Io
scrivo di alcune uscite dell’eco-pensiero allegate in omaggio a Repubblica,
ribadendo che si trovano al di sopra, e di molto, di tante altre letture da me
fatte nel periodo.
Umberto
Eco “Il fascismo eterno” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)
[A: 12/09/2020 – I: 29/09/2020 – T:
29/09/2020] &&&&--
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 44; anno: 1995]
Repubblica, nel momento del suo declino, si
sta “inventando” mille modi per costringere il lettore a non allontanarsi. Ora,
a metà settembre, in concomitanza con l’uscita del giornale “Domani”, edito da
De Benedetti, con una banda di fuorusciti dalla casa madre, decide di regalare
ai propri lettori, in due giorni contigui, due interventi di Umberto Eco. E
siccome Eco è un po’ “super partes”, ci si aspetta una massiccia adesione a
Repubblica, ignorando il Domani.
A prescindere da questa genesi, il primo dei
due interventi presentati, è la trascrizione, quasi una “lectio magistralis”,
pur con alcune modifiche, di un discorso tenuto da Umberto Eco alla Columbia
University il 25 aprile 1995, per celebrare il cinquantesimo della liberazione
italiana.
Un intervento agile, ed interessante,
concentrato su questo termine un po’ trasversale, che si coagula nella parola
“fascismo”. Eco spiega, e noi capiamo, che ci sono tante piccole sfumature nei
fascismi di ogni età. Spiega che, pur accomunati nel termine, Mussolini, Hitler
e Franco sono diversi. Che il fascismo, più che un monolite legato alla razza
ariana, è stato un collage di idee a volte differenti, se non contraddittorie.
Ecco allora che il nostro semiologo, nato
durante il fascismo, ed avendone visto il culmine e la decadenza, ci propone
una lista di caratteristiche che, anche se presenti in un solo elemento,
possono “fascistizzare” un movimento, un partito, una ideologia.
Eco ci presenta quindi il suo Ur-Fascismo
attraverso quattordici capisaldi:
1.
Culto della tradizione; come rivendicare le
proprie radici (in genere bianche e cristiane), accogliere solo chi si adatta a
questa tradizione.
2.
Rifiuto del modernismo e in generale propensione
all’irrazionalismo; sostenere spada in resta tesi anacronistiche, ad esempio
sugli omosessuali.
3.
Culto dell’azione per l’azione e rifiuto della
cultura; del tipo, la cultura non fa guadagnare, esprimere compulsivamente la
propria opinione sui social.
4.
Rifiuto del disaccordo; chi non è d’accordo con
me è un traditore.
5.
Paura delle differenze, dando la colpa di tutto
quello che va male agli stranieri, proporre di mandarli tutti via, e non
accorgersi che, magari, lo stupro, l’assassinio, il femminicidio sono fatti da
gente che non ti è straniera.
6.
Appello alle classi medie frustrate, ripetendo
fraudolentemente che gli immigrati fanno la bella vita, e voi non arrivate a
fine mese.
7.
Ossessione del complotto, sostenendo che abbiamo
contro non so, poteri forti, la stampa, i mercati, la finanza, e chi più ne ha…
8.
Incapacità di valutare il nemico, che è allo
stesso tempo troppo forte e troppo debole; gli extra ci invadono (forti) ma noi
li rimandiamo a casa (deboli).
9.
Pacifismo è collusione con il nemico: quindi bisogna
attuare la tattica di una guerra permanente.
10. Disprezzo
per i deboli, arrivando agli estremismi con cose come ‘prima gli italiani’ e
disprezzare i neri, i rom, le ‘zecche’ dei centri sociali.
11. Culto
della morte: tutti possiamo diventare eroi, e farsi giustizia da soli.
12. Machismo,
come mostrare che la propria moglie/campagna/figlia è felice si stirare e
cucinare per me; ed ovviamente deridere gli omosessuali.
13. Inneggiare
al popolo contro il parlamento, considerando unica vera voce quella del “popolo
sovrano”, che solo noi eletti sappiamo interpretare.
14. Povertà
nell’uso della lingua, arrivando a semplificare tutte le idee e le definizioni:
chiamare ‘capitano’ il proprio leader; ‘vice scafisti’ le Ong impegnate nel
Mediterraneo; ‘partitocrazia’ qualsiasi forma di politica non esplicitamente
populista; ‘burocrati di Bruxelles’ le istituzioni europee; ‘invasione’ i
flussi migratori.
Eco ci dà anche un ultimo insegnamento:
studiamo la storia, perché solo sapendo cosa è successo, impariamo a non
ripetere gli stessi errori. Questa è non solo un’agile e lucida analisi, ma,
anche, una profezia che, detta venticinque anni fa, è di una attualità
impressionante. E non sarò certo io a farvene vedere i rimandi, che sono sotto
gli occhi di tutti.
Uno dei tanti interventi, saggi e racconti,
che in meno di cinquanta pagine, ci dicono molto. Questo, pur con alcuni limiti
(dovuti anche al fatto che l’auditorio primo era americano, e quindi con
necessità di più semplificazioni di noi “vecchi” europei), è uno da mettere in
testa, e da far leggere, soprattutto nelle scuole.
Umberto Eco “Migrazioni e intolleranza”
Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)
[A: 13/09/2020 – I: 09/10/2020 – T:
09/10/2020] &&&&--
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 45; anno: 1997-2012]
Nella seconda puntata della spinta di
Repubblica all’acquisto dei suoi giornali, ecco che ci ritroviamo con quattro
velocissimi testi, diseguali in intensità ma di eguale importanza. Il primo
viene da una conferenza tenutasi a Valencia nel 1997 dal titolo “Le migrazioni
del Terzo Millennio”. Il secondo è un discorso sul tema dell’intolleranza,
pronunciato poche settimane dopo il primo a Parigi. Gli ultimi due sono invece
più recenti: un intervento del 2012 a Nimega nell’anniversario del primo
trattato di pace europeo colà firmato nel 1678. L’ultimo una introduzione ad
alcuni testi antropologici usciti nel 2011 a cura dell’associazione
Transcultura.
Pur essendo quattro interventi differenti,
nel tempo e nello spazio, alla fine si riconducono sempre al titolo cumulativo
che il figlio di Eco, Stefano, ha chiesto di mantenere.
Uno dei caposaldi del ragionamento di Eco è
la distinzione fondamentale tra “immigrazione” e “migrazione”. Nel primo caso,
un gruppo di individui, seppur numerosi, ma non incidentalmente grandi rispetto
al nucleo di partenza, si trasferisce da un paese ad un altro. Un fenomeno che
il paese ricevente può gestire, limitandolo o incoraggiandolo, secondo le
proprie esigenze politiche e culturali. E gli immigrati, comunque accolti,
accettano (almeno in una grande parte) i costumi del paese ricevente.
Nella migrazione, al contrario, un intero
popolo si sposta, andando ad incidere sugli usi ed i costumi della nazione
ricevente. Cioè si ha “migrazione” quando i migranti trasformano la cultura del
territorio in cui si spostano. Ed è questo un fenomeno incontrollabile. Abbiamo
visto, nel passato lontano o recente, fenomeni di portata simile. Lo
spostamento da est a ovest dei popoli caucasici, radicatisi poi tra le piane
del Danubio ed il Mediterraneo basso, creando nuove aggregazioni e mutando la
biologia del posto (vedi la nascita degli ungheresi e dei turchi, ad esempio).
Ma anche da nord a sud, quando i “barbari” invadono l’Impero Romano e creano
nuove culture. Ultima nel ricordo, poi, la migrazione europea verso il
continente americano. Una migrazione a tutti gli effetti, che i bianchi
“invasori” non hanno assunto la cultura dei nativi americani, ma hanno fondato
una civiltà del tutto nuovo, dove anche i nativi rimasti (quelli sopravvissuti
agli stermini) hanno deciso, biologicamente, di adattarsi.
Eco conclude quindi il suo ragionamento con
una sentenza che riporto nella sua lucida essenzialità: “Il Terzo Mondo sta
bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo.
Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si
ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano
erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un
profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale
o, se preferite, ‘ colorato’. Se vi piace, sarà così, e, se non vi piace, sarà
così lo stesso”.
L’altra faccia della medaglia delle
migrazioni e delle immigrazioni è la tolleranza. O meglio, come si appiglia
Eco, l’ospitalità. Come quella già descritta da Kant nel 1795: “Ospitalità
significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico
a causa del suo arrivo sulla terra di un altro”. Kant ed Eco proseguono
illustrandone gli aspetti, ma a noi bastano due esempi o riflessioni per
chiudere il discorso.
Il primo, come descrive il filosofo, ci viene
dal dipinto di Goya poco successivo allo scritto di Kant: “Il sonno della
ragione genera mostri”. Quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione
anche una migrazione pacifica può apparire, a chi ne vuole distorcere l’uso per
propri fini (personali o politici) una minaccia alla sicurezza nazionale.
La seconda riflessione riguarda il fenomeno,
nato in America, del “political correct”. Nato per promuovere la tolleranza
diventa fondamentalismo che investe tutta la vita del cittadino, nel suo
quotidiano anche, dove si discrimina chi non è “political correct”. Dove si
censurano i pensieri di Aristotele, perché nell’antica Grecia c’erano gli schiavi.
Ed avere uno schiavo non è corretto. E tanti altri esempi di intolleranza
ognuno potrebbe farne.
Che si passa in maniera rapida (benché
dolorosa) dall’integrismo all’integralismo e al fondamentalismo. Cattolici
illuminati vogliono seguire la lettera del Vangelo, come ebrei il Talmud, tutto
in modo “integrato”. Ma quando si passa a volerlo imporre ad altri che la
pensano in modo diverso, ecco che ricadiamo nella barbaria occidentale odierna.
Chiudo lasciandovi con la riflessione finale
che fa Eco, e che faccio mia. Sperando che il tutto possa portare a
discussioni, anche fra di noi. Che non mi aspetto di essere da tutti condiviso.
Mi aspetto solo che anche queste righe vengano lette con il giudizio della
ragione.
“Capirsi fra culture diverse non significa
valutare ciò cui ciascuno deve rinunciare per arrivare a essere uguali, bensì
capire bene reciprocamente ciò che ci separa e accettare questa diversità.”
(44)
Umberto Eco “La bellezza” Repubblica s.p.
(Omaggio di Repubblica)
[A: 07/02/2021 – I: 14/02/2021 – T: 14/02/2021]
&&&&
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 41; anno: 2005]
Con questo titolo iniziano una nuova serie di
omaggi dedicati da Repubblica ad Umberto Eco, nominalmente per ricordarne i
cinque anni dalla morte, fattivamente per spingere la pubblicazione, proprio
nel febbraio 2021 di un libro su Umberto Eco (“La filosofia di Umberto Eco”)
edito da “La nave di Teseo”. Ricordo infatti, che nel suo testamento Eco chiese
di non celebrarlo per almeno cinque anni. Cioè fino a questo febbraio 2021.
Ma noi siamo tetragoni ai motivi e ci godiamo
questo libricino, che in realtà è una riedizione di una riedizione. Il testo
originale venne redatto nel 2005 in occasione di un convegno a “La
milanesiana”, per poi essere edito in volume nel 2012 come primo testo del
libro “Sulle spalle dei giganti” edito, guarda un po’ la coincidenza, da “La
nave di Teseo”.
Lo sforzo apprezzabile è stato quello di
inserire nel testo riferimenti iconografici puntuali al discorso del filosofo
alessandrino. Cosa che veramente porta il libretto ad un grado di fruibilità
certo maggiore delle analoghe (o similari) uscite degli altri libri evocativi.
Vedendo i quadri e le rappresentazioni
collegate, la prima domanda che ci si pone con Eco è se si tratta di una
rappresentazione di una cosa bella o di una bella rappresentazione di una cosa
brutta. In tutti e due i casi, comunque, l’importante è che l’elemento
discriminante è lo spettatore: il bello, anche se non sappiamo cosa sia,
dipende dall’occhio che lo guarda. Così i Greci, ad esempio, fissavano i canoni
della bellezza nel rispetto delle proporzioni, attraverso sezioni auree ed
altre figure geometriche. Ma Eco ci dimostra come poi le proporzioni siano
anch’esse volubili, e dipendano da come le interpretiamo.
Poiché poi Eco è un fine filosofo e
conoscitore di filosofia, non può che far riferimento, come sentenze con cui
fare un discorso, a Tommaso d’Aquino che ci dice: “Sono belle le cose che ci
piace guardare” e ad Agostino che sottolinea (parlando d’altro, ma Eco lo
riferisce anche al bello): “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo
a chi me lo chiede, non lo so.”
Lascio a voi fini lettori percorrere le poche
pagine dell’excursus che fa Eco attraverso i secoli, le mode, le differenze di
interpretazione, per tornare sul concetto iniziale, che poi sarà la conclusione
del suo discorso. Il bello esiste se esiste uno spettatore che guarda la scena.
Noi, l’essere umano, guardiamo una scena di cui non facciamo e non vogliamo
fare parte. Noi, in sala, guardiamo la scena (il “bello”) ed il boccascena
(colui che sta guardando una cosa bella).
Se di certo, in finale, sono d’accordo con le
sue conclusioni, mi domandavo, leggendone, cosa penso io del bello, cosa mi
sembra, o mi è sembrato, bello. Ripensavo a momenti filmici, godendo della
bellezza di Audrey Hepburn che canta “Moon River” alla finestra, o di Julia
Roberts nel parco di Notting Hill. A momenti personali, rivedendo tutte le
belle persone che ho incontrato. Il bello della musica, per esempio, in
quell’indimenticabile concerto di Keith Jarrett nella piazza del Campidoglio a
Roma. Ed ai tanti momenti viaggianti: l’alba nel deserto dell’Akakus in Libia,
un caffè in un bar sulle rive del Mekong a Luang Prabang, un nascosto giardino
zen a Tokyo, l’albero cui mi appoggiavo aspettando di entrare a Louvre, molto
prima che esistessero le entrate piramidali, l’entrata a cavallo davanti al
Monastero di Petra, l’uscita dalla chiesa acefala etiope per entrare, di lato,
nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la vista delle piramidi dalla
piscina dell’Oberoi de Il Cairo, la leonessa ed i suoi cuccioli parco del
Kalahari in Botswana, la nebbia che avvolge all’alba il Machu Picchu in Perù,
la vista dall’alto delle piramidi di Tikal in Guatemala.
Avete capito, anch’io sono, come Eco, un
“guardone della bellezza”.
Umberto Eco “La bruttezza” Repubblica s.p.
(Omaggio di Repubblica)
[A: 07/02/2021 – I: 20/02/2021 – T: 20/02/2021]
&&
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 44; anno: 2007]
Di sicuro, un libro che va letto in sequenza
con il precedente, di cui risulta un contraltare ovvio ma non scontato.
Purtroppo, dovendo convenire con Eco che la grande differenza tra bellezza e
bruttezza è la partecipazione personale, devo anche rilevare che questo
scritto, proprio per questo motivo, mi ha soddisfatto di meno.
Eco dice, e noi con lui, che la bellezza è un
elemento cui si può assistere da spettatori nel proscenio di una grande
rappresentazione. Mentre la bruttezza implica un coinvolgimento più personale.
È qualcosa che provoca in me disgusto, malessere, stati di alterazione poco
positivi.
Nella poliedricità del pensiero di Eco c’è
anche spazio per una dotta citazione de “Il capitale” di Karl Marx: il denaro,
chiave di volta del capitalismo, è anche capace di cambiare i giudizi
trasformando il brutto in bello (e credo che ne abbiamo esempi a iosa).
Poi si fa ancora un passo avanti: c’è
distinzione tra i brutti. C’è il brutto dell’arte ed il brutto della vita.
Anche qui, Eco viene sorretto dalla bella confezione del testo, mostrandoci un
bel quadro di un fiore, dipinto però da una brutta persona: Adolf Hitler.
Possiamo, e fino a dove, separare i due giudizi?
È sempre gradevole passeggiare nei percorsi
culturali di Eco, dove, come ci insegnò nella “Fenomenologia di Mike
Bongiorno”, si può (si deve?) camminare tra l’alto ed il basso, che tutto ha
dignità di essere, se lo si sente come veritiero (cioè espressione vera di
qualcuno). Così, il brutto non può prescindere dal Cristianesimo, dove, una
volta passata la sbornia giottesca di Santi e Madonne, si può passare per il
bellissimo brutto di Caravaggio. Che, come ci insegna Hegel, è con il
cristianesimo che il brutto entra nella storia dell’arte.
E dal brutto al mostro, o al mostruoso, il
passo è breve. Quindi ci addentriamo nei sentieri della fisiognomica e delle
brutture lombrosiane, senza dimenticarci come De Amicis descrive il cattivo
Franti, ribadendo quel cliché di brutto come cattivo che pervade molto
Ottocento. Proseguiamo poi anche nel brutto della vita, dove non ci
meravigliamo di leggere descrizioni che non possono che raccapricciarci siano
esse di Céline o di Giorgio Almirante.
Arriviamo in fine all’Avanguardia, che
sdogana il brutto e le sue forme (quanto brutte sono le merde di Piero Manzoni?),
per sfociare nel brutto artisticamente rivisitato nel Kitsch. Il Colosseo
incastonato in palle di neve con la neve finta, o queste righe delle “cose di
pessimo gusto” di gozzaniana memoria: “il caminetto un po’ tetro / le scatole
senza confetti / i frutti di marmo protetti / dalle campane di vetro”.
Un elemento quasi finale della digressione di
Eco viene dalla citazione di quel capolavoro di fantascienza, brevissimo, di
Frederic Brown, intitolato “La sentinella”, di cui riporto un super corto
riassunto in finale, dopo la mia citazione.
Il breve libretto è quindi, anche, una
riflessione sull’emissione di giudizi e pregiudizi personali, che Eco ci invita
a superare. Laddove la diversità dal senso comune non deve essere rifiutata
come “brutto modo di vivere”, ma accettata e compresa. Una riflessione che
dobbiamo sempre fare nostra mi viene quasi da dire, come accettando in modo
parallelo la lezione di papa Francesco su “Fratelli tutti”. Con un “tutti” che
deve essere veramente globale.
Unico punto dolente personale è il forse
troppo alto tasso di citazioni che servono ad Eco per parlare di bruttezza.
Avrei preferito forse una sua maggiore riflessione. Ma se poi devo ragionare
anch’io, ritornando a quanto detto all’inizio, se di bellezza possiamo parlare
canonicamente ed in modo distaccato, il brutto implica sempre il nostro
intervento giudicante personale. Anche per questo, mentre con il bello potevo
concludere citando “il mio personale bello”, non me la sento di fare
altrettanto con il brutto.
“Il Kitsch può essere cose diverse. Si può
parlare di Kitsch come mancanza di gusto: i nanetti da giardino, le cupole di
vetro in cui cade la neve sulla Madonna di Oropa, ma anche le buone cose di
pessimo gusto di Guido Gozzano.” (35)
Frederic Brown – La Sentinella: “Il
protagonista è un soldato in una guerra interplanetaria contro una specie
aliena e si trova su uno sperduto pianeta, a cinquantamila anni luce da casa.
Sta sorvegliando la sua posizione in trincea e soffre per la lontananza, per
l’ambiente ostile e per le privazioni causate dalla guerra. Ad un tratto un
nemico tenta di avvicinarsi, ma lui lo vede e lo uccide. Ma nelle ultime frasi
del racconto avviene il colpo di scena: mentre il soldato descrive con
ripugnanza e odio l’aspetto ‘orribile’ del nemico che ha ucciso, il lettore si
rende conto di star leggendo il racconto di un alieno che ha appena ucciso un
essere umano”.
Aspettando di aprire nuovi capitoli di “libri
felici” per ora esauriti, questa settimana non ci rimangono che alcune
citazioni commentate del repertorio personale.
Per il resto, tutto bene, anche se non mancano
pensieri. Però ci sono speranze per le riaperture e quindi per la possibilità
di riprendere, seppur con diversi modi, ma sempre con uguale passioni, quanto
si è sospeso in questo guerra.
Ma nonostante il coprifuoco, non posso fermare il pensiero che va, sempre, ai miei lettori.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Citazioni di aprile
Eccoci
ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e
pensieri inscatolati nel gennaio del 2007.
Leggevo
del massacro armeno, al di là del pur bel film che ne fu tratto. E ricordavo
queste frasi d’amore che sono sempre valide, nella sottolineatura delle scelte
e della presenza. Era il libro di memorie di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” che riportava:
“Shingagian
capisce ora, fino in fondo, il mistero della forza che unisce l’uomo e la donna
che si sono scelti. ‘Dove sei tu, ci sono anch’io’. Nessuno può interrompere
davvero il colloquio di due sposi amanti, né sciogliere le loro viscere che si
sono intrecciate”.
Era anche un periodo di riflessione sulla
psicoanalisi, essendo da poco uscito dal lungo rapporto di reciproca stima e
affetto con la mia mentore Luisa. Rimaneva quindi dal libro di Massimo Donà dedicato
alla “Serenità” questa lunga caratterizzazione:
“Sereno
è dunque chi si lascia attraversare dalle cose, dagli eventi e dalla loro
eventuale carica emozionale senza rimanerne in qualche modo scioccato; chi non
cerca di evitare le cose, le persone … chi non teme l’imprevisto [perché] … ne
ha disattivato il potenziale eversivo. Chi accoglie qualsivoglia possibilità
lasciandosi attraversare dalle emozioni da essa implicate, senza temere che
esse mettano in questione la propria esistenza. Senza che quest’ultima finisca
per rimanere traumatizzata … dall’eventuale violenza di un improvviso impatto
con le medesime”.
Anche se ben lungi da quello che potrei pensare ora,
di 13 anni più grande, leggevo del grande filosofo tedesco Arthur
Schopenhauer, e restavano incollate alla memoria questi due splendidi
aforismi tratti da “L’arte di invecchiare”:
“Tutti
vogliono vivere ma nessuno sa perché”;
“Per
quanto vecchi si diventi, dentro di sé ci si sente comunque in tutto e per
tutto gli stessi di un tempo, quando si era giovani, anzi bambini. Ciò che
rimane immutato, e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è
appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo, e proprio per
questo è indistruttibile”.
E ne sono ancora convinto, che il nucleo centrale, il
nostro nucleo centrale, non è legato al tempo.
Erano anche tempi di scoperte di autori allora a me
poco noti. Un sardo che avrei imparato ad apprezzare, Sergio
Atzeni che parlava intorno al sentimento di appartenenza in “I
sogni della città bianca:
“Ognuno
prima o poi deve tornare alla sua casa. Altrimenti finisce di essere qualcuno e
diventa nessuno. Un uomo fuori dalla sua terra è come un cavallo senza testa…”
Ed una giovane che invece non è più entrate nelle mie
letture. Giulia Carcasi nel suo “Ma
le stelle quante sono” faceva questo invito che sottoscrivo certamente:
“Ricomincia
ad ascoltarti ed avrai le tue risposte“.
Si passò poi ad un febbraio più pensoso, con un libro
sul mito di Elena che tuttora consiglio a chi ne fosse incuriosito. Compendiato
da tre grandi autori Euripide, Hofmannsthal ed il greco Ritsos, il
saggio “Elena. Variazioni sul mito” conteneva queste due perle:
“Quando
si è in due non può essere felice l’uno ed infelice l’altro”
e
“I
corpi non hanno il dono dell’ubiquità, i nomi sì”.
Perché è con i nomi che ci riconosciamo e ci teniamo
in reciproco contatto.
Pensoso anche perché lessi un bellissimo libro dello
svizzero Friedrich Dürrenmatt che in “Greco cerca greca” anche
lui invitava all’amore:
“Il
mondo è spaventoso e privo di senso. La speranza che ci sia un senso dietro
questo assurdo … possono mantenerla solo coloro che nonostante tutto amano”
Infine, in quell’anno uscì anche un libro del cantante
Luciano Ligabue, forse un po’
involuto e non sempre riuscito. Una storia fantastica (se volete ve ne parlo)
intitolata ”La neve se ne frega”, dove, sempre in tema d’amore, c’è questa
sentita dichiarazione dei sentimenti:
“Sei
sempre stata bellissima. Anche quando eri così brutta”
Confesso, che è una frase che non direi, né penserei
mai per la mia amata, che non mi interessa che sia, in assoluto, bella o brutta
per qualche criterio canonico. So che però è la persona che amo, comunque.
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