Maurizio de Giovanni
“Febbre” Repubblica “Italia in giallo” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 10/10/2020
– I: 27/10/2020 – T: 27/10/2020] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]
Da
quando ha cambiato proprietà, Repubblica si industria nell’invogliare
all’acquisto del giornale attraverso l’omaggio di libri, o per meglio dire, di
racconti. Ha quindi messo in cantiere questa mini-collana di autori italiani
(almeno così recita il lancio ed il nome “Italia in giallo”, vi rimando
all’uscita n.5 per considerazioni diverse), ripescando racconti in gran parte
pubblicati in altre raccolte. Dato che, in generale, non sono aduso
all’acquisto di quest’ultime, mi fa comunque piacere leggere, in regalo, alcune
prove. Tra l’altro, molto in anticipo con i tempi, visto che, nel giro polacco
(per chi ne capisce), avendo poco spazio, ho portato i primi quattro esemplari,
e li ho letti.
Questa
prima uscita proviene dalla raccolta “Giochi criminali”, pubblicata da Einaudi
nel 2014, e mi consente di tornare a leggere del mio amato commissario
Ricciardi, nello splendore delle sue indagini, prima che l’autore, incartandosi
nelle storie, lo portasse alla sua conclusione lo scorso anno.
Quindi,
è con piacere e gradimento che si torna a Napoli, con il commissario ed anche
con il brigadiere Maione. Non solo, ma entrando anche in una specificità
napoletana, il gioco del lotto. Con tutti gli annessi e connessi: smorfia,
interpretazione dei sogni e via discorrendo. Il nostro scrittore, ora che è
ancora lontano dalla necessità di porre un termine a queste storie di morte e
di fantasmi, si lascia andare a descrizioni che, come nei primi romanzi,
risultano vivide e coinvolgenti. Che ci portano in una Napoli che si può amare,
dove il contesto storico rimane dietro le quinte, e risalta solo il contesto
sociale.
Così,
vediamo la morte di un “assistito”. Impieghiamo del bello e del buono, noi non
napoletani, per capire cosa si intenda. Per farla breve, il morto è una persona
che sa interpretare sogni e simili input per giocare al lotto. Praticamente
cieco, poiché “indovina” molti numeri, viene assistito dalla carità popolare,
che lo sostiene con vitto. Mentre l’alloggio lo fornisce proprio il gestore di
un banco del lotto, avendo il tornaconto che chi va a chiedere numeri, poi non
fatica a giocarli subito lì.
La
solita capacità di de Giovanni lo porta, pur nel breve spazio di meno di
cinquanta pagine, a regalarci anche delle piccole storie, di contorno e
sostegno a quella principale. La famiglia del proprietario del banco, con il
figlio possente ma forse non proprio di vivida intelligenza, e la figlia
bruttina assai. Poi ci sono le persone che hanno visitato il morto poco prima
che morisse, in particolare un conte che si è giocato soldi, case e onori, per
inseguire sogni che non si realizzano. Un ludopata ante-litteram, con una
moglie piacente e dignitosa che cerca di tirarlo fuori da quel baratro.
Tutto
legato a quelle ultime parole che sappiamo essere il marchio di fabbrica del
commissario. E l’assistito ripeteva 21, 9 e 19. Che nella smorfia stanno per
“la donna nuda”, “il parto” e “la risata”. Ma che potrebbero essere interpretati
come bellezza, distacco e dispiacere. Ovvio che Ricciardi troverà la giusta
interpretazione, che, purtroppo (ed è questo il motivo dell’abbassarsi del
gradimento) la solita scrittura anticipatoria in corsiva, ce ne fa capire i
contorni sin dalle prime righe della prima pagina.
Comunque,
è un peccato che lo scrittore faccia evolvere il nostro Ricciardi fino ad un
punto dove non riesce più a seguirlo e che lo vedrà costretto ad abbandonarlo.
Se fossimo un centinaio d’anni indietro, farei seguire a tutto ciò la sommossa
di popolo che costrinse Conan Doyle e far resuscitare Sherlock Holmes.
Ma
“or non è più quel tempo e quell’età”. Accontentiamoci di un buon prodotto, e
speriamo in altre scritture similmente valide.
Antonio
Manzini “Castore e Polluce” Repubblica “Italia in giallo” 2 s.p. (omaggio di
Repubblica)
[A: 10/10/2020
– I: 28/10/2020 – T: 28/10/2020] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2015]
Eccoci
subito alla seconda uscita della collana omaggio di Repubblica. Anche qui con
un gradito riorno: Rocco Schiavone al meglio delle sue Clarke. Qui, la raccolta
originale era invece “Turisti in giallo” uscita da Sellerio nel 2015.
E per
fortuna che siamo dalle parti del Rocco ancora non invischiato in storie altre
e (quasi) senza sbocco. E che quindi, pur nella sua brevità, riesce ad essere
più simpaticamente leggibile di storie più lunghe ed ingarbugliate.
Inoltre,
c’è solo un intervento della morta moglie Marina, ed anche questo non può che
essere a favore dell’isolare meglio le capacità e l’intuito di Rocco. Non
abbiamo interventi altri, non c’è l’aiuto degli amici romani. C’è Rocco, c’è
Italo (anche lui abbastanza sereno e non invecchiato nelle future ludopatie
pokeristiche), e c’è una trama nera. Non eccelsa, che si capisce quale ne siano
i contorni. Aspettiamo solo le intuizioni di Rocco per capire meglio i come. E
magari del magistrato Baldi, per svelarne i perché. Ma è un Rocco del 2015, e
quindi un Rocco che ci piace, anche a prescindere da Giallini e dalla TV.
La
storia, dovendo rispettare l’assunto della collana (come impone la Sellerio in
queste uscite), si svolge ad avvolge intorno a tre rampanti architetti, che
festeggiano la presentazione di progetti possibilmente facoltosi, con
passeggiate in alta montagna. Seguiamo i tre nella loro scalata, notando che
c’è fin dall’inizio una possibile contrapposizione tra due sodali ed il terzo,
che è sempre più nervoso, che per non fumare mastica chewing-gum. Non ci
meravigliamo verto quando si verifica la tragedia: il masticatore perde la
corda, o forse l’appiglio, insomma precipita e muore.
Rocco,
santiando alla grande, deve prendere in mano la faccenda, e recarsi anche sopra
le montagne aostane, anche a più di 4000 metri (ma in realtà, controllando in Internet,
visto che si fermano al rifugio Guide d’Ayas, questi si trova a 3420 metri).
Sempre con le Clarke ai piedi, ma in elicottero. Vede subito, o abbastanza
presto, incongruenze nel possibile incidente, nel modo di chiamare i soccorsi,
nella posizione del corpo e delle mani del morto, dell’orologio ed altri
piccoli elementi che se non costituiscono una prova, almeno accumulano indizi.
Anche
perché la sua squadra investigativa scopre alcune problematicità legate ai
progetti presentati dallo studio. Non ultima la possibilità che i tre
potrebbero aver deciso di separare le loro responsabilità lavorative. Comunque,
Rocco somma due più due più due, e trova il bandolo della matassa.
Ah,
dimenticavo, Castore e Polluce sono due monti del massiccio del Monte Rosa. Il
Polluce è di 4091 metri, mentre il Castore è di 4228. E furono scalati per la
prima volta intorno agli anni tra il 1860 ed il 1870.
Ah, e
per finire, essendo ancora nella fase di “salita di interesse”, compare anche
la simpatica Caterina, prima che, succedendo quello che altrove ho narrato,
arriveremo alle soglie di quanto leggeremo nei prossimi romanzi (credo).
Non
eccelso quindi, non all’altezza schiavonica solita. Sia per la poca consistenza
del giallo, sia perché (e vedremo se è vero in un libro che devo ancora
leggere) la dimensione racconto non credo si addica bene alla lentezza di
Rocco.
Carlo
Lucarelli “A girl like you” Repubblica “Italia in giallo” 3 s.p. (omaggio di
Repubblica)
[A: 17/10/2020
– I: 29/10/2020 – T: 29/10/2020] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]
Terza
uscita, sempre legata ad uno degli autori classici, ormai, del giallo italiano.
Anche qui, come per de Giovanni, il racconto era uscito nella raccolta “Giochi
criminali” pubblicata da Einaudi nel 2014. Rispetto, ai classici del primo
Lucarelli (quelli con il commissario De Luca all’epoca della Repubblica di
Salò), passando per la serie dell’ispettore Coliandro (che non mi aveva
entusiasmato), qui vediamo il ritorno della sua ben riuscita ispettrice Grazia
Negro.
Non
torno sull’evoluzione che il personaggio ha attraverso i vari romanzi (ne
parlai al tempo di “Il sogno di volare” del 2013), ricordo soltanto che ormai
fa giusta coppia fissa con il non vedente Simone. E che qui (un anno dopo il
precedente) è invece finalmente incinta. Certo, non esita a mettere a rischio
anche questa gravidanza, quando ci si trova di fronte al dovere ed alle
indagini. Ma il tempo sta finendo, e davanti agli ultimi 30 gradini per portare
il risultato delle indagini al suo capo, dovrà decidere chi o cosa
privilegiare. Leggetelo per saperne.
Malgrado
sia incinta, e visto che sta facendo dei controlli per la gravidanza, il suo
capo la manda ad interrogare un mafioso di bassa tacca, che è saltato in aria
con tutta la famiglia. Vuole capire di più, e scopre così che il colpevole è il
nipote, fattosi saltare in aria come un kamikaze arabo, per punire la famiglia
che (secondo lui) aveva costretto la sua bella a fuggire. Una bella senza nome,
ma con un tatuaggio sul piede molto particolare.
Tanto
che la nostra brava ispettrice lo collega ad un’altra morte particolare. Da lì
risalendo, con piccole analisi, con tabulati telefonici, con telefonate ed
altre astuzie poliziesche, Grazia risale tutta la catena degli omicidi. Non
diretti, ma omicidi procurati o indotti o istigati. Trovando l’ultimo bandolo
in …
Beh,
certo non vi dirò chi è l’ultimo anello della catena, ma ben presto,
dall’analisi di chi siano i vari morti, si capisce che sono tutti legati ad una
sala giochi, legale quanto si vuole, ma che dovrebbe far entrare solo i
maggiorenni. Mentre potrebbe esservi entrato, ed ammalatosi di ludopatia grave
un under 18. Tanto grave che quando potrebbe essere smascherato, non trova di
meglio che uccidersi.
E chi
gli vuole bene decide di farla pagare a tutti. Attaccandoli nei punti deboli di
chi ruotava intorno alla sala giochi. I gestori, i mafiosi che ne proteggevano
l’esistenza, gli assessori che ne avevano autorizzato l’apertura, financo i
giovani compagni del morto che non avevano avuto la forza o la volontà di
fermarlo.
L’ispettore
Negro, benché affaticata dalla pancia all’ultimo stadio, segue questa catena di
eventi all’incontrario. Trovandosi alla fine con un ultimo nome di una persona
ancora vivente. Ma minacciata da quella stella ai piedi che si aggira libera
per la Romagna.
Lucarelli,
con la sua solita pervicacia, a volte, di non voler chiudere tutto, perché
tanto siamo circondati da tanto amaro, che capite bene voi come andrà a finire,
non ci dice se l’ultimo nome sarà avvertito, né come. Né, ancora, se ha un
senso ed uno scopo avvertirlo. Oppure lo fa capire nelle pieghe del discorso.
Così
vi lascio anch’io nel dubbio e nelle domande: l’ispettore Nigro avvertirà il
suo capo? Grazia farà quei trenta scalini? Grazia e Simone riusciranno a
coronare il loro di sogni d’amore avendo finalmente un pargolo per casa?
Come
direbbe Battisti, “lo scopriremo solo vivendo”.
Per
ora, mi basta riavere un po’ della verve del buon Lucarelli, che quando lascia
trasmissioni televisive un po’ bollite, e torna alla sua onesta e piacevole
scrittura, ritorna ad essere quel simpatico imbonitore di storie, che incontrai
in una festa letteraria a Trastevere nel 1999, e con il quale passai una
mezz’ora di divertente e proficuo colloquio (ne parleremo un giorno, di quel 2
giugno).
Giancarlo
De Cataldo “Medusa” Repubblica “Italia in giallo” 4 s.p. (omaggio di
Repubblica)
[A: 17/10/2020
– I: 30/10/2020 – T: 30/10/2020] &&
-
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]
Quarta
uscita, anch’essa legata alla raccolta “Giochi criminali” pubblicata da Einaudi
nel 2014. Ma stiamo, seppur di poco, sempre calando. Anche tenendo conto il
fatto che, normalmente, non è che sia un grande fan di De Cataldo.
Certo,
ho apprezzato “Romanzo criminale”, per la scrittura, per l’argomento, per il
modo di trattare il tutto, per la suspense. Ma non per quanto ne esce dopo, il
film, le serie televisive, il seguito scritto dallo stesso De Cataldo ma con
poca sostanza rispetto al primo. Non ho invece apprezzato molto il resto degli
scritti che ho letto, e sono più di due anni che non ritorno su questo autore.
Ora,
appunto, nell’orgia di inserti del gruppo Gedi, si torna a leggerne e si torna
a non essere convinti. Torniamo nella natia Taranto, ed è un bene. E ne vediamo
i contrapposti sentimenti: l’alta borghesia, con i suoi birignao, il suo modo
di parlare altezzoso, le citazioni colte; ed i criminali, ma anche i piccolo
borghesi di mezza tacca, con un uso eccessivo del dialetto e delle espressioni
triviali, cosa che ne fa più macchiette che personaggi.
Anche
la storia non è che prenda tanto. Al centro, l’anziana professoressa di latino
in pensione, Emma Blasi. Una che ha avuto molta parte della Taranto d’oggi tra
i suoi banchi. Che da sempre è presa da follie amorose per il barone Stefano de
Mallarmé, barone di Belcastro. Peccato che il barone sia omosessuale, e che tra
i due esistano solo fantasie erotiche, tutte celebrate sulla falsariga del film
di Alain Resnais “Stavisky, il grande truffatore”, quello con Jean-Paul
Belmondo.
Il
giallo inizia quando Stefano viene trovato morto apparentemente per un ardito
gioco erotico. Il commissario Ardenzi, anche lui ex-allievo della Blasi,
archivia presto il caso. Non così Emma, presa dal suo amore incorrispondibile
verso Stefano. Ma anche piena della sua conoscenza del mondo locale, del bello
e del cattivo che attraversano la sua Taranto.
Emma
Blasi è da sempre (soprattutto dai suoi allievi) soprannominata Medusa, con
quello sguarda che pietrificava durante le interrogazioni. Ma che continua ad
essere inquietante per chi ora la frequenta. Che non si può avvicinarla, mai,
guardandola negli occhi. Occhi che diventeranno indagatori, soprattutto quando
scopre di essere l’erede universale del morto Stefano. E per di più,
nell’occhio del mirino di camorristi e faccendieri che avevano messo più di un
occhio sulla dimora avita del barone.
La
Medusa, indagando in questa direzione, si troverà di certo in pericolo, ma avrà
modo di esplorare la profonda ludopatia di Stefano capace di giocarsi montagne
di soldi e di averi alle carte. E non in un gioco qualsiasi, ma in una follia
di carte: scommetteva (ed in genere perdeva) giocando alla “carta più alta”.
Non una pazzia, ma molto di più ne converrete. Ma se questa volta avesse vinto?
Parlando, e guardando con i suoi occhi di ghiaccio, Emma capirà, noi capiremmo.
Capirà anche la giustizia? Dubbio che lasciamo ai perseveranti lettori.
Racconto
veloce, poco impegnativo, scritto senza troppi patemi, e letto senza troppo
coinvolgimenti. Poco giallo, come al solito, seppur tanta Italia. L’inizio di
questa collana regalo si rivela altalenante. Staremo a vedere.
Mentre
continuiamo, come sopra espresso, ad avere dubbi sulla scrittura di De Cataldo.
E qui, non so se vedremo ancora.
Ben
Pastor “Il giaciglio d’acciaio” Repubblica “Italia in giallo” 5 s.p. (omaggio
di Repubblica)
[A: 01/11/2020
– I: 06/11/2020 – T: 06/11/2020] &
[titolo:
The Iron Bed; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 2011]
Come detto nella prima trama dedicata a
questi volumetti in regalo fine settimanale con Repubblica, l’editore cerca di
dare una forma al “nero italiano”, riprendendo racconti usciti spesso in
precedenza, ed in particolare editi da Einaudi e Sellerio. Qui, purtroppo,
avviene una palese mistificazione in due tappe.
La prima deriva dal fatto che, benché
l’autrice sia di origine italiana (Maria Verbena Volpi sposata Pastor, da cui
la firma Ben Pastor) è naturalizzata americana, e scrive tutte le sue opere in
inglese. Sebbene molta parte delle sue opere sia ambientata in Italia, non può
essere considerata “autrice italiana” e quindi viene inserita in un contesto
improprio.
La seconda è che nella fattispecie di questo
racconto, nulla vi è di giallo, di noir, di thriller. Il racconto è tratto da
“Un Natale in giallo” di Sellerio, e parla di un ben particolare Natale, quello
passato a Stalingrado dalle trippe tedesche nel dicembre del 1942.
Il filo conduttore di questo, e della
maggioranza degli scritti di Pastor, è la storia della vita di Martin-Heinz
Douglas Wilhelm Friederick von Bora, più facilmente identificato come Martin
Bora. Un militare tedesco che attraversa molta parte della storia germanica che
va dal 1930 al 1950 (almeno), trovandosi su di un duplice crinale: ogni volta è
coinvolto nella risoluzione di casi polizieschi ed in parallelo si deve
confrontare con l’evoluzione tedesca durante il nazismo. Motivo che lo rende
altamente schizofrenico, essendo ligio come militare ma antinazista come
costituzione sociale. Una duplicità che non viene mai risolta pienamente, anche
se ne intuiamo i contorni, e le implicazioni. Considerando anche il fatto che
buona parte del retroterra di Martin è ripreso dalla storia colonnello Claus
Schenk von Stauffenberg, quello che organizzò il fallito attentato ad Hitler,
note come “Operazione Valchiria”.
Gli editori della collana sono stati
sfortunati a trovare in me un assiduo lettore degli scritti di Pastor (ho in
libreria 11 dei 12 libri ispirati a Martin). Per cui, anche qui, mi aspettavo
che durante l’assedio russo alle truppe tedesche in quel di Stalingrado,
uscisse fuori un qualche elemento caratteristico del personaggio. Invece ne
abbiamo la descrizione umorale e comportamentale, lì mentre ribatte ai colpi
russi, e tenta di convincere i generali tedeschi alla necessità di una
onorevole ritirata. Scrive il suo diario (come sappiamo dalle altre opere), si
rivolge spesso alla sua sposa Benedikta (che però sappiamo che in un vicino
futuro lo lascerà), cerca di sollevare il morale delle sue truppe. Ma è tutto
interno al personaggio, che di certo, per chi non lo conosce, viene
tratteggiato in maniera congrua. Si capisce anche l’attrito che il maggiore
Bora ha con le gerarchie, attrito che si ripercuote in tutte le sue prese di
posizione contro il nazismo.
Bora non si oppone apertamente, ma cerca di
agire dall’interno delle istituzioni, sostiene l’aspetto militare
dell’interventismo, rifiutandone quello politico. Tanto che aiuta nascostamente
gli ebrei, cerca prove per i massacri in Ucraina, si rivolta contro le violenze
verso i civili.
Pastor non mi risulta abbia ancora scritto
una pagina relativa alle possibili riflessioni di Bora a valle della disfatta
militare.
Per concludere, pur conservando il testo come
ulteriore tassello della fiction biografica di Bora, sono rimasto molto deluso
dal racconto e dal suo inserimento in questa collana (così come sottolineato
all’inizio).
Terza domenica ed allora un ulteriore, forse
ultimo, capitolo dei libri felici dedicato questa volta all’adolescenza.
Passati i compleanni passati, ed in attesa di
altri, dopo aver ricordato che la data odierna è un quasi-anagramma (anzi una
riflessione 02 à 20 ed una ripetizione sul 21), ci siamo concentrati
sulle vacanze. Visto che non si vedono orizzonti viaggianti, allora meglio
mettere mano a consolidare quello che c’è. E così si sta facendo.
Sulle
citazioni settimanali siamo sul versante non giallo del giallista Gianrico Carofiglio che, ne “Il passato è una terra
straniera” ci consola con una osservazione che molti sanno di aver fatto
nel proprio cuore: “Penso che anch’io vorrei dirle grazie, ma non sono capace”.
Io invece a voi continuo a dire grazie di continuare a leggermi.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2021
Abbiamo quasi scritto di
tutto, così possiamo serenamente tornare all’adolescenza.
ADOLESCENZA
Peter Cameron “Un giorno questo
dolore ti sarà utile” (2007)
Pillole
di trama
James ha diciotto anni, è
introverso, solitario, non ha nessuna intenzione di andare all’università, vive
a New York e lavora a tempo perso nella galleria d’arte di sua madre. I
genitori lo vorrebbero sistemato e vincente mentre lui vorrebbe solo
“sistemarsi” in una casetta nel Midwest dedicandosi esclusivamente alla
solitaria lettura di libri. Il romanzo è il divertente e frizzante racconto in
forma di diario dei pensieri che frullano nella testa di questo ironico
giovane, spaesato e confuso di fronte ai primi malesseri della vita adulta.
Supposta-saggezza
Il protagonista del romanzo di
Peter Cameron richiama subite alla mente “Il
giovane Holden” di J.D. Salinger. Ma con le dovute differenze. James è
decisamente più posato e tranquillo ma come Holden si trova alle prese con il
passaggio alla vita adulta di cui non condivide l’ingrediente principale: gli
adulti. A disagio coni i grandi, ma altrettanto con i coetanei («Ho passato
tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché»), James va
d’accordo solo con il cane e l’adorata nonna, l’unica persona con cui riesce ad
avere un rapporto sincero, l’unica che lo sa ascoltare rispettandolo nella sua
diversità e non caricandolo di ulteriori ansie. Gli adulti che lo circondano
sono una madre con una collezione di matrimoni falliti alle spalle e il vizio
di perseverare nell’errore, un padre convinto che mangiare pasta sia poco
virile ma che non disdegna ritocchi di chirurgia estetica e una sorella
maggiore che ha una storia con un professore universitario che non brilla per
acume, quindi la sua sfiducia nei confronti della categoria è più che motivata.
James è un outsider. Fuori posto ovunque e con chiunque, preferisce la beata
solitudine alle finte compagnie. Non è un adolescente immaturo che si rifiuta
di crescere, ma un “diverso” che non sente il bisogno di uniformarsi e vuole
restare out. I genitori lo vorrebbero “in”, “cool”, realizzato e di successo,
secondo i loro parametri ben inteso, e vedendolo introverso, solitario e
infelice (ma chi può essere davvero felice, si domanda James) lo mandano da una
psichiatra, come se voler essere diversi fosse un problema da curare. La
terapia dovrebbe, nelle loro teste, insegnare a James a vivere secondo gli
standard imposti dalla società del successo. In sostanza il rapporto è l’inverso
di quello tra Pinocchio e il Grillo Parlante: qui l’intervento della guida, la
psichiatra, servirebbe a trasformare James in un burattino. Ma lui non ci sta.
Disadattato ma non sbandato, sveglio e curioso, confuso ma molto lucido nei
suoi ragionamenti, con ironia, inquietudine, malinconia e saggezza, James ci
porta per un po’ a spasso nella sua vita, condividendo con noi le sue
riflessioni nelle quali ogni outsider dotato di senso dell’umorismo non farà
fatica a rispecchiarsi. Che sia un adolescente o un adulto.
Posologia
Ti senti un disadattato, nel senso
che non ti “adatti” ai comportamenti imposti dalla società?
Ti consideri un outsider?
Ti senti sempre fuori posto?
Sei adolescente e non vai d’accordo
con gli adulti?
Non sopporti le pressioni dei tuoi
genitori?
Non ti vanno a genio neanche i
coetanei?
Condividi questa affermazione? «Ho
solo 18 anni. Come faccio a sapere cosa vorrò dalla vita? Come faccio a sapere
cosa mi servirà?». (Che poi, detto fra noi, non è detto che crescendo sia più
facile trovare una risposta).
La tua massima aspirazione è
leggere libri in solitudine?
Hai la tendenza ad analizzare tutto
ciò che ti capita con implacabile e pungente ironia?
Sci reticente e poco conciliante
nei confronti di analisti e terapeuti?
Se hai risposto «sì» anche a una
sola di queste domande, sappi che la lettura di “Un giorno questo dolore ti
sarà utile” avrà lo stesso effetto di un balsamo lenitivo e rinvigorente. Già
il titolo ha un effetto placebo, una sorta di promessa alla quale bisogna dare
fiducia, una versione intellettuale del vecchio detto “non tutti i mali vengono
per nuocere”. Attenzione a non fraintendere, però: Peter Cameron non fornisce
una soluzione al dolore di vivere, ma ci rivela che è possibile riuscire a
mediare tra sé stessi e il mondo. Scendendo a compromessi? No, imparando a
trovare un equilibrio. Il romanzo è effervescente come l’aspirina e come
l’aspirina garantisce un senso di sollievo immediato liberando dai malesseri
elencati sopra.
Effetti
collaterali
Contagiato dal desiderio di James,
l’inguaribile lettore potrebbe sentirsi legittimato a rinchiudersi in casa,
leggendo libri a ripetizione. Suggerisco di evitare il sovradosaggio facendo
attenzione che la cura non diventi una malattia. Si legge per affrontare meglio
il mondo, non per fuggire. Comunque, se il lettore porta a termine la terapia e
legge tutto il romanzo, l’effetto collaterale non dovrebbe verificarsi.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Chi vuole prolungare la cura contro
la confusione esistenziale può farlo integrando la lettura del romanzo con la
trasposizione cinematografica di Roberto Faenza. Girato completamente in
America, vanta un cast di attori stranieri che ne è il punto di forza.
Un
consiglio
Il titolo del romanzo è preso in
prestito da una frase di Ovidio contenuta nell’opera giovanile “Amores”. Il
poeta latino invita a sopportare il mal d’amore con la consapevolezza che tutta
la sofferenza patita un giorno risulterà utile: «Perfer et obdura: dolor hic
tibi proderit olim». “Amores”, “Ars amatoria” e “Remedia amoris” sono da
considerarsi pratici manuali da consultare al bisogno per prevenire o curare
scottature amorose.
Commenti
Letto Cameron da non molto, e
pubblicato solo un anno fa, ne ripropongo la trama. Anche se sull’adolescenza,
appunto, avrei letto altro.
Peter Cameron “Un
giorno questo dolore ti sarà utile” Repubblica Duemila 48 euro 9,90
[trama pubblicata il 26 aprile 2020]
Una specie di giovane Holden in
minore, questo libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi
aveva a suo tempo piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia
molto originale, se questo libro, pur con le opportune diversità, mi ha fatto
pensare a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova
diverso.
Entrambi sono due ragazzi sulla
soglia della maturità, qui con il nostro James Sveck che, diciottenne, deve
decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o autonomia solitaria nel più
piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi hanno un adulto di
riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere: accogliente, che non fa
domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden ha fobia di tutto, non
vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal mondo degli adulti,
considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi, illetterati, capaci solo
adorare le inutili compagnie per paura di rimanere soli con sé stessi.
James ci fa sentire al centro delle
sue riflessioni, condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un
dolore esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte
e paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della nonna,
che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono sempre
felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile; il
difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre
accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo
porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a
conoscere sé stesso.
James viene anche considerato un
disadattato, dai suoi coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla
madre compulsivamente spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal
padre stesso, che da un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di
lui, dall’altro si rende irreperibile al figlio per un intervento chirurgico
mirato. In altre parole, per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe
intorno agli occhi. Dalla sorella invischiata in una relazione clandestina con
un suo professore dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo
parlato. Ed anche da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria
d’arte della madre, almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo
stupido che rovina i loro rapporti.
Si capisce, quindi, che Cameron
porta avanti anche una critica, feroce e puntuale, della società attuale. Attuale
almeno rispetto alla data di scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto.
Infatti, il testo è del 2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del
2003. Devo dire che questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né
sono riuscito a trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a
fondo la storia americana per capire al volo cosa succede nel tempo del
racconto.
Il nucleo del racconto parte dalla
sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove James, non sopportando i suoi
inutili compagni, sparisce per due giorni, rintanandosi nella Biblioteca
Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare una psicologa, e lì
apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute psicoanalitiche, ed
anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James comincia a maturare.
Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa, James riesce a ragionare
sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei propri pensieri. Nel
passaggio tra il cervello e la bocca avviene una trasformazione che non
consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente con il nostro
interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo, nella monade
della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra pensieri e parole
(grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è difficile che il mondo
esterno capisca chi sia veramente.
Il terzo ed ultimo nucleo è quella
paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che attanaglia i
giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti. Ricordo ancora con
tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare il giorno
dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un piccolo passo
falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare in fila in segreteria
alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o lingue? Voi sapete quale
scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi e pensieri diversi.
In fondo, non succede molto in
tutto il romanzo, è solo un susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci
consentono, non senza un intimo piacere, di entrare in sintonia con James. Che
in fondo è un po’ come noi, come me, un giovane che non è disturbato, e che a
me suscita affetto e sintonia. Noi e James, alla fine, abbiamo un solo grosso
problema: non riuscire a rapportarsi con le persone superficiali. Solo la fine,
ad una lettura in sintonia con il libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio
diluito le ultime avventure e le decisioni finali di James. Rimane comunque uno
dei migliori libri che ho letto negli ultimi tempi.
“Se uno divorzia, secondo me
perde il diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.”
(38)
Finalino
Avrei senz’altro aggiunto Holden (anche troppo facile),
magari stemperato con “Noi siamo infinto” di Stephen Chbosky, e corroborato con
una robusta dose de “L’isola del tesoro” di Stevenson.
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