domenica 14 febbraio 2021

Scrittrici "latine" - 14 febbraio 2021

Nel senso che provengono da quelle radici. Due italiane, due di lingua spagnola. Il risultato migliore è della venezuelana Karina, seguita a ruota dalla cilena Isabel. C’è di sicuro affetto nella lettura di Rossana Rossanda, ma non mi ha convinto del tutto. Come mi ha lasciato un po’ distante, pur con tutto l’affetto alla persona, il libro di Barbara Garlaschelli.

Karina Sainz Borgo “Notte a Caracas” Repubblica Latinoamericana 21 euro 9,90

[A: 19/06/2020 – I: 02/09/2020 – T: 04/09/2020] - &&&  

[tit. or.: La hija de la española; ling. or.: spagnolo; pagine: 189; anno 2019]

Con questa nuova scrittrice inauguriamo due cose: una collana che spero porti libri interessanti, essendo dedicata alla letteratura latino-americana, ed una scrittrice venezuelana, paese che non annovero tra i più frequentati delle mie letture.

Anzi, cominciando dall’ultima affermazione credo, a memoria, di non aver letto sino ad ora nessun autore di questo paese. Che pure è presente nel mio immaginario, essendo uno dei pochi dell’America del Sud che non ho visitato, e per tutta la storia sociale e politica che ci hanno tramandato le ultime presidenze del paese, da Hugo Chavez a Nicolas Maduro.

Per la collana, ritengo che sia un inizio interessante, anche se la lettura del libro ha avuto alti e bassi di coinvolgimento e di rigetto. Perché è un libro politico, laddove c’è una politica che conosco poco nei suoi risvolti quotidiani. Perché è un libro personale, laddove il dolore delle perdite è sempre un dolore universale.

La storia di Adelaida Falcon è breve, intensa e sconvolgente. C’è la morte della madre, cui era legatissima, che trasfigura nel cuore della protagonista anche la morte della Patria. Dilaniata da una discesa nella povertà a rotta di colla, dove sorgono (in un tempo sospeso che può essere collocato nell’oggi, anche senza una data precisa) movimenti e sommosse molto tipiche dei paesi in via di disfacimento. Drogati anche da una non sempre ben intesa collocazione marxista e rivoluzionaria, che nell’intimo non sembra essere né l’una né l’altra. Questa è per me la parte più difficile, non conoscendo a fondo la quotidianità venezuelana. Ma posso immaginare che, nel momento di una discesa nella miseria, ci siano dei “si salvi chi può” che organizzano sé stessi in bande che assumono tutti i colori del mondo per sopravvivere. Quello che è certo ed immutabile, è il ruolo di puntello del potere dell’esercito e della polizia. Che, lì come in Cile a suo tempo, come in Argentina, come in Brasile, in vari modi e forme, non esita ad imprigionare, uccidere, sobillare. Come esemplificano le “Figlie della rivoluzione” che mascherano i traffici del mercato nero con occupazioni simboliche di case che non si riesce a difendere.

Come la casa di Adelaide, che si trova in poco tempo orfana e senza dimora. Per puro caso, riesce ad intrufolarsi in casa della vicina Aurora, sperando in un rifugio. Dove trova al contrario una situazione difficile ma foriera di possibilità. Che Aurora è morta (naturalmente) e non ha nessuno che ne sappia nulla. Aurora con la madre era fuggita dalla Spagna qualche decennio prima. Erano sole a Caracas. Anche più solo dopo che la madre di Aurora muore cinque anni prima. Adelaide, girando per la casa non sua, scopre tante cose, di sé, di Aurora, della vita di persone che pensava erroneamente di conoscere.

Mentre intorno infuria la bufera dei tumulti e delle uccisioni senza motivo, Adelaide intravede una possibilità: impersonare Aurora, falsificare i documenti, e con il passaporto spagnolo della vicina tentare la fuga verso la Spagna e la libertà. Ci riuscirà o sarà fermata prima di poter compiere l’ultimo passo? Beh, questo ve lo leggete voi, se vi va. Magari dandomi un conforto sul resto del libro e sui passi che non sempre sono riuscito a fare miei.

La scrittura è discretamente coinvolgente, visto che Karina è anche giornalista, e sa tenere desta l’attenzione. Come sa fare qualche gioco di scatole cinese, andando su e giù per la storia. Che vediamo la storia di Adelaide e della madre. Di Adelaide e della sua amica Ana. Di Ana e suo fratello Santiago. Di Adelaide e del suo amore Francisco, il giornalista di tutte le inchieste pericolose. Delle zie di Adelaide e della loro pensione in riva al mare. Dei Figli della Rivoluzione e dei detenuti. Insomma, tanti piccoli pezzi di puzzle per disegnare un Venezuela che non conosco, e che mi domando cosa sia realmente. Poiché Karina non lo spiega ed io non lo capisco, qualcosa di dubbioso rimane in fondo ai pensieri. Ma l’inizio della lettura di questa collana è incoraggiante.

Certo, un piccolo grande punto di domanda sorge alla fine: va bene inserire un cenno a Caracas, per localizzare il luogo di svolgimento dell’azione. Ma il libro non a caso si intitola “La figlia della spagnola”, perché è attraverso Aurora che Adelaide capisce ed agisce.

“La frivolezza era il meno penoso dei suoi mali. Nessuno voleva invecchiare, né sembrare povero. Occultare, truccare. Ecco il moto patrio: apparire. Non importava che il denaro scarseggiasse, non importava che il Paese cadesse a pezzi: la questione era abbellire, … diventare … la più alta, la più bella, la più scema … Allora potevamo permettercelo. … O così pensavamo.” (39) [una descrizione che adatterei a molti paesi, il mio compreso]

Barbara Garlaschelli “Il cielo non è per tutti” Frassinelli s.p. (Natale degli  Ossicini)

[A: 25/12/2019 – I: 11/10/2020 – T: 12/10/2020] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2019]

Come spesso accade, dobbiamo subito separare testo e contesto. Che Garlaschelli è una persona di una straordinaria capacità di vita e di riscossa. Paralizzata agli arti inferiori in seguito ad un tuffo (odissea da lei descritta nel suo libro più famoso “Sirene”), ha fatto tutto un suo percorso di vita, riuscendo a raggiungere importanti tappe personali. E non perdendo mai la voglia di raccontare e di scrivere.

Per suo istinto personale, spesso la sua scrittura è rivolta all’infanzia, sia per i libri per ragazzi che ha scritto, sia per fare dei ragazzi stessi gli eroi dei suoi romanzi. Come accade appunto in questo appena finito di leggere. Dove, arrivando al testo, la sua facile scrittura non è sorretta da una trama adeguata. Il romanzo scorre, ma, pur nella bravura di presentare personaggi con diverse ed emozionalmente interessanti psicologie, non arriva mai al cuore. È discretamente prevedibile, in una direzione da un lato un po’ scontata, dall’altro verso una meta che non mi aspettavo fosse diversa da quella raggiunta.

Dato quindi l’interesse per le giovani generazioni, non ci si meraviglia che al centro ci siano due tredicenni: Giacomo e Alida.

Lui di famiglia italiana ex-agiata, ora in ristrettezze; il padre licenziato, devono campare con i soldi del nonno, un tipo duro e “comandino”. Per anni era stato solidale con il diciassettenne fratello Samuele, che ora però, compresosi gay, vive la sua nuova vita in funzione dell’amico-compagno Elia. La morte del nonno lo sconvolge, perché aveva sempre sperato se ne andasse, e si sente quasi responsabile dell’accaduto. Non servono le consolazioni che gli può dare la madre Anna, che, unica, prova a tenere unita la famiglia, nonostante il nonno. E nonostante il marito Riccardo, che non si riprende né dal licenziamento, né dalla morte del padre.

Lei di famiglia albanese emigrata, con una madre iperprotettiva, che si deve difendere dai guasti, fisici e psicologici che le ha provocato il marito, manesco e quasi femminicida. Con lui sperava di costruirsi una vita lontano dagli stenti albanesi. Ma si ricrede, deve lottare, fugge dal marito, aiutata dall’addetta ai servizi sociali, Dalia, e dal fratello Christian. Riversa tutte le sue ansie su Alida, praticamente impedendole di vivere non dico la sua vita, ma una vita. Niente fronzoli, niente regali, e soprattutto, mai stare a contatto con l’altro sesso.

Non è quindi un caso che, trovatisi per motivi vari, nello stesso giardino vicino casa, Giacomo e Alida solidarizzino. Ed in conseguenza di un ennesimo rimbrotto della madre e della morte del nonno, i due decidono di fuggire. Con l’innocenza e l’incoscienza dei tredici anni. Un capanno conosciuto da Giacomo. Un treno verso Riccione dove abita lo zio Christian. Insomma, una fuga in piena regola.

Che mette a nudo i rapporti tra tutti. Anna capisce di Samuele ed Elia, ma, nella confusione generale sembra un problema minore (dove si saranno cacciati i piccoli?). E nei giri di quartiere per cercare Giacomo, incontra Regina, la madre di Alida, e le due solidarizzano. Riccardo sfronda in una sempre maggiore crisi, capendo (era ora!) che è realmente un perdente come diceva il padre. Regina, sotto lo stimolo di Anna e Dalia, capisce che deve modificare qualcosa. Dalia non si dà pace di non aver controllato meglio Regina, ma era stregata anche dal fatto che era nato qualcosa con Christian.

Si arriverà ad un punto cruciale, come tutti i drammoni che si rispettino.

Tutti vi prenderanno parte, secondo il profilo che fino ad allora hanno seguito. Tutti ne usciranno un po’ acciaccati, ma con qualche consapevolezza in più.

Insomma, tutto scontato fin dall’inizio, ma la scrittura scorre abbastanza, anche se, come ho detto, non prende. Soprattutto, mi hanno un po’ respinto quei capitoli che venivano nominati con i personaggi che, nelle poche pagine seguenti, ne erano i protagonisti. Un po’ troppo scontato anche questo. E poco coinvolgente, che sappiamo che per qualche pagina saranno solo quelli al centro dell’azione. Una lettura in minore, di passaggio.

Inciso finale, ringrazio comunque mia cugina Annalisa che lo scorso Natale mi ha regalato questo ed altri libri rimasti da un premio letterario. E che, come tutti i regali in libri, sono sempre da me ben accetti (vedi anche la citazione).

“I soldi spesi in libri sono i soldi spesi meglio, ricordalo.” (142) [e come non essere d’accordo]

Rossana Rossanda “La ragazza del secolo scorso” Einaudi s.p. (Prestito di Fako)

[A: 20/10/2020 – I: 22/10/2020 – T: 26/10/2020] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 385; anno: 2005]

Anche qui, sono stato gentilmente obbligato a leggere fuori dai tempi programmati, un libro, prestito del mio amico Fako, che lo voleva indietro quanto prima. Pur apprezzandone una parte dei contenuti, mi ha tenuto distante la freddezza della scrittura (anche se era una freddezza connaturata al personaggio) ed alcuni flussi di memoria, a volte in contrasto con lo scorrere normale del tempo.

In realtà, mi aspettavo altro, forse conoscendo poco la Rossanda (almeno come altri la conoscevano). Mi aspettavo un percorso logico e conseguente, che partendo dal 23 aprile 1924 a Pola, città istriana dove nasce Rossana, ci portasse fino ai giorni nostri. Inciso, nasce solo cinque mesi e mezzo prima di mia madre, e, da un certo punto in poi del romanzo, ho cominciato a fare arditi paralleli tra quello che leggevo e quello che sapevo ed avevo visto nella mia famiglia (con un rimando che svelo alla fine).

Questo percorso lineare non c’è stato (almeno non come linearmente mi aspettavo), ed alla fine del libro, rimango interdetto che si fermi al XII Congresso del PCI (settembre 1969) e dalla ragazza del secolo scorso non venga tracciato nulla (o molto poco) di quello che io avevo visto e sentito verso la Rossanda, Pintor, Parlato, il Manifesto, Mineo, e tanti altri nomi che porterò sempre nella mia memoria.

Di sicuro, e per iniziare, devo convenire che una delle cose molto belle è la copertina, dove vediamo un ritratto della Rossanda eseguito da quel grande fotografo (soprattutto dei tempi della contestazione) che è Uliano Lucas. Faccia serena, bianco e nero, viso racchiuso dalle mani, e capelli bianchi. Così diventati, come lei ci dice, a 32 anni dopo i “colpi” morali ricevuti nel ’56 a valle delle rivolte ungheresi.

E tuttavia, questo mi rimanda alle due parti più intense, personalmente, della sua storia. L’infanzia e la presa di coscienza. Infanzia iniziata in Istria, a Pola dove nasce, e da dove deve scappare, con i parenti, a valle della crisi del ’29 che manda in rovina la famiglia. Così che lei e la sorella Marina si ritrovano sballottate tra gli zii di Venezia ed i genitori a Milano. Dolente eppur ben assorbito, il passaggio dalla borghesia che parlava solo tedesco (che fa fine) alle povere cose che affettano ogni giorno, chi deve capire come arrivare alla fine del mese, se non alla fine della settimana. Eppure, a Milano rialza la testa, in particolare attraverso lo studio, e la maturità passata con un anno di anticipo. Inciso: esattamente come mio zio Nano (diminutivo, ovvio), che affrettò i tempi della maturità e della laurea per sostenere la famiglia (nonna Bianca ed i suoi sette fratelli, che il nonno muore quando lui ha quindici anni).

Belle anche le parole dei tempi universitari, nel suo rapporto con il professor Banfi, non scopertamente comunista, e di cui per una ventina d’anni sarà nuora (divorzierà nei primi anni Sessanta da Rodolfo). Ed in quello con il critico d’arte Matteo Marangoni, che le insegna ad usare la vista, per vedere non solo i quadri.

L’altro punto fondamentale è l’inizio, quasi incosciente, della partecipazione alla Resistenza. Quasi che a diciannove anni fosse poco più che un gioco. Ma non lo era, come mi insegnò anche mia madre, che, da staffetta partigiana interna alla città di Roma, portava spensieratamente una borsa piena di pistole a resistenti di là dal ponte (in particolare, era Ponte Sisto, ed i partigiani si nascondevano intorno a Piazza Trilussa, laddove c’era anche mio padre e la sua casa di famiglia in vicolo del Bologna; ma queste ancora sono note personali).

La Resistenza da un lato la avvicina al Partito Comunista, che segnerà tutto il resto della sua vita adulta. Dall’altra, le impone alcune riflessioni, molto interessanti, sulla non palese presenza di guerra e rivolta nel territorio italiano. Sì, c’era la guerra. Sì, c’erano i tedeschi. Ma per anni, decenni c’era stato un vivere sotto tutela per non pensare a molto. Ed ora, non è che ci fosse una palese guerra civile. C’erano elementi, comunisti, socialisti, liberali e democratici, che si opponevano al ritorno di schemi retrogradi e “sovranisti ante litteram”, tra fascismo vetero e minoritarismo di Salò. E sono riflessioni interessanti.

Poi, purtroppo, si scivola molto, sul filo della memoria, che come detto per il mio sentire è troppo ondivaga per essere sempre seguita con coerenza. Ma non è male leggerne, vedendo sfilare sotto gli occhi Togliatti, Longo, Natta, Berlinguer (un cammeo) e poi Pintor, Parlato, Magri, Natoli, e via manifestando.

Come detto, mi aspettavo di più da questa parte. Come mi aspettavo di capire meglio il suo rapporto lungo ed amoroso con Karol Kewes, più noto come K.S. Karol, suo compagno per molti e molti anni. Anche se poi, tutto quello che penso, e quello che mi rimane di lei è la frase che sotto ho riportato.

Ancora un ultimo accenno personale, quando, nei primi anni Cinquanta, Rossanda girava per l’Italia, a suscitare dibattiti nelle sezioni del PCI, a cercare di tirarne su il lato culturale, ad ipotizzare, eventualmente, alleanze e motivi d’azione comune con forse non organiche e vicine. In questo, ad esempio, incontrando il sindacalismo bianco e contadino di Guido Miglioli nelle campagne emiliane. Il segretario di Miglioli, all’epoca (dopo aver rotto per un po’ con l’amico Rodano) era Franco Leonori, mio padre.

“Le scelte prima le facciamo poi ci fanno. Il povero e l'oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto.” (176)

Isabel Allende “Lungo petalo di mare” Feltrinelli s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 28/02/2020 – I: 03/01/2021 – T: 05/01/2021] - && e ½    

[tit. or.: Largo pétalo de mar; ling. or.: spagnolo; pagine: 344; anno 2019]

Riprendiamo in mano il penultimo libro di Isabel Allende, scritto nel ’19, dove la scrittrice cilena (certo è nata in Perù, ma tutti in lei riviene al lungo e stretto paese sudamericano) torna, anche se non in modo pieno e soddisfacente, agli scritti dei primi tempi. Ai ricordi dei tempi bui del golpe e della dittatura, da una parte allargando le tematiche ad altri e ben noti tempi, dall’altra non entrando in profondo nei disastri cileni, ma sfiorandone i temi, e lasciandoci, in ogni caso, le sensazioni forti di quando si fa fronte a rivoluzioni interne ad un paese.

Il libro è scandito, capitolo dopo capitolo, da versi di Pablo Neruda, che ci comunicano la bellezza del suo paese e la tirannia di chi si mette contro il buon senso ed il rispetto. Neruda avrà anche una parte nel corso della trama, così come il cugino del padre, il dottor Salvator Allende, presidente e martire cileno.

Perché Neruda sarà il fautore della fuga dall’Europa dei reduci spagnoli della Guerra Civile, utilizzando il piroscafo “Winnipeg”, dove troverà posto la famiglia Dalmau, il centro della vicenda del libro. Non solo, ma Victor Dalmau, come medico, conoscerà in ospedale il dottor Allende, e diverrà suo sodale in lunghe partite a scacchi, dagli anni Quaranta sino alla Presidenza.

Questo serve a riportare alla mente l’utilizzo che Isabel fa delle vicende storiche. Ci sono sempre, nei suoi libri migliori, momenti alti e bassi. C’è la Storia (e Neruda e Allende e altri lo testimoniano) e c’è la storia, quella dei miliziani che muoiono sull’Ebro in Spagna e quelli che muoiono nei campi di calcio in Cile durante la dittatura.

In mezzo a tutto ciò, appunto, c’è la storia della famiglia Dalmau. Gente catalana, che impariamo a conoscere e che seguiremo per sessanta anni. Il padre Miguel che dà l’impronta a tutti con la sua onestà ed empatia. La madre Carme che si sacrificherà per i figli, ma alla fine troverà il modo di ricongiungersi con coloro che ama. Il figlio Guillem impegnato fino alla morte nella Guerra Civile, con la breve parentesi rosa con la piccola Roser. Il figlio Victor che imparerà a fare il medico durante la guerra, per poi laurearsi in Cile e diventare medico di fama nonché protagonista centrale della storia. Infine, c’è Roser, adottata non formalmente da Miguel, avviata allo studio della musica, e secondo elemento portante della storia.

Guillem e Roser, prima della morte del giovane, hanno una storia dove Roser rimane incinta. Alla fine della Guerra civile, Roser, aiutata dal basco Aitor, si rifugia in Francia e partorisce Marcel. In Francia viene ritrovata da Victor. Per poter fuggire dall’Europa in fiamme, i due si sposano, anche se solo formalmente, per potersi imbarcare sul Winnipeg di Neruda. E con il piroscafo sbarcano a Valparaíso il 3 settembre del ’39, il giorno dello scoppio della guerra in Europa.

In Cile i due si rifaranno una vita, aiutati da Felipe del Solar, uno strano aristocratico dagli slanci umanitari. Troveranno un loro spazio, e per un periodo Victor diventerà l’amante della sorella di Felipe, Ofelia. Che inopinatamente rimane incinta. Incolpandone Victor lei si allontana, forse partorisce un bambino che muore, e sposerà il gentile Matias, che da sempre l’amava.

Victor, scioccato dallo strano comportamento di Ofelia, si avvicina a Roser, dove finalmente riusciranno ad avere una vita in comune. Lui proseguendo la sua carriera di medico, lei proseguendo nel pianoforte e nell’insegnamento della musica. Tra l’altro, la carriera artistica di Roser la porterà spesso in Venezuela, dove ritroverà l’amico Aitor, uno che casca sempre in piedi.

La vita sembra rifiorire, sino agli anni ’70, quando il golpe della destra che porta alla morte Allende, costringe alla prigione e quasi alla morte anche Victor, amico del presidente. Riesce ad uscirne, grazie alla sua abilità di medico. E di nuovo Victor e Roser riprendono la via dell’esilio, e come molti cileni ripareranno in Venezuela.

Dovranno aspettare la fine della dittatura per tornare in quella che ormai è la loro patria. Dove Roser avrà la pace ed il chiarimento finale con Victor. Dove Victor invecchierà un po’ triste ed un po’ risollevato da una sorpresa che non vi anticipo.

Non entro nelle descrizioni delle guerre, delle lotte, dei momenti cruenti che pervadono comunque il libro in modo funzionale alla storia. Anche se affrontati a volte con quel tono un po’ troppo leggero delle ultime trame di Isabel. Non è un saggio, quindi non è corretto criticare i pochi approfondimenti della Guerra Spagnola, dell’atteggiamento di Francia e Inghilterra di fronte a Franco, delle lotte tra anarchici e comunisti, dell’ingerenza americana nel golpe cileno, e via elencando cose che penso ben sapete tutti.

Rimane una scrittura che torna fresca e più pianamente leggibile di altre prove della nostra scrittrice che non mi avevano molto convinto.

“La data delle nozze venne fissata per … settembre … il mese dei matrimoni eleganti.” (166)

“Aveva scoperto che alla gente piace parlare e bastano un paio di domande per farsi degli amici e imparare molte cose. Ogni persona ha una sua storia e vuole raccontarla.” (223)

“Patria è dove riposano i nostri cari.” (256) [e per estensione anche luogo degli affetti]

“Neruda: come posso vivere tanto lontano da ciò che ho amato, da ciò che amo?” (294)

Anche se siamo solo in febbraio, mi fa piacere fornirvi un bell’allegato su i libri che (potrebbero) essere portati in vacanza.

Come dicevo, mese denso (anche di altro cui non torno), ma dove non posso tirarmi indietro sia al tondo compleanno del mio amico Amos, che alla beatlesiana festa della mia pur sempre rosellina anagrammata.

Siamo allora dalle parti dei grandi temi, quindi vi sforno una dotta citazione tratta da “Alcune questioni di filosofia morale” di Hannah Arendt: “Le nostre decisioni sul bene e sul male dipendono dalla scelta … di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni”. Io, e tutti voi, tante decisioni ho preso, tra cui quella di continuare ad abbracciarvi.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

FEBBRAIO 2021

Un allegato che spero sia un augurio per tutti.

VACANZA, NON SAPERE QUALI LIBRI PORTARE IN

Nel titolo sopra riportato c’è l’essenza di questa “malattia”.

CURA:

Scegliere per tempo, onde evitare acquisti dettati dal panico

Non commettete lo stesso errore di tanti di noi, che pensano di trovare il romanzo perfetto da portare in vacanza alla libreria dell’aeroporto. Andrete di fretta, e avrete una scelta limitata - e finirete probabilmente per agguantare il best-seller più vicino, fidandovi del gran parlare che se ne fa. Non sprecate la vostra preziosa vacanza con un libro qualsiasi. È l’occasione perfetta per buttarvi su chi vi trasporterà in un’altra epoca. Passatela con qualcosa di altamente leggibile e splendidamente, edonisticamente storico.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE SULL’AMACA

Peter Cameron         “Quella sera dorata”

Piero Chiara              “Vedrò Singapore?”

James Clavell           “Shogun”

Kazuo Ishiguro         “Un pallido orizzonte di colline”

Doris Lessing           “L’erba canta”

Elsa Morante            “Menzogna e sortilegio”

Alberto Moravia        “La noia”

Haruki Murakami    “Norwegian wood”

Cesare Pavese          “La casa in collina”

Jonathan Swift         “I viaggi di Gulliver”

Bugiardino

Allora, Swift, Pavese, Moravia, Morante e Lessing provengono da letture giovanili lontane nel tempo, di cui poco ricordo (come commento). Di Ishiguro ho letto e commentato altro e di questo non ho traccia. Che invece ho di Clavell, che tuttavia tengo ancora tra i leggituri. Per gli altri tre, di diverso interesse, vi sottolineo solo che questo Murakami, per me, è il migliore che ho letto.

Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11

[tramato il 10 maggio 2015]

[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]

Non so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi, ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano.

Un libro di dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York, che qualche bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale. Con cinque personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma che aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per poter restare nel mondo universitario.

Omar ha una relazione conflittuale con Deirdre, ricercatrice volitiva, di quelle che conoscono sempre la soluzione, mentre il povero Omar non sa fare quasi nulla, è impacciato e maldestro. Ma la sua richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione alla biografia viene respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove questi vivono, per far loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di difficile raggiungimento, trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita, imbozzolandosi in momenti di ripicche e rancori reciproci.

C’è la moglie di Jules, Caroline, pittrice che non sa più dipingere e che per questo fa solo copie di quadri famosi. C’è l’amante di Jules, Arden, che vive la sua piccola vita con la figlia dello scrittore. C’è il fratello di Jules, Adam, gay con amante thailandese che sembra essere un po’ lo stanco burattinaio delle vicende. Omar, con la sua inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a tutti quanti. Sono pagine e pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e Adam, tra Caroline ed il mondo.

La bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina, a farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola, il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme, nonostante non ci sia affetto tra di loro.

Adam, con la sua aria da gay anziano sembra avere delle chiavi per aprire quelle porte chiuse. Ma è il quasi dramma di Omar che poi si pone al centro della vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock anafilattico, entra in coma, Deirdre lo viene a salvare, ma a me continua ad irritare con quell’aria di “so tutto io”. Fortunatamente Omar guarisce, e si ricorda di aver baciato Arden prima dell’ape. Nel suo modo poco appariscente, Omar comincia a ragionare su sé stesso, su cosa vuole veramente nella vita (ahi, quanti di noi se lo chiedono ancora).

Nella parte finale, l’autore cerca di tirare delle somme un po’ velocemente, che altrimenti ne uscirebbe un libro di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come rammenta il titolo inglese, va verso la città della sua destinazione finale (e perché stravolgere il titolo con una seppur dotta citazione di Elisabeth Bishop?).

L’amante di Adam si trasferisce a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a trascinarsi inconcludentemente per gli ultimi anni della sua vita. Caroline riceve in eredità dalla sorella la casa di New York, dove si trasferisce e dove ricomincia a vivere. Deirdre va di università in università con le sue ricerche per poi finire quattro anni dopo anche lei a New York. Omar, lasciata l’antipatica, pensa di tornare dai genitori a Toronto. Però, in un assalto di follia che hanno solo le persone innamorate, decide di tornare in Uruguay, e confessare il suo amore ad Arden.

Qui non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden, che sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in controluce, così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni ci sono, vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente.

Confermo, un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno tornare ad amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori, come Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo avesse ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla letteratura.

“Sono abbastanza educato da sapere cosa non si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)

“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. – Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)

“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad un romanzo? Io sì.” (187)

“Amo i libri e basta, non ho la passione per l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)

Piero Chiara “Vedrò Singapore?” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)

[tramato il 17 maggio 2015]

Mai facile il mio rapporto con lo scrittore Piero Chiara. Certo per problemi di mie “follie giovanili” e non certo imputabili all’autore. Ero, infatti, ancora sotto le ali genitoriali e mi capitò tra le mani, pescato nella già enorme libreria familiare, un libro del nostro (“Il piatto piange”). Iniziato a leggere, portato avanti con sentimenti alterni, per problemi a me tuttora ignoti, purtroppo, mancante di un certo numero di pagine del finale (se non ricordo male erano le ultime 28 pagine). Direte voi: e allora? Niente, cestinai il libro e decisi (incolpevole l’autore) che non era un autore che avrei letto o riletto spesso. Misteri della gioventù.

Ora, sotto la sempre solerte spinta libropatica, tiro fuori questo veloce scritto. L’ultimo pubblicato in vita, anche se tra i primi ad essere concepito, e poi pensato, corretto e rivisto per anni e anni. Leggendone, e ricordando quella prima lettura, vedo facilmente una delle radici da cui è venuto fuori quell’Andrea Vitali che di tanti libri ha riempito i miei scaffali. Con tutti gli ovvi distinguo del caso, ma è lì, nella piccola provincia italiana che nascono momenti di letteratura (e non arrischio di certo giudizi se sia alta, bassa o così così) di sicura presa verso un lettore che non sia distratto. Certo, questo libro di Chiara è più filologico e biografico dei veloci appunti del medico di Bellano. E Chiara, inoltre, ha di certo un umorismo più datato e se vogliamo meno scoppiettante.

Pur tuttavia, è lo scrittore luinese che traccia la strada. Quella della descrizione minuta dei caratteri, quella dei caratteri che riempiono i giorni e le notti dei più sperduti punti italici, quella dell’ironia sulla sovraesposizione che nel fascismo facevano di sé personaggi tronfi e forti solo del loro grado e non della loro esistenza.

Libro in gran parte biografico, ripercorre l’anno 1932 quando il giovane Piero, dopo mille lavori saltuari, arriva 118° su 119 posti per la carica di scrivano di atti giudiziari. Essendo quindi uno degli ultimi, dopo un periodo avventizio a Pontebba, per decreto del commissario Mordace, si ritrova spedito nella sperduta località di Aidussina, ora in Slovenia. Qui il ventenne avventizio s’immerge, e ci fa vivere a pieno, la vita sperduta di una cittadina quasi sospesa in un limbo fuori dal mondo.

La pensione dove trova alloggio, con i suoi pubblici funzionari che lì si ritrovano a cena. Il bar – trattoria dove si gioca a biliardo, ed a carte. E l’ufficio, con il pretore Merdicchione e il cancelliere Semitocolo. Da un lato conosciamo i bei tipi della pensione e del bar, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con piccole o grandi cose da nascondere. O da raccontare, dopo un bel bicchiere di vino. Ci sono anche due ragazze in ufficio. C’è anche l’ufficio del catasto, che, essendo eredità dell’Impero Asburgico, è un catasto tavolare, cui solo il geometra Zciuka sa maneggiare.

Piccole storielle passano, il nostro cerca di entrare nelle grazie delle due ragazze con poco successo. Entrerà invece nel giro del pretore che, per passare le giornate, organizza un tavolo di poker in ufficio. Il tutto precipita quando il solito Mordace chiede al pretore di cambiare quel nome poco onorevole. Al rifiuto di questi, il fascistone comincia una subdola caccia che porterà a scoprire il pokerino pomeridiano, la poco chiara carriera del pretore, nonché qualche elemento oscuro anche del geometra. Immediato sarà il trasferimento di Chiara dalla Slovenia a Cividale nel Friuli.

Dove si ripeterà molto, anche se con cambiamenti significativi. Piero inizia una duratura relazione con un’insegnante di un vicino paese che lo viene a trovare (e mi scuso l’eufemismo) tutti i sabati in ufficio. Ma il giovane è preso dalla bella cassiera Brunilde detta Ilde, che però sembra inarrivabile. Sarà sempre Mordace a sconvolgere i piani del nostro, irrompendo in ufficio nel corso di un convegno amoroso. Per non essere cacciato, Piero si finge disturbato, viene mandato in ospedale dove conosce un maresciallo con cui simpatizza, ma che gli rivela una notizia “bomba”: Ilde ha chiesto il libretto da “prostituta”, per fuggire da Cividale. Bella la ricostruzione storica delle case di chiuse e delle donne avviate al meretricio.

Piero segue a Trieste la bella Ilde, cercando di convincerla al matrimonio, che lei, realisticamente, rifiuta. E sarà nel casino dove lei esercita che avverrà l’ultimo fattaccio. Si presenta despota ed insolente il solito Mordace. Il giovane sbrocca, e gli da un calcio nelle parti basse. Viene anche arrestato, e per sfuggire ad una probabile condanna, accetterà l’aiuto di un amico triestino per imbarcarsi come scrivano su di una nave che dirige la propria rotta verso Oriente. Riuscirà il nostro a vedere Singapore? Non è importante e non ve lo dico.

Seppur con un po’ di lentezza, è invece importante la concatenazione di eventi che si susseguono lungo tutto il libro. E la presenza e la descrizione di tutti questi personaggi che in un solo anno il nostro incontra nella pur bella provincia italiana. Alla fine, mi ha rimandato alla memoria quel garbato libro in francese letto non molto tempo fa (“Le front russe”), soprattutto per quelle atmosfere ministeriali delle preture di provincia, con pretori ed altri pubblici ufficiali alla ricerca di un’auto affermazione del proprio altrimenti inutile ruolo. Insomma, ho recuperato una bella scrittura, anche se in un libro “normale” di lettura e di gradimento.

“Un uomo può vivere più vite. Io ne ho vissute molte, buone e meno buone. Ora ne vivo una nuova che sarà forse l’ultima, perché ho cinquantotto anni.” (67)

“Non è il primo amore che conta, ma l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75)

“Alla luce di una lampada da tavolo, leggeva. Cosa mai poteva interessarlo alle soglie della morte? Leggeva, imparava ancora, a novant’anni.” (165)

Haruki Murakami “Norwegian Wood” Einaudi euro 12

[tramato il 10 maggio 2011]

Grazie alla curiosità seguita ad un cenno in un libro di Licalzi (ed ai ricordi di discussioni con Rosa) ho finalmente affrontato Murakami (metto il nome nella giusta prospettiva europea: prima il nome, Haruki, poi il cognome, Murakami). E, nonostante le quasi 400 pagine, l’ho letto in un fiato. Bello, complesso nei sentimenti, ma come facevo a lasciarlo lì? E poi così pieno di musica, tanto che mi verrebbe la voglia di farne una compilation (tra l’altro, ho letto il libro solo ora perché non mi piaceva il primo titolo italiano di Feltrinelli, Tokyo blues, che non rispettava la colonna sonora dei Beatles che punteggia il romanzo, e soprattutto ne falsava un’interpretazione, se ben vi ricordate i primi due versi di John Lennon).

Non posso dire di conoscere Murakami, e, soprattutto (dalle poche notizie sullo scrittore di Kyōto, capricorno del ’49), mi pare di capire che questo sia un romanzo atipico della sua produzione. Non solo perché parla d’amore, ma anche perché venne scritto in Europa, tra Atene e Roma, dal trentasettenne scrittore, che lascia la sua traccia proprio nell’incipit (“Avevo 37 anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747”). Da questo ricordo, parte un lungo flashback sulla formazione del protagonista, che ci fa piombare nel suo primo biennio universitario a Tōkyō, ed in tutta l’elaborazione per la costruzione di un’identità adulta.

Certamente, la bella introduzione di Giorgio Amitrano (nonché la sua traduzione, a parte un punto da chiarire di cui dirò in finale), e che io, al solito, avrei spostato come postfazione, chiarisce molto meglio di me sia la genesi che la scrittura del romanzo. Ed accenna ad analisi (altrove approfondite) sul parallelismo tra questo libro e sia il David Copperfield di Dickens che il Giovane Holden di Salinger (entrambi citati in omaggio nel testo).

Ma non è su questo che volevo tramare. Solo prenderne spunto, ribadendone il carattere di “libro di formazione”. E poi passare al testo, ai personaggi. A Tōru, il protagonista, l’io-narrante, che inizia a parlare della sua formazione, e sa già dove andranno a finire i personaggi, ma non ne anticipa mai lo sviluppo, con un grande equilibrio tra il sapere ed il narrare.

Tōru, che come Holden, è un alieno nel Giappone della fine degli Anni Sessanta (epoca del romanzo), perché non è imbevuto di samurai e tradizione (anche se li conosce), ma legge libri occidentali, segue corsi universitari su Euripide, e, soprattutto, ascolta jazz, rock e pop della migliore qualità. Si aggira per la città, e per la campagna, facendo quello che un po’ fan tutti i suoi coetanei (beve, scopa, studia, e così via), ma con una sua idea di fondo, etica e morale, sul trovare qualcosa di giusto per sé, senza cedere alle lusinghe del facile e dell’apparire. Qualcosa che lo realizzi, cercando di fare il meno male possibile agli altri, anche a costo di non figurare, di non stare sempre in primo piano.

Per questo (ed è una cosa che mi ha fatto un piacere enorme) tace se non ha niente da dire. Cerca, nei limiti del possibile, di essere sincero. Anche a costi dover rimediare ad errori (bello e terribile quando non si accorge della pettinatura di Midori). Ma pagare per i propri errori è proprio la cresta dell’onda morale su cui viaggia. Anche a costo di dire le cose sbagliate, o di far capire di non avere un’opinione sulla domanda che gli si rivolge.  E Tōru attraversa questa sua formazione incrociando due, o forse tre, donne, che avranno peso e sostanza per farlo maturare.

Naoko, il lato-ombra della vita, la donna del suo amico Kizaki che si è suicidato a 17 anni senza un motivo, cui si lega affettivamente ed emotivamente. Anzi, direi che se ne innamora. Che vuole tirarla fuori dalla cupezza che ne avvolge la vita. Perché Naoko non capisce la morte di Kizaki, e questo condiziona tutto il suo modo di essere. Con quella difficoltà di articolare un discorso ben formato, che troppe parole ed idee le affollano la testa ed a cui non riesce a mettere ordine. Ordine di uscita. Per cui tace. E le passeggiate silenziose di Tōru e Naoko per la città sono bellissime.

Midori, il lato-luce della vita, anche lei con problemi (la famiglia, la morte della madre per un tumore, e via discorrendo), ma che li affronta e li supera (o cerca di farlo). Come quando, accorgendosi di non volere più tanto bene al suo ragazzo, decide di lasciarlo senza prospettive, perché, in un certo senso, non sa fingere. E lei parla, inventa, tira fuori storie e coinvolge Tōru in avventure pazze, tra cinema pornografici, terrazze notturne, visite a malati.

Tōru viaggia tra questi due poli, cercando di capire, dove dirigere la sua bussola, e facendo anche lui delle scelte, difficili, dolorose, ma scelte. Poi c’è la terza, la “vecchia” Reiko (che quando loro hanno 20 anni già sta sui 37), che diventa amica di Naoko, e poi amica, confidente e mentore di Tōru, cui (un po’ come il deus ex-machina del suo amato Euripide) tirerà fuori quello che Tōru sa di avere dentro, le sue decisioni. E nei colloqui con Reiko riesce a chiarirsi.

La vita continuerà a non essere facile, ma sono arrivato contento all’ultima pagina. Rimpiangendo di aver aspettato questi 20 anni per leggerlo. Ma, come so bene dentro di me, la formazione non finisce mai. Guai se finisse. Qui finisco la trama, ahi quanto lunga, ma sarei rimasto a parlarne ancora. Non vorrei solo togliere il piacere a chi sarà spinto da me a prendere in mano il libro, se non lo ha già fatto.

Termino rispettando la promessa iniziale, con una domanda al traduttore. A pagina 258 si parla di ragazzini che giocano a baseball (uno degli sport nazionali giapponesi), ma si traduce qualcosa con “un gioco pieno di falli e fuorigioco”. Ora, se c'è una cosa che NON esiste nel baseball sono proprio i fuorigioco (tipici del calcio in genere). L’unica cosa fuori nel baseball, sono i fuoricampo, che sono uno dei punti vincenti di una delle due squadre. Ebbene, se ha tradotto fuoricampo con fuorigioco, merita un 2- in traduzione; se invece ha tradotto qualcosa d’altro forse arriviamo a 3, ma non molto. Certo, una riga su 379 pagine può sfuggire, ma, si sa, io sono maniaco.

“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)

“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo” (41)

“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la cosa più seria del mondo.” (93)

“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?” (221)

“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me, per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai, dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che pensi.” (337)

“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso.” (349)

Conclusioni

Non so se porterei Chiara in vacanza, certo leggerei con piacere Cameron e Murakami (e forse anche Clavell) sia in riva al mare che sotto brezze campagnole. Ribadendo, che, a qualsiasi età, “Norwegian Wood” DEVE essere letto. 

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