domenica 18 aprile 2021

Eco-grafia 1 - 18 aprile 2021

Se fossi un fine analista, avrei scritto eco-logia (sempre con il trattino), visto che stiamo parlando (logos) di Umberto Eco. Poiché però ne scrivo, preferisco, ironicamente forse, parlare di scrittura (grafos) intorno a capitoli della biografia in lettere dell’autore, ormai da cinque anni scomparso. Chiedendo preventivamente scusa di eventuali travisazioni, chiedendo in contemporanea aiuto e venia ad un culture di Eco come mio cugino Alessandro.

Io scrivo di alcune uscite dell’eco-pensiero allegate in omaggio a Repubblica, ribadendo che si trovano al di sopra, e di molto, di tante altre letture da me fatte nel periodo.

Umberto Eco “Il fascismo eterno” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 12/09/2020 – I: 29/09/2020 – T: 29/09/2020] &&&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 1995]

Repubblica, nel momento del suo declino, si sta “inventando” mille modi per costringere il lettore a non allontanarsi. Ora, a metà settembre, in concomitanza con l’uscita del giornale “Domani”, edito da De Benedetti, con una banda di fuorusciti dalla casa madre, decide di regalare ai propri lettori, in due giorni contigui, due interventi di Umberto Eco. E siccome Eco è un po’ “super partes”, ci si aspetta una massiccia adesione a Repubblica, ignorando il Domani.

A prescindere da questa genesi, il primo dei due interventi presentati, è la trascrizione, quasi una “lectio magistralis”, pur con alcune modifiche, di un discorso tenuto da Umberto Eco alla Columbia University il 25 aprile 1995, per celebrare il cinquantesimo della liberazione italiana.

Un intervento agile, ed interessante, concentrato su questo termine un po’ trasversale, che si coagula nella parola “fascismo”. Eco spiega, e noi capiamo, che ci sono tante piccole sfumature nei fascismi di ogni età. Spiega che, pur accomunati nel termine, Mussolini, Hitler e Franco sono diversi. Che il fascismo, più che un monolite legato alla razza ariana, è stato un collage di idee a volte differenti, se non contraddittorie.

Ecco allora che il nostro semiologo, nato durante il fascismo, ed avendone visto il culmine e la decadenza, ci propone una lista di caratteristiche che, anche se presenti in un solo elemento, possono “fascistizzare” un movimento, un partito, una ideologia.

Eco ci presenta quindi il suo Ur-Fascismo attraverso quattordici capisaldi:

1.     Culto della tradizione; come rivendicare le proprie radici (in genere bianche e cristiane), accogliere solo chi si adatta a questa tradizione.

2.     Rifiuto del modernismo e in generale propensione all’irrazionalismo; sostenere spada in resta tesi anacronistiche, ad esempio sugli omosessuali.

3.     Culto dell’azione per l’azione e rifiuto della cultura; del tipo, la cultura non fa guadagnare, esprimere compulsivamente la propria opinione sui social.

4.     Rifiuto del disaccordo; chi non è d’accordo con me è un traditore.

5.     Paura delle differenze, dando la colpa di tutto quello che va male agli stranieri, proporre di mandarli tutti via, e non accorgersi che, magari, lo stupro, l’assassinio, il femminicidio sono fatti da gente che non ti è straniera.

6.     Appello alle classi medie frustrate, ripetendo fraudolentemente che gli immigrati fanno la bella vita, e voi non arrivate a fine mese.

7.     Ossessione del complotto, sostenendo che abbiamo contro non so, poteri forti, la stampa, i mercati, la finanza, e chi più ne ha…

8.     Incapacità di valutare il nemico, che è allo stesso tempo troppo forte e troppo debole; gli extra ci invadono (forti) ma noi li rimandiamo a casa (deboli).

9.     Pacifismo è collusione con il nemico: quindi bisogna attuare la tattica di una guerra permanente.

10.  Disprezzo per i deboli, arrivando agli estremismi con cose come ‘prima gli italiani’ e disprezzare i neri, i rom, le ‘zecche’ dei centri sociali.

11.  Culto della morte: tutti possiamo diventare eroi, e farsi giustizia da soli.

12.  Machismo, come mostrare che la propria moglie/campagna/figlia è felice si stirare e cucinare per me; ed ovviamente deridere gli omosessuali.

13.  Inneggiare al popolo contro il parlamento, considerando unica vera voce quella del “popolo sovrano”, che solo noi eletti sappiamo interpretare.

14.  Povertà nell’uso della lingua, arrivando a semplificare tutte le idee e le definizioni: chiamare ‘capitano’ il proprio leader; ‘vice scafisti’ le Ong impegnate nel Mediterraneo; ‘partitocrazia’ qualsiasi forma di politica non esplicitamente populista; ‘burocrati di Bruxelles’ le istituzioni europee; ‘invasione’ i flussi migratori.

Eco ci dà anche un ultimo insegnamento: studiamo la storia, perché solo sapendo cosa è successo, impariamo a non ripetere gli stessi errori. Questa è non solo un’agile e lucida analisi, ma, anche, una profezia che, detta venticinque anni fa, è di una attualità impressionante. E non sarò certo io a farvene vedere i rimandi, che sono sotto gli occhi di tutti.

Uno dei tanti interventi, saggi e racconti, che in meno di cinquanta pagine, ci dicono molto. Questo, pur con alcuni limiti (dovuti anche al fatto che l’auditorio primo era americano, e quindi con necessità di più semplificazioni di noi “vecchi” europei), è uno da mettere in testa, e da far leggere, soprattutto nelle scuole.

Umberto Eco “Migrazioni e intolleranza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 13/09/2020 – I: 09/10/2020 – T: 09/10/2020] &&&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 45; anno: 1997-2012]

Nella seconda puntata della spinta di Repubblica all’acquisto dei suoi giornali, ecco che ci ritroviamo con quattro velocissimi testi, diseguali in intensità ma di eguale importanza. Il primo viene da una conferenza tenutasi a Valencia nel 1997 dal titolo “Le migrazioni del Terzo Millennio”. Il secondo è un discorso sul tema dell’intolleranza, pronunciato poche settimane dopo il primo a Parigi. Gli ultimi due sono invece più recenti: un intervento del 2012 a Nimega nell’anniversario del primo trattato di pace europeo colà firmato nel 1678. L’ultimo una introduzione ad alcuni testi antropologici usciti nel 2011 a cura dell’associazione Transcultura.

Pur essendo quattro interventi differenti, nel tempo e nello spazio, alla fine si riconducono sempre al titolo cumulativo che il figlio di Eco, Stefano, ha chiesto di mantenere.

Uno dei caposaldi del ragionamento di Eco è la distinzione fondamentale tra “immigrazione” e “migrazione”. Nel primo caso, un gruppo di individui, seppur numerosi, ma non incidentalmente grandi rispetto al nucleo di partenza, si trasferisce da un paese ad un altro. Un fenomeno che il paese ricevente può gestire, limitandolo o incoraggiandolo, secondo le proprie esigenze politiche e culturali. E gli immigrati, comunque accolti, accettano (almeno in una grande parte) i costumi del paese ricevente.

Nella migrazione, al contrario, un intero popolo si sposta, andando ad incidere sugli usi ed i costumi della nazione ricevente. Cioè si ha “migrazione” quando i migranti trasformano la cultura del territorio in cui si spostano. Ed è questo un fenomeno incontrollabile. Abbiamo visto, nel passato lontano o recente, fenomeni di portata simile. Lo spostamento da est a ovest dei popoli caucasici, radicatisi poi tra le piane del Danubio ed il Mediterraneo basso, creando nuove aggregazioni e mutando la biologia del posto (vedi la nascita degli ungheresi e dei turchi, ad esempio). Ma anche da nord a sud, quando i “barbari” invadono l’Impero Romano e creano nuove culture. Ultima nel ricordo, poi, la migrazione europea verso il continente americano. Una migrazione a tutti gli effetti, che i bianchi “invasori” non hanno assunto la cultura dei nativi americani, ma hanno fondato una civiltà del tutto nuovo, dove anche i nativi rimasti (quelli sopravvissuti agli stermini) hanno deciso, biologicamente, di adattarsi.

Eco conclude quindi il suo ragionamento con una sentenza che riporto nella sua lucida essenzialità: “Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, ‘ colorato’. Se vi piace, sarà così, e, se non vi piace, sarà così lo stesso”.

L’altra faccia della medaglia delle migrazioni e delle immigrazioni è la tolleranza. O meglio, come si appiglia Eco, l’ospitalità. Come quella già descritta da Kant nel 1795: “Ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro”. Kant ed Eco proseguono illustrandone gli aspetti, ma a noi bastano due esempi o riflessioni per chiudere il discorso.

Il primo, come descrive il filosofo, ci viene dal dipinto di Goya poco successivo allo scritto di Kant: “Il sonno della ragione genera mostri”. Quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione anche una migrazione pacifica può apparire, a chi ne vuole distorcere l’uso per propri fini (personali o politici) una minaccia alla sicurezza nazionale.

La seconda riflessione riguarda il fenomeno, nato in America, del “political correct”. Nato per promuovere la tolleranza diventa fondamentalismo che investe tutta la vita del cittadino, nel suo quotidiano anche, dove si discrimina chi non è “political correct”. Dove si censurano i pensieri di Aristotele, perché nell’antica Grecia c’erano gli schiavi. Ed avere uno schiavo non è corretto. E tanti altri esempi di intolleranza ognuno potrebbe farne.

Che si passa in maniera rapida (benché dolorosa) dall’integrismo all’integralismo e al fondamentalismo. Cattolici illuminati vogliono seguire la lettera del Vangelo, come ebrei il Talmud, tutto in modo “integrato”. Ma quando si passa a volerlo imporre ad altri che la pensano in modo diverso, ecco che ricadiamo nella barbaria occidentale odierna.

Chiudo lasciandovi con la riflessione finale che fa Eco, e che faccio mia. Sperando che il tutto possa portare a discussioni, anche fra di noi. Che non mi aspetto di essere da tutti condiviso. Mi aspetto solo che anche queste righe vengano lette con il giudizio della ragione.

“Capirsi fra culture diverse non significa valutare ciò cui ciascuno deve rinunciare per arrivare a essere uguali, bensì capire bene reciprocamente ciò che ci separa e accettare questa diversità.” (44)

Umberto Eco “La bellezza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 07/02/2021 – I: 14/02/2021 – T: 14/02/2021] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 41; anno: 2005]

Con questo titolo iniziano una nuova serie di omaggi dedicati da Repubblica ad Umberto Eco, nominalmente per ricordarne i cinque anni dalla morte, fattivamente per spingere la pubblicazione, proprio nel febbraio 2021 di un libro su Umberto Eco (“La filosofia di Umberto Eco”) edito da “La nave di Teseo”. Ricordo infatti, che nel suo testamento Eco chiese di non celebrarlo per almeno cinque anni. Cioè fino a questo febbraio 2021.

Ma noi siamo tetragoni ai motivi e ci godiamo questo libricino, che in realtà è una riedizione di una riedizione. Il testo originale venne redatto nel 2005 in occasione di un convegno a “La milanesiana”, per poi essere edito in volume nel 2012 come primo testo del libro “Sulle spalle dei giganti” edito, guarda un po’ la coincidenza, da “La nave di Teseo”.

Lo sforzo apprezzabile è stato quello di inserire nel testo riferimenti iconografici puntuali al discorso del filosofo alessandrino. Cosa che veramente porta il libretto ad un grado di fruibilità certo maggiore delle analoghe (o similari) uscite degli altri libri evocativi.

Vedendo i quadri e le rappresentazioni collegate, la prima domanda che ci si pone con Eco è se si tratta di una rappresentazione di una cosa bella o di una bella rappresentazione di una cosa brutta. In tutti e due i casi, comunque, l’importante è che l’elemento discriminante è lo spettatore: il bello, anche se non sappiamo cosa sia, dipende dall’occhio che lo guarda. Così i Greci, ad esempio, fissavano i canoni della bellezza nel rispetto delle proporzioni, attraverso sezioni auree ed altre figure geometriche. Ma Eco ci dimostra come poi le proporzioni siano anch’esse volubili, e dipendano da come le interpretiamo.

Poiché poi Eco è un fine filosofo e conoscitore di filosofia, non può che far riferimento, come sentenze con cui fare un discorso, a Tommaso d’Aquino che ci dice: “Sono belle le cose che ci piace guardare” e ad Agostino che sottolinea (parlando d’altro, ma Eco lo riferisce anche al bello): “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”

Lascio a voi fini lettori percorrere le poche pagine dell’excursus che fa Eco attraverso i secoli, le mode, le differenze di interpretazione, per tornare sul concetto iniziale, che poi sarà la conclusione del suo discorso. Il bello esiste se esiste uno spettatore che guarda la scena. Noi, l’essere umano, guardiamo una scena di cui non facciamo e non vogliamo fare parte. Noi, in sala, guardiamo la scena (il “bello”) ed il boccascena (colui che sta guardando una cosa bella).

Se di certo, in finale, sono d’accordo con le sue conclusioni, mi domandavo, leggendone, cosa penso io del bello, cosa mi sembra, o mi è sembrato, bello. Ripensavo a momenti filmici, godendo della bellezza di Audrey Hepburn che canta “Moon River” alla finestra, o di Julia Roberts nel parco di Notting Hill. A momenti personali, rivedendo tutte le belle persone che ho incontrato. Il bello della musica, per esempio, in quell’indimenticabile concerto di Keith Jarrett nella piazza del Campidoglio a Roma. Ed ai tanti momenti viaggianti: l’alba nel deserto dell’Akakus in Libia, un caffè in un bar sulle rive del Mekong a Luang Prabang, un nascosto giardino zen a Tokyo, l’albero cui mi appoggiavo aspettando di entrare a Louvre, molto prima che esistessero le entrate piramidali, l’entrata a cavallo davanti al Monastero di Petra, l’uscita dalla chiesa acefala etiope per entrare, di lato, nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la vista delle piramidi dalla piscina dell’Oberoi de Il Cairo, la leonessa ed i suoi cuccioli parco del Kalahari in Botswana, la nebbia che avvolge all’alba il Machu Picchu in Perù, la vista dall’alto delle piramidi di Tikal in Guatemala.

Avete capito, anch’io sono, come Eco, un “guardone della bellezza”.

Umberto Eco “La bruttezza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 07/02/2021 – I: 20/02/2021 – T: 20/02/2021] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 2007]

Di sicuro, un libro che va letto in sequenza con il precedente, di cui risulta un contraltare ovvio ma non scontato. Purtroppo, dovendo convenire con Eco che la grande differenza tra bellezza e bruttezza è la partecipazione personale, devo anche rilevare che questo scritto, proprio per questo motivo, mi ha soddisfatto di meno.

Eco dice, e noi con lui, che la bellezza è un elemento cui si può assistere da spettatori nel proscenio di una grande rappresentazione. Mentre la bruttezza implica un coinvolgimento più personale. È qualcosa che provoca in me disgusto, malessere, stati di alterazione poco positivi.

Nella poliedricità del pensiero di Eco c’è anche spazio per una dotta citazione de “Il capitale” di Karl Marx: il denaro, chiave di volta del capitalismo, è anche capace di cambiare i giudizi trasformando il brutto in bello (e credo che ne abbiamo esempi a iosa).

Poi si fa ancora un passo avanti: c’è distinzione tra i brutti. C’è il brutto dell’arte ed il brutto della vita. Anche qui, Eco viene sorretto dalla bella confezione del testo, mostrandoci un bel quadro di un fiore, dipinto però da una brutta persona: Adolf Hitler. Possiamo, e fino a dove, separare i due giudizi?

È sempre gradevole passeggiare nei percorsi culturali di Eco, dove, come ci insegnò nella “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, si può (si deve?) camminare tra l’alto ed il basso, che tutto ha dignità di essere, se lo si sente come veritiero (cioè espressione vera di qualcuno). Così, il brutto non può prescindere dal Cristianesimo, dove, una volta passata la sbornia giottesca di Santi e Madonne, si può passare per il bellissimo brutto di Caravaggio. Che, come ci insegna Hegel, è con il cristianesimo che il brutto entra nella storia dell’arte.

E dal brutto al mostro, o al mostruoso, il passo è breve. Quindi ci addentriamo nei sentieri della fisiognomica e delle brutture lombrosiane, senza dimenticarci come De Amicis descrive il cattivo Franti, ribadendo quel cliché di brutto come cattivo che pervade molto Ottocento. Proseguiamo poi anche nel brutto della vita, dove non ci meravigliamo di leggere descrizioni che non possono che raccapricciarci siano esse di Céline o di Giorgio Almirante.

Arriviamo in fine all’Avanguardia, che sdogana il brutto e le sue forme (quanto brutte sono le merde di Piero Manzoni?), per sfociare nel brutto artisticamente rivisitato nel Kitsch. Il Colosseo incastonato in palle di neve con la neve finta, o queste righe delle “cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria: “il caminetto un po’ tetro / le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti / dalle campane di vetro”.

Un elemento quasi finale della digressione di Eco viene dalla citazione di quel capolavoro di fantascienza, brevissimo, di Frederic Brown, intitolato “La sentinella”, di cui riporto un super corto riassunto in finale, dopo la mia citazione.

Il breve libretto è quindi, anche, una riflessione sull’emissione di giudizi e pregiudizi personali, che Eco ci invita a superare. Laddove la diversità dal senso comune non deve essere rifiutata come “brutto modo di vivere”, ma accettata e compresa. Una riflessione che dobbiamo sempre fare nostra mi viene quasi da dire, come accettando in modo parallelo la lezione di papa Francesco su “Fratelli tutti”. Con un “tutti” che deve essere veramente globale.

Unico punto dolente personale è il forse troppo alto tasso di citazioni che servono ad Eco per parlare di bruttezza. Avrei preferito forse una sua maggiore riflessione. Ma se poi devo ragionare anch’io, ritornando a quanto detto all’inizio, se di bellezza possiamo parlare canonicamente ed in modo distaccato, il brutto implica sempre il nostro intervento giudicante personale. Anche per questo, mentre con il bello potevo concludere citando “il mio personale bello”, non me la sento di fare altrettanto con il brutto.

“Il Kitsch può essere cose diverse. Si può parlare di Kitsch come mancanza di gusto: i nanetti da giardino, le cupole di vetro in cui cade la neve sulla Madonna di Oropa, ma anche le buone cose di pessimo gusto di Guido Gozzano.” (35)

Frederic Brown – La Sentinella: “Il protagonista è un soldato in una guerra interplanetaria contro una specie aliena e si trova su uno sperduto pianeta, a cinquantamila anni luce da casa. Sta sorvegliando la sua posizione in trincea e soffre per la lontananza, per l’ambiente ostile e per le privazioni causate dalla guerra. Ad un tratto un nemico tenta di avvicinarsi, ma lui lo vede e lo uccide. Ma nelle ultime frasi del racconto avviene il colpo di scena: mentre il soldato descrive con ripugnanza e odio l’aspetto ‘orribile’ del nemico che ha ucciso, il lettore si rende conto di star leggendo il racconto di un alieno che ha appena ucciso un essere umano”.

Aspettando di aprire nuovi capitoli di “libri felici” per ora esauriti, questa settimana non ci rimangono che alcune citazioni commentate del repertorio personale.

Per il resto, tutto bene, anche se non mancano pensieri. Però ci sono speranze per le riaperture e quindi per la possibilità di riprendere, seppur con diversi modi, ma sempre con uguale passioni, quanto si è sospeso in questo guerra.

Ma nonostante il coprifuoco, non posso fermare il pensiero che va, sempre, ai miei lettori.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di aprile

Eccoci ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e pensieri inscatolati nel gennaio del 2007.

Leggevo del massacro armeno, al di là del pur bel film che ne fu tratto. E ricordavo queste frasi d’amore che sono sempre valide, nella sottolineatura delle scelte e della presenza. Era il libro di memorie di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” che riportava:

“Shingagian capisce ora, fino in fondo, il mistero della forza che unisce l’uomo e la donna che si sono scelti. ‘Dove sei tu, ci sono anch’io’. Nessuno può interrompere davvero il colloquio di due sposi amanti, né sciogliere le loro viscere che si sono intrecciate”.

Era anche un periodo di riflessione sulla psicoanalisi, essendo da poco uscito dal lungo rapporto di reciproca stima e affetto con la mia mentore Luisa. Rimaneva quindi dal libro di Massimo Donà dedicato alla “Serenità” questa lunga caratterizzazione:

“Sereno è dunque chi si lascia attraversare dalle cose, dagli eventi e dalla loro eventuale carica emozionale senza rimanerne in qualche modo scioccato; chi non cerca di evitare le cose, le persone … chi non teme l’imprevisto [perché] … ne ha disattivato il potenziale eversivo. Chi accoglie qualsivoglia possibilità lasciandosi attraversare dalle emozioni da essa implicate, senza temere che esse mettano in questione la propria esistenza. Senza che quest’ultima finisca per rimanere traumatizzata … dall’eventuale violenza di un improvviso impatto con le medesime”.

Anche se ben lungi da quello che potrei pensare ora, di 13 anni più grande, leggevo del grande filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, e restavano incollate alla memoria questi due splendidi aforismi tratti da “L’arte di invecchiare”:

“Tutti vogliono vivere ma nessuno sa perché”;

“Per quanto vecchi si diventi, dentro di sé ci si sente comunque in tutto e per tutto gli stessi di un tempo, quando si era giovani, anzi bambini. Ciò che rimane immutato, e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo, e proprio per questo è indistruttibile”.

E ne sono ancora convinto, che il nucleo centrale, il nostro nucleo centrale, non è legato al tempo.

Erano anche tempi di scoperte di autori allora a me poco noti. Un sardo che avrei imparato ad apprezzare, Sergio Atzeni che parlava intorno al sentimento di appartenenza in “I sogni della città bianca:

“Ognuno prima o poi deve tornare alla sua casa. Altrimenti finisce di essere qualcuno e diventa nessuno. Un uomo fuori dalla sua terra è come un cavallo senza testa…”

Ed una giovane che invece non è più entrate nelle mie letture. Giulia Carcasi nel suo “Ma le stelle quante sono” faceva questo invito che sottoscrivo certamente:

“Ricomincia ad ascoltarti ed avrai le tue risposte“.

Si passò poi ad un febbraio più pensoso, con un libro sul mito di Elena che tuttora consiglio a chi ne fosse incuriosito. Compendiato da tre grandi autori Euripide, Hofmannsthal ed il greco Ritsos, il saggio “Elena. Variazioni sul mito” conteneva queste due perle:

“Quando si è in due non può essere felice l’uno ed infelice l’altro”

e

“I corpi non hanno il dono dell’ubiquità, i nomi sì”.

Perché è con i nomi che ci riconosciamo e ci teniamo in reciproco contatto.

Pensoso anche perché lessi un bellissimo libro dello svizzero Friedrich Dürrenmatt che in “Greco cerca greca” anche lui invitava all’amore:

“Il mondo è spaventoso e privo di senso. La speranza che ci sia un senso dietro questo assurdo … possono mantenerla solo coloro che nonostante tutto amano”

Infine, in quell’anno uscì anche un libro del cantante Luciano Ligabue, forse un po’ involuto e non sempre riuscito. Una storia fantastica (se volete ve ne parlo) intitolata ”La neve se ne frega”, dove, sempre in tema d’amore, c’è questa sentita dichiarazione dei sentimenti:

“Sei sempre stata bellissima. Anche quando eri così brutta”

Confesso, che è una frase che non direi, né penserei mai per la mia amata, che non mi interessa che sia, in assoluto, bella o brutta per qualche criterio canonico. So che però è la persona che amo, comunque.


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