre la mia amata Fred Vargas in “Sous les vents de Neptun” sottolineava un analogo concetto scrivendo: “il faut deux fenêtres pour faire un courant d’air” [cioè : c’è bisogno di due finestre per fare una corrente d’aria].

A metà mese, ripresi invece la lettura dei “Corti di Carta”, dove l’esimio storico Valerio Massimo Manfredi sosteneva in “Midget War”:  “quello che sappiamo proviene sempre dalla nostra esperienza” (un po’ tautologico…), mentre l’esimio saggista Gabriele Romagnoli riprendeva in “L’unico al mondo”: “tutti gli enigmi del mondo si dissolvono in una carezza”.

Mentre la fine di febbraio fu completamente occupata da un altro dei miei idoli letterari, Amos Oz e da uno dei suoi più bei libri: “Una storia d’amore e di tenebra”. Una meta autobiografia, con alcune perle fondamentali: “se non ti restano più lacrime per piangere, non piangere. Ridi”, “quando si vuol bene si perdona tutto fuorché il tradimento”, “l’unico viaggio da cui non si torna a mani vuote è quello dentro noi stessi”. Per terminare con una citazione del profeta Geremia, ripresa in altro contesto da un romanzo di J. T. Leroy: “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, è incurabile. Chi lo può conoscere”.

L’inizio di marzo si scontrò con altri racconti editi da Repubblica, questa volta interessanti, in quanto bilingue (cioè tradotti con testo a fronte, un esercizio utile per vedere le difficoltà della traduzione, le scelte dei traduttori, il loro “tradimento”). Due mi sono rimaste impresse. Una di Saul Bellow che in “Un piatto d’argento” mi dice: “Sono di solito gli egoisti a essere soprattutto amati. Fanno quello che tu neghi a te stesso ed è per questo che li ami”. L’altra dell’amato-odiato Ernest Hemingway, che nel bellissimo “La breve vita felice di Francis Macomber” sostiene: “non c’è piacere in nessuna cosa che aspetti troppo a lungo”.

In un passaggio di metà mese, Gianluca Morozzi nel purtroppo poco interessante “Despero” comunque tira fuori una frase da riflessione: “è meglio aver amato e perduto che non aver amato per niente”.

Ci fu poi una bella accelerazione nelle ultime due tronate marzoline. In una spiccavano il libro unico ma molto intenso di Pascal Mercier “Treno di notte per Lisbona” ed uno dei tanti libri della poco valutata Maeve Brennan, qui letta ne “La visitatrice”.

Pascal è pieno di riflessioni. La prima arriva da una citazione: “Marco Aurelio: … è breve la vita per ciascuno. E questa tu l’hai quasi interamente consumata senza portarti rispetto, ma anzi hai riposto nelle anime di altri la tua felicità… quelli che non seguono i moti della propria anima è inevitabile che siano infelici”. Proseguendo con una constatazione valida per molti: “mi è capitato mai di dare retta davvero a qualcun altro?”. Un pensiero al corretto uso dell’amicizia: “non si può fare degli altri … i portatori d’acqua nella rincorsa alla propria felicità”. Ed una sequenza di frasi sullo scorrere del tempo e sul nostro esistere in esso: “Perché tutte quelle cose facevano ancora male? Perché in venti, trenta anni non era riuscito a scrollarsele di dosso?”; “La vita non è ciò che viviamo; è ciò che ci immaginiamo di vivere”; “quando il tempo di un’esistenza è agli sgoccioli, non ci sono più regole che contano. E allora è come se a uno desse di volta il cervello e fosse maturo per il manicomio. Ma in realtà è esattamente il contrario: al manicomio dovrebbero andarci quelli che non vogliono ammettere che il tempo è agli sgoccioli. Quelli che continuano come se niente fosse.”: “fai del tuo tempo qualcosa che valga la pena … [bisogna] … combattere contro l’errore di credere che ci sia sempre il tempo per farlo, più in là…. Non mancare nei confronti di sé stessi”.

Maeve invece ha una solo frase: “soltanto … ciò che non chiedi a gran voce … è irresistibile”.

Altri due maestri mi accompagnarono in quella fine di marzo. Il grande Robert Louis Stevenson oltre a diversi capolavori che ben conosciamo, scriveva anche piccoli pamphlet, come questo: “Elogio dell’ozio” (che mi pare fondamentale). Anche perché fa due affermazioni, la prima delle quali è strabiliante: “non vi è dovere che sottostimiamo maggiormente che quello di essere felici. Quando siamo felici disseminiamo il mondo di anonimi doni che rimangono sconosciuti anche a noi stessi, o, quando vengono rivelati, sorprendono il benefattore più di chiunque altro” e la seconda mi ricorda qualche amico e parente: “se non si sa essere felici senza rimane pigri, bisognerebbe restare inattivi”.

Infine, sebbene non ami le poesie, non potevo tirarmi indietro alla lettura di un capolavoro come “Poesie d’amore e libertà” di Jacques Prévert. Già allora, aveva un afflato ecologico, sostenendo: “tante foreste sacrificate per fornire la carta / ai miliardi di giornali che ogni anno /attirano l’attenzione dei lettori sui rischi del disboscamento”.

Per finire con una delle poesie d’amore che rimarrà per sempre nella memoria, nel cuore, negli occhi (e che riporto anche in originale, che è bellissima):

 

Trois allumettes une à une allumées dans la nuit

La première pour voir ton visage tout entier

La seconde pour voir tes yeux

La dernière pour voir ta bouche

Et l’obscurité tout entière pour me rappeler tout cela

En te serrant dans mes bras

Tre fiammiferi accesi uno ad uno nella notte

Il primo per vederti tutto il viso

Il secondo per vederti gli occhi

L’ultimo per vedere la tua bocca

E tutto il buio per ricordarmi queste cose

Mentre ti stringo fra le mie braccia

 

Un nuovo mese di pensieri ripresi, masticati e condivisi. Sperando che anche il lettore vi rifletta.

 

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