domenica 14 marzo 2021

Italiani non trascurabili - 14 mrzo 2021

Non è che sia una settimana indimenticabile, ma parafrasando il piccolo titolo di testa, abbiamo tre autori che, per diversi motivi, può essere utile leggere. Piccolo per quel tocco di ironia con cui colora la vita, Zerocalcare perché le sue storie toccano sempre qualche neurone, e Vitali per quel tocco di leggerezza che in questi giorni pandemici non possiamo trascurare-

Francesco Piccolo “Momenti trascurabili” Einaudi s.p. (Regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e sig.ra Laura)

[A: 07/05/2020 – I: 17/06/2020 – T: 18/06/2020] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2020]

Il solito gradito regalo per il mio compleanno, anche se questa volta Piccolo non mi ha coinvolto più di tanto. Tra l’altro, vedendo le sue ultime foto su Internet, mi sembra che assomigli sempre di più a Lello Arena. Ormai qui siamo alla terza puntata dei suoi “Momenti”, piccole mini-storie che Piccolo dice di aver accumulato man mano sul suo computer. Ne esce una ogni cinque anni. Prima di felicità, poi di infelicità, ora soltanto di trascurabilità.

Certo, la vena ironica che da sempre sottende ai suoi scritti (per non dimenticare le sue sceneggiature) è anche qui presente. Tuttavia, diluita, rarefatta, con alcuni passaggi non solo poco memorabili, ma di trascurabile entità. O coinvolgimento. Uno su tutti, il lungo raccontino incentrato sulla profezia di una veggente cubana. Ci crede la moglie, meno lui o la figlia. Ma tutti passano un anno aspettando che la vita della signora cambi, che incontri l’uomo del suo futuro. Alla fine, non succede nulla di rilevante, ognuno perso nelle sue elucubrazioni sull’avvenimento. Io invece mi aspettavo un risvolto ironico e familiare più alto. Del tipo che la signora (non so quanti anni abbia, né forse è interessante nell’economia del racconto) rimanesse incinta, e che l’uomo nuovo e meraviglioso fosse un bellissimo figlio maschio.

Come una raccolta di aforismi, pensieri, ed anche, perché no, racconti brevi, eccoci allora a  scorrere alcuni dei momenti della vita dello scrittore. Come ha detto qualcuno meglio di me, trascurabili, forse, ma impossibili da dimenticare. Lasciar scorrere l’acqua sotto la doccia, alla faccia dell’ecologia. Tuo figlio che ti fa vedere i suoi calzini spaiati e ti ricorda che stai invecchiando. Rimanere basiti quando il tassista ti chiede “che strada facciamo?” e tu che hai preso il taxi proprio per essere portato e pensare ad altro.

Uno dei pochi momenti ironici e che mi hanno fatto pensare è la storia dell’amica che voleva mettere su un sito web con l’indicazione dei posti migliori e non frequentati da italiani presenti nelle isole greche. Piccolo capisce ben presto, e noi con lui, che se si riempie il sito di info corrette, e se tutti cominciano a seguire le indicazioni contenute, ben presto, i posti senza italiani spariscono, mordendo la coda dell’iniziativa che sembrava meritoria. Come a mostrare il modo che possono andare male le buone intenzioni. O le buone intenzioni che diventano stravaganti, tipo l’insistenza politicamente corretta sulla mancanza di olio di palma negli alimentari. Quando, se non c’è, perché dire che non c’è?

Con queste brevi puntate del suo computer Piccolo ci ricordo che la vita è fatta di un’infinità di momenti irrilevanti, costellata da poche stelle di momenti realmente significativi. Ma i momenti trascurabili spesso occupano a lungo la nostra mente, ci fanno passare (o perdere) molto tempo.

Mi vengono quindi in mente anche alcuni miei personali e trascurabilissimi momenti. Probabilmente è di un’irrilevanza cosmica scomporre i numeri presenti sulle targhe automobilistiche in numeri primi e potenze relative. Tuttavia, mi consente di non tediarmi quando, per fortuna non spesso, sono costretto ad usare la mia C1 per spostarmi in città. Capisco possiate provare un crampo allo stomaco per questa irrilevanza, ed è lo stesso crampo che accompagna molti dei momenti ironici o per lo più normali di cui ci narra Piccolo.

La sua capacità e facilità di scrittura ci consente una totale empatia con la sua vita descritta in bocconi. Un’empatia fondamentale in questi tempi pandemici, ognuno rinchiuso nel proprio bozzolo, ad aspettare una fine che, se guardiamo in giro per il mondo, non sembra proprio né esserci né esserci vicina. Piccolo ci ricorda così la nostra fragilità, la nostra disperata ricerca di una vita trascorsa al meglio. Sebbene al fine ne riconosca i meriti teorici, la realizzazione di questi momenti è stata meno felice di altre, meno divertente, meno dirompente. Sprazzi sì, ma pochi e solitari. Un pomeriggio da passare in relax, magari guardando il mare all’ombra di un pino. E poco di più.

“Quando dice prendiamo tutti i soldi che abbiamo e andiamo in Polinesia … e se poi moriamo? – io mi chiedo sempre: ma se poi moriamo, chi se ne importa di essere andati in Polinesia?” (4)

“Ho capito che nella vita è così: appena pensi di essere stato furbo, quello è il momento in cui non sei stato per niente furbo. E la verità è l’unica salvezza.” (77)

“Quando capisci al primo colpo se la porta bisogna spingerla o tirarla. Ma non lo capisci quasi mai.” (85)

“Basta un solo giorno per vivere a lungo. Basta farci attenzione, capirlo, un giorno, da quando si aprono gli occhi fino a quando si richiudono la sera.” (127)

Zerocalcare “A Babbo morto” Bao publishing s.p. (Regalo di Benedetta)       

[A: 25/12/2020 – I: 30/12/2020 – T: 31/12/2020] - && + 

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 80; anno 2020]

Continuo a seguire Michele Rech in molte sue presenze, visive, scritte, disegnate. Personalmente trovo infatti Zerocalcare un esempio (abbastanza) coerente di espressività e di sintesi. Inoltre, e mi scuso del pippone iniziale, sono sempre contento di ricevere in regalo un libro. Uno purchessia. Anche se poi non mi piace il contenuto, è comunque una sfida: sfida di regalo, sfida di cervello, sfida di voglia di non fare finta.

Data la mia profonda sincerità, quindi, concludo l’intro dicendo che sono stato contento di questo regalo, sono sempre contento di leggere un libro a fumetti, ed in particolare quelli di Zerocalcare, e tuttavia posso affermare onestamente che questo libro non mi è piaciuto.

In primo luogo, è una storia spezzettata, dove non c’è la “graphic” continuativa dei soliti narrati di Zerocalcare, ma ci sono tavole in bianco e nero, con una loro intensità e drammaticità, intervallate da molte mono tavole con disegno a colori e lunga spiega, corredata, a volte, da un piccolo gioco di parole, o umorismo di fondo pagina. Il tutto spezzando i ritmi narrativi, e mostrando come l’idea di arrivare ad un concetto, ad una presa di posizione sia maggiore e preponderante sulla fluidità narrativa.

In secondo luogo, i tempi dell’azione. Ogni pagina a colori ha in testa una data (spesso anche andando su e giù nel tempo), ma tutte comprese tra il “marzo 19xx” e “giugno 20xx”. Ci sono tentativi per allargare la forbice (infondo xx può essere qualsiasi data, possono passare anni). Ma sembra quasi una storia pensata per svolgersi a cavallo del passaggio di secolo, e solo ora rielaborata, visto il successo che hanno le storie di Zerocalcare.

Come dicevo poi prima, è una graphic novel a tema, che l’autore vuole far passare alcuni messaggi politici, anche condivisibili, ma che non si collegano né all’immaginario globale del testo, né hanno una loro forza propulsiva autonoma.

L’idea di base è parlare della grande industria del Natale, attraverso le vicende dell’azienda di Babbo Natale (la Klauss), in crisi dopo la morte del fondatore, e poi assorbita da una ditta di logistica (Amazon?), che serve più che altro a portare a destinazione i regali fabbricati da altri.

Questa delocalizzazione porta ad una crisi dei folletti, che vengono licenziati a spron battuto, che si organizzano in scioperi “selvaggi” repressi dalle renne che gestiscono l’ordine pubblico. Per poi finire con le Befane extra comunitarie che rimpiazzano le vecchine anche loro in odore di rivendicazioni sindacali.

È una grande allegorie, con alcuni momenti espliciti di critica politica (“tutte le renne coinvolte nella gestione dell’ordine pubblico di quelle giornate sono state promosse”). Ed anche di critica sociale, laddove si narra delle difficoltà della Klauss di adattarsi alle esigenze dei bambini, passati dall’adorare il cavalluccio a dondolo (che ha richiesto mesi di lavorazione e diversi incidenti sul lavoro) al volere il Nintendo (anche qui, forse un po’ di tempo passato, visto che ora si parlerebbe più di PS4 o altre diavolerie più informatiche).

Certo, se voleva essere una storia grottesca, per come viene montata, dobbiamo purtroppo riconoscere che la realtà è andata molto avanti e con più cattiveria. Risultando alla fine un prodotto monco. Ci sono dettagli che sarebbe stato bene approfondire, laddove portano con sé critiche, seppur giuste, allo stato attuale delle cose. Magari i più politicizzati le seguono meglio. Ci si domanda allora se sia una voluta scelta di campo, in un momento che troppa pubblicità ha portato il nostro autore sulla scena.

Alla fine, il lavoro è sempre gradevole, anche se, rispetto a quanto ci ha abituato Zerocalcare è come una minestra con poco sale, un po’ sciapa. I suoi sostenitori acritici imputano il tutto alla velocità con cui vengono pubblicate le sue opere (due libri in un mese è uno sforzo improbo per chi sa l’impegno che richiede lo sviluppo grafico delle storie). Io continuo a ritenere che si tratti di un riciclaggio ben fatto, ma sempre qualcosa che già stava in qualche cassetto.

Per finire, due parole sul titolo. La locuzione “A babbo morto” indica dei crediti che verranno riscossi nel futuro (come le cambiali che accetta Totò in “Totò, Peppino e ... la dolce vita”, sia a babbo morto, che a zio morto, ed a chiunque abbia soldi in famiglia). Qui, il babbo è maiuscolo (si parla di Natale), e muore nella prima tavola. Poi abbiamo 79 pagine in cui dobbiamo stare attenti a quanti debiti ci ha lasciato.

Seppur gradisca sempre le sue tavole, questa volta non mi ha convinto.

Andrea Vitali “Gli ultimi passi del Sindacone” Garzanti euro 12

[A: 19/11/2019 – I: 25/01/2021 – T: 26/01/2021] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 239; anno: 2019]

Eccoci ad un nuovo bozzetto della vita paesana in quel di Bellano, dipinto e scritto dal nostro ben noto scrittore dottore Andrea Vitali.

Da un lato è sempre gradevole la lettura dei bozzetti paesani della gente che gravita intorno al Lago di Como. Come al solito, se Vitali scrive degli anni Trenta con le sue macchiette fasciste è più simpatico ed ironicamente coinvolgente. Man mano che si allontana da quel periodo, le sue storie perdono di fascino. Ora, questa storia si consuma il 24 dicembre 1949, quindi risente ancora degli influssi positivi. Pur tuttavia, ha cadute ed incomprensibili uscite.

La storia gira intorno alla giunta comunale di Bellano ed ai suoi componenti. In primis, il pingue sindaco Attilio Fumagalli, detto il Sindacone per la sua mole (tipo basso e grassoccio); poi c’è Amelio che avrà una parte significativa ma che avrà un decorso inconsueto; c’è l’assessore Ersilio un po’ su di anni, che se la spassa con la fantesca Sirica e cerca una improbabile moglie in Acanta figlia di Fialrete e Carlomaria; c’è l’oppositore di sempre, Enea, che non ha molta voce in capitolo; c’è l’unica donna della giunta, la maestra Pericleta che si occupa di Cultura e dei poveri; infine, c’è il vicesindaco Veniero, che prenderà la guida dei problemi che sorgeranno, risolvendoli, anche per tornare presto dalla sua giovane moglie Laura con cui… (non mi fate dire).

Di lato, fanno da comprimarie Perlina e Luisetta, le due gemelle dai destini simili eppur diverse. L’una, Perlina, coinvolta in vicende filo-repubblicane, rimane in paese. L’altra, Luisetta, filo-partigiana si ritrova in Liguria, ma l’evoluzione della storia la porta allo stesso mestiere della gemella. E di certo non vi devo dire quale.

Attilio, afflitto da una moglie diventata sorda accidentalmente, e per questo rinchiusa in un suo mondo, tanto da non concedere al marito nessuna gioia muliebre, dopo tanto girare e pensare, dietro consiglio di Veniero, trova la pace dei sensi con Perlina.

Al fine di essere libero di tale frequentazione, indice riunioni di giunta, veloci, ma che gli consentono di proseguirle presso il suo “buon rifugio”. Per questo convoca una riunione proprio la Vigilia di Natale del ’49. Ma libagioni e sbevazzamenti lo appesantiscono un po’. Tanto che, dopo i sollazzi perlineschi, un infarto lo porta nel mondo dei più.

Da qui parte l’odissea di Veniero, l’unico a sapere dove cercare lo scomparso sindaco. Si dovrà cercare di salvare l’onore di Attilio, prelevarlo, portarlo in Comune, ed insomma inventare storie plausibili. Anche per salvare l’onore (se ancora resiste) di Perlina. In questo si inserisce Pericleta che nel frattempo aveva riportato Luisetta dalla fuga ligure (che tanto scorno le aveva portato) al paese. E stava con il Sindacone cercando anche le vie di una riconciliazione.

Tutto ruota intorno ai piccoli avvenimenti che continuano a mettere ostacoli sulla via della felice risoluzione dei problemi. Non ve ne parlo, che sono le tipiche vicende di Vitali, tra il non detto che porta problemi, e piccoli intoppi che sembrano montagne a chi li affronta.

Alla fine, Vitali annoda (quasi tutti) i fili, ma a me rimangono due domande: perché Amelio rimane “fuori di testa” dopo aver portato su e giù per il paese il corpo di Attilio? Perché non si viene mai a sapere cosa Attilio doveva dire a Natale alla povera Perlina? Come nei gialli mal fatti, non si devono lasciare domande in sospeso.

Un ultimo accenno, di cui avevo già parlato, è l’inventiva onomastica di Vitali. Spesso portata all’eccesso. In questo romanzo abbiamo alcuni nomi che si spiegano da soli come Meritoria, Eccelsa, Alluminio o Fiorio. Abbiamo alcune inversioni di genere, come Verbeno (al femminile è il nome italiano della scrittrice Ben Pastor), Gelinda (“scudo della vittoria), Pericleta (da Pericle), fino ad Ersilio (dove al femminile deriva dall’unica donna sposata rapita dai Sabini e poi diventata moglie di Romolo). Per non dire di Filarete, che si usa solo al maschile. O Everarda, variante femminile di Everardo, nome di origine germanica che significa "forte come un cinghiale". Certo di buon senso battezzare il vicesindaco risolutore dei problemi come Veniero, che viene dal germanico e significa “il Conquistatore”. Mentre la rugosa figlia di Filarete, giustamente di chiama Acanta, nome di una ninfa per cui Apollo perse la testa, ma Acanta respinse il dio, graffiandogli il viso, e lui la trasformò nello spinoso fiore dell'acanto. Infine, due altri nomi improbabili che mi hanno impegnato in una curiosa ricerca sul web, dove alla fine ho trovato che in Italia ci sono attualmente due persone che fanno di nome Sirica ed una persona (unica in tutto il mondo) che, nata dopo il 1999, porta il nome di “Devidio”.

Forse questo dell’onomastica, è l’unico divertimento che porta qualche punto al romanzo che sarebbe scivolato altrimenti un po’ più in giù.

Andrea Vitali “Certe fortune” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro con TEA2)

[A: 26/08/2020 – I: 31/01/2021 – T: 03/02/2021] && e ¾  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 420; anno: 2019]

Eccoci ancora, e dopo non molto, ad una nuova avventura della comunità di Bellano. Come ho spesso sottolineato, Vitali migliora quando si occupa di vicende che riesce ad ambientare nel Ventennio. In questo caso, per l’appunto, siamo tornati al 1928, anzi al 5 luglio di quell’anno, e la storia, pur se non più ai livelli delle prime uscite, riesce meglio, si incammina meglio su binari di leggibilità e gradevolezza.

Vitali utilizza sempre una recitazione corale, anche se qui, come recita il sottotitolo, torniamo ai “casi del maresciallo Maccadò”, eroe eponimo di diversi libri del nostro dottore. Non a caso, poco tempo fa, lessi e tramai la storia del cane che non abbaiò, e che si svolgeva intorno al 1937. Qui, siamo dieci anni prima, più o meno, e troviamo gli esordi di almeno cinque personaggi, che ricorrono in queste storie.

C’è l’appuntato Misfatti con annessa signora, il primo non ancora diventato il braccio pensante del maresciallo, la seconda sempre pronta a far fare attività casalinghe al marito. C’è Fiorentino Crispini, ex maestro elementare di Bellano, ed aspirante scrittore. In questa storia è pubblicista e scrittore di racconti moraleggianti per il quotidiano di Como. Nell’altra posteriore vicenda sarà ormai pensionato, ma sempre pronto a cercare spunti, e soprattutto a scrivere emerite castronerie, che danno modo a Vitali di far nascere equivoci e situazioni che porta a spasso per tutto il romanzo.

Ma, ed ancora più importanti, ci sono Ernesto Maccadò e sua moglie Maristella. Maccadò è da poco arrivato a Bellano, ed ora si sta ambientando, in questo aiutato dalla solerte moglie, pronta a far amicizia ed a parlare, anche se poco, con i bellanesi. Tutto il romanzo, in una sua consistente parte, ruota intorno al malessere della signora, che si scoprirà non essere altro che l’inizio della prima gravidanza. Non a caso prima, che nell’altro romanzo i coniugi Maccadò saranno allietati da ben quattro pargoli, con in arrivo un probabile quinto.

Il filo conduttore della storia è l’arrivo a Bellano di Benito, un toro da monta utile a far riprodurre le vacche della zona. Anche ben dotato, così che le sorelle Pecorelli, zitelle trentenni, nel tentativo di vederne le doti, riescono a farlo scappare. Con finta, o reale, paura degli abitanti della zona, con scorno dei gestori della monta, con un tentativo di Crispini di montarne un caso, e con il successo nel suo abbattimento da parte della Milizia Volontaria Fascista. Peccato che il toro non fosse pericoloso per gli uomini, così che Vitali ha un facile agio di mettere i fascisti alla berlina, e di chiudere i tanti cerchi che nel corso delle pagine ha aperto.

Ma come dicevo, è un romanzo corale, e più che la storia, sono i personaggi, che Vitali tratteggia anche con poche righe di testo, a tenere banco.

Ovvio, che in testa ci sia Benito, oggetto di desiderio e di conoscenza. Un bel toro, ma, sfortunatamente, senza corna. Quindi impossibilitato di incornare chicchessia, come suggeriscono le cronache del Crispini. E che infine sarà abbattuto, ma l’abbattitore dovrà risarcire il padrone dell’indebita uccisione.

Ci sono poi i coniugi Piattola, Mario e Marinata, ideatori del business della monta dei tori a domicilio. Poiché infatti era oneroso portare le mucche nella zona del toro, aiutati dal mediatore Morcamazza, portano il toro dalle vacche, facendo risparmiare molto agli allevatori della zona. E dando modo a Marinata di sfruttare le sue buone doti da organizzatrice, facendo crescere il buon nome femminile della zona. Anche se…

Tra le montagne vive invece Primo Smorto, gran conoscitore di boschi e di miracolose pozioni capaci di guarire molti mali, umani e animali. Ovvio che non bisogna mai superiore le dosi consigliate da Primo, come inavvertitamente e con conseguente potenzialmente serie, fa il Morcamazza, per la sua artrite gottosa.

Una delle figure meglio riuscite è poi Bortolo Piazzacampo, detto il Tartina, ambiguo e mediocre, sia come uomo che come marito (ed abbiamo un’altra bella e vincente figura femminile nella moglie Limetta), si dà importanza solo perché fondatore della sezione di Bellano del Partito Fascista. Ma la vicenda di Benito lo farà scivolare su una gigantesca buccia di banana.

Infine, c’è l’ospedale ed il suo personale, dove spiccano da un lato il professore Giulio Cesare Bombazza, alla ricerca, in ogni ricoverato della possibilità di effettuare una craniotomia. Dall’altro c’è suor Angelica, dalla voce un po’ maschile, che oltre a dover mitigare gli eccessi del dottore, e curare, realmente, il corpo e lo spirito dei malati, è una profonda conoscitrice delle armi, tanto che risolvere il caso propostole dal maresciallo dirimendo tra i colpi di un Carcano modello 91 calibro 6,5 da quelle di un Vetterli-Vitali modello 1870 calibro 10,35. Entrambi i fucili furono in dotazione del Regio Esercito Italiano, il secondo dal 1870 al 1893, il primo che lo sostituì sino alla Seconda Guerra Mondiale.

Come spesso nelle ultime uscite di Vitali, c’è un’ampia onomastica finale, così che possiamo ripercorrere i nomi e le vicende di tutte le persone che ci sono sfilate davanti in tutte queste pagine. C’è anche un aggancio ad un altro libro, dove è presente Maccadò, però non essendo ancora entrato nella mia biblioteca, non ne accenno nemmeno.

Quindi, dopo i soliti giri di valzer alla Schnitzler, e dopo ben quattro giornate densa si molti colpi di scena, si conclude anche questo ballo di Vitali. Sempre gradevole, anche se forse meglio leggerne d’estate, in riva a qualche acqua che vi culla.

Seconda domenica del mese, quindi dedichiamoci un bell’allegato all’insegna della vanità.

Certo non c’è molto da rallegrarsi, oggi che accendo la prima candelina del mio coprifuoco personale, con il quasi totale trasferimento, con i momenti intensi passati in questi 365 giorni, e con la speranza di vedere una luce in fondo al tunnel. Sperando che non sia una macchina in contromano.

Per consolarci, penso che a volte trovo citazioni che colpiscono la mente in libri assolutamente inaspettati. Come nell’ennesimo libro giallo dedicato all’alfabeto del crimine della purtroppo scomparsa Sue Grafton, che nel diciassettesimo volume “Q come Quore” ci sottolineava: “Essere vecchi non significa essere maturi”.

Mi sa che sarà assai difficile per me diventarlo.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2021

Un allegato che spero sia un augurio per tutti, nella frase finale di Scarlett.

VANITÀ

Margaret Mitchell    “Via col vento”

Oscar Wilde             “Il ritratto di Dorian Gray”

Il problema della vanità è che rende egoisti e stupidi. Rossella O’Hara, la Southern belle protagonista di Via col vento è tanto consapevole della propria bellezza dagli occhi verdi da non pensare ad altro che ai bei vestiti e a conquistare non solo l’uomo che vuole sposare, Ashley Wilkes, ma tutti i giovani a portata di mano (con grande disappunto delle altre ragazze). Quando sente che Ashley si è fidanzato con sua cugina Melania - che non è proprio mente di speciale - lei non riesce a crederci. Ossessionata come dalla bellezza esteriore non valuta affatto le altre qualità di Melania - né vede la necessità di coltivarle per conto proprio, e così resta un’adolescente viziata e petulante, che continua a usare il proprio aspetto per ottenere do che vuole. Inoltre, ignara com’è tanto del valore della gentilezza quanto del razzismo profondamente radicato intorno a lei (caratteristica che purtroppo condivide con 1 autrice, e in effetti la rappresentazione edulcorata della schiavitù è una cosa sulla quale il lettore (Non prendiamoci in giro. La lettrice) deve fare un bel respiro e soprassedere, se vuole godersi questo romanzo, per il resto splendido), passa sopra a tutti, compreso il marito Brett, prima che la verità finalmente trionfi. La sua amica, l’impeccabile Melania, ha saputo guadagnarsi, in retrospettiva, la sua ammirazione, il rispetto e l’amore per le stesse ragioni con cui, a suo tempo, aveva conquistato Ashley. E il bell’aspetto non c’entra nulla.

Alla fine, la vanità rende anche brutti. Quando lo splendido Dorian Gray comincia a rendersi conto che tutti lo amano per le sue fattezze, si preoccupa tanto di perderle che vende l’anima in cambio dell’eterna giovinezza (v. Vendere l’anima), ottenendo che sia il bel ritratto dipinto da Sir Basil Hallward a invecchiare al posto suo. Sotto la tutela di Lord Henry Wooton si dedica allora a una vita di sfrenato edonismo, e quando una giovane attrice a cui ha spezzato il cuore si suicida, sul ritratto compare un ghigno malvagio. Il volto, infatti, non segna solo il passare del tempo, ma anche i cambiamenti del carattere del suo proprietario - e quando il disprezzo di Dorian per gli altri lascia nuove vittime sulla propria scia, il ritratto si fa ancora più orrendo.

La verità, ineludibile, è che la vera bellezza è dentro di noi. Trattate gli altri come vorreste essere trattati, e continuerete a fiorire anche a novant’anni.

Bugiardino

Oscar Wilde lo lessi al liceo, ma, se fossi più serio, dovrei rileggerne. Del pippone sulla Guerra Civile dico poco che almeno il film lo avete visto. Quindi godetevi la lettura.

Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12

[tramato il 25 febbraio 2018]

[tit. or.: Gone with the Wind; ling. or.: inglese; pagine: 1104; anno 1936]

Devo dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine. Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e discretamente coinvolgente.

Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film abbiano raggiunto i loro scopi.

Ma qui si parla di scrittura, ed al libro torniamo.

Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’ dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si, proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita che, forse, ha ancora strascichi, passati che siano 150 anni. Il libro in realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche, proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione.

Una parte storica che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli. Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anche ben poche) erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta.

Era una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano. Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori.

Insomma, c’è molto di più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano).

Secondo risvolto del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti glia altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella trappola delle giacche blu.

Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due. Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per maturare.

Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se mai lo si capirà).

Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17 più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato, amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di Rhett). Insomma, un libro che è un vero microcosmo di quasi tutto. Un libro che fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta) l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare che aspettare risposte a richieste non fatte.

Un libro che mi è piaciuto, che tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara. Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la prima scelta, che era Erroll Flynn).

Quindi, anche se avete visto il film, leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o, come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is another day”).

Conclusioni

Cero, ci sarebbe stato bene anche sia “La fiera della vanità” di William Makepeace Thackeray che “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe. Comunque, questa scelta può andare, ed anch’io seguirei Rhett nelle sue esternazioni. 

 

 

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