Karina Sainz Borgo
“Notte a Caracas” Repubblica Latinoamericana 21 euro 9,90
[A:
19/06/2020 – I: 02/09/2020 – T: 04/09/2020] - &&&
[tit.
or.: La hija de la española; ling. or.: spagnolo; pagine: 189;
anno 2019]
Con questa nuova scrittrice inauguriamo due
cose: una collana che spero porti libri interessanti, essendo dedicata alla
letteratura latino-americana, ed una scrittrice venezuelana, paese che non
annovero tra i più frequentati delle mie letture.
Anzi, cominciando dall’ultima affermazione
credo, a memoria, di non aver letto sino ad ora nessun autore di questo paese.
Che pure è presente nel mio immaginario, essendo uno dei pochi dell’America del
Sud che non ho visitato, e per tutta la storia sociale e politica che ci hanno
tramandato le ultime presidenze del paese, da Hugo Chavez a Nicolas Maduro.
Per la collana, ritengo che sia un inizio
interessante, anche se la lettura del libro ha avuto alti e bassi di
coinvolgimento e di rigetto. Perché è un libro politico, laddove c’è una
politica che conosco poco nei suoi risvolti quotidiani. Perché è un libro
personale, laddove il dolore delle perdite è sempre un dolore universale.
La storia di Adelaida Falcon è breve, intensa
e sconvolgente. C’è la morte della madre, cui era legatissima, che trasfigura
nel cuore della protagonista anche la morte della Patria. Dilaniata da una
discesa nella povertà a rotta di colla, dove sorgono (in un tempo sospeso che
può essere collocato nell’oggi, anche senza una data precisa) movimenti e
sommosse molto tipiche dei paesi in via di disfacimento. Drogati anche da una
non sempre ben intesa collocazione marxista e rivoluzionaria, che nell’intimo
non sembra essere né l’una né l’altra. Questa è per me la parte più difficile,
non conoscendo a fondo la quotidianità venezuelana. Ma posso immaginare che,
nel momento di una discesa nella miseria, ci siano dei “si salvi chi può” che
organizzano sé stessi in bande che assumono tutti i colori del mondo per
sopravvivere. Quello che è certo ed immutabile, è il ruolo di puntello del
potere dell’esercito e della polizia. Che, lì come in Cile a suo tempo, come in
Argentina, come in Brasile, in vari modi e forme, non esita ad imprigionare,
uccidere, sobillare. Come esemplificano le “Figlie della rivoluzione” che
mascherano i traffici del mercato nero con occupazioni simboliche di case che
non si riesce a difendere.
Come la casa di Adelaide, che si trova in
poco tempo orfana e senza dimora. Per puro caso, riesce ad intrufolarsi in casa
della vicina Aurora, sperando in un rifugio. Dove trova al contrario una
situazione difficile ma foriera di possibilità. Che Aurora è morta
(naturalmente) e non ha nessuno che ne sappia nulla. Aurora con la madre era
fuggita dalla Spagna qualche decennio prima. Erano sole a Caracas. Anche più
solo dopo che la madre di Aurora muore cinque anni prima. Adelaide, girando per
la casa non sua, scopre tante cose, di sé, di Aurora, della vita di persone che
pensava erroneamente di conoscere.
Mentre intorno infuria la bufera dei tumulti
e delle uccisioni senza motivo, Adelaide intravede una possibilità: impersonare
Aurora, falsificare i documenti, e con il passaporto spagnolo della vicina
tentare la fuga verso la Spagna e la libertà. Ci riuscirà o sarà fermata prima
di poter compiere l’ultimo passo? Beh, questo ve lo leggete voi, se vi va.
Magari dandomi un conforto sul resto del libro e sui passi che non sempre sono
riuscito a fare miei.
La scrittura è discretamente coinvolgente,
visto che Karina è anche giornalista, e sa tenere desta l’attenzione. Come sa
fare qualche gioco di scatole cinese, andando su e giù per la storia. Che
vediamo la storia di Adelaide e della madre. Di Adelaide e della sua amica Ana.
Di Ana e suo fratello Santiago. Di Adelaide e del suo amore Francisco, il
giornalista di tutte le inchieste pericolose. Delle zie di Adelaide e della
loro pensione in riva al mare. Dei Figli della Rivoluzione e dei detenuti. Insomma,
tanti piccoli pezzi di puzzle per disegnare un Venezuela che non conosco, e che
mi domando cosa sia realmente. Poiché Karina non lo spiega ed io non lo
capisco, qualcosa di dubbioso rimane in fondo ai pensieri. Ma l’inizio della
lettura di questa collana è incoraggiante.
Certo, un piccolo grande punto di domanda
sorge alla fine: va bene inserire un cenno a Caracas, per localizzare il luogo
di svolgimento dell’azione. Ma il libro non a caso si intitola “La figlia della
spagnola”, perché è attraverso Aurora che Adelaide capisce ed agisce.
“La frivolezza era il meno penoso dei suoi
mali. Nessuno voleva invecchiare, né sembrare povero. Occultare, truccare. Ecco
il moto patrio: apparire. Non importava che il denaro scarseggiasse, non
importava che il Paese cadesse a pezzi: la questione era abbellire, … diventare
… la più alta, la più bella, la più scema … Allora potevamo permettercelo. … O
così pensavamo.” (39) [una descrizione che adatterei a molti paesi, il mio
compreso]
Barbara
Garlaschelli “Il cielo non è per tutti” Frassinelli s.p. (Natale degli Ossicini)
[A: 25/12/2019
– I: 11/10/2020 – T: 12/10/2020] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2019]
Come
spesso accade, dobbiamo subito separare testo e contesto. Che Garlaschelli è
una persona di una straordinaria capacità di vita e di riscossa. Paralizzata
agli arti inferiori in seguito ad un tuffo (odissea da lei descritta nel suo
libro più famoso “Sirene”), ha fatto tutto un suo percorso di vita, riuscendo a
raggiungere importanti tappe personali. E non perdendo mai la voglia di
raccontare e di scrivere.
Per
suo istinto personale, spesso la sua scrittura è rivolta all’infanzia, sia per
i libri per ragazzi che ha scritto, sia per fare dei ragazzi stessi gli eroi
dei suoi romanzi. Come accade appunto in questo appena finito di leggere. Dove,
arrivando al testo, la sua facile scrittura non è sorretta da una trama
adeguata. Il romanzo scorre, ma, pur nella bravura di presentare personaggi con
diverse ed emozionalmente interessanti psicologie, non arriva mai al cuore. È
discretamente prevedibile, in una direzione da un lato un po’ scontata,
dall’altro verso una meta che non mi aspettavo fosse diversa da quella
raggiunta.
Dato
quindi l’interesse per le giovani generazioni, non ci si meraviglia che al
centro ci siano due tredicenni: Giacomo e Alida.
Lui
di famiglia italiana ex-agiata, ora in ristrettezze; il padre licenziato,
devono campare con i soldi del nonno, un tipo duro e “comandino”. Per anni era
stato solidale con il diciassettenne fratello Samuele, che ora però, compresosi
gay, vive la sua nuova vita in funzione dell’amico-compagno Elia. La morte del
nonno lo sconvolge, perché aveva sempre sperato se ne andasse, e si sente quasi
responsabile dell’accaduto. Non servono le consolazioni che gli può dare la
madre Anna, che, unica, prova a tenere unita la famiglia, nonostante il nonno.
E nonostante il marito Riccardo, che non si riprende né dal licenziamento, né
dalla morte del padre.
Lei
di famiglia albanese emigrata, con una madre iperprotettiva, che si deve
difendere dai guasti, fisici e psicologici che le ha provocato il marito,
manesco e quasi femminicida. Con lui sperava di costruirsi una vita lontano
dagli stenti albanesi. Ma si ricrede, deve lottare, fugge dal marito, aiutata
dall’addetta ai servizi sociali, Dalia, e dal fratello Christian. Riversa tutte
le sue ansie su Alida, praticamente impedendole di vivere non dico la sua vita,
ma una vita. Niente fronzoli, niente regali, e soprattutto, mai stare a
contatto con l’altro sesso.
Non è
quindi un caso che, trovatisi per motivi vari, nello stesso giardino vicino
casa, Giacomo e Alida solidarizzino. Ed in conseguenza di un ennesimo rimbrotto
della madre e della morte del nonno, i due decidono di fuggire. Con l’innocenza
e l’incoscienza dei tredici anni. Un capanno conosciuto da Giacomo. Un treno
verso Riccione dove abita lo zio Christian. Insomma, una fuga in piena regola.
Che
mette a nudo i rapporti tra tutti. Anna capisce di Samuele ed Elia, ma, nella
confusione generale sembra un problema minore (dove si saranno cacciati i
piccoli?). E nei giri di quartiere per cercare Giacomo, incontra Regina, la
madre di Alida, e le due solidarizzano. Riccardo sfronda in una sempre maggiore
crisi, capendo (era ora!) che è realmente un perdente come diceva il padre.
Regina, sotto lo stimolo di Anna e Dalia, capisce che deve modificare qualcosa.
Dalia non si dà pace di non aver controllato meglio Regina, ma era stregata
anche dal fatto che era nato qualcosa con Christian.
Si arriverà
ad un punto cruciale, come tutti i drammoni che si rispettino.
Tutti
vi prenderanno parte, secondo il profilo che fino ad allora hanno seguito.
Tutti ne usciranno un po’ acciaccati, ma con qualche consapevolezza in più.
Insomma,
tutto scontato fin dall’inizio, ma la scrittura scorre abbastanza, anche se,
come ho detto, non prende. Soprattutto, mi hanno un po’ respinto quei capitoli
che venivano nominati con i personaggi che, nelle poche pagine seguenti, ne
erano i protagonisti. Un po’ troppo scontato anche questo. E poco coinvolgente,
che sappiamo che per qualche pagina saranno solo quelli al centro dell’azione.
Una lettura in minore, di passaggio.
Inciso
finale, ringrazio comunque mia cugina Annalisa che lo scorso Natale mi ha
regalato questo ed altri libri rimasti da un premio letterario. E che, come
tutti i regali in libri, sono sempre da me ben accetti (vedi anche la
citazione).
“I
soldi spesi in libri sono i soldi spesi meglio, ricordalo.” (142) [e come non
essere d’accordo]
Rossana
Rossanda “La ragazza del secolo scorso” Einaudi s.p. (Prestito di Fako)
[A: 20/10/2020
– I: 22/10/2020 – T: 26/10/2020] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 385; anno: 2005]
Anche qui, sono stato gentilmente obbligato a
leggere fuori dai tempi programmati, un libro, prestito del mio amico Fako, che
lo voleva indietro quanto prima. Pur apprezzandone una parte dei contenuti, mi
ha tenuto distante la freddezza della scrittura (anche se era una freddezza
connaturata al personaggio) ed alcuni flussi di memoria, a volte in contrasto
con lo scorrere normale del tempo.
In
realtà, mi aspettavo altro, forse conoscendo poco la Rossanda (almeno come
altri la conoscevano). Mi aspettavo un percorso logico e conseguente, che
partendo dal 23 aprile 1924 a Pola, città istriana dove nasce Rossana, ci
portasse fino ai giorni nostri. Inciso, nasce solo cinque mesi e mezzo prima di
mia madre, e, da un certo punto in poi del romanzo, ho cominciato a fare arditi
paralleli tra quello che leggevo e quello che sapevo ed avevo visto nella mia
famiglia (con un rimando che svelo alla fine).
Questo
percorso lineare non c’è stato (almeno non come linearmente mi aspettavo), ed
alla fine del libro, rimango interdetto che si fermi al XII Congresso del PCI
(settembre 1969) e dalla ragazza del secolo scorso non venga tracciato nulla (o
molto poco) di quello che io avevo visto e sentito verso la Rossanda, Pintor,
Parlato, il Manifesto, Mineo, e tanti altri nomi che porterò sempre nella mia
memoria.
Di
sicuro, e per iniziare, devo convenire che una delle cose molto belle è la
copertina, dove vediamo un ritratto della Rossanda eseguito da quel grande
fotografo (soprattutto dei tempi della contestazione) che è Uliano Lucas.
Faccia serena, bianco e nero, viso racchiuso dalle mani, e capelli bianchi.
Così diventati, come lei ci dice, a 32 anni dopo i “colpi” morali ricevuti nel
’56 a valle delle rivolte ungheresi.
E
tuttavia, questo mi rimanda alle due parti più intense, personalmente, della
sua storia. L’infanzia e la presa di coscienza. Infanzia iniziata in Istria, a
Pola dove nasce, e da dove deve scappare, con i parenti, a valle della crisi
del ’29 che manda in rovina la famiglia. Così che lei e la sorella Marina si ritrovano
sballottate tra gli zii di Venezia ed i genitori a Milano. Dolente eppur ben
assorbito, il passaggio dalla borghesia che parlava solo tedesco (che fa fine)
alle povere cose che affettano ogni giorno, chi deve capire come arrivare alla
fine del mese, se non alla fine della settimana. Eppure, a Milano rialza la
testa, in particolare attraverso lo studio, e la maturità passata con un anno
di anticipo. Inciso: esattamente come mio zio Nano (diminutivo, ovvio), che
affrettò i tempi della maturità e della laurea per sostenere la famiglia (nonna
Bianca ed i suoi sette fratelli, che il nonno muore quando lui ha quindici
anni).
Belle
anche le parole dei tempi universitari, nel suo rapporto con il professor
Banfi, non scopertamente comunista, e di cui per una ventina d’anni sarà nuora
(divorzierà nei primi anni Sessanta da Rodolfo). Ed in quello con il critico
d’arte Matteo Marangoni, che le insegna ad usare la vista, per vedere non solo
i quadri.
L’altro
punto fondamentale è l’inizio, quasi incosciente, della partecipazione alla
Resistenza. Quasi che a diciannove anni fosse poco più che un gioco. Ma non lo
era, come mi insegnò anche mia madre, che, da staffetta partigiana interna alla
città di Roma, portava spensieratamente una borsa piena di pistole a resistenti
di là dal ponte (in particolare, era Ponte Sisto, ed i partigiani si
nascondevano intorno a Piazza Trilussa, laddove c’era anche mio padre e la sua
casa di famiglia in vicolo del Bologna; ma queste ancora sono note personali).
La
Resistenza da un lato la avvicina al Partito Comunista, che segnerà tutto il
resto della sua vita adulta. Dall’altra, le impone alcune riflessioni, molto
interessanti, sulla non palese presenza di guerra e rivolta nel territorio
italiano. Sì, c’era la guerra. Sì, c’erano i tedeschi. Ma per anni, decenni
c’era stato un vivere sotto tutela per non pensare a molto. Ed ora, non è che
ci fosse una palese guerra civile. C’erano elementi, comunisti, socialisti,
liberali e democratici, che si opponevano al ritorno di schemi retrogradi e
“sovranisti ante litteram”, tra fascismo vetero e minoritarismo di Salò. E sono
riflessioni interessanti.
Poi,
purtroppo, si scivola molto, sul filo della memoria, che come detto per il mio
sentire è troppo ondivaga per essere sempre seguita con coerenza. Ma non è male
leggerne, vedendo sfilare sotto gli occhi Togliatti, Longo, Natta, Berlinguer
(un cammeo) e poi Pintor, Parlato, Magri, Natoli, e via manifestando.
Come
detto, mi aspettavo di più da questa parte. Come mi aspettavo di capire meglio
il suo rapporto lungo ed amoroso con Karol Kewes, più noto come K.S. Karol, suo
compagno per molti e molti anni. Anche se poi, tutto quello che penso, e quello
che mi rimane di lei è la frase che sotto ho riportato.
Ancora
un ultimo accenno personale, quando, nei primi anni Cinquanta, Rossanda girava
per l’Italia, a suscitare dibattiti nelle sezioni del PCI, a cercare di tirarne
su il lato culturale, ad ipotizzare, eventualmente, alleanze e motivi d’azione
comune con forse non organiche e vicine. In questo, ad esempio, incontrando il
sindacalismo bianco e contadino di Guido Miglioli nelle campagne emiliane. Il
segretario di Miglioli, all’epoca (dopo aver rotto per un po’ con l’amico
Rodano) era Franco Leonori, mio padre.
“Le
scelte prima le facciamo poi ci fanno. Il povero e l'oppresso non hanno sempre
ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto.” (176)
Isabel
Allende “Lungo petalo di mare” Feltrinelli s.p. (prestito di Alessandra)
[A:
28/02/2020 – I: 03/01/2021 – T: 05/01/2021] - &&
e ½
[tit.
or.: Largo pétalo de mar; ling. or.: spagnolo; pagine: 344;
anno 2019]
Riprendiamo in mano il penultimo libro di
Isabel Allende, scritto nel ’19, dove la scrittrice cilena (certo è nata in
Perù, ma tutti in lei riviene al lungo e stretto paese sudamericano) torna,
anche se non in modo pieno e soddisfacente, agli scritti dei primi tempi. Ai
ricordi dei tempi bui del golpe e della dittatura, da una parte allargando le
tematiche ad altri e ben noti tempi, dall’altra non entrando in profondo nei
disastri cileni, ma sfiorandone i temi, e lasciandoci, in ogni caso, le
sensazioni forti di quando si fa fronte a rivoluzioni interne ad un paese.
Il libro è scandito, capitolo dopo capitolo,
da versi di Pablo Neruda, che ci comunicano la bellezza del suo paese e la
tirannia di chi si mette contro il buon senso ed il rispetto. Neruda avrà anche
una parte nel corso della trama, così come il cugino del padre, il dottor
Salvator Allende, presidente e martire cileno.
Perché Neruda sarà il fautore della fuga
dall’Europa dei reduci spagnoli della Guerra Civile, utilizzando il piroscafo
“Winnipeg”, dove troverà posto la famiglia Dalmau, il centro della vicenda del
libro. Non solo, ma Victor Dalmau, come medico, conoscerà in ospedale il dottor
Allende, e diverrà suo sodale in lunghe partite a scacchi, dagli anni Quaranta
sino alla Presidenza.
Questo serve a riportare alla mente
l’utilizzo che Isabel fa delle vicende storiche. Ci sono sempre, nei suoi libri
migliori, momenti alti e bassi. C’è la Storia (e Neruda e Allende e altri lo
testimoniano) e c’è la storia, quella dei miliziani che muoiono sull’Ebro in
Spagna e quelli che muoiono nei campi di calcio in Cile durante la dittatura.
In mezzo a tutto ciò, appunto, c’è la storia
della famiglia Dalmau. Gente catalana, che impariamo a conoscere e che
seguiremo per sessanta anni. Il padre Miguel che dà l’impronta a tutti con la
sua onestà ed empatia. La madre Carme che si sacrificherà per i figli, ma alla
fine troverà il modo di ricongiungersi con coloro che ama. Il figlio Guillem impegnato
fino alla morte nella Guerra Civile, con la breve parentesi rosa con la piccola
Roser. Il figlio Victor che imparerà a fare il medico durante la guerra, per
poi laurearsi in Cile e diventare medico di fama nonché protagonista centrale
della storia. Infine, c’è Roser, adottata non formalmente da Miguel, avviata
allo studio della musica, e secondo elemento portante della storia.
Guillem e Roser, prima della morte del
giovane, hanno una storia dove Roser rimane incinta. Alla fine della Guerra
civile, Roser, aiutata dal basco Aitor, si rifugia in Francia e partorisce
Marcel. In Francia viene ritrovata da Victor. Per poter fuggire dall’Europa in
fiamme, i due si sposano, anche se solo formalmente, per potersi imbarcare sul
Winnipeg di Neruda. E con il piroscafo sbarcano a Valparaíso il 3 settembre del
’39, il giorno dello scoppio della guerra in Europa.
In Cile i due si rifaranno una vita, aiutati
da Felipe del Solar, uno strano aristocratico dagli slanci umanitari.
Troveranno un loro spazio, e per un periodo Victor diventerà l’amante della
sorella di Felipe, Ofelia. Che inopinatamente rimane incinta. Incolpandone
Victor lei si allontana, forse partorisce un bambino che muore, e sposerà il
gentile Matias, che da sempre l’amava.
Victor, scioccato dallo strano comportamento
di Ofelia, si avvicina a Roser, dove finalmente riusciranno ad avere una vita
in comune. Lui proseguendo la sua carriera di medico, lei proseguendo nel
pianoforte e nell’insegnamento della musica. Tra l’altro, la carriera artistica
di Roser la porterà spesso in Venezuela, dove ritroverà l’amico Aitor, uno che
casca sempre in piedi.
La vita sembra rifiorire, sino agli anni ’70,
quando il golpe della destra che porta alla morte Allende, costringe alla
prigione e quasi alla morte anche Victor, amico del presidente. Riesce ad
uscirne, grazie alla sua abilità di medico. E di nuovo Victor e Roser
riprendono la via dell’esilio, e come molti cileni ripareranno in Venezuela.
Dovranno aspettare la fine della dittatura
per tornare in quella che ormai è la loro patria. Dove Roser avrà la pace ed il
chiarimento finale con Victor. Dove Victor invecchierà un po’ triste ed un po’
risollevato da una sorpresa che non vi anticipo.
Non entro nelle descrizioni delle guerre,
delle lotte, dei momenti cruenti che pervadono comunque il libro in modo
funzionale alla storia. Anche se affrontati a volte con quel tono un po’ troppo
leggero delle ultime trame di Isabel. Non è un saggio, quindi non è corretto
criticare i pochi approfondimenti della Guerra Spagnola, dell’atteggiamento di
Francia e Inghilterra di fronte a Franco, delle lotte tra anarchici e
comunisti, dell’ingerenza americana nel golpe cileno, e via elencando cose che
penso ben sapete tutti.
Rimane una scrittura che torna fresca e più
pianamente leggibile di altre prove della nostra scrittrice che non mi avevano
molto convinto.
“La data delle nozze venne fissata per …
settembre … il mese dei matrimoni eleganti.” (166)
“Aveva scoperto che alla gente piace
parlare e bastano un paio di domande per farsi degli amici e imparare molte
cose. Ogni persona ha una sua storia e vuole raccontarla.” (223)
“Patria è dove riposano i nostri cari.”
(256) [e per estensione anche luogo degli affetti]
“Neruda: come posso vivere tanto lontano
da ciò che ho amato, da ciò che amo?” (294)
Anche se siamo solo in febbraio, mi fa piacere
fornirvi un bell’allegato su i libri che (potrebbero) essere portati in vacanza.
Come dicevo, mese denso (anche di altro cui non torno),
ma dove non posso tirarmi indietro sia al tondo compleanno del mio amico Amos,
che alla beatlesiana festa della mia pur sempre rosellina anagrammata.
Siamo allora dalle parti dei grandi temi, quindi vi sforno una dotta citazione tratta da “Alcune questioni di filosofia morale” di Hannah Arendt: “Le nostre decisioni sul bene e sul male dipendono dalla scelta … di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni”. Io, e tutti voi, tante decisioni ho preso, tra cui quella di continuare ad abbracciarvi.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2021
Un allegato che spero sia un
augurio per tutti.
VACANZA, NON SAPERE QUALI LIBRI PORTARE IN
Nel
titolo sopra riportato c’è l’essenza di questa “malattia”.
CURA:
Scegliere
per tempo, onde evitare acquisti dettati dal panico
Non
commettete lo stesso errore di tanti di noi, che pensano di trovare il romanzo
perfetto da portare in vacanza alla libreria dell’aeroporto. Andrete di fretta,
e avrete una scelta limitata - e finirete probabilmente per agguantare il
best-seller più vicino, fidandovi del gran parlare che se ne fa. Non sprecate la
vostra preziosa vacanza con un libro qualsiasi. È l’occasione perfetta per
buttarvi su chi vi trasporterà in un’altra epoca. Passatela con qualcosa di
altamente leggibile e splendidamente, edonisticamente storico.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE SULL’AMACA
Peter
Cameron “Quella sera dorata”
Piero
Chiara “Vedrò Singapore?”
James
Clavell “Shogun”
Kazuo
Ishiguro “Un pallido orizzonte di
colline”
Doris
Lessing “L’erba canta”
Elsa
Morante “Menzogna e sortilegio”
Alberto
Moravia “La noia”
Haruki
Murakami “Norwegian wood”
Cesare
Pavese “La casa in collina”
Jonathan
Swift “I viaggi di Gulliver”
Bugiardino
Allora,
Swift, Pavese, Moravia, Morante e Lessing provengono da letture giovanili
lontane nel tempo, di cui poco ricordo (come commento). Di Ishiguro ho letto e
commentato altro e di questo non ho traccia. Che invece ho di Clavell, che
tuttavia tengo ancora tra i leggituri. Per gli altri tre, di diverso interesse,
vi sottolineo solo che questo Murakami, per me, è il migliore che ho letto.
Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11
[tramato
il 10 maggio 2015]
[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]
Non
so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a
convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura
della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno
che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi,
ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire
che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che
lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di
copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano.
Un
libro di dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York,
che qualche bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale.
Con cinque personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma
che aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo
iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per
poter restare nel mondo universitario.
Omar
ha una relazione conflittuale con Deirdre, ricercatrice volitiva, di quelle che
conoscono sempre la soluzione, mentre il povero Omar non sa fare quasi nulla, è
impacciato e maldestro. Ma la sua richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione
alla biografia viene respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove
questi vivono, per far loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di
difficile raggiungimento, trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita,
imbozzolandosi in momenti di ripicche e rancori reciproci.
C’è
la moglie di Jules, Caroline, pittrice che non sa più dipingere e che per
questo fa solo copie di quadri famosi. C’è l’amante di Jules, Arden, che vive
la sua piccola vita con la figlia dello scrittore. C’è il fratello di Jules,
Adam, gay con amante thailandese che sembra essere un po’ lo stanco burattinaio
delle vicende. Omar, con la sua inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a
tutti quanti. Sono pagine e pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e
Adam, tra Caroline ed il mondo.
La
bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina, a
farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che
si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista
dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola,
il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di
Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se
lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo
amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme,
nonostante non ci sia affetto tra di loro.
Adam,
con la sua aria da gay anziano sembra avere delle chiavi per aprire quelle
porte chiuse. Ma è il quasi dramma di Omar che poi si pone al centro della
vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock anafilattico, entra in coma, Deirdre lo
viene a salvare, ma a me continua ad irritare con quell’aria di “so tutto io”.
Fortunatamente Omar guarisce, e si ricorda di aver baciato Arden prima
dell’ape. Nel suo modo poco appariscente, Omar comincia a ragionare su sé
stesso, su cosa vuole veramente nella vita (ahi, quanti di noi se lo chiedono
ancora).
Nella
parte finale, l’autore cerca di tirare delle somme un po’ velocemente, che
altrimenti ne uscirebbe un libro di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come
rammenta il titolo inglese, va verso la città della sua destinazione finale (e
perché stravolgere il titolo con una seppur dotta citazione di Elisabeth
Bishop?).
L’amante
di Adam si trasferisce a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a
trascinarsi inconcludentemente per gli ultimi anni della sua vita. Caroline
riceve in eredità dalla sorella la casa di New York, dove si trasferisce e dove
ricomincia a vivere. Deirdre va di università in università con le sue ricerche
per poi finire quattro anni dopo anche lei a New York. Omar, lasciata
l’antipatica, pensa di tornare dai genitori a Toronto. Però, in un assalto di
follia che hanno solo le persone innamorate, decide di tornare in Uruguay, e
confessare il suo amore ad Arden.
Qui
non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden, che
sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in controluce,
così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni ci sono,
vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente.
Confermo,
un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno tornare ad
amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori, come
Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo avesse
ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla
letteratura.
“Sono abbastanza educato da sapere cosa non
si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)
“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti
dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. –
Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude
l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)
“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo
cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono
spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad
un romanzo? Io sì.” (187)
“Amo i libri e basta, non ho la passione per
l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)
Piero Chiara “Vedrò Singapore?” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato
a 9 euro)
[tramato
il 17 maggio 2015]
Mai
facile il mio rapporto con lo scrittore Piero Chiara. Certo per problemi di mie
“follie giovanili” e non certo imputabili all’autore. Ero, infatti, ancora
sotto le ali genitoriali e mi capitò tra le mani, pescato nella già enorme
libreria familiare, un libro del nostro (“Il piatto piange”). Iniziato a
leggere, portato avanti con sentimenti alterni, per problemi a me tuttora
ignoti, purtroppo, mancante di un certo numero di pagine del finale (se non
ricordo male erano le ultime 28 pagine). Direte voi: e allora? Niente, cestinai
il libro e decisi (incolpevole l’autore) che non era un autore che avrei letto
o riletto spesso. Misteri della gioventù.
Ora,
sotto la sempre solerte spinta libropatica, tiro fuori questo veloce scritto.
L’ultimo pubblicato in vita, anche se tra i primi ad essere concepito, e poi
pensato, corretto e rivisto per anni e anni. Leggendone, e ricordando quella
prima lettura, vedo facilmente una delle radici da cui è venuto fuori
quell’Andrea Vitali che di tanti libri ha riempito i miei scaffali. Con tutti
gli ovvi distinguo del caso, ma è lì, nella piccola provincia italiana che
nascono momenti di letteratura (e non arrischio di certo giudizi se sia alta,
bassa o così così) di sicura presa verso un lettore che non sia distratto.
Certo, questo libro di Chiara è più filologico e biografico dei veloci appunti
del medico di Bellano. E Chiara, inoltre, ha di certo un umorismo più datato e
se vogliamo meno scoppiettante.
Pur
tuttavia, è lo scrittore luinese che traccia la strada. Quella della
descrizione minuta dei caratteri, quella dei caratteri che riempiono i giorni e
le notti dei più sperduti punti italici, quella dell’ironia sulla sovraesposizione
che nel fascismo facevano di sé personaggi tronfi e forti solo del loro grado e
non della loro esistenza.
Libro
in gran parte biografico, ripercorre l’anno 1932 quando il giovane Piero, dopo
mille lavori saltuari, arriva 118° su 119 posti per la carica di scrivano di
atti giudiziari. Essendo quindi uno degli ultimi, dopo un periodo avventizio a
Pontebba, per decreto del commissario Mordace, si ritrova spedito nella
sperduta località di Aidussina, ora in Slovenia. Qui il ventenne avventizio
s’immerge, e ci fa vivere a pieno, la vita sperduta di una cittadina quasi
sospesa in un limbo fuori dal mondo.
La
pensione dove trova alloggio, con i suoi pubblici funzionari che lì si
ritrovano a cena. Il bar – trattoria dove si gioca a biliardo, ed a carte. E
l’ufficio, con il pretore Merdicchione e il cancelliere Semitocolo. Da un lato
conosciamo i bei tipi della pensione e del bar, ognuno con una storia alle
spalle, ognuno con piccole o grandi cose da nascondere. O da raccontare, dopo
un bel bicchiere di vino. Ci sono anche due ragazze in ufficio. C’è anche
l’ufficio del catasto, che, essendo eredità dell’Impero Asburgico, è un catasto
tavolare, cui solo il geometra Zciuka sa maneggiare.
Piccole
storielle passano, il nostro cerca di entrare nelle grazie delle due ragazze
con poco successo. Entrerà invece nel giro del pretore che, per passare le
giornate, organizza un tavolo di poker in ufficio. Il tutto precipita quando il
solito Mordace chiede al pretore di cambiare quel nome poco onorevole. Al
rifiuto di questi, il fascistone comincia una subdola caccia che porterà a
scoprire il pokerino pomeridiano, la poco chiara carriera del pretore, nonché
qualche elemento oscuro anche del geometra. Immediato sarà il trasferimento di
Chiara dalla Slovenia a Cividale nel Friuli.
Dove
si ripeterà molto, anche se con cambiamenti significativi. Piero inizia una
duratura relazione con un’insegnante di un vicino paese che lo viene a trovare
(e mi scuso l’eufemismo) tutti i sabati in ufficio. Ma il giovane è preso dalla
bella cassiera Brunilde detta Ilde, che però sembra inarrivabile. Sarà sempre
Mordace a sconvolgere i piani del nostro, irrompendo in ufficio nel corso di un
convegno amoroso. Per non essere cacciato, Piero si finge disturbato, viene
mandato in ospedale dove conosce un maresciallo con cui simpatizza, ma che gli
rivela una notizia “bomba”: Ilde ha chiesto il libretto da “prostituta”, per
fuggire da Cividale. Bella la ricostruzione storica delle case di chiuse e
delle donne avviate al meretricio.
Piero
segue a Trieste la bella Ilde, cercando di convincerla al matrimonio, che lei,
realisticamente, rifiuta. E sarà nel casino dove lei esercita che avverrà
l’ultimo fattaccio. Si presenta despota ed insolente il solito Mordace. Il
giovane sbrocca, e gli da un calcio nelle parti basse. Viene anche arrestato, e
per sfuggire ad una probabile condanna, accetterà l’aiuto di un amico triestino
per imbarcarsi come scrivano su di una nave che dirige la propria rotta verso
Oriente. Riuscirà il nostro a vedere Singapore? Non è importante e non ve lo
dico.
Seppur
con un po’ di lentezza, è invece importante la concatenazione di eventi che si
susseguono lungo tutto il libro. E la presenza e la descrizione di tutti questi
personaggi che in un solo anno il nostro incontra nella pur bella provincia
italiana. Alla fine, mi ha rimandato alla memoria quel garbato libro in
francese letto non molto tempo fa (“Le front russe”), soprattutto per quelle
atmosfere ministeriali delle preture di provincia, con pretori ed altri
pubblici ufficiali alla ricerca di un’auto affermazione del proprio altrimenti
inutile ruolo. Insomma, ho recuperato una bella scrittura, anche se in un libro
“normale” di lettura e di gradimento.
“Un uomo può vivere più vite. Io ne ho
vissute molte, buone e meno buone. Ora ne vivo una nuova che sarà forse
l’ultima, perché ho cinquantotto anni.” (67)
“Non è il primo amore che conta, ma
l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75)
“Alla luce di una lampada da tavolo,
leggeva. Cosa mai poteva interessarlo alle soglie della morte? Leggeva,
imparava ancora, a novant’anni.” (165)
Haruki Murakami “Norwegian Wood” Einaudi
euro 12
[tramato
il 10 maggio 2011]
Grazie alla curiosità seguita ad
un cenno in un libro di Licalzi (ed ai ricordi di discussioni con Rosa) ho
finalmente affrontato Murakami (metto il nome nella giusta prospettiva europea:
prima il nome, Haruki, poi il cognome, Murakami). E, nonostante le quasi 400
pagine, l’ho letto in un fiato. Bello, complesso nei sentimenti, ma come facevo
a lasciarlo lì? E poi così pieno di musica, tanto che mi verrebbe la voglia di
farne una compilation (tra l’altro, ho letto il libro solo ora perché non mi
piaceva il primo titolo italiano di Feltrinelli, Tokyo blues, che non
rispettava la colonna sonora dei Beatles che punteggia il romanzo, e
soprattutto ne falsava un’interpretazione, se ben vi ricordate i primi due
versi di John Lennon).
Non posso dire di conoscere
Murakami, e, soprattutto (dalle poche notizie sullo scrittore di Kyōto,
capricorno del ’49), mi pare di capire che questo sia un romanzo atipico della
sua produzione. Non solo perché parla d’amore, ma anche perché venne scritto in
Europa, tra Atene e Roma, dal trentasettenne scrittore, che lascia la sua
traccia proprio nell’incipit (“Avevo 37 anni, ed ero seduto a bordo di un
Boeing 747”). Da questo ricordo, parte un lungo flashback sulla formazione del
protagonista, che ci fa piombare nel suo primo biennio universitario a Tōkyō,
ed in tutta l’elaborazione per la costruzione di un’identità adulta.
Certamente, la bella introduzione
di Giorgio Amitrano (nonché la sua traduzione, a parte un punto da chiarire di
cui dirò in finale), e che io, al solito, avrei spostato come postfazione,
chiarisce molto meglio di me sia la genesi che la scrittura del romanzo. Ed
accenna ad analisi (altrove approfondite) sul parallelismo tra questo libro e
sia il David Copperfield di Dickens che il Giovane Holden di Salinger (entrambi
citati in omaggio nel testo).
Ma non è su questo che volevo
tramare. Solo prenderne spunto, ribadendone il carattere di “libro di
formazione”. E poi passare al testo, ai personaggi. A Tōru, il protagonista,
l’io-narrante, che inizia a parlare della sua formazione, e sa già dove
andranno a finire i personaggi, ma non ne anticipa mai lo sviluppo, con un
grande equilibrio tra il sapere ed il narrare.
Tōru, che come Holden, è un
alieno nel Giappone della fine degli Anni Sessanta (epoca del romanzo), perché
non è imbevuto di samurai e tradizione (anche se li conosce), ma legge libri
occidentali, segue corsi universitari su Euripide, e, soprattutto, ascolta
jazz, rock e pop della migliore qualità. Si aggira per la città, e per la
campagna, facendo quello che un po’ fan tutti i suoi coetanei (beve, scopa,
studia, e così via), ma con una sua idea di fondo, etica e morale, sul trovare
qualcosa di giusto per sé, senza cedere alle lusinghe del facile e
dell’apparire. Qualcosa che lo realizzi, cercando di fare il meno male
possibile agli altri, anche a costo di non figurare, di non stare sempre in
primo piano.
Per questo (ed è una cosa che mi
ha fatto un piacere enorme) tace se non ha niente da dire. Cerca, nei limiti
del possibile, di essere sincero. Anche a costi dover rimediare ad errori
(bello e terribile quando non si accorge della pettinatura di Midori). Ma
pagare per i propri errori è proprio la cresta dell’onda morale su cui viaggia.
Anche a costo di dire le cose sbagliate, o di far capire di non avere
un’opinione sulla domanda che gli si rivolge. E Tōru attraversa questa sua formazione
incrociando due, o forse tre, donne, che avranno peso e sostanza per farlo
maturare.
Naoko, il lato-ombra della vita,
la donna del suo amico Kizaki che si è suicidato a 17 anni senza un motivo, cui
si lega affettivamente ed emotivamente. Anzi, direi che se ne innamora. Che
vuole tirarla fuori dalla cupezza che ne avvolge la vita. Perché Naoko non
capisce la morte di Kizaki, e questo condiziona tutto il suo modo di essere.
Con quella difficoltà di articolare un discorso ben formato, che troppe parole
ed idee le affollano la testa ed a cui non riesce a mettere ordine. Ordine di
uscita. Per cui tace. E le passeggiate silenziose di Tōru e Naoko per la città
sono bellissime.
Midori, il lato-luce della vita,
anche lei con problemi (la famiglia, la morte della madre per un tumore, e via
discorrendo), ma che li affronta e li supera (o cerca di farlo). Come quando,
accorgendosi di non volere più tanto bene al suo ragazzo, decide di lasciarlo
senza prospettive, perché, in un certo senso, non sa fingere. E lei parla,
inventa, tira fuori storie e coinvolge Tōru in avventure pazze, tra cinema
pornografici, terrazze notturne, visite a malati.
Tōru viaggia tra questi due poli,
cercando di capire, dove dirigere la sua bussola, e facendo anche lui delle
scelte, difficili, dolorose, ma scelte. Poi c’è la terza, la “vecchia” Reiko
(che quando loro hanno 20 anni già sta sui 37), che diventa amica di Naoko, e
poi amica, confidente e mentore di Tōru, cui (un po’ come il deus ex-machina
del suo amato Euripide) tirerà fuori quello che Tōru sa di avere dentro, le sue
decisioni. E nei colloqui con Reiko riesce a chiarirsi.
La vita continuerà a non essere
facile, ma sono arrivato contento all’ultima pagina. Rimpiangendo di aver
aspettato questi 20 anni per leggerlo. Ma, come so bene dentro di me, la
formazione non finisce mai. Guai se finisse. Qui finisco la trama, ahi quanto
lunga, ma sarei rimasto a parlarne ancora. Non vorrei solo togliere il piacere
a chi sarà spinto da me a prendere in mano il libro, se non lo ha già fatto.
Termino rispettando la promessa
iniziale, con una domanda al traduttore. A pagina 258 si parla di ragazzini che
giocano a baseball (uno degli sport nazionali giapponesi), ma si traduce
qualcosa con “un gioco pieno di falli e fuorigioco”. Ora, se c'è una cosa che
NON esiste nel baseball sono proprio i fuorigioco (tipici del calcio in
genere). L’unica cosa fuori nel baseball, sono i fuoricampo, che sono uno dei
punti vincenti di una delle due squadre. Ebbene, se ha tradotto fuoricampo con
fuorigioco, merita un 2- in traduzione; se invece ha tradotto qualcosa d’altro
forse arriviamo a 3, ma non molto. Certo, una riga su 379 pagine può sfuggire,
ma, si sa, io sono maniaco.
“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono
uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)
“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che
li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo
stesso modo” (41)
“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la
cosa più seria del mondo.” (93)
“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo
bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne
so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per
la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?”
(221)
“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me,
per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è
tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai,
dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che
pensi.” (337)
“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che
questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo,
cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che
dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può
lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità,
forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa
che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza,
possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo
insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci
colpirà all’improvviso.” (349)
Conclusioni
Non so se porterei Chiara in vacanza, certo leggerei con piacere Cameron e Murakami (e forse anche Clavell) sia in riva al mare che sotto brezze campagnole. Ribadendo, che, a qualsiasi età, “Norwegian Wood” DEVE essere letto.
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