[A: 01/11/2020
– I: 06/11/2020 – T: 06/11/2020] &&
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[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2005]
Continuiamo
queste veloci letture dei libri omaggiati dalle “Editoriali Gedi”, quella di
Repubblica, tento per intenderci. Qui siamo dalle parti patavine care a Massimo
Carlotto. Uno scrittore ed un personaggio, molto presente nella mia libreria,
ed anche nel mio personale. Infatti, e credo ne parlai altrove, ebbi con lui un
proficuo incontro e scambio di idee, a valle di una presentazione libraria
nell’esimia libreria romana “Odradek” (uno dei caposaldi della resistenza
libraria romana, insieme a “Fahrenheit” di Campo de’ Fiori).
Carlotto
ha una serie molteplice di personaggio, anche se quello a me più caro, rimane
sempre il suo primo, Massimo Buratti detto l’Alligatore. Perché mi è caro, e il
perché del soprannome, li trovate nelle mie prime scritture delle sue
avventure. Poi ne vengono altri, come “le Vendicatrici”, il sadico Pellegrini,
nonché l’esimio ispettore Giulio Campagna. Che un po’ fa da crossover, essendo
presente in diverse serie, un po’ lavora in solitaria, come nella raccolta
“Crimini” di Einaudi da cui è tratto questo mini-romanzo, o nella successiva
raccolta “Cocaina”.
Certo,
non essendoci l’Alligatore, la storia ha su di me un impatto minore. Non solo,
anche come storia, pur densamente complessa nonostante l’esiguo numero di
pagine, rimane con poco mordente. Vediamo il succedersi degli eventi, ma
abbiamo pochi sussulti interpretativi su chi fa cosa e perché. Certo anche che
nel finale qualche buono spunto Carlotto ce lo deve pur mettere, onde non esser
tacciato di leso “noir”.
Cominciamo
comunque (almeno io comincio) a conoscere meglio l’ispettore, che fino ad ora
avevo lasciato un po’ ai margini. Buon intuito, ottima conoscenza della
malavita cosiddetta “onesta”, quella alla Rossini della serie maggiore, tanto
per capirci. Una buona rete territoriale. Ed una pessima rete personale di
affetti e relazioni. Pare (ma qui dobbiamo fare solo delle ipotesi) che non si
tiri indietro quando vede delle belle donne, motivo per cui è in rotta con la
moglie Gaia, architetto sempre in giro a far progetti. E motivo per cui affidi
sempre più spesso la figlia Ilaria alla nonna.
Conosciamo
qui parte della sua rete. Un oste con qualche passato di stupefacenti, con
moglie croata. Motivo per cui viene ricattato da una banda di croati,
malavitosi e tifosi di calcio (che lì spesso le due cose coincidono). Non
sembra esserci dolo, ma Campagna non viene assecondato, anzi la possibile
indagine gli viene sottratta dai Servizi. Peccato che questi non si sappiano
muovere con discrezione, ed il confidente muore.
Campagna
cerca la vendetta, seguendo le poche informazioni che ha, ed assecondato da
Amelia, sua collega e forse altro. Trova un bandolo, ne esce un conflitto a
fuoco, in cui qualcuno ci lascia le penne, ed il capo croato fugge ferito.
Poiché sono i cinesi a gestire le medicazioni fuori legge, è ad un altro suo
confidente che si rivolge, e da cui trova le informazioni ed arresta i cattivi.
Peccato che anche il cinese venga ucciso, tanto che alla fine verrebbe di
volgere il titolo al plurale. Fortunatamente, Campagna sa tirare le fila ed
incastrerà anche il secondo cattivo. La storia come detto è densa. La scrittura
come sempre adeguata. Certo in così poche pagine si lasciano molti motivi in
sospeso che dovrebbero (potrebbero) essere ripresi in altre storie.
Così
che, alla fine, pur dopo una gradevole lettura, non riesco ad innalzare troppo
l’indice di gradimento. Anche se spero si noti che, come i libri di Massimo qui
citati, anche tutti i capoversi presenti in questa trama hanno la stessa
caratteristica.
Marco
Malvaldi “Aria di montagna” Repubblica “Italia in giallo” 7 s.p. (omaggio di
Repubblica)
[A: 01/11/2020
– I: 07/11/2020 – T: 07/11/2020] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]
Come avete capito, utilizzo questi mini-libri
in forma di racconto, come riempitivo di momenti di stanchezza verso letture
troppo serie. Essendo sempre intorno alle cinquanta pagine, si leggono con
facilità. Ed anche se, come in questo caso, il tono è leggero, il risultato è
di varia natura. Qui, tratto dall’antologia “Vacanze in giallo” edita da
Sellerio nel 2014, il risultato è discreto, e migliore rispetto ad altre uscite.
Rispettando l’assunto del titolo antologico,
i nostri simpatici vecchietti del BarLume sono in vacanza in un imprecisato
luogo alpino, dove si recano tutti gli anni, per una settimana, in un tipico
dopolavoro toscano (qui organizzata dal Circolo Ricreativo Aziendale dei
Lavoratori delle Poste).
Assistiamo quindi ad un quasi assolo del
nostro amato “barrista” Massimo, anche se la dimensione del racconto consente
pochi voli dei soliti che in genere amiamo in Malvaldi. Niente atmosfera da
bar, niente “Tiziane” o altre banchiste, e niente pineta ed altre amenità
locali. Visto che però Malvaldi è filologicamente corretto, almeno c’è la donna
che da un po’ di tempo fa coppia fissa nelle indagini (e forse anche dentro
qualche altra cosa) guidate da Massimo: il commissario Alice.
Unico punto un po’ ironico è per l’appunto
l’attacco con il falso gioco erotico che poi si rivela essere nient’altro che
una partita a scacchi. Ma si sa che tutti i combattimenti, anche quelli
scacchistici, possono ben essere rappresentati come tensioni erotiche.
Comunque, la piccola trama si dipana con i
nostri alpinici pensionati che scoprono una donna morta in un supermercato
della loro zona vacanziera. Si offrono di aiutare la polizia, millantando gli
aiuti che sono soliti dare ad Alice. Questa fuga in avanti si ritorce contro
molte cose: Alice viene diffidata di occuparsi delle indagini, motivo per cui,
da buona bastian contraria, alle stesse si applica alacremente. Non è certo un
caso che sia l’unica che osa ordinare un cappuccino anche dopo mezzogiorno!
Indagini che hanno un loro senso, che la
morta si dice essere una persona proveniente proprio dall’ambiente “pinetino”.
Mettendo in moto alcuni dettagli, alcune richieste a Pilade e compagnia, alcune
elucubrazioni e molti giornali d’epoca, si svela una parte del mistero.
La morta era una ex-terrorista implicata
negli anni di piombo, co-autrice di attentati mortali, poi pentita e messa
sotto protezione. Inoltre, messa anche bene, che le viene fatta una plastica
facciale completa, insieme ad un integrale cambio di identità.
Possiamo sospettare che la morte si dovuta ad
un rigurgito del passato, ma come ed in quale modo sia potuto avvenire (e
soprattutto da chi), è un piccolo tocco noir che Massimo e Alice riescono a
porgerci con classe ed eleganza.
Non è facile che un racconto, soprattutto
nero, arrivi alla sufficienza, dove invece qui ne tocchiamo pienamente la buona
sponda. Certo, più agio abbiamo quando Pilade & co ci ammorbano con i loro
ragionamenti. Ed ancor molto di più quando Massimo, ricordando il suo passato
matematico e scientifico, ci delizia con alcune delle sue divagazioni.
Ma non ci lamentiamo, rimandandovi questo
come uno dei racconti della collana che merita una lettura.
“Quando uno è importante te ne rendi conto
solo quando non c’è.” (9)
Cristina
Cassar Scalia “Filinona di fine estate” Repubblica “Italia in giallo” 8 s.p.
(omaggio di Repubblica)
[A: 01/11/2020
– I: 13/11/2020 – T: 13/11/2020] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 61; anno: 2020]
L’ottavo volume della collana “Italia in
Giallo” riporta in alto giudizi e considerazioni, nonché stimoli per altre
letture. Non conoscevo l’autrice, e devo dire che la scrittura interessante, il
tratteggio siciliano della trama, ed altri piccoli episodi, mi spingono ad
approfondirne la conoscenza.
Intanto, rimaniamo su questo racconto e sulla
presentazione dei personaggi che forse (o sicuramente) sono gli attori
principali dei suoi libri. Prima di tutto, il titolo con quel termine
potentemente siciliano: filinona. Sembra derivi dall’unione di filo e nona,
cioè filo nel senso di verso, di tendenza, e nona come l’ora del giorno secondo
le antiche usanze contadine. Si pensa quindi ad un orario intorno alle ore 15
(nove ore dopo l’alba). Un’ora tipica per riposarsi, dopo un pranzo, anche
frugale, e sedersi all’ombra per godersi il tempo caldo sonnecchiando.
Ed è così, sotto il suo albero, che sembra
riposare Giambattista Tommasello detto Titta, innamorato della filinona, tanto
da chiamare così la varietà di arance che coltiva nel suo agrumeto, nonché
l’aranciata che ne ricava. Purtroppo, non riposa, ma è morto, e da molti segni
avvelenato.
Da
questo quadro rurale, cominciamo a conoscere i vari personaggi di Cassar
Scalia: l’ispettore capo Carmelo Spanò, ultima ruota del carro poliziesco, ma
profondo conoscitore del luogo (siamo nel catanese e nel suo entroterra);
quindi l’attrice principale, il vicequestore Vanina Guarrasi, che capiamo
essere fuggita dalla natia Palermo, dove pur esercitava, per una qualche questione
di mafia che prima o poi conosceremo. Ora lavora ai “Reati contro la persona” a
Catania, vivendo in una casa fuori città, coccolata dalla vedova Bettina, e
cercando di capire ed inserirsi nella vita cittadina. Infine, entra in scena
anche Biagio Patanè, commissario in pensione, che serve a Vanina un po’ come
“dottor Watson”, non partecipa attivamente alle indagini, ma ragiona con la
nostra, trovando insieme vene d’analisi agli eventi delittuosi. Ci sono altri
“attori non protagonisti” che fanno comparsate, e che forse conosceremo in
altri contesti: Calì, l’anatomo patologo che scoprirà il veleno utilizzato ad
uccidere Titta (si tratta di acanto) e Giulia, avvocato, amica di Vannina e
conoscitrice del lato alto del mondo catanese (il coté borghese del proletariato
di Spanò).
Per
rimanere sulle indagini, due sono i filoni che Vannina e Patanè analizzano nei
loro discorsi: la gelosia professionale e la gelosia amorosa. La prima
impersonata dal vicino di Titta, cui il morto aveva sottratto tratti di agrumeto
forse con qualche marachella, e che è l’ultimo ad aver avvicinato il morto
prima della sua brutta fine. La seconda invece molto più estesa, che il morto è
stato per anni un grande sciupafemmine, solo da pochi mesi rinsavito, ed
avviato a giuste nozze con la giovane e piacente Valeria.
C’è
Valeria, quindi, che potrebbe aver avuto un soprassalto di gelosia nello
scoprire gli altarini di Titta, c’è Ilaria Lo Verde, l’ultima amante quasi
ufficiale di Titta, c’è la Sammartino, l’agronoma che ha aiutato il morto a
costruire la sua impresa e che con lui si accompagnava volentieri se non
spesso. E forse altre donne.
Il
tutto sarà legato allo scoprire come e chi si poteva procurare l’acanto, che è
sì un potente veleno, ma in quantità non reperibile normalmente sul mercato.
La
parte nera, tuttavia, non è così coinvolgente e misteriosa come potrebbe essere
(alcuni indizi portano verso la soluzione sin dalle prime indagini). Mentre è
bella e a me piaciuta tutta la descrizione del contorno: la campagna ed i suoi
colori, la discesa a mare, il pesce mangiato nel porto di Catania, nonché la
bevanda che solo lì ho anch’io bevuto ed apprezzato: selz, limone e sale. Buona
e dissetante.
Una
discreta lettura, ed un’autrice da seguire per capirne meglio le attualità
visto come sono qui le sue potenzialità.
Diego
De Silva “Patrocinio gratuito” Repubblica “Italia in giallo” 9 s.p. (omaggio di
Repubblica)
[A: 08/11/2020
– I: 19/11/2020 – T: 19/11/2020] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]
Torniamo dopo molto tempo a leggere qualcosa
di De Silva, un autore che, seppur ben presente tra i miei libri, ha sempre
avuto un andamento di gradimento altalenante. Ne ricordo con simpatia i primi
che lessi. Poi Diego si è infilato in una caverna di scrittura con un suo
personaggio, l’avvocato Vincenzo Malinconico. Ed ha perso molto del suo
fascino, sia di scrittura che di ironia. Tributo quindi un omaggio a Fako che
me ne sconsigliò la lettura.
Il primo che lessi di De Silva era un
racconto, che utilizzava le canzoni comi filo rosso della trama, per dire,
comunicare, anche stravolgere sensi e situazioni. Dissi allora, come ripeto,
che era uno scippo bello e buono quello di prendere le mie (inespresse) idee
sui testi delle canzoni, e farne materia narrante.
Certo che dopo di lui ce ne sono stati altri,
come Piccolo e i Pooh, che ritengo inarrivabile. Qui, con mia grande
soddisfazione, vi ritorna, utilizzando la grandissima Mina. Con un’analisi su
cui torneremo per una bella chiusa.
Perché il resto del testo è palesemente
piazzato male in questo contesto. Certo non come Pastor, autore non italiano in
una collana dedicata all’”Italia in giallo”. Ma certo come con giallo. Diego è
napoletano, la vicenda si svolge a Napoli, ma di giallo non c’è non dico
un’ombra, ma neanche una lontana parvenza.
Ci sono le solite elucubrazioni di
Malinconico, che ormai sembrano parte integrante dell’esprimersi del nostro
scrittore. C’è una filippica contro gli amici (e soprattutto gli amici degli
amici) che chiedono favori come fosse loro dovuto. Anche quando il favore
riguarda l’ambito professionale, che invece andrebbe riconosciuto
economicamente, anche se in maniera lieve. Ci sono improperi vari per tutta una
serie di personaggi, che magari chiedono delle cose come se (Malinconico dixit)
il mestiere di avvocato fosse una specie di viatico factotum per tutto fare. Ed
è questo che succede al nostro Vincenzo, da parte di una amica di un amico di
cui non ricorda mai il nome, e che non ricorda neanche perché né come si siano
incontrati.
Ma Clelia (questo il nome) lo costringe a
calarsi nei panni di anti-stalker, che qualcuno assilla la poveretta con
telefonate in cui assume la parte di Alberto Lupo nel bellissimo duetto con
Mina di “Parole parole”. A parte tutti i tentativi di ingarbugliare la trama,
il filo da seguire è molto semplice, che Clelia sa bene chi telefona, lo indica
a Vincenzo, che ha anche facilità nel trovare il modo di spaventarlo e (forse)
convincerlo a desistere. Anche se poi lo stalker gli confessa che questo suo assillare
Clelia deriva dalla timidezza e dalla voglia di trovare il modo di avvicinare
Clelia, dalla cui avvenenza è stato fulminato.
Così che il nostro esimio avvocato si trova
prima a fare il consulente, poi l’investigatore, poi il “poliziotto cattivo”
(in mancanza di quello buono) ed infine il paraninfo. Ma capite bene che,
seppur con qualche grado di piacevolezza, non è certo un testo da inserire in
un contesto “giallo”, che già nella sua prima uscita, nella raccolta “Giochi
criminali” di Einaudi, non se ne comprende la collocazione con i testi di De
Giovanni, De Cataldo e Lucarelli.
Altro invece è l’epilogo finale, in cui De
Silva si lancia in una disamina del testo del duetto Mina – Lupo, con effetti
esilaranti e coinvolgenti. Che come al solito ne fanno vedere l’andamento in
una luce diversa dall’usuale. L’assillo di Lupo a recitare poesie, verso
l’insofferenza di Mina che invece vorrebbe qualcosa di più concreto, di più
maschio. C’è lo stesso stravolgimento (anche se meno accentuato) di quando si
leggono i testi di altre canzoni, il cui ritmo entra nella testa e che prosegue
lì senza che noi ci si presti attenzione.
Come in “Tanta voglia di lei”, quando i Pooh
dicono “mi dispiace devo andare, il mio posto è là” (cara amica di una sera). O
in “Ti amo”, quando Tozzi confessa “oggi ritorno da lei” (quella che fa un vino
leggero quando non c’ero). Del testo analizzato da De Silva, invece, non voglio
parlare, che merita al contrario di essere gustato nelle sue cinque paginette
svolazzanti.
Loriano
Macchiavelli “Il confine del crimine” Repubblica “Italia in giallo” 10 s.p.
(omaggio di Repubblica)
[A: 08/11/2020
– I: 21/11/2020 – T: 21/11/2020] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 45; anno: 2008]
Il grande vecchio dei gialli italiani non si
smentisce mai. Pur nella brevità, pur nel non sempre completo coinvolgimento
del suo personaggio principale (o forse unico ricorrente), la sua penna rimane
lucida, così che condensa, anche in un numero ristretto di pagine, alcune idee
non banali, ed alcune riflessioni che condivide con noi lettori, anche a volte
non esplicitamente.
L’alter ego di Macchiavelli in tutte le sue
storie poliziottesche è sempre Sarti Antonio, nominato sempre così,
all’ungherese come si dice in grammatica: prima il cognome e poi il nome (in
Ungheria è un must, essendo il cognome un attributo del nome come per noi
l’unione tra aggettivo e sostantivo). Un poliziotto di cui abbiamo nel tempo
seguito la carriera, sino al grado massimo da cui non si sposta più: sergente.
Perché, come l’autore, non cede a compromessi, e pur risolvendo casi rognosi,
rimane sempre fedele ad una sua dirittura morale. Disincantato, sempre, ed
afflitto da una colite incurabile. Che lui aggrava con una dose eccessiva di
caffè (elemento che se possibile me lo rende ancora più caro).
In questa storia, tratta dalla raccolta
“Crimini italiani” edita da Einaudi nel 2008, seguiamo una sarabanda di
avvenimenti in cui Sarti Antonio entra, cerca di risolvere qualcosa, capisce, e
alla fine viene inesorabilmente sconfitto da forze più grandi di lui, come
spesso accade nella vita.
In realtà, più che un racconto è in effetti
un micro-romanzo, dove avvengono tante cose, e dove, forse, un respiro più
ampio avrebbe messo in luce molto più di quello che in queste meno di cinquanta
pagine si riesce ad accumulare.
L’avvio segue una serie di furti ripetitivi
di grandi macchine di lusso, in particolare SUV. Il nostro è sulle tracce del
colpevole, Marcella Carlotti, detta Rasputin. Ma quando sta per coglierla sul
fatto, Rasputin riesce a scappare e si inserisce in una trama più grande di
lei. Con il SUV rubato si trova intrappolata in una strana missione dove ci
sono un arabo probabilmente terrorista che cerca di sfuggire ad un inseguimento
da parte di qualcuno legato in qualche maniera ai Servizi Segreti.
Loriano ci fa partecipi di un improbabile ma
possibile concatenarsi di eventi. Una pattuglia ferma il trenino di fuggitivi,
mettendo in custodia l’arabo e Rasputin. Un manipolo, guidato o aiutato da
Antonio, forse un agente sotto copertura, assalta la caserma, rapisce i due e
massacra il comando dei carabinieri. Nella susseguente fuga, Rasputin riesce a
fuggire, ma non l’arabo.
Così, pagina dopo pagina, rivelazione dopo
rivelazione, Sarti Antonio e tutto il comando dei poliziotti alla ricerca dei
fuggitivi scopre prima l’arabo massacrato, poi anche Antonio ucciso ed
abbandonato in un campo. Solo Rasputin è sempre in fuga, riuscendo a volte a
mettersi in contatto con il nostro. Ma per poco, che sappiamo bene che i
cattivi, quando sono potenti, hanno modo di rintracciare i cellulari attivi.
Così che Rasputin ha modo di dare solo indicazioni parziali al nostro. Che
tuttavia ne comprende il senso, e cerca di sfruttarle per salvare la nostra.
Operazione che non riuscirà, con tutto il
dolore che il sergente proverà alla fine. Ma non c’è niente da fare, quando si
muove la CIA con l’ordine di “kill or capture” tutti i possibili infiltrati
iraniani in Iraq, anche fuori dai confine arabi.
L’idea dell’autore è quella, come dice il
titolo, di ragionare intorno ai confini del crimine: fin dove c’è un crimine
diciamo “legittimo”, come il furto d’auto, e fin dove lo si persegue. Ma più in
grande, se il crimine è legato a possibili sovversioni statuali, dove è il
confine tra crimini e istituzioni che devono trovare il modo di fermarlo. Una
problematica ben più ampia del solo Sarti Antonio, ma è uno dei classici
problemi cui Loriano si è sempre applicato.
Il nostro quasi novantenne autore non si è
certo tirato indietro quando si doveva cercare di capire, ad esempio, cosa
successe ad Ustica. Né tanto meno, nel lungo sodalizio con Francesco Guccini,
pone sempre all’ordine del giorno del lettore una domanda dalla risposta non
facile: il brigante che ruba per mangiare è colpevole lui o la società che lo
affama?
Macchiavelli ha sempre presente il lato
sociale delle azioni delittuose, anche qui, in un racconto che ho gradito più
della solita media dei racconti gialli (che sapete bene come a me siano
indigesti).
Ultima nonché quarta domenica di un febbraio
finalmente non bisestile, quindi settimana di riposo per allegati ed altro.
Si viaggia su ruote, in situazioni protette,
tra regioni gialle ed arancione pallido. Come detto la settimana scorsa, è
tempo di consolidare piuttosto che fare fughe in avanti.
Sul fronte
citazionista, questa settimana facciamo un pensiero al mio amato e lontano
Giappone, con Inoue Yasushi che in “Amore” ci ammonisce così:
“Una persona che non conosce l’amore non può capire il dolore di chi lo
ha perso”.
E la contentezza di chi lo trova, e di chi,
avendo voi per amici e lettori, può continuare a salutarvi con
un bacio
Giovanni
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