Selma Lagerlöf “La saga di Gösta Berling” Corriere della Sera Boreali
16 euro 8,90
[A: 12/06/2018 – I: 03/11/2020 – T: 07/11/2020]
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[tit. or.: Gösta Berlings saga; ling.
or.: svedese; pagine: 452; anno 1891]
Già si intuisce, dall’anno di scrittura, che
si tratta di un libro impegnativo. Che si aggiunge al fatto che l’autrice, Selma
Ottilia Lovisa Lagerlöf, pochi anni dopo diverrà la prima donna ad essere
insignita del Nobel per la Letteratura. Ma è tuttavia un libro “storico”, cioè
non impegna molto l’animo a seguirne le righe, non coinvolge la passione per
accompagnare i personaggi nella loro vita. Rimane, ed in questo è di certo ben
fatto, un libro pietra miliare della letteratura, che sena una svolta nel modo
di scrivere scandinavo, e che ci restituisce, anche se sono passati 130 anni,
la scrittura descrittiva di un mondo che non c’è più.
Ma la
scrittura della Lagerlöf, pur se a me non piace, è capace di suscitare mondi.
Descrive luoghi con mirabile capacità, e ce li fa visitare. Descrive personaggi
che si comportano in modo “fiabesco”, ma non ce ne fa sentire l’assurdità, ma
solo, realmente, l’umanità. Ed in effetti, Selma prende in prestito saghe,
leggende e fiabe ancestrali, le rielabora e le ricuce, creando alla fine una
narrazione coerente, che ha un suo filo complessivo coerente e seguibile. Anche
se in realtà, ogni capitolo è un racconto che potrebbe avere vita propria.
Mentre
la scrittura, come detto, è della fine dell’Ottocento, la storia si svolge negli
anni Venti di quel secolo, ed è ambientata nel Värmland, non a caso la regione
natia della scrittrice. L’eroe eponimo della saga è ovviamente Gösta Berling,
che anche qui, per causa di scrittura, è un eroe pieno di contraddizioni. Prete
spretato perché troppo dedito all’alcool, sin dalle prime righe è ambiguo.
Ubriacone, imbastisce un sermone magistrale che commuove tutti. Poi, pieno di
rimorsi, fugge cercando la morte. Viene salvato dalla maggiorente della tenuta
di Ekeby, convinto alla vita ed incorporato nei cavalieri del posto. Qui,
sobillato dal diavolo in forma del cattivo Sintram, insieme ai cavalieri, si
rivolta a Margarita Samzelius, la maggioressa, la scaccia, ed inaugura un anno
di baldoria, che porta la rovina al territorio di Ekeby.
Da
qui, come detto, si partono tutte le storie dei vari personaggi, sempre
collegati all’ambiguo Gösta, talvolta eroe, talvolta infingardo e cattivo. Ma
sempre bello, e capace di far innamorare tutte le donne benestanti della zona
come Anna Stjärnhök, Marianne Sinclaire e la contessa Elisabeth Dohna. Fino
all’ultimo capitolo, dove Margarita torna, mette in riga i cavalieri, Gösta
mette la testa a posto, si sposa, i cavalieri si disperdono e la maggioressa
muore.
Per i
“filologi”, diamo qualche altra informazione sui personaggi. Detto di Gösta, e
di Margarita Samzelius, la maggioressa (intesa come moglie del Maggiore) responsabile
di Ekeby, della sua crescita, della sua rovina e della sua rinascita, abbiamo
già citato Sintram, il cattivo, che finirà giustamente male. Abbiamo allora, la
figlia di uno dei più ricchi del posto, Marianne Sinclaire, prima cacciata di
casa per aver baciato Gösta, poi riconquistatasi il suo posto (e perdonerà
anche il baciatore a tradimento). C’è la famiglia del conte Dohna, composta dal
conte Henrik, notoriamente stupido, dalla contessa Marta, madre di Henrik,
ricca e altera, che finirà cacciata da Ekeby con il conte, dalla figliastra di
Marta, Ebba, il primo amore di Gösta, estremamente religiosa, tanto che non si
riprende dallo shock dell’abbandono e si lascia morire. Infine, c’è la contessa
Elisabetta, che si innamora di Gösta, prima di lasciare il conte, passa
infiniti tormenti, punizioni e patimenti, ma alla fine coronerà il suo sogno
d’amore.
Citando
di passaggio anche Anna Stjärnhök, fidanzata con un personaggio minore, un
tempo innamorata di Gösta, ma poi rinsavita e sposa con amore e decoro. E per
finire ci sono i 12 Cavalieri (dodici come gli apostoli?): il molto citato Gösta
Berling, il Colonnello Beerencreutz, il Maggiore Anders Fuchs, il piccolo Ruster,
Rutger von Orneclou, Kristian Bergh, lo scudiero Julius, Kevenhuller, il cugino
Kristoffer, lo zio Eberhard, Lovenborg, Lilliecrona. E li cito, perché di
ognuno Selma narrerà una storia ed un intreccio con gli altri e con Ekeby. Anche
se, con la maestria della sua scrittura, Selma riporterà tutto nell’ordine del
filo logico del suo racconto.
Devo
dire che alla fine, quello che più mi rimane del libro è la capacità di
descrizione dei luoghi scandinavi. L’ambiguità del libro, invece, sta anche nel
messaggio contraddittorio che manda: un omaggio alla gioia di vivere di un
tempo passato, ma allo stesso tempo una condanna di una vita senza lavoro.
Però,
alla fine, è veramente una lettura filologica, che forse ci fa entrare in un
mondo di fiabe e leggende, che di sicuro adombrano aspetti umani tuttora
rilevanti: avarizia, invidia, odio, amore. Storia di intenzioni tradite,
cadute, seconde occasioni e (probabilmente) redenzioni. È piena di intensità,
ed ha un ritmo epico che trascina verso la fine, pur nella difficoltà di una
scrittura centenaria. Ma il mondo di Selma è ormai molto lontano, e ci vuole
fatica per farlo tornare all’oggi. Domandandoci, ad ogni pagina, se lo sforzo è
realmente utile. Rimango nei miei dubbi.
“Non
è una cosa facile … fare felice una donna.” (131)
“Aveva
su molte cose le sue opinioni personali, come facilmente accade a chi vive solo
ripensando di continuo a tutto quello che un tempo i suoi occhi hanno veduto.”
(206)
“Ora
ha il volto ingiallito, è avvizzita e vecchia. Forse non la riconoscerà
nemmeno, sessantenne com’è, ma lei non viene per essere veduta, bensì per
vedere … l’uomo amato in gioventù.” (283)
“Una
donna non si vergogna mai di un uomo che ha amato.” (414)
“Sarebbe
per me un onore sufficiente che … si ricordassero ancora del mio nome un paio
di anni dopo la mia morte.” (429)
Rosa Liksom “Scompartimento n.6” Corriere
della Sera Boreali 20 euro 8,90
[A: 01/11/2018– I: 06/11/2020 – T: 09/11/2020]
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[tit. or.: Hytti nro 6; ling. or.: finlandese; pagine: 218; anno 2011]
Se la memoria non mi inganna, credo che Rosa
sia la terza persona che scrive in finlandese presente nella mia libreria. Per
sgomberare il campo, poi, sulla nazionalità (e su alcune concezioni ben
condivisibili) della scrittrice diciamo subito che il suo vero nome è Anni
Ylävaara. Che in realtà è lappone di nascita, ed adotta lo pseudonimo sopra
citato composto da Rosa in onore di Rosa Luxemburg (e non della mia amica Rosa
come poteva anche essere) e da Liksom derivante dallo svedese con il
significato più accreditato di “così come”.
Rosa (per evitare sbagli la chiamiamo con il
nome d’arte) è una persona poliedrica, dalla Lapponia scende ad Helsinki per
laurearsi in antropologia, saltabeccando nel Nord Europa fino ai trenta anni,
ma avendo sempre nel cuore Mosca e la Russia. Fa anche un lungo viaggio in
Transiberiana a 25 anni (e noi, quando?), per poi tornare in patria e
cominciare la sua vita artistica. Che comprende, oltre la scrittura, fumetti,
“graphic novel”, sceneggiature e regie di film, pezzi teatrali, nonché opere
multimediali.
Pur essendo ben nota nel panorama locale
(letta nei licei e studiata all’Università) è questo romanzo, scritto da
cinquantenne ormai, che, benché uscito in sordina, le dà notorietà e fama anche
al di fuori della Finlandia. Un romanzo che (ma qui devo fidarmi) continua ad
essere scritto nello stile asciutto che contraddistingue le sue opere (nessuna
concessione), e che soprattutto, partendo dalla sua esperienza di viaggio
attraverso la Russia sopra citata, ci porta appunto in Unione Sovietica, e per
l’esattezza nel 1986. Anno terribile, già in piena crisi, e non ancora
riportato ai fati corrotti dell’era Putin.
Certo, è strano leggere da un’autrice
finlandese un libro completamente immerso nella realtà e nel mondo russo. Ma
Rosa mostra di conoscerlo veramente bene, e di riportarcelo alla memoria, sia
nel presente del libro, sia nell’atmosfera di “russità” generale che lo
pervade. Intanto, sin dal titolo, che allude senza troppe velature con il racconto
di Cechov “Reparto n. 6”, la seconda opera letteraria che parla di alienati
nella letteratura russa (leggetelo). La prima essendo “Il Fiore Rosso” di Vsevolod
Michajlovič Garšin, che ovviamente è ampiamente citato da Rosa nella prima
parte del romanzo. Ed oltre a numerose citazioni intermedie, si ritorna (o si
arriva) a Cechov nell’invocazione finale “A Mosca! A Mosca!”, come nelle sue
“Tre sorelle”.
D’altra parte, ci si chiede cosa ci sia di
finlandese in questo russofilo romanzo. Personalmente vi ho ritrovato quella
sensazione da ingombrante vicino, quella stessa che mi aveva colpito la prima
volta che sono stato ad Helsinki. Con quei palazzi, quelle aree, quelle
stazioni che mi facevano sentire immediatamente trasportato di là del golfo, a
parte sentir parlare una lunga sinceramente incomprensibile.
Venendo al testo, rimanendo nelle metafore
ferroviarie, mi sembra che vi siano tre binari che segue la narrazione. Uno, di
ampio respiro, e che mi trasportava lì con le parole, è quello delle
descrizioni: la steppa, i fiumi, gli Urali, i laghi, il fiume Amur (che mi
riporta alle parole di Terzani), le città desolate siberiane e mongole, la
mitica Ulan Bator di mio padre.
Poi ci sono i due relativi ai personaggi. C’è
Vadim, quarantacinquenne stakanovista (dedito solo al lavoro), che tra una
bevuta e l’altra (certo i russi non si risparmiano) racconta a noi ed alla
protagonista brandelli della sua vita. Imperniata su bevute, risse e scopate.
Sempre alla ricerca di un soldo da spendere, senza averne mai da parte. Una
specie di carosello di microracconti che ci dipingono con puntillistica
esattezza la Russia dell’86.
E c’è la ragazza, la finlandese innamorata
della Russia, decisa ad arrivare sino in Mongolia alla ricerca di rare scritte
rupestri. Ma anche per fuggire da Mosca, da una situazione che scopriamo a poco
a poco. L’intimità, anche forte, con il giovane Mitka. Fino al suo ricovero in
psichiatria (ecco che ritorna Cechov) per non partire militare in Afghanistan.
Da lì nasce invece l’amore, con Irina, che, per sfortuna, è anche la giovane
madre di Mitka. Certo, situazione complicata, trattata comunque con sfumature
che adombrano ma non chiariscono.
Ma si arriverà in Mongolia, servirà l’aiuto
di Vadim (che per tutto il viaggio lei aveva schizzato) per risolvere
situazioni complicate. Serviranno i paesaggi, e magari le yurte mongole per
pacificare l’animo. E per decidere se utilizzare quel biglietto aereo di
ritorno (così come avrei fatto io se fossi riuscito ad organizzare il nostro
mitico viaggio) e tornare, cosciente, a Mosca.
Pur con qualche riserva, non mi è dispiaciuto
affatto. Una sola domanda mi è sorta spontanea, leggendone ora in tempi di
lockdown. A pagina 74 Vadim afferma: “le nostre risorse umane sono
inesauribili”. Forse allora, purtroppo non ora.
“Le ragioni della nostra angoscia sono due: o
vogliamo ma non possiamo, o possiamo ma non vogliamo.” (31)
“Non mi sono mai sposata perché sto bene in
compagnia dei miei simili.” (149)
“Come era possibile che un popolo con un
passato così glorioso vivesse in una tale decadenza?” (176) [si parla dei
Mongoli, ma che dire degli Egiziani…]
“Metà della nostra vita la passiamo a fare
cazzate, il resto a capire perché e a cercare di rimediare il rimediabile.”
(198)
Erlend Loe “Naif.Super” Corriere Boreali 15
euro 8,90
[A: 05/06/2018 – I: 30/11/2020 – T:
02/12/2020] - &&&&
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[tit. or.: Naiv.Super; ling. or.: norvegese; pagine: 247; anno 1996]
Eccoci
alla scoperta di un nuovo autore scandinavo, così com’era negli intenti primari
della collana. Erlend Loe è l’ottavo autore norvegese di cui leggo qualcosa.
Preceduto dal Nobel Knut Hamsen, dai giallisti Dahl (Arne e Kjell Ola), Holt e
Nesbø, e dai romanzieri Solstad e Harstad. Una nutrita ed agguerrita compagnia,
dove il buon Erlend si ritaglia un posto di tutto rilievo.
Benché
abbia quasi venticinque anni, il libro è ancora fresco, discretamente
spumeggiante, ben scritto e mediamente simpatico. Certo, qualcosa lascai per
strada sull’onda dei grattacieli (non entrerei nel dibattito Sears di Chicago,
Empire di New York o Petronas Tower malaysiane, per non incorrere in ricordi di
torri gemelle, fuori contesto qui). Ma va bene anche così.
Il
romanzo è un lungo monologo, a volte un po’ involuto, a volte ripetitivo, a
volte sul limite di un autismo non confessato, di una specie di alter-ego
dell’autore (l’innominato protagonista dice di avere venticinque anni, Erlend
lo scrive quando ne ha ventisei). Oltre all’autore, nel romanzo compaiono: il
fratello, uomo di successo e pieno di soldi, Kim, l’amico buono che fa il
meteorologo su al Nord, Kent, l’amico cattivo che parla solo di donne, Børre,
il ragazzino dell’asilo di cui diventa amico, e Liza, che forse sì o forse no
diventerà la sua ragazza.
Il
lungo monologo prende avvio quando il narratore comincia ad essere disilluso
dal mondo e dal modo in cui vive. Lascia l’università, vive a casa del fratello
(temporaneamente in America), e si domanda quale sia il senso della vita. Poi,
leggendo un libro divulgativo dell’inglese Paul Davies (libro ed autore reali,
essendo il primo “About time”), comincia ad interrogarsi sulla natura del
tempo, sulle teorie di Einstein, non riuscendo a decidersi di uscire dalla
giovinezza per entrare nell’età adulta.
La
tensione lo rende instabile, così che prima comincia a tirare palle contro il
muro, poi ad usare un banco da falegname della BRIO che martella da mattina a
sera. Inciso: la BRIO è una delle più antiche fabbriche di oggettistica in
legno fondata dal signor Ivar nel 1884, insediatasi a Osby ai primi del ‘900 e
denominata, dai tre figli di Ivar come “BRIO = BRöderna Ivarsson (at)
Osby”, cioè i tre fratelli figli di Ivar che stanno a Osby.
Oltre
alle letture si scambia fax con l’amico Kim, spesso cominciando lunghi elenchi
di cose. Quello che mi piaceva quando ero piccolo. Quello che odio in
televisione. Quello che vorrei avere e non ho. Quello che ho. Quello che so ma
che non è necessario. Va spesso in bicicletta, ma senza casco. Conosce nel
cortile di casa il piccolo Børre, diventando suo amico (magistrale il passo, e
si capisce che Loe sia anche un buon scrittore per ragazzi: il narratore si
pone sullo stesso piano del ragazzo, così che possa avvenire uno scambio, e non
una imposizione di ruoli). Conosce poi Liza, la sorella di Børre, e con ogni
probabilità dopo la fine del libro nascerà una storia.
La
svolta avviene con l’invito del fratello a raggiungerlo a New York, alla vita
“americana” che il nostro conduce per qualche giorno, all’affacciarsi
dall’ultimo piano dell’Empire State Building (con una divertente digressione
sul tempo tra la terra in basso e lui in cima). Messo fuori dal suo ambiente e
dalla sua cuccia, il narratore capisce che “c’è vita fuori di qui”, che si può
guardare il mondo con una prospettiva diversa, che ci si possono fare domande,
dove a volte c’è una risposta ed a volte no.
Di
sicuro capisce che gli piace Liza. Capisce il suo impulso ad essere bambino,
decidendo poi di “tenersi il bambino dentro”. Muovendosi per fare le cose che
vuole realmente fare (se riesce a comprenderle) e non quelle che “dovrebbe fare
un adulto”. Ricorda molto il Battiato della “Canzone dei vecchi amanti” (“com’è
difficile invecchiare senza diventare adulti”).
Loe
ci descrive uno spaccato molto scandinavo, è vero, ma in un certo qual modo
universale, della generazione degli anni ’70, ed alla fine delle certezze che
avevano caratterizzato il mondo dei loro genitori. Come detto, a volte datato
(ad esempio anche sugli strumenti tecnologici come il fax), ma gradevole.
Un
mistero finale: i recensori inglesi dicono che il romanzo è diviso in 45
capitoli; qui, nella versione italiana, i capitoli sono 46. Come direbbe
Ruggeri: Mistero!
“Anybody
who rides a bike is a friend of mine (Gary Fisher)” (9) [Chiunque vada in bici
è mio amico (G.F. l’inventore della Mountain Bike)]
“Perché
io non ho la ragazza? Non trovo nessun valido motivo. Gente molto meno
simpatica di me ha la ragazza. Gli idioti hanno la ragazza. … C’è molta
ingiustizia e idiozia al mondo.” (106)
“Secondo
me la rete è sopravvalutata. Tutto sommato consiste di informazioni di cui
potrei benissimo fare a meno.” (112)
“Io
credo che nessuno dovrebbe essere solo. Che si dovrebbe stare insieme a
qualcuno. Agli amici. A chi si ama. Io credo che sia importante amare.” (165)
“Fitte, kuk, pikk, suging, basj,
pule, rumpehull, runke, pupp, slikke, fis.” (170-193) [elenco delle parole
cercate su Internet come nomi di autori inglesi; le parole sono “tabù” in
Norvegia, descrivendo gli organi sessuali, alcune posizioni del rapporto
amoroso, nonché vere e proprie parolacce; potete usare Google per tradurle]
“Ho
l’aria di star bene … I soldi non importano. Vanno e vengono. Ma i fratelli
sono importanti. I fratelli sono più importanti dei soldi, dice mio fratello.”
(234)
Morten A. Strøksnes “Il libro del mare”
Corriere Boreali 12 euro 8,90
[A: 14/05/2018 – I: 22/12/2020 – T:
24/12/2020] - &&&
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[tit. or.: Havboka; ling. or.: norvegese; pagine: 317; anno 2015]
Morten
A. Strøksnes, dove A. sta per Andreas, è un giornalista norvegese cinquantino
(come direbbe Camilleri) fino alla lettura di questo libro illustremente a me
ignoto. Devo dire che mi ha subito preso, ed ho letto con gusto questo
giustamente premiato libro che non è un romanzo, ma non è neanche un saggio.
Direi una passeggiata nella memoria, con approfondimenti casuali, scaturiti da
momenti di pensiero che ogni tanto vengono in mente mentre si vive.
Intanto,
dopo averne cercato in giro, dispiace sia che non ne venga riportato nel
risvolto editoriale di seconda il titolo completo, che recita: “Havboka - eller
Kunsten å catch en kjempehai fra en gummibåt på et stort hav gjennom fire
årstider”. Sia che lo stesso non venga utilizzato per intero nella traduzione
italiana, che dovrebbe suonare come: “Il libro del mare o l'arte di
catturare uno squalo gigante da una barca gonfiabile su un grande mare
attraverso quattro stagioni”.
Visto che ci siamo, darei anche una piccola
tirata d’orecchi al traduttore, il pur bravo Francesco Felici, dove, quando si
va a parlare di pesci o di venti o di onde, a volte lascia il termine
norvegese, senza cercare o una traduzione, o una nota editoriale che ne spieghi
meglio il senso. Un esempio su tutti: nella parte finale di parla molto di “skrei”,
che non è altro che il merluzzo norvegese artico. Io ne avrei parlato meglio, o
con più enfasi, o con un po’ di espansione nelle descrizioni.
Ciò detto, lasciamoci invece trasportare da Strøksnes
nelle sue scorribande marine nelle isole Lofoten ed in particolare nel
Vestfjorden (il fiordo dell’ovest) dove sulla barca del titolo esteso, insieme
all’amico Hugo, passa quattro diversi anni nel tentativo di catturare uno
squalo gigante. O meglio uno “squalo della Groenlandia”. È uno dei più grandi,
se non il più grande, squalo marino, arrivando ad una lunghezza di 7 metri e ad
un peso di una tonnellata. Sicuramente, è il vertebrato più longevo al mondo.
Raggiunge la sua maturità intorno ai 150 anni ed è stato trovato un esemplare
che ha raggiunto l’età di 512 anni.
Ma
non è tanto o solo la caccia allo squalo quella di cui ci parla Strøksnes nel
suo libro, quanto di tutto quello che si aggira intorno allo squalo, alla pesca
ed alla vita prendendo ad epicentro l’isola di Engeløya (l’isola degli Angeli),
che proprio il fiordo di cui sopra collega alle Lofoten. Non c’è bisogno che
dica come le Lofoten siano uno dei miei sogni neanche tanto proibiti di tornare
verso il Nord, magari per vedere l’aurora boreale.
Sull’isola
vive appunto Hugo Aasjord, l’alter ego protagonista di queste pagine. Un
artista, pittore astrattista più che altro, di cui in rete potete trovare una
bella galleria di immagini delle sue opere. Ed è proprio Hugo che spinge
l’amico Morten all’uscita alla ricerca dello squalo. Hugo tornato sull’isola per
riprendere le tradizioni familiari (quelle della lavorazione del merluzzo in
particolare) e dedicarsi a questa pesca para oceanica utilizzando le tecniche
di una volta: gettare in mare carcasse e cascami maleodoranti, con grossi ami e
catene robuste, al fine di catturare questi “mostri marini”.
E
mentre si va, o si aspetta di andare, Strøksnes riesce a riempire le pagine di
notizie, di rimandi, di spunti su mille cose che intorno alla pesca, al mare ed
alla navigazione prendono vita. Ci fa immergere nelle atmosfere del nord
norvegese, nelle sue tradizioni. Ma si vola un po’ ovunque: dal battello
ubriaco di Rimbaud alla balena di Giona, dalle bevute epiche nelle feste
norrene alla descrizione delle mille ed una vita che ci aspetta in mare.
Di un
interesse unico, per me, è stato immergermi con la fantasia nelle profonde
acque oceaniche, insieme agli squali e ad altri animali che vivono a più di 600
metri di profondità. Animali che raramente vedono la luce del sole, che vivono
di bioluminescenze, che sono a loro volta giganti e mostruosi. Che non si sono
estinti nelle grandi morie epocali (come l’ultima che ci portò via i
dinosauri).
Poi si torna alla pesca, al merluzzo, allo
squalo, ed alla scoperta (che vi lascio seguire) della battaglia per la cattura
(che avverrà o forse no?).
Io sono rimasto affascinato dal farmi cullare
dalle divagazioni di Strøksnes, che, cosa non sempre accaduta,
stimolano sinapsi di curiosità. Una su tutte: il naufragio su Røst di una barca
veneta, e come da lì sia nato lo scambio di stoccafissi tra Veneto e Norvegia,
che a noi lascia in bocca l’indimenticato sapore del baccalà mantecato.
Un’ottima
scrittura, ed una bella lettura. Di quelle che ci fanno subito dire: ma dov’è
quell’aereo per Tromsø?
“I marinai a terra … magari non si imbarcheranno
mai più, ma continueranno comunque a parlare e a muoversi come se fossero lì
soltanto in visita.! (8)
“Le storie che raccontiamo sono sempre
quelle che finiscono bene.” (184)
“Tra di noi non è quasi mai opprimente, il
silenzio., e questa è una buona definizione di amicizia.” (226)
“La storia è un bambino che costruisce un
castello di sabbia in riva al mare.” (252)
Monica Kristensen “La leggenda del sesto
uomo” Corriere Boreali 22 euro 8,90
[A: 01/11/2018 – I: 25/12/2020 – T: 26/12/2020]
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[tit. or.: Kullunge; ling. or.: norvegese; pagine: 260; anno 2007]
Il
nome completo sarebbe Monica Kristensen Solås, ma l’ultimo pezzo in genere
viene omesso. Sarebbe anche svedese di nascita, ma ha vissuto, lavorato e
scritto sempre in Norvegia, di cui ha la nazionalità per parte genitoriale. Non
nasce scrittrice, ma, come dice la sua biografia è meteorologa, fisica,
glaciologa ed esploratrice polare norvegese. Tra l’altro, girando spesso anche
al Polo Sud, sulle tracce di Amundsen.
Trasferitasi,
in un certo momento della vita, quando le spedizioni diventavano un po’ pesanti
(Monica è del 1950), nelle Svalbard, ad un certo punto, una quindicina di anni
fa, comincia a scrivere, soprattutto romanzi polizieschi. Tutti (almeno per
quanto ho capito) ambientati proprio in quelle isole sperdute, e di certo
particolari. Tanto che sono anni che chiedo ai miei referenti di viaggio di
poterci portare dei gruppi, ma non ci sono ancora riuscito.
Un
sogno, che prima o poi…
Ma
venendo al testo, di certo molto nel mio immaginario è dipeso proprio
dall’ambientazione: la città (unico insediamento veramente abitato delle isole)
di Longyearbyen, le miniere di carbone (Kull in norvegese, da cui una parte del
titolo), le postazioni artiche, le motoslitte, e soprattutto gli orsi polari.
Inciso: unico posto al mondo dove ti forniscono di fucili, che andare in giro
ed incontrare orsi non è di certo salutare.
Purtroppo,
invece, la storia in sé si annoda intorno ad una tematica abbastanza scontata,
seppur immersa nelle tradizioni locali. Scompare una bambina dall’asilo locale
(il Kullungen da dove si diparte la trama). Figlia di una coppia in crisi,
soprattutto per colpa del marito, discretamente alcolista, ed ingegnere
minerario di scarsa reputazione. Tanto che si ipotizza subito che sia stato
Steinar a rapire (o allontanarsi senza avvertire) la figlia Ella. Anche se si
mescolano le carte facendo vedere una strana figura che si aggira vicino ai
bambini, offrendo loro caramelle e cioccolatini.
Da
qui in poi si intrecciano varie storie all’interno della spasmodica ricerca
della piccola. Storie con due complicazioni, un numero discreto di personaggio
i cui nomi si intrecciano spesso nella mente, ed una narrazione che va su e giù
per il tempo. Che il rapimento avviene un 23 febbraio, e le storie partono da
gennaio. Mescolando tempi, ed ingarbugliando nella mia mente le sequenze
temporali.
C’è
un poliziotto che intreccia una storia clandestina con una signora, sposata con
un pilota locale (la maggior parte degli spostamenti nelle Svalbard avvengono
per aria e per mare, essendoci solo strade sterrate, e neve quasi tutto l’anno,
per cui si utilizzano solo motoslitte). C’è la moglie del poliziotto, da poco
nelle isole, che non si integra mai con i locali, covando nel tempo rancori
giganti verso il marito e l’amante di lui. C’è lo Steinar di cui sopra, che si
accompagna con due loschi minatori, dediti al contrabbando di liquori e carne
di renna, essendo la seconda altamente proibita, dove le renne sarebbero
protette.
Ma
soprattutto ci sono le miniere di carbone, che hanno fatto nascere le isole (un
tempo disabitate) con tutte le problematiche legate all’estrazione ed ai
relativi pericoli (se leggete la storia delle Svalbard, è funestata da diversi
incidenti, spesso mortali, che avvengono nelle miniere). E come in tutte le
miniere, nascono leggende, come quella che dà il titolo italiano. Un sesto uomo
che compare misteriosamente, sia aiutando i minatori a salvarsi, sia segnalando
pericoli e morti imminenti.
Poi
ci sono tutti i “buoni”: la polizia locale, la Sezione Criminale che viene
dalle terre ferme norvegesi, le signore che organizzano l’annuale festa del
sole (ai primi di marzo, dopo mesi di buio, il sole si affaccia nuovamente
all’orizzonte). Monica è decisamente edotta della vita locale per riuscire a
darne una descrizione efficace, nelle sfaccettature quotidiane. A me rimane
impresso il tentativo (riuscito) di distogliere una mamma orso che sta per
assalire una comunità locale. Come anche i pericoli che le barche in mare sostengono
quando vengono in rotta di collisione con gli iceberg.
Alla
fine, molto si ricompone, sia per l’abnegazione del matto del villaggio, un
ex-minatore rimasto sfasato nella testa dopo una brutta avventura in miniera,
sia per l’acume del poliziotto Knut, personaggio all’inizio marginale, che
acquista spazio nella seconda parte del romanzo.
Non
mi dilungo sul resto della complicata trama, ma vi assicuro che tutti i pezzi,
prima o poi andranno al loro posto. Il bello del romanzo ripeto, sono proprio
le Svalbard e l’occhio partecipe ma non indulgente che ne disamina la vita.
La
scrittrice, che di sicuro ha una bella penna, dovrebbe aver scritto altri libri
con analoga ambientazione, dove mi domando se si ripresentano gli stessi
personaggi, acquisendo un’andatura seriale che ne farebbe meglio ricordare i
tratti. In ogni caso, a me rimane la sensazione di scoperta dei luoghi del
nord, che, nonostante il freddo, continuano ad attirarmi.
Avendo
finito, per ora, la disamina dei “libri felici”, per consolarvi in questa
domenica benedetta di primavera (che calembour!) vi porto una bella dose di
citazioni rimaste nella penna e nella mia memoria.
Quindi, è primavera (ma solo per il calendario) ed è coprifuoco (per tutti). Non si viaggia e non si riesce (ancora) a prenotarsi un vaccino. Ma la Pasqua è vicina, e cercherò, come spero tutti voi, di trovare un po’ di riposo e ristoro. Per cui non so, sinceramente, se nelle prossime domenica riuscirò a comporre delle trame passabili. Spero tuttavia nella vostra clemenza sia nella riuscita che nella mancanza.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Citazioni di marzo
Come
detto ho terminato la disamina dei libri letti che sono descritti e citati nell’ottimo
“I libri che ci aiutano a vivere felici” di Giulia Fiore Coltellacci.
Per
darvi un po’ di righe che aiutano a pensare, passo allora alla disamina di
alcune citazioni che, come bolle di memoria, sono affiorate nel corso degli
anni dalle mie letture.
Ci
posizioniamo agli inizi dell’anno 2007.
Iniziamo
con un libro che tanto piacque a mio padre, e che lessi con interesse, anche se
non con trasporto. Mi riferisco a Fritjof Capra
che nel suo “Il Tao della fisica” ci
fornisce questo suggerimento sul cammino da seguire nel nostro affrontare il
mondo: “Qualsiasi via è solo una via, e non c’è nessun affronto, a sé stessi o
agli altri, nell’abbandonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di
fare… Esamina ogni via con accuratezza e ponderazione. Provala tutte le volte
che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una
domanda … Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non
serve a niente.”
A ruota, visto che siamo in ambito saggistico, mi
dedicai agli “Aforismi sulla saggezza del vivere” di Arthur Schopenhauer. Che proprio in
quanto florilegio di aforismi, non potevo che farmi sommergere dai suoi
suggerimenti.
Il grande tedesco inizia quasi subito con una massima
di estrema consolazione per le nostre debolezze: “quando avrai perso non
aggravare la situazione rimproverandoti e punendoti per aver fallito”. Subito dopo,
tolstojanamente ma forse anche catalanamente, ci suggerisce che “chi ride molto
è felice, chi piange molto è infelice”.
Pensando ad Epicuro, ed alla condizione di ognuno di
noi quando impara, finalmente, che solitario non è solo, sottolinea: “la
felicità appartiene a coloro che bastano a sé stessi”. Ribadendo poco dopo: “la
nostra condizione reale e personale … è cento volte più importante per la
nostra felicità di quello che agli altri piace pensare di noi”.
Certo, è quello era un periodo di grandi riflessioni
personali, mi attaccai a quest’altra sentenza: “All’uomo di spiccate doti
intellettuali la solitudine offre un duplice vantaggio: primo stare con sé
stesso e secondo non stare con gli altri … che in grande maggioranza sono
moralmente cattivi e intellettualmente ottusi”.
Ce n’era poi una che ora, in questo coprifuoco
malvagio, mi suona vicina, anche se farei volentieri un ammenda per poter
tornare ad avere una nuova nostalgia: “a volte crediamo di sentire nostalgia
per un luogo lontano, mentre in realtà la nostra nostalgia è solo per il tempo
che abbiamo trascorso in quel luogo quando eravamo giovani”.
Ed ora che siamo cresciuti e si avvicina, o meglio si
pensa che si avvicini, ma i spero che non lo sia (così vicino), chiudo la schopenaurata
con uno dei suoi aforismi finali: “solo verso la fine della vita si riconosce e
si intende veramente quello che si è, gli obiettivi e i fini che uno si è
posto”.
Ma non si leggeva solo saggi, ma anche romanzoni
storici. Uno dei preferiti allora era Giulio
Leoni che nei suoi “I delitti della luce” cominciò una fortunata serie utilizzando come
investigatore Dante Alighieri. Ed in quella lettura rimase sul bordo della
memoria: “Tu vuoi essere solo perché hai paura di essere abbandonato”.
In effetti, ci furono stagioni in cui fui abbandonato,
ma non per questo cercavo la solitudine, perché lo scrittore di un solo libro
che rimane alla mia memoria, Dai Sijie nel suo “Balzac e la Piccola Sarta cinese”, quando spiega il suo attaccamento per lo scrittore francese, ci dice: “Balzac
mi ha fatto capire che la bellezza di una donna è un tesoro inestimabile”.
Ancora in quel gennaio di quasi quindici anni fa, vi
porto una frase di Luis Sepulveda tratta da “Il potere dei sogni”. Retrospettivamente
è con un brivido che l’ho riletta, pensando al grande cileno morto per covid: “brindiamo
agli uomini ed alle donne che hanno dato tutto ed hanno pensato che non era
ancora abbastanza”.
Finisco con il solito tocco un po’ ameno e leggero. Erano
anni che leggevo tutti gli scritti di Lorenzo Licalzi. Ma sempre e
soltanto mi rimase in testa questa frase presa dal suo “Io no”: “Come
pretendi che ti dia una risposta se l’unico tatuaggio che ho è un punto
interrogativo?”
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