domenica 28 marzo 2021

Raccontini in giallo 2 - 28 marzo 2021

Eccoci ad una nuova tornata dei raccontini in omaggio con Repubblica, sulle cui scelte editoriali non torno, avendone già ampiamente disquisito. Vengo quindi direttamente nel merito, dove abbiamo due buoni racconti, uno del sempre migliore Savatteri con il suo Lamanna, e l’altro con Simi, di una fattura onesta. Mi aspettavo di più dalle avventure di Carlo Monterossi descritte da Robecchi. In fondo, anche se poteva essere meglio, due scritture che sono molto lontane dal giallo del titolo o dal prendere per qualche motivazione. Una, e dispiace, dell’altrove interessante Fois, l’altra di una coppia di autori (Fantini & Pariani) di cui nulla conosco e penso che nulla conoscerò in futuro.

Alessandro Robecchi “Il tavolo” Repubblica “Italia in giallo” 10 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 15/11/2020 – I: 24/11/2020 – T: 24/11/2020] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Tratto da “Vacanze in giallo” di Sellerio del 2014, tradisce entrambi i presupposti: sia vacanze sia giallo. Anche se la scrittura è la classica del primo Robecchi. Non a caso è un racconto di sei anni fa. Quindi, largo al personaggio principale ed iniziale del nostro, il buon Carlo Monterossi, autore televisivo di programmi trash che mentalmente rifiuta ma che gli danno da vivere.

La scrittura datata (per quanto conosciamo ora del “mondo Monterossi”) ci lascia soltanto la presenza dell’amico Oscar, quello che sa un po’ di tutto, conosce un po’ tutti, quindi (alla Tarantino) risolve i problemi, e quella di Katia, la manager di Carlo, al tempo ancora ossequioso di chi le consente un tenore di vita adeguato alle sue aspettative.

Dicevo che non rispetta gli assunti della raccolta in cui fu inserito, che di vacanze se ne parla soltanto. Certo siamo in una Milano agostana, per cui molta gente è via, tanto che si trova anche parcheggio. Ma le vacanze finiscono lì, che certo Carlo pensava di andarci, se non avesse ricevuto la notizia bomba: il suo farlocco promotore finanziario era appena fuggito con i suoi (di Carlo) 350.000 euro. Quindi si tratta di capire dove, come, ed in base a quali oscure manovre, si possa ritrovare il fuggiasco e soprattutto il malloppo.

In diagonale (cioè non ancora con tutti i piedi e le scarpe) vediamo entrare nell’agone il buon sovraintendente Ghezzi, sempre alle prese con la macchietta dei primi tempi: travestimenti assurdi con velocità “alla Fregoli”. Darà anche una mano finale alla riuscita del piano di Oscar, ma non è ancora il personaggio pensoso ed irrisolto degli ultimi tempi. C’entra, ma non ha un ruolo di primo piano.

Dicevo anche, quindi, che mancava il giallo. Perché sappiamo chi ha rubato i soldi, e sappiamo che (grazie ai buoni uffici di Oscar) il furfantello è ludopatico (tanto che molti casinò l’hanno bandito dalle loro sale) e vuole giocarsi il tutto in una mano di poker. Quindi, ci si domanda, dove potrà mai essere il giallo? La serata verrà organizzata, e si troverà il modo di fregare il promotore truffaldino.

Tutta la suspense (se così si può dire) si concentra quindi su alcuni aspetti di contorno: riuscirà Carlo a convincere Katia a sedersi al tavolo da gioco? Riuscirà Oscar ad organizzare l’incontro in un terreno possibile, in cui poter inventare qualche stratagemma risolutivo? Sarà una partita di poker leale o sarà truccata? Visto che il ladro, oltre che ludopatico sembra essere anche un piccolo baro, mi aspetto che ci sia la partita, che Katia, convinta a giocare, aiutata come secondo dal buon Oscar, scopra come il tizio bari, e da lì ci sia una “discesa agli inferi” con relativo recupero del malloppo.

Tutto si complica che la sala pensata da Oscar non è disponibile, devono andare in trasferta, ed allora capisco che il mio piano (che quello descritto era il mio piano e non quello di Robecchi) era destinato a fallire in partenza.

Tuttavia, le risorse di Oscar sono notevoli, e, una volta i pokeristi al tavolo verde, trova una soluzione al problema che porta tutto dove deve andare. Soluzione che non vi anticipo, ma che porta a quello che tutti sappiamo dovesse essere la conclusione naturale del racconto.

Che poi si intitoli “Il tavolo”, quando il nodo centrale è sì un tavolo ma di un ben preciso colore, tanto che io lo avrei chiamato “Il tavolo verde”.

Ma io non sono un editor, sono solo (e con mia gioia) un lettore che accumula pagine su pagine. E che ha letto tutto il pubblicato romanzesco di Robecchi. Quindi posso fare collegamenti e paragoni. Con il risultato che trovo sicuramente più gradevole la tipologia dei personaggi dei primi romanzi di Carlo Monterossi e compagnia. Ma trovo anche che questi non sono adatti al racconto. Mentre le loro tipologie tarde ed attuali potrebbero anche sopravvivere bene nel numero di pagine limitate di tali espressioni letterarie.

Devo anche sottolineare che ci sono pochi giochi metaletterari e di rimando, poche o nulle citazioni musicali. Insomma, un racconto di fattura industriale e non artigianale. Con un gradimento di simpatia verso l’autore e poco altro.

Gaetano Savatteri “La città perfetta” Repubblica “Italia in giallo” 12 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 15/11/2020 – I: 29/11/2020 – T: 29/11/2020] &&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2018]

Savatteri con il suo scrittore detective improvvisato nonché filosofo a tempo perso, si sta imponendo nelle mie memorie di personaggi che ha un senso seguire nella loro evoluzione attraverso i libri. Ho letto già qualcosa, specialmente racconti, ed un romanzo lungo (e vedo la serie in tv, che non è affatto male). In tutti mi sono sempre trovato empatico con il mondo che ne viene descritto. Non a caso ricordo che nell’unico romanzo lungo c’era una citazione di Triscina che mi ha fatto fare un salto indietro davvero con commozione.

Anche qui, l’ambiente è forse la cosa migliore. Che tutto si svolge a Gibellina, sia vecchia che nuova. E soprattutto nella valle (terremotata) del Belìce. Inciso: ebbene sì, questa è la pronuncia corretta, derivante dal fiume che gli arabi chiamavano “U-Bilìk”. E da sempre, i locali mettono l’accento sulla “i”. Fu colpa della RAI, nel ’68, ai tempi del terremoto, che mandando incolti giornalisti sul posto, questi cominciarono a pronunciare il nome all’italiana, con l’accento sulla “e”. Potenza dei media, ora quasi nessuno chiama i posti con il nome corretto.

Questa disquisizione, e tutte le parole che Savatteri spende per la città, per gli artisti, per le sculture ed i quadri, per il terremoto, per il “cretto” di Burri, portano in alto il gradimento del breve e veloce scritto. Che altrimenti avrebbe invece poco seguito e poca considerazione.

Perché se d’Italia ce n’è, di giallo, di suspense, non si vede nulla, neanche cercandolo tra le pieghe non dette delle righe. Il motore della storia è la visita ai luoghi che fanno i nostri tre protagonisti principali delle storie sicule di Savatteri: lo scrittore Saverio Lamanna, la sua forse fidanzata ma di certo architetto Suleima, e l’amico nonché alter-ego ruspante Peppe Piccionello. Visita propiziata da una presentazione libresca cui deve partecipare Saverio. E che Suleima sfrutta per parlare della ricostruzione di Gibellina, dell’architettura all’avanguardia di alcuni luoghi siciliani (tipo lo ZEN di Palermo), che vengono poi degradati dal cattivo uso strutturale che ne viene fatto.

Anche al convegno si parla, com’è ovvio, di Gibellina. Suscitando l’ira di locali che vedono anche lì parole su parole, ma nulla di concreto. Il “giallo” tra molte virgolette, è la scoperta poco dopo della scomparsa dal museo cittadino di uno dei pezzi pregiati: un arazzo di Boetti. Non entro nella descrizione né delle opere di Alighiero e Boetti (così si firmava l’autore), né nella bellissima presentazione del “Cretto” di Burri che ci fa Suleima. Altri esperti d’arte migliori di me ne possono e ne devono parlare.

Qui torniamo al filo del discorso: furto, indagini di Saverio, qualche evento collaterale, ma questa parte, che serve a giustificare la “giallosità” del racconto, è inessenziale. Mentre è più coinvolgente tuta la discussione sulla ricostruzione, sullo spostamento della città nel nuovo sito, sulla tristezza delle vie vuote di vita della nuova Gibellina, sulle possibilità, purtroppo non sfruttate, dei regali artistici presenti. I Burri, i Boetti ma anche Fausto Pirandello, De Pisis, Rosai, Guttuso, Carla Accardi, Mario Schifano. Un patrimonio di arte contemporanea di assoluto valore. Ma il Museo è spesso chiuso, tanto che anche nella mia ultima visita non sono riuscito a visitarlo.

Sono completamente solidale con le posizioni che Savatteri mette in bocca ai suoi protagonisti, specialmente Suleima, sull’occasione mancata che tutto ciò ha portato con sé. Si dovrebbero organizzare, e con frequenza, visite ed altre iniziative, che il posto, le opere, le idee sono bellissime. Peccato.

Ma qui si parla di libri, e se “la città perfetta” è un buono spunto di discussione sociale, il testo rimane a livelli poco coinvolgenti in tutta la parte non artistica. Comunque, andate a Gibellina, andate e visitate il Belìce, e tutta la Sicilia. È sempre meravigliosa.

Marcello Fois “Ti ho fatto male” Repubblica “Italia in giallo” 13 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/11/2020 – I: 05/12/2020 – T: 05/12/2020] & e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2016]

Erano quattro anni che non leggevo romanzi di Fois, e un paio che dribblavo i suoi racconti. Devo dire che, come ho scritto nelle ultime recensioni sui racconti, non riesco a seguire bene l’evoluzione di Fois. I romanzi sardi, le storie tra lo storico ed il reale, mi avevano discretamente coinvolto la testa. Ora c’è invece poco. E qui quel poco scende ancora di mezzo gradino.

C’è un po’ di atmosfera. C’è un po’ di suspense per cercare di dipanare la nebbia che Fois solleva intorno agli avvenimenti. Ma non c’è una vera presa sul lettore, non mi sono mai sentito coinvolto dalla trama. Si vede, si svolge il film delle azioni, si capisce dalle prime pagine che sotto c’è qualche strano rivolgimento. Comprensione accentuata dall’uso attento dei tempi verbali. Ma se li si coniuga attentamente, poco rimane.

Alla fine, veniamo a conoscenza, rimettendo a posto i pezzi del puzzle, della storia del commissario Cosimo Spano. Sposato da anni, senza figli, un rapporto con la moglie che si sta deteriorando a poco a poco. Tanto che, un po’ per noia, un po’ per gigioneria (è sempre bello sentirsi piacenti e desiderati) comincia una storia senza particolare futuro con una collega ispettrice.

Sappiamo che Spano sul lavoro ha delle egregie capacità deduttive, tanto che aveva risolto, brillantemente, l’intricata vicenda di un certo Alter, che, in maniera rocambolesca, aveva ucciso delle persone, ingarbugliandone le vicende, tanto da sembrare lui vittima piuttosto che carnefice.

Sappiamo poi che la moglie viene trovata barbaramente uccisa, e che lui ne rimane particolarmente sconvolto. Tanto che si allontana dalla questura, prende un tempo, anche lungo, per riattaccare i suoi cocci personali. Ed in questa “vacanza mentale”, ne seguiamo voli e ricordi.

Questi intarsi sono, nelle descrizioni, nelle pitture mentali, nel modo che ha Fois di proporceli, forse la parte migliore. Il viaggio in treno, con gli alberi (betulle) che corrono ai lati dei vagoni, e che nella mente e nel ricordo si trasformano nelle nervature gotiche di una cattedrale. Il senso di vergogna di assistere alla lite tra i genitori, la rabbia interna che però non viene mai fuori. Ed i silenzi stessi della cattedrale, dove Cosimo si siede nelle ultime file, dove mulinano i suoi pensieri, dai quali si ricompone il quadro che ho invece cercato di descrivere in maniera lineare.

Tuttavia, tutti i personaggi non riescono mai a prendere un loro corpo pieno, una loro dimensione. Seppur innegabile che Fois dietro le parole mette pensieri e modi di scrittura che sono necessariamente di buon livello, ripeto che il testo non prende, non si innalza, non ci porta nelle volute mentali dei personaggi. Di Cosimo, della moglie, del questore, dell’ispettrice amante, insomma di tutte le non molte persone che riempiono le poche pagine. Peccato.

Nella lettura, mi ha solo rimandato ad un film in bianco e nero che vide allora sui dieci-undici anni, quando, malato per una qualche influenza, rimasi a casa a vedere le trasmissioni sperimentali per l’avvio di Rai 2 (mi sa che sono un po’ anziano, eh). Un film che, come tutti i giovanetti, mi aveva coinvolto perché era un giallo ben fatto. Poi mi aveva deluso e devo dire spaventato per il finale cui arrivava. Dico rimandato, ma solo nel ricordo, che qui paura e thrilling tendono decisamente allo zero.

Giampaolo Simi “Il comandante Oberdan” Repubblica “Italia in giallo” 14 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 21/11/2020 – I: 07/12/2020 – T: 07/12/2020] &&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2019]

Un altro racconto dalla scuderia Sellerio, proveniente dalla raccolta “Cinquanta in blu” uscita nel 2019. Intanto, di Simi ho letto qualcosa un paio di anni fa, e non ne sono rimasto particolarmente attratto. Buona scrittura, ma abbastanza debole sul fronte del giallo.

Qui, la storia si ripete. Buona l’idea, lo sviluppo, insomma tutta la scrittura. Ma di giallo nemmeno una traccia, un’ombra. Dice la quarta: “un’indagine di Dario Corbo”. Ovvio che Dario c’è, ma dell’indagine poche tracce.

Di certo Simi non poteva cominciare in modo a me più congeniale il suo racconto, visto che dedica un sentito, doveroso omaggio a MVM (Manuel Vazquez Montalban) ed al grande Pepe Carvalho. Un autore che ho sempre amato, un investigatore che mi ha sempre lasciato soddisfatto in tutte le opere. Anche se confesso il vezzo di accendere il camino con i libri mi ha sempre un po’ spiazzato.

Tra l’altro, il secondo omaggio a MVM nel corso del racconto, mi ha fatto sentire anche più vicino. Qui Corbo ritrova una copia di un mitico Sellerio “Assassinio al Comitato Centrale” autografato da MVM. Io ricordo ancora quando, durante un antico festiva della Letteratura a Massenzio, portai con me “Yo maté Kennedy”, e MVM lo firmò con un sorriso sulle labbra, da non dimenticare.

Nel racconto, la memoria di MVM, si collega ad altre memorie, in particolare a quella dell’amico di Dario, il comandante Oberdan del titolo. Amico di infanzie e di liceo, sodale di passeggiate notturne, ma anche di un viaggio a Barcellona, molto simile a quello che facemmo io ed Andrea. Amicizie che poi si stemperano nel tempo, ma di cui rimane sempre traccia nella memoria. Così, quando Dario ricerca Oberdan per restituirgli il libro autografato, si innescano una serie di avventure e di situazioni che poi costituiscono l’ossatura del testo.

Dario, infatti, è diventato responsabile di una Fondazione, ha soldi da investire, ed un capo, Nora, con cui forse ha del tenero (reciproco?). Oberdan ha poi fatto il suo corso di studi, maturato al Nautico, poi imbarcatosi in navi pubbliche poi private, diventando realmente “un comandante”.

L’atmosfera si immerge nella realtà (odierna, italica), che abbiamo elezioni con candidati improbabili, ma velatamente pentastellati. Ed abbiamo migranti lasciati in mezzo al mare da governi compiacentemente ostili. Oberdan, da duro e puro, e soprattutto, da uomo di mare, non può assistere impotente alla morte in mare di migranti, qualunque essi siano. E tenta un gesto forte, un sequestro, per spingere il governo a prendersi le responsabilità del caso.

Si scambiano messaggio, Dario e Oberdan, e Dario convergerà sulla nave sequestrata. Di certo la fine è già immaginabile, e non si comprende se, nei tumulti delle azioni veloci (che non sono nelle corde di scrittura di Simi e risultano assai confuse) ognuno agirà in modo corretto e coerente. Noi, osservatori esterni, sappiamo di sì. Non si sa mai, quando si è interni all’azione se la prospettiva sia la stessa.

Come si intuisce, una trama decentemente solida ed italica. Amicizie, qualche amore, gioventù e maturità, elezioni e immigrazione. Ma decisamente lontana dal giallo che più non si può. Avrebbe infatti meritato anche di più, ma qualche pecca del responsabile della collana ci porta a qualche linea negativa.

Nicola Fantini & Laura Pariani “Il rasoio di Asimov” Repubblica “Italia in giallo” 16 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/11/2020 – I: 09/12/2020 – T: 09/12/2020] & + 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2014]

Un racconto veramente deludente, abbastanza sconclusionato, se preso in sé. Mi dicono ricerche in rete che altrove, in altri libri, in altri romanzi, la coppia di scrittore si esprime meglio e con più coinvolgimento. Qui, data la brevità del testo ed il continuo rimando ad informazioni contenute altrove e qui non decrittate, molte cose rimangono oscure ed immotivate.

Non avendo letto nulla dei due autori, né singolarmente né in coppia, prendo quanto in rete con il beneficio d’inventario, e mi riferisco a questo testo come unica mia pietra di paragone.

Intanto, premetto che di giallo c’è quasi un’ombra, e poco di più. Dopo una serie di avvenimenti poco chiari, c’è un tentato suicidio che porta allo smascheramento di una fantomatica setta, di bulli ed altro, che si rifà a Rimbaud, utilizzando per motto una sua frase (“Questo è il tempo degli Assassini”). Anche se la poesia “Matinée d'ivresse” termina con la frase “Ecco il tempo degli Assassini”. E qui di giallo c’è poco.

I protagonisti del racconto sono Mirella Cossati, sessantenne insegnante d’italiano, ed il marito Beppe Isnaghi, pensionato. Da quello che si capisce tra le righe (ed è qui che saltano i rimandi ai testi più estesi dei due), Beppe fa parte di qualche collettivo duro e puro, con il mito dell’Unione Sovietica, di cui ne esalta le grandezze sportive (tendenzialmente verso uno sport che in Italia è praticato da uno dei più ristretti numeri di appassionati: l’hockey su ghiaccio), e con la tendenza a produrre documenti criptici sulla situazione italiana e mondiale. Questo collettivo viene indicato con l’acronimo “CSOVIA”, di cui non viene data spiegazione e che non sono riuscito a identificare.

Mirella è molto presa dalla sua missione di insegnare la lingua a classi sempre più eterogenee, direi multietniche. Laddove a volte, gli extra milanesi sono più ferrati che i bamba locali (vedi la ragazza di origini rumene). Correggendo il tema di una sua prima, dedicato alle persone che mi stanno antipatiche, Mirella tira fuori un puzzle di informazioni che convergono sulla personalità e sulle gesta di due ragazzi di terza, Leo e William. Descritti come violenti, approfittatori, tendenzialmente maschilisti e razzisti. Uno spunto, per indagare nel mondo giovanile, senza però né capirne i motivi, né farceli capire a noi.

Certo, i due hanno il mito del pazzo norvegese autore di una strage alcune anni fa. Si riuniscono in quel collettivo di marca “Rimbaud” sopra citato, fanno incetta di CD pornografici, ma anche di soldi di dubbia provenienza. Soldi che Mirella inavvertitamente requisisce, scatenando la catena di eventi che, se ne avete voglia, potete seguire leggendolo. Anche se, personalmente, non ve lo consiglio.

Rimane il mistero del titolo. Quando, sommersa da tutte le informazioni derivanti dai temi, a Mirella viene la sensazione che ci sia qualcosa di losco, Beppe tira fuori la citazione del “rasoio di Occam”, esprimendolo come “le ipotesi più semplici sono le più sensate”. Anche se la citazione originale di Occam sarebbe: “è futile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno”. Ma questo è il meno, perché Beppe è un forte lettore di fantascienza, letture che il CSOVIA non approva molto (ricordo che il titolo del suo intervento al comitato è “Ecosostenibilità del piano quinquennale in quattro anni”). E da lì tira fuori il mio amato Asimov, dove, per pareggiare il conto con Occam, utilizza come rasoio, cioè come elemento che ronca le discussioni, il libro “Neanche gli dèi”.

Beh, forse non molti conoscono Asimov, e non molti conoscono il romanzo citato, pur uno dei più belli, secondo me. Ma quello che ancor meno gente sa, è da dove viene il titolo del romanzo. Che non è altro che una citazione di Nietzsche, che dà il titolo ai tre capitoli del libro: “Contro la stupidità, neanche gli dèi, possono nulla.”

Il minimo punto in più lo do per questa citazione, che dovrebbe spiegare qualcosa, nell’intento degli autori, ma che, rimanendo oscura, spiega forse qualcosa a me. Che è meglio tornare a leggere Asimov ed evitare i libri dei nostri autori.

Come ben sanno i miei lettori abituali, la quarta domenica del mese scivola via, senza allegati e senza troppo numeri. Ma come si sa, è timo di ricordi e pensieri. Così, e se non lo avete letto leggetene, penso a Richard Brautigan che nel suo “American Dust – Prima che il vento si porti via tutto” così esprimeva un mio pensiero: “sono ancora alla ricerca … di una risposta anche solo parziale alla mia vita e, man mano che mi avvicino alla morte, questa risposta si fa sempre più lontana”.

Per ora si avvicina solo la Pasqua, ed un altro mese di coprifuoco duro e puro. Non so se resisterò ancora per molto, ma di certo mi fa conforto e compagnia la vostra amicizia.

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