domenica 21 febbraio 2021

Raccontini in giallo - 21 febbraio 2021

In ottobre, come spiego nel primo librino letto, Repubblica decide di regalare alcuni racconti “in giallo”. Poiché non ripetere è meglio, rimando alle considerazioni sotto espresse per giudizi sulla collana e sull’operazione editoriale. Qui parlo dei primi cinque, dove De Giovanni, Manzini, Lucarelli e De Cataldo si attestano su di un livello basso di gradimento. Sul quinto ho già scritto male sotto, ed allora non ripeto.

Maurizio de Giovanni “Febbre” Repubblica “Italia in giallo” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 10/10/2020 – I: 27/10/2020 – T: 27/10/2020] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Da quando ha cambiato proprietà, Repubblica si industria nell’invogliare all’acquisto del giornale attraverso l’omaggio di libri, o per meglio dire, di racconti. Ha quindi messo in cantiere questa mini-collana di autori italiani (almeno così recita il lancio ed il nome “Italia in giallo”, vi rimando all’uscita n.5 per considerazioni diverse), ripescando racconti in gran parte pubblicati in altre raccolte. Dato che, in generale, non sono aduso all’acquisto di quest’ultime, mi fa comunque piacere leggere, in regalo, alcune prove. Tra l’altro, molto in anticipo con i tempi, visto che, nel giro polacco (per chi ne capisce), avendo poco spazio, ho portato i primi quattro esemplari, e li ho letti.

Questa prima uscita proviene dalla raccolta “Giochi criminali”, pubblicata da Einaudi nel 2014, e mi consente di tornare a leggere del mio amato commissario Ricciardi, nello splendore delle sue indagini, prima che l’autore, incartandosi nelle storie, lo portasse alla sua conclusione lo scorso anno.

Quindi, è con piacere e gradimento che si torna a Napoli, con il commissario ed anche con il brigadiere Maione. Non solo, ma entrando anche in una specificità napoletana, il gioco del lotto. Con tutti gli annessi e connessi: smorfia, interpretazione dei sogni e via discorrendo. Il nostro scrittore, ora che è ancora lontano dalla necessità di porre un termine a queste storie di morte e di fantasmi, si lascia andare a descrizioni che, come nei primi romanzi, risultano vivide e coinvolgenti. Che ci portano in una Napoli che si può amare, dove il contesto storico rimane dietro le quinte, e risalta solo il contesto sociale.

Così, vediamo la morte di un “assistito”. Impieghiamo del bello e del buono, noi non napoletani, per capire cosa si intenda. Per farla breve, il morto è una persona che sa interpretare sogni e simili input per giocare al lotto. Praticamente cieco, poiché “indovina” molti numeri, viene assistito dalla carità popolare, che lo sostiene con vitto. Mentre l’alloggio lo fornisce proprio il gestore di un banco del lotto, avendo il tornaconto che chi va a chiedere numeri, poi non fatica a giocarli subito lì.

La solita capacità di de Giovanni lo porta, pur nel breve spazio di meno di cinquanta pagine, a regalarci anche delle piccole storie, di contorno e sostegno a quella principale. La famiglia del proprietario del banco, con il figlio possente ma forse non proprio di vivida intelligenza, e la figlia bruttina assai. Poi ci sono le persone che hanno visitato il morto poco prima che morisse, in particolare un conte che si è giocato soldi, case e onori, per inseguire sogni che non si realizzano. Un ludopata ante-litteram, con una moglie piacente e dignitosa che cerca di tirarlo fuori da quel baratro.

Tutto legato a quelle ultime parole che sappiamo essere il marchio di fabbrica del commissario. E l’assistito ripeteva 21, 9 e 19. Che nella smorfia stanno per “la donna nuda”, “il parto” e “la risata”. Ma che potrebbero essere interpretati come bellezza, distacco e dispiacere. Ovvio che Ricciardi troverà la giusta interpretazione, che, purtroppo (ed è questo il motivo dell’abbassarsi del gradimento) la solita scrittura anticipatoria in corsiva, ce ne fa capire i contorni sin dalle prime righe della prima pagina.

Comunque, è un peccato che lo scrittore faccia evolvere il nostro Ricciardi fino ad un punto dove non riesce più a seguirlo e che lo vedrà costretto ad abbandonarlo. Se fossimo un centinaio d’anni indietro, farei seguire a tutto ciò la sommossa di popolo che costrinse Conan Doyle e far resuscitare Sherlock Holmes.

Ma “or non è più quel tempo e quell’età”. Accontentiamoci di un buon prodotto, e speriamo in altre scritture similmente valide.

Antonio Manzini “Castore e Polluce” Repubblica “Italia in giallo” 2 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 10/10/2020 – I: 28/10/2020 – T: 28/10/2020] && + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2015]

Eccoci subito alla seconda uscita della collana omaggio di Repubblica. Anche qui con un gradito riorno: Rocco Schiavone al meglio delle sue Clarke. Qui, la raccolta originale era invece “Turisti in giallo” uscita da Sellerio nel 2015.

E per fortuna che siamo dalle parti del Rocco ancora non invischiato in storie altre e (quasi) senza sbocco. E che quindi, pur nella sua brevità, riesce ad essere più simpaticamente leggibile di storie più lunghe ed ingarbugliate.

Inoltre, c’è solo un intervento della morta moglie Marina, ed anche questo non può che essere a favore dell’isolare meglio le capacità e l’intuito di Rocco. Non abbiamo interventi altri, non c’è l’aiuto degli amici romani. C’è Rocco, c’è Italo (anche lui abbastanza sereno e non invecchiato nelle future ludopatie pokeristiche), e c’è una trama nera. Non eccelsa, che si capisce quale ne siano i contorni. Aspettiamo solo le intuizioni di Rocco per capire meglio i come. E magari del magistrato Baldi, per svelarne i perché. Ma è un Rocco del 2015, e quindi un Rocco che ci piace, anche a prescindere da Giallini e dalla TV.

La storia, dovendo rispettare l’assunto della collana (come impone la Sellerio in queste uscite), si svolge ad avvolge intorno a tre rampanti architetti, che festeggiano la presentazione di progetti possibilmente facoltosi, con passeggiate in alta montagna. Seguiamo i tre nella loro scalata, notando che c’è fin dall’inizio una possibile contrapposizione tra due sodali ed il terzo, che è sempre più nervoso, che per non fumare mastica chewing-gum. Non ci meravigliamo verto quando si verifica la tragedia: il masticatore perde la corda, o forse l’appiglio, insomma precipita e muore.

Rocco, santiando alla grande, deve prendere in mano la faccenda, e recarsi anche sopra le montagne aostane, anche a più di 4000 metri (ma in realtà, controllando in Internet, visto che si fermano al rifugio Guide d’Ayas, questi si trova a 3420 metri). Sempre con le Clarke ai piedi, ma in elicottero. Vede subito, o abbastanza presto, incongruenze nel possibile incidente, nel modo di chiamare i soccorsi, nella posizione del corpo e delle mani del morto, dell’orologio ed altri piccoli elementi che se non costituiscono una prova, almeno accumulano indizi.

Anche perché la sua squadra investigativa scopre alcune problematicità legate ai progetti presentati dallo studio. Non ultima la possibilità che i tre potrebbero aver deciso di separare le loro responsabilità lavorative. Comunque, Rocco somma due più due più due, e trova il bandolo della matassa.

Ah, dimenticavo, Castore e Polluce sono due monti del massiccio del Monte Rosa. Il Polluce è di 4091 metri, mentre il Castore è di 4228. E furono scalati per la prima volta intorno agli anni tra il 1860 ed il 1870.

Ah, e per finire, essendo ancora nella fase di “salita di interesse”, compare anche la simpatica Caterina, prima che, succedendo quello che altrove ho narrato, arriveremo alle soglie di quanto leggeremo nei prossimi romanzi (credo).

Non eccelso quindi, non all’altezza schiavonica solita. Sia per la poca consistenza del giallo, sia perché (e vedremo se è vero in un libro che devo ancora leggere) la dimensione racconto non credo si addica bene alla lentezza di Rocco.

Carlo Lucarelli “A girl like you” Repubblica “Italia in giallo” 3 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 17/10/2020 – I: 29/10/2020 – T: 29/10/2020] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Terza uscita, sempre legata ad uno degli autori classici, ormai, del giallo italiano. Anche qui, come per de Giovanni, il racconto era uscito nella raccolta “Giochi criminali” pubblicata da Einaudi nel 2014. Rispetto, ai classici del primo Lucarelli (quelli con il commissario De Luca all’epoca della Repubblica di Salò), passando per la serie dell’ispettore Coliandro (che non mi aveva entusiasmato), qui vediamo il ritorno della sua ben riuscita ispettrice Grazia Negro.

Non torno sull’evoluzione che il personaggio ha attraverso i vari romanzi (ne parlai al tempo di “Il sogno di volare” del 2013), ricordo soltanto che ormai fa giusta coppia fissa con il non vedente Simone. E che qui (un anno dopo il precedente) è invece finalmente incinta. Certo, non esita a mettere a rischio anche questa gravidanza, quando ci si trova di fronte al dovere ed alle indagini. Ma il tempo sta finendo, e davanti agli ultimi 30 gradini per portare il risultato delle indagini al suo capo, dovrà decidere chi o cosa privilegiare. Leggetelo per saperne.

Malgrado sia incinta, e visto che sta facendo dei controlli per la gravidanza, il suo capo la manda ad interrogare un mafioso di bassa tacca, che è saltato in aria con tutta la famiglia. Vuole capire di più, e scopre così che il colpevole è il nipote, fattosi saltare in aria come un kamikaze arabo, per punire la famiglia che (secondo lui) aveva costretto la sua bella a fuggire. Una bella senza nome, ma con un tatuaggio sul piede molto particolare.

Tanto che la nostra brava ispettrice lo collega ad un’altra morte particolare. Da lì risalendo, con piccole analisi, con tabulati telefonici, con telefonate ed altre astuzie poliziesche, Grazia risale tutta la catena degli omicidi. Non diretti, ma omicidi procurati o indotti o istigati. Trovando l’ultimo bandolo in …

Beh, certo non vi dirò chi è l’ultimo anello della catena, ma ben presto, dall’analisi di chi siano i vari morti, si capisce che sono tutti legati ad una sala giochi, legale quanto si vuole, ma che dovrebbe far entrare solo i maggiorenni. Mentre potrebbe esservi entrato, ed ammalatosi di ludopatia grave un under 18. Tanto grave che quando potrebbe essere smascherato, non trova di meglio che uccidersi.

E chi gli vuole bene decide di farla pagare a tutti. Attaccandoli nei punti deboli di chi ruotava intorno alla sala giochi. I gestori, i mafiosi che ne proteggevano l’esistenza, gli assessori che ne avevano autorizzato l’apertura, financo i giovani compagni del morto che non avevano avuto la forza o la volontà di fermarlo.

L’ispettore Negro, benché affaticata dalla pancia all’ultimo stadio, segue questa catena di eventi all’incontrario. Trovandosi alla fine con un ultimo nome di una persona ancora vivente. Ma minacciata da quella stella ai piedi che si aggira libera per la Romagna.

Lucarelli, con la sua solita pervicacia, a volte, di non voler chiudere tutto, perché tanto siamo circondati da tanto amaro, che capite bene voi come andrà a finire, non ci dice se l’ultimo nome sarà avvertito, né come. Né, ancora, se ha un senso ed uno scopo avvertirlo. Oppure lo fa capire nelle pieghe del discorso.

Così vi lascio anch’io nel dubbio e nelle domande: l’ispettore Nigro avvertirà il suo capo? Grazia farà quei trenta scalini? Grazia e Simone riusciranno a coronare il loro di sogni d’amore avendo finalmente un pargolo per casa?

Come direbbe Battisti, “lo scopriremo solo vivendo”.

Per ora, mi basta riavere un po’ della verve del buon Lucarelli, che quando lascia trasmissioni televisive un po’ bollite, e torna alla sua onesta e piacevole scrittura, ritorna ad essere quel simpatico imbonitore di storie, che incontrai in una festa letteraria a Trastevere nel 1999, e con il quale passai una mezz’ora di divertente e proficuo colloquio (ne parleremo un giorno, di quel 2 giugno).

Giancarlo De Cataldo “Medusa” Repubblica “Italia in giallo” 4 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 17/10/2020 – I: 30/10/2020 – T: 30/10/2020] && -

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2014]

Quarta uscita, anch’essa legata alla raccolta “Giochi criminali” pubblicata da Einaudi nel 2014. Ma stiamo, seppur di poco, sempre calando. Anche tenendo conto il fatto che, normalmente, non è che sia un grande fan di De Cataldo.

Certo, ho apprezzato “Romanzo criminale”, per la scrittura, per l’argomento, per il modo di trattare il tutto, per la suspense. Ma non per quanto ne esce dopo, il film, le serie televisive, il seguito scritto dallo stesso De Cataldo ma con poca sostanza rispetto al primo. Non ho invece apprezzato molto il resto degli scritti che ho letto, e sono più di due anni che non ritorno su questo autore.

Ora, appunto, nell’orgia di inserti del gruppo Gedi, si torna a leggerne e si torna a non essere convinti. Torniamo nella natia Taranto, ed è un bene. E ne vediamo i contrapposti sentimenti: l’alta borghesia, con i suoi birignao, il suo modo di parlare altezzoso, le citazioni colte; ed i criminali, ma anche i piccolo borghesi di mezza tacca, con un uso eccessivo del dialetto e delle espressioni triviali, cosa che ne fa più macchiette che personaggi.

Anche la storia non è che prenda tanto. Al centro, l’anziana professoressa di latino in pensione, Emma Blasi. Una che ha avuto molta parte della Taranto d’oggi tra i suoi banchi. Che da sempre è presa da follie amorose per il barone Stefano de Mallarmé, barone di Belcastro. Peccato che il barone sia omosessuale, e che tra i due esistano solo fantasie erotiche, tutte celebrate sulla falsariga del film di Alain Resnais “Stavisky, il grande truffatore”, quello con Jean-Paul Belmondo.

Il giallo inizia quando Stefano viene trovato morto apparentemente per un ardito gioco erotico. Il commissario Ardenzi, anche lui ex-allievo della Blasi, archivia presto il caso. Non così Emma, presa dal suo amore incorrispondibile verso Stefano. Ma anche piena della sua conoscenza del mondo locale, del bello e del cattivo che attraversano la sua Taranto.

Emma Blasi è da sempre (soprattutto dai suoi allievi) soprannominata Medusa, con quello sguarda che pietrificava durante le interrogazioni. Ma che continua ad essere inquietante per chi ora la frequenta. Che non si può avvicinarla, mai, guardandola negli occhi. Occhi che diventeranno indagatori, soprattutto quando scopre di essere l’erede universale del morto Stefano. E per di più, nell’occhio del mirino di camorristi e faccendieri che avevano messo più di un occhio sulla dimora avita del barone.

La Medusa, indagando in questa direzione, si troverà di certo in pericolo, ma avrà modo di esplorare la profonda ludopatia di Stefano capace di giocarsi montagne di soldi e di averi alle carte. E non in un gioco qualsiasi, ma in una follia di carte: scommetteva (ed in genere perdeva) giocando alla “carta più alta”. Non una pazzia, ma molto di più ne converrete. Ma se questa volta avesse vinto? Parlando, e guardando con i suoi occhi di ghiaccio, Emma capirà, noi capiremmo. Capirà anche la giustizia? Dubbio che lasciamo ai perseveranti lettori.

Racconto veloce, poco impegnativo, scritto senza troppi patemi, e letto senza troppo coinvolgimenti. Poco giallo, come al solito, seppur tanta Italia. L’inizio di questa collana regalo si rivela altalenante. Staremo a vedere.

Mentre continuiamo, come sopra espresso, ad avere dubbi sulla scrittura di De Cataldo. E qui, non so se vedremo ancora.

Ben Pastor “Il giaciglio d’acciaio” Repubblica “Italia in giallo” 5 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/11/2020 – I: 06/11/2020 – T: 06/11/2020] &

[titolo: The Iron Bed; lingua: inglese; pagine: 46; anno: 2011]

Come detto nella prima trama dedicata a questi volumetti in regalo fine settimanale con Repubblica, l’editore cerca di dare una forma al “nero italiano”, riprendendo racconti usciti spesso in precedenza, ed in particolare editi da Einaudi e Sellerio. Qui, purtroppo, avviene una palese mistificazione in due tappe.

La prima deriva dal fatto che, benché l’autrice sia di origine italiana (Maria Verbena Volpi sposata Pastor, da cui la firma Ben Pastor) è naturalizzata americana, e scrive tutte le sue opere in inglese. Sebbene molta parte delle sue opere sia ambientata in Italia, non può essere considerata “autrice italiana” e quindi viene inserita in un contesto improprio.

La seconda è che nella fattispecie di questo racconto, nulla vi è di giallo, di noir, di thriller. Il racconto è tratto da “Un Natale in giallo” di Sellerio, e parla di un ben particolare Natale, quello passato a Stalingrado dalle trippe tedesche nel dicembre del 1942.

Il filo conduttore di questo, e della maggioranza degli scritti di Pastor, è la storia della vita di Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora, più facilmente identificato come Martin Bora. Un militare tedesco che attraversa molta parte della storia germanica che va dal 1930 al 1950 (almeno), trovandosi su di un duplice crinale: ogni volta è coinvolto nella risoluzione di casi polizieschi ed in parallelo si deve confrontare con l’evoluzione tedesca durante il nazismo. Motivo che lo rende altamente schizofrenico, essendo ligio come militare ma antinazista come costituzione sociale. Una duplicità che non viene mai risolta pienamente, anche se ne intuiamo i contorni, e le implicazioni. Considerando anche il fatto che buona parte del retroterra di Martin è ripreso dalla storia colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, quello che organizzò il fallito attentato ad Hitler, note come “Operazione Valchiria”.

Gli editori della collana sono stati sfortunati a trovare in me un assiduo lettore degli scritti di Pastor (ho in libreria 11 dei 12 libri ispirati a Martin). Per cui, anche qui, mi aspettavo che durante l’assedio russo alle truppe tedesche in quel di Stalingrado, uscisse fuori un qualche elemento caratteristico del personaggio. Invece ne abbiamo la descrizione umorale e comportamentale, lì mentre ribatte ai colpi russi, e tenta di convincere i generali tedeschi alla necessità di una onorevole ritirata. Scrive il suo diario (come sappiamo dalle altre opere), si rivolge spesso alla sua sposa Benedikta (che però sappiamo che in un vicino futuro lo lascerà), cerca di sollevare il morale delle sue truppe. Ma è tutto interno al personaggio, che di certo, per chi non lo conosce, viene tratteggiato in maniera congrua. Si capisce anche l’attrito che il maggiore Bora ha con le gerarchie, attrito che si ripercuote in tutte le sue prese di posizione contro il nazismo.

Bora non si oppone apertamente, ma cerca di agire dall’interno delle istituzioni, sostiene l’aspetto militare dell’interventismo, rifiutandone quello politico. Tanto che aiuta nascostamente gli ebrei, cerca prove per i massacri in Ucraina, si rivolta contro le violenze verso i civili.

Pastor non mi risulta abbia ancora scritto una pagina relativa alle possibili riflessioni di Bora a valle della disfatta militare.

Per concludere, pur conservando il testo come ulteriore tassello della fiction biografica di Bora, sono rimasto molto deluso dal racconto e dal suo inserimento in questa collana (così come sottolineato all’inizio).

Terza domenica ed allora un ulteriore, forse ultimo, capitolo dei libri felici dedicato questa volta all’adolescenza.

Passati i compleanni passati, ed in attesa di altri, dopo aver ricordato che la data odierna è un quasi-anagramma (anzi una riflessione 02 à 20 ed una ripetizione sul 21), ci siamo concentrati sulle vacanze. Visto che non si vedono orizzonti viaggianti, allora meglio mettere mano a consolidare quello che c’è. E così si sta facendo.

Sulle citazioni settimanali siamo sul versante non giallo del giallista Gianrico Carofiglio che, ne “Il passato è una terra straniera” ci consola con una osservazione che molti sanno di aver fatto nel proprio cuore: “Penso che anch’io vorrei dirle grazie, ma non sono capace”.

Io invece a voi continuo a dire grazie di continuare a leggermi.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

FEBBRAIO 2021

Abbiamo quasi scritto di tutto, così possiamo serenamente tornare all’adolescenza.

ADOLESCENZA

Ogni età è complessa a modo suo, ma l’adolescenza è una fase decisamente critica.
Non più bambini ma non ancora adulti, si è in evoluzione come il bruco che diventa farfalla ma al contrario, ovvero con la fastidiosa sensazione che, da spensierata e leggiadra farfallina, ci si ritrovi improvvisamente negli scomodi e viscidi panni di un bruco che striscia nervoso, impacciato e quasi perennemente arrabbiato.
Anche se sembra impossibile all’adolescenza si sopravvive, più o meno indenni. Durante questo periodo di grande confusione, alcuni rimedi letterari possono aiutare a stare meglio e a farsi un po’ di coraggio. Si tratta di letture balsamiche che facilitano a espettorare quell’opprimente senso di irritazione che preme sul petto, a fluidificare quel gomitolo di rabbia, lacrime, euforia, ribellione e tanta, tanta confusione che tormenta il lettore adolescente come una fastidiosissima tosse cronica. Poco inclini a confidare i propri rodimenti interiori, i ragazzi troveranno sollievo sviluppando empatia con personaggi che condividono le loro stesse problematiche e le esprimono con quelle parole che spesso non trovavano. Forza, giovani inguaribili lettori: inspirate, immergetevi nella lettura e fate un bel colpo di tosse. Non sarete guariti ma vi sentirete meglio.
Un consiglio: in caso si manifesti una forma acuta di nostalgia per l’infanzia (appena abbandonata), il modo più rapido e indolore per alleviarne i sintomi è ricorrere alle medicine dei bambini. Saranno una boccata d’ossigeno, come l’aerosol ma molto più piacevole.

Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” (2007)

Pillole di trama

James ha diciotto anni, è introverso, solitario, non ha nessuna intenzione di andare all’università, vive a New York e lavora a tempo perso nella galleria d’arte di sua madre. I genitori lo vorrebbero sistemato e vincente mentre lui vorrebbe solo “sistemarsi” in una casetta nel Midwest dedicandosi esclusivamente alla solitaria lettura di libri. Il romanzo è il divertente e frizzante racconto in forma di diario dei pensieri che frullano nella testa di questo ironico giovane, spaesato e confuso di fronte ai primi malesseri della vita adulta.

Supposta-saggezza

Il protagonista del romanzo di Peter Cameron richiama subite alla mente “Il  giovane Holden” di J.D. Salinger. Ma con le dovute differenze. James è decisamente più posato e tranquillo ma come Holden si trova alle prese con il passaggio alla vita adulta di cui non condivide l’ingrediente principale: gli adulti. A disagio coni i grandi, ma altrettanto con i coetanei («Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché»), James va d’accordo solo con il cane e l’adorata nonna, l’unica persona con cui riesce ad avere un rapporto sincero, l’unica che lo sa ascoltare rispettandolo nella sua diversità e non caricandolo di ulteriori ansie. Gli adulti che lo circondano sono una madre con una collezione di matrimoni falliti alle spalle e il vizio di perseverare nell’errore, un padre convinto che mangiare pasta sia poco virile ma che non disdegna ritocchi di chirurgia estetica e una sorella maggiore che ha una storia con un professore universitario che non brilla per acume, quindi la sua sfiducia nei confronti della categoria è più che motivata. James è un outsider. Fuori posto ovunque e con chiunque, preferisce la beata solitudine alle finte compagnie. Non è un adolescente immaturo che si rifiuta di crescere, ma un “diverso” che non sente il bisogno di uniformarsi e vuole restare out. I genitori lo vorrebbero “in”, “cool”, realizzato e di successo, secondo i loro parametri ben inteso, e vedendolo introverso, solitario e infelice (ma chi può essere davvero felice, si domanda James) lo mandano da una psichiatra, come se voler essere diversi fosse un problema da curare. La terapia dovrebbe, nelle loro teste, insegnare a James a vivere secondo gli standard imposti dalla società del successo. In sostanza il rapporto è l’inverso di quello tra Pinocchio e il Grillo Parlante: qui l’intervento della guida, la psichiatra, servirebbe a trasformare James in un burattino. Ma lui non ci sta. Disadattato ma non sbandato, sveglio e curioso, confuso ma molto lucido nei suoi ragionamenti, con ironia, inquietudine, malinconia e saggezza, James ci porta per un po’ a spasso nella sua vita, condividendo con noi le sue riflessioni nelle quali ogni outsider dotato di senso dell’umorismo non farà fatica a rispecchiarsi. Che sia un adolescente o un adulto.

Posologia

Ti senti un disadattato, nel senso che non ti “adatti” ai comportamenti imposti dalla società?

Ti consideri un outsider?

Ti senti sempre fuori posto?

Sei adolescente e non vai d’accordo con gli adulti?

Non sopporti le pressioni dei tuoi genitori?

Non ti vanno a genio neanche i coetanei?

Condividi questa affermazione? «Ho solo 18 anni. Come faccio a sapere cosa vorrò dalla vita? Come faccio a sapere cosa mi servirà?». (Che poi, detto fra noi, non è detto che crescendo sia più facile trovare una risposta).

La tua massima aspirazione è leggere libri in solitudine?

Hai la tendenza ad analizzare tutto ciò che ti capita con implacabile e pungente ironia?

Sci reticente e poco conciliante nei confronti di analisti e terapeuti?

Se hai risposto «sì» anche a una sola di queste domande, sappi che la lettura di “Un giorno questo dolore ti sarà utile” avrà lo stesso effetto di un balsamo lenitivo e rinvigorente. Già il titolo ha un effetto placebo, una sorta di promessa alla quale bisogna dare fiducia, una versione intellettuale del vecchio detto “non tutti i mali vengono per nuocere”. Attenzione a non fraintendere, però: Peter Cameron non fornisce una soluzione al dolore di vivere, ma ci rivela che è possibile riuscire a mediare tra sé stessi e il mondo. Scendendo a compromessi? No, imparando a trovare un equilibrio. Il romanzo è effervescente come l’aspirina e come l’aspirina garantisce un senso di sollievo immediato liberando dai malesseri elencati sopra.

Effetti collaterali

Contagiato dal desiderio di James, l’inguaribile lettore potrebbe sentirsi legittimato a rinchiudersi in casa, leggendo libri a ripetizione. Suggerisco di evitare il sovradosaggio facendo attenzione che la cura non diventi una malattia. Si legge per affrontare meglio il mondo, non per fuggire. Comunque, se il lettore porta a termine la terapia e legge tutto il romanzo, l’effetto collaterale non dovrebbe verificarsi.

Terapia cinematografica sostitutiva

Chi vuole prolungare la cura contro la confusione esistenziale può farlo integrando la lettura del romanzo con la trasposizione cinematografica di Roberto Faenza. Girato completamente in America, vanta un cast di attori stranieri che ne è il punto di forza.

Un consiglio

Il titolo del romanzo è preso in prestito da una frase di Ovidio contenuta nell’opera giovanile “Amores”. Il poeta latino invita a sopportare il mal d’amore con la consapevolezza che tutta la sofferenza patita un giorno risulterà utile: «Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim». “Amores”, “Ars amatoria” e “Remedia amoris” sono da considerarsi pratici manuali da consultare al bisogno per prevenire o curare scottature amorose.

Commenti

Letto Cameron da non molto, e pubblicato solo un anno fa, ne ripropongo la trama. Anche se sull’adolescenza, appunto, avrei letto altro.

Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” Repubblica Duemila 48 euro 9,90

[trama pubblicata il 26 aprile 2020]

Una specie di giovane Holden in minore, questo libro scritto cinque anni dopo “Quell’estate dorata” che mi aveva a suo tempo piacevolmente sorpreso. Non sembra, comunque, che io sia molto originale, se questo libro, pur con le opportune diversità, mi ha fatto pensare a Salinger e Holden. Anche se sono in sintonia con chi poi lo trova diverso.

Entrambi sono due ragazzi sulla soglia della maturità, qui con il nostro James Sveck che, diciottenne, deve decidere cosa fare dopo il “liceo”: università o autonomia solitaria nel più piccolo stato americano, il Rhode Island. Entrambi hanno un adulto di riferimento, qui c’è la nonna che tutti vorremmo avere: accogliente, che non fa domande, e che dà consigli parlando d’altro. Ma Holden ha fobia di tutto, non vuole vedere nessuno, mentre James è affascinato dal mondo degli adulti, considerando i suoi coetanei (ed a ragione) immaturi, illetterati, capaci solo adorare le inutili compagnie per paura di rimanere soli con sé stessi.

James ci fa sentire al centro delle sue riflessioni, condividendo con lui il dolore che accompagna la crescita. Un dolore esorcizzato da un ricordo di un campo estivo il cui motto era “Sii forte e paziente: un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” e dalle parole della nonna, che gli ricordano come siano poco interessanti le persone che sono sempre felici. Come dice ad un certo punto, “godersi i momenti felici è facile; il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti.” James è sempre accompagnato da un perenne senso di inadeguatezza, e quindi si rifugia nel suo porto sicuro, la solitudine, unica chiave che James considera per arrivare a conoscere sé stesso.

James viene anche considerato un disadattato, dai suoi coetanei e compagni, ma anche dalla sua famiglia. Dalla madre compulsivamente spinta a nuovi matrimoni dopo il divorzio dal padre. Dal padre stesso, che da un lato si accompagna con ragazze molto più giovani di lui, dall’altro si rende irreperibile al figlio per un intervento chirurgico mirato. In altre parole, per una chirurgia estetica tesa ad eliminare le rughe intorno agli occhi. Dalla sorella invischiata in una relazione clandestina con un suo professore dell’Università. Ovviamente non dalla nonna, di cui abbiamo parlato. Ed anche da John, il giovane gay che gestisce l’inutile galleria d’arte della madre, almeno fino a che lo stesso James non gli fa uno scherzo stupido che rovina i loro rapporti.

Si capisce, quindi, che Cameron porta avanti anche una critica, feroce e puntuale, della società attuale. Attuale almeno rispetto alla data di scrittura ed al tempo di svolgimento del racconto. Infatti, il testo è del 2007, e l’azione si svolge dal marzo al settembre del 2003. Devo dire che questa collocazione temporale non mi ha ancora convinto, né sono riuscito a trovarne una spiegazione. Personalmente non conosco così a fondo la storia americana per capire al volo cosa succede nel tempo del racconto.

Il nucleo del racconto parte dalla sfortunata “gita scolastica” nella capitale, dove James, non sopportando i suoi inutili compagni, sparisce per due giorni, rintanandosi nella Biblioteca Nazionale. Fuga che lo porta a dover frequentare una psicologa, e lì apprezziamo il modo con cui Cameron descrive le sedute psicoanalitiche, ed anche capiamo come, pur nell’inutilità delle sedute, James comincia a maturare. Lì nelle riflessioni e nel discorso con la psicologa, James riesce a ragionare sull’altro nucleo del romanzo: l’inesprimibilità dei propri pensieri. Nel passaggio tra il cervello e la bocca avviene una trasformazione che non consente (almeno quasi mai) di comunicare esattamente con il nostro interlocutore. Per questo ognuno rimane sostanzialmente solo, nella monade della sua vita. E quando James non introduce un filtro tra pensieri e parole (grazie ai grandi Mogol e Battisti, per chi ne sa), è difficile che il mondo esterno capisca chi sia veramente.

Il terzo ed ultimo nucleo è quella paura del futuro, quell’indecisione sulle scelte da fare che attanaglia i giovani, i diciottenni quando cominciano a diventare adulti. Ricordo ancora con tremore il tempo dal luglio all’ottobre del 1971. Aspettare il giorno dell’esame di maturità sapendo di sapere, ma sapendo anche che un piccolo passo falso, sempre possibile, avrebbe portato disastri e rovine. Stare in fila in segreteria alla Sapienza, con due moduli in mano: matematica o lingue? Voi sapete quale scelta ho fatto, anche se dopo 50 anni ancora ho dubbi e pensieri diversi.

In fondo, non succede molto in tutto il romanzo, è solo un susseguirsi di pensieri, e di elementi che ci consentono, non senza un intimo piacere, di entrare in sintonia con James. Che in fondo è un po’ come noi, come me, un giovane che non è disturbato, e che a me suscita affetto e sintonia. Noi e James, alla fine, abbiamo un solo grosso problema: non riuscire a rapportarsi con le persone superficiali. Solo la fine, ad una lettura in sintonia con il libro, mi sembra troppo veloce. Avrei meglio diluito le ultime avventure e le decisioni finali di James. Rimane comunque uno dei migliori libri che ho letto negli ultimi tempi.

“Se uno divorzia, secondo me perde il diritto a fare commenti sui comportamenti o sul carattere dell’altro.” (38)

Finalino

Avrei senz’altro aggiunto Holden (anche troppo facile), magari stemperato con “Noi siamo infinto” di Stephen Chbosky, e corroborato con una robusta dose de “L’isola del tesoro” di Stevenson.

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