domenica 16 maggio 2021

Alcuni giganti - 16 maggio 2021

In un giorno in cui si celebra una trama palindroma “a coppie”, ci accingiamo a parlare di alcuni giganti delle mie letture. Il primo, spagnolo, lo ricordavo per alcune letture demenziali in gioventù, ma che qui assurge alla grandezza del ricordo del nostro ultimo Natale di gruppo in famiglia. Degli altri basta ricordare i nomi: l’ebreo Wiesel che sempre tiene aperta la memoria dell’Olocausto, l’olandese Nooteboom, con il suo sguardo giornalistico sul mondo, lo svizzero Dürrenmatt attaccato ai suoi miti. Tutte e tre letture molto superiori alla media.

Eduardo Mendoza “Città sospesa” Dea Planeta s.p. (Natale degli Ossicini)

[A: 25/12/2019 – I: 10/11/2020 – T: 12/11/2020] - && --

[tit. or.: Riña de Gatos. Madrid 1936; ling. or.: spagnolo; pagine: 473; anno 2010]

Devo dire che sono abbastanza dispiaciuto di e per questo libro, entrato or quasi un anno nell’ultima riunione conviviale di noi cugini, per un Natale che chissà quando si rifarà.

Dispiaciuto che il titolo porta a idee balsane, mentre l’originale era più preciso e calzante, come ovvio. “Un combattimento tra gatti. Madrid 1936”. Che Madrid all’epoca fosse una città sospesa è dir ben poco di quello che succedeva colà, soprattutto nel periodo in cui Mendoza fa svolgere i fatti: marzo 1936. E ci torneremo su. Poi né in copertina né all’interno viene aggiunto l’accenno a Madrid, che almeno avrebbe indirizzato i pensieri su qualche binario possibile.

Infine, di Mendoza ho letto altro, come “La verità sul caso Savolta”, che avevo trovato interessante e ben congeniato. Qui, si cerca di combinare fiction e realtà, con risultati scarsi. Che la fiction non prende, e la realtà, se non si conosce a fondo la storia spagnola, rimane assai sospesa. Anche se, è bene dirlo, il mestiere di Mendoza lo porta ad attraversare le quasi cinquecento pagine senza che ci siano grosse sbavature nella tensione narrativa, ed apportando piccoli sassi di conoscenza (o di interpretazione) al turbolento periodo storico in cui posiziona la storia.

In sé, la storia potrebbe essere semplice. Un critico d’arte inglese, Anthony Whitelands, esperto di Velasquez e della pittura spagnola del Seicento, viene invitato a stimare una collezione privata. Ben presto, però, cadono i veli, e Anthony scopre che lo scopo è di valutare un dipinto ignoto attribuibile a Velasquez, la cui vendita, se si accerta l’autenticità, servirebbe a comperare armi per il sostegno ad un piccolo ma agguerrito movimento politico, la Falange Española. Il movimento è guidato da José Antonio Primo de Rivera y Sáenz de Heredia marchese di Estella, figlio del dittatore Manuel Primo de Rivera che governò la Spagna intorno al 1930. José Antonio è anche amico del possessore del quadro, nonché innamorato della di lui figlia Paquita.

Capite bene che se inseriamo questo quadro nel periodo temporale (che lo stesso Mendoza indica come inizio del romanzo: 4 marzo 1936) abbiamo una miscela potenzialmente esplosiva. Da qui il tentativo dell’autore di creare una fiction su episodi reali, di modo che seguiamo una narrativa a binario doppio: da un lato Anthony e le traversie umane e relazionali legate all’autenticazione del quadro e dall’altro l’evolversi ed il precipitare della situazione politica.

Anthony si accompagna un po’ con tutti: il misterioso Higino che lo porta al bordello, gli vuole appioppare la simpatica Tonina per salvarla, legato sia ai Servizi sovietici che a quelli inglesi; la famiglia di Paquita, con il padre legato alla Falange ed in contatto con i generali golpisti, la madre invece più vicina ai lealisti, i figli coinvolti da José Antonio nella Falange, la sorellina Lilì che vuole crescere e la stessa Paquita, tentennante tra José Antonio e lo stesso Anthony; l’ambasciata inglese che, pur professandosi neutrale, non vede di buon occhio i possibili fermenti repubblicani (temendo un’avanzata del comunismo); gli esperti d’arte, divisi sull’attribuzione del quadro.

Piccola parentesi, le disquisizioni di Anthony su Velasquez, sui suoi quadri, e sulle vicende seicentesche sono forse le più interessanti e ben riuscite parti del libro. In particolare, ma non ci torno poi sopra, l’analisi del quadro “Venere e Cupido”, il primo quadro spagnolo che rappresenta un nudo femminile (il secondo e solo altro esemplare sarà la “Maya desnuda” di Goya).

Tutta la vicenda fiction si evolverà su binari abbastanza normali, senza troppi colpi di scena (anche se ce ne sono), che porteranno amori, avvicinamenti e allontanamenti, agnizioni e scomparse definitive (che sappiamo non esservi alcun Velasquez nascosto). Lasciandoci anche un bel po’ di nervosismo, verso Anthony che non ha mai uno scatto in avanti, sempre travolto ed inseguito dagli avvenimenti esterni.

Il binario politico doveva di converso essere quello che poteva dare uno spessore al libro. Purtroppo, Mendoza non affonda il coltello nelle piaghe. Inoltre, molti avvenimenti vengono citati e dati per scontati, ma chi non conosce a fondo la storia spagnola ne rimane spettatore poco coinvolto. Si parla della Falange, dei suoi tentativi velleitari, del bel José Antonio che affascina le folle con la sua parlantina, ma non coinvolge i centri di potere. Falange che riamane una piccola spina nel corpo politico, invasa da tutti. Tanto che il 14 marzo (anche ultimo giorno della narrazione) viene dichiarato fuorilegge e José Antonio arrestato. Sarà poi processato, e fucilato il 20 novembre 1936. Intanto, nel luglio Francisco Franco lancia la rivolta che innescherà la lunga Guerra Civile. Tutto ciò è immerso nel racconto, ma quasi a mo’ di notizie collaterali, quando forse, ed il titolo originale ne adombra l’idea, fosse questo il vero asse portante del romanzo. Un combattimento tra gatti, con teatro la bella città di Madrid.

Purtroppo, la parte politica non è così ben delineata come avrebbe potuto, lasciando spazio alla vicenda “fiction”. Troppo tiepidi i giudizi sui protagonisti del momento storico, poco esplicitate motivazioni ed atteggiamenti.

Un romanzo decente, ma non molto altro.

Elie Wiesel “La notte” Giuntina euro 12

[A: 01/11/2020 – I: 04/12/2020 – T: 06/12/2020] - &&&&

[tit. or.: La Nuit; ling. or.: francese; pagine: 112; anno 1958]

Eliezer (detto Elie) Wiesel è stato un eminente scrittore, nonché uomo di pace, come certifica l’omonimo Nobel conferitogli nel 1986. È stato anche un esponente ebraico, deportato nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiali. Esperienze cui è sopravvissuto, cui in seguito ha dedicato tutta la vita, per capirla, e per trovare le modalità di non farla ripetere più. Benché poi parlasse molte lingue (yiddish, che parlava in casa, tedesco, rumeno e ungherese, che parlava nel territorio natale, inglese e francese, appresi dopo la guerra) ha scritto quasi interamente la sua opera letteraria in francese.

Fatto questo cappello introduttivo, veniamo al primo passo di ricordo legato a questo libro. Perché, nelle mie liste, è infatti classificato come libro di viaggio. Infatti, nell’ottobre di questo infausto 2020, per sfuggire a nove mesi di lockdown, abbiamo deciso con Ale di fare una fuga di sette giorni in Polonia. Visita difficile, vista l’emergenza covid, ma proficua per mille ragioni che non sto qui ad elencare, ma una è legata a questo libro.

Nonostante le mie diverse peregrinazioni nel Nord Europa, non avevo, per scelta personale legata a dolorosi ricordi familiari, voluto mai addentrarmi in un campo di concentramento. Qui, invece, Ale mi ha spinto (e le sono infinitamente grato) a visitare Auschwitz (o meglio Oswiecim come è detto in polacco). Una visita intensa, che in effetti, tutti dovrebbero fare, e dalla quale sono uscito con questo libro, dove, per ricordo, mi sono anche fatto mettere il timbro locale: ho visitato il campo di sterminio il 30 ottobre 2020.

Il testo di Wiesel è breve ma di una intensità assoluta. Con una prosa scarna, ne seguiamo la vita in quegli anni fondamentali introno ai suoi sedici anni. Nato e vissuto a Seghet, cittadina rumena al confine tra Romania, Ucraina e Ungheria, in seguito alle occupazioni germaniche, diviene feudo tedesco. Per cui, nel ’44 la fiorente comunità ebraica viene investita dalle leggi hitleriane di sterminio. Wiesel ci rappresenta, come altri, e come si racconta, dello spaesamento degli ebrei, presi in un vortice catastrofico di cui non intuiscono la portata.

Ci si poteva salvare? Si poteva forse fuggire? Un sentimento di ineluttabilità porta la famiglia Wiesel e la comunità locale ad aspettare. Così che nell’aprile di quell’anno fatale, tutti vengono prima rinchiusi nel ghetto, poi deportati con i treni della morte verso Auschwitz. Lì troveranno la morte la madre e la sorellina di Wiesel. Lui rimarrà con il padre, e con lui attraverserà tutti gli orrori dei vari campi. Ho visto anch’io il terminale di quel treno che arriva ad Auschwitz. Ed ho presente nella mente tutte le strutture descritte dall’autore. E tutti i tormenti che gli ebrei soprattutto, ma anche comunisti, omosessuali, dissidenti e rom, hanno subito lì.

E poi gli spostamenti, tra Auschwitz, Birkenau, Monowitz, per poi terminare la loro odissea a Buchenwald. Dove Shlomo Wiesel non resisterà più agli stenti, morendo nel gennaio del ’45. Elie sarà invece liberato dall’Armata Rossa nell’aprile. Una liberazione con cui si chiude questa “Notte”. Una notte che però rimarrà per sempre nel cuore e nella mente dell’autore. Elie era avviato agli studi talmudici e di teologia ebraica. Quest’esperienza porrà nella sua mente (ed in quella di molti altri) il dubbio estremo. Perché Dio ha permesso tutto ciò? Forse perché non c’è nessun Dio cui chiedere aiuto? Cui domandare pietà? Noi capiamo con la testa l’orrore che si è perpetrato in quegli anni, ma credo che nessuno, se non chi l’ha vissuto, possa mai capirne realmente la portata.

La grande umanità di Wiesel l’ha portato negli anni a battersi, sempre, ovunque e comunque, per la pace tra i popoli (testimoniata dal Nobel di cui sopra), ma nelle sue parole non vedo mai, e qui ce n’è un esempio grandioso, nessuna possibilità di comprensione verso chi questi orrori non solo li ha ipotizzati, ma li ha messi in pratica, con crudeltà e ferocia.

Ripeto, la prosa asciutta e concentrata di Wiesel ci rende questi orrori ancora più feroci se ci fossero stigmatizzazioni testuali. Si descrive, e la descrizione è talmente puntuale che non c’è bisogno di altro.

Un libro da leggere, insieme a tutti quelli di Primo Levi. Ed un luogo, Auschwitz, che tutti dovrebbero andare a visitare. 

Cees Nooteboom “Addio – Poesia al tempo del virus” Iperborea euro 11 (consigliato da Robinson)

[A: 05/01/2021 – I: 20/01/2021 – T: 20/01/2021] - &&&&

[tit. or.: Afscheid – Gedicht uit de tijd van het virus; ling. or.: nederlandese; pagine: 92; anno 2020]

Da qualche settimana cerco di inserire delle novità, attingendo dalle proposte del settimanale “Robinson” del Gruppo Repubblica. La prima di quest’anno viene da uno scrittore del “nord”, anche se in realtà non è scandinavo ma olandese. E che già ho seguito in altre e brillanti prove. Che Nooteboom è poliedrico ed affascinante, sempre piacevolmente da leggere, e sempre portatore di qualche messaggio che arriva dentro, nonostante o forse anche perché vicino ai novanta anni. Ma sulla sua storia personale non ritorno, che già ne dissi. Rammento solo che, oltre che narratore, è stato un grande viaggiatore, e spesso ha utilizzato la poesia per esprimersi. Come in questo caso.

Certo, devo anche sottolineare la mia difficoltà, non essendo un attento lettore di versi, ed avendo a volte una sensazione di respingimento che non so spiegare. Questa breve raccolta di versi onirici e rimandanti ad altro, anche a situazioni personali di cui non so, mi ha lasciato da un lato spiazzato, ma dall’altro mi sono lasciato andare alle parole, alla loro concatenazione, ai piccoli messaggi (personali) che trapelano da alcune righe sparse. Con un risultato finale di sicuro ed inaspettato gradimento.

Non tragga in inganno il sottotitolo (che sul titolo torneremo poi). Non si tratta di una raccolta di versi tesa a sottolineare il momento in cui viviamo. Si tratta di poesia che, incidentalmente, viene scritta in un periodo che nel mondo è caratterizzato dalla presenza costante del Covid-19. E che Cees trascorre prima nel suo rifugio di Minorca, tra le sue amate piante del giardino, poi nella quarantena passata a Hofgut Missen, in Germania, a nord del lago di Costanza.

Anche il titolo non sottolinea congedi, non fa riferimento ad un altro suo libro che prima o poi troverò voglia di leggere (“Tumbas. Tombe di poeti e pensatori”), ma, come sottolinea l’ottima postfazione di Andrea Bajani, è un muro, ultimo baluardo di un qualcosa al di là del quale c’è, forse, l’inesprimibile. Queste sono poesie, 33 esattamente (come i canti della “Divina Commedia”), sonetti espressi in quartine, con un ultimo verso volante e solitario. Divagazioni mentali sulle cose che sono e su quelle che noi comprendiamo siano (o possano essere).

C’è un inizio, in cui il poeta si pone davanti alla natura, ne sottolinea mutamenti e rimanenze. Per chi ne sa di lui, si notano i suoi cactus amatissimi del suo giardino di Minora, i fichi (ah, quanto ne vorrei), ma anche il passaggio delle oche del vicino. Passano nomi, suoni, rumori, silenzi, come se fosse pittura e musica, più che parola dal corto passo. L’uomo, evolvendosi caduco, rimane immobile nella sua corta esistenza, mentre la natura continua a muoversi in modo costante e senza poter essere fermata.

E le 33 poesie sono a loro volta divise in tre parti, quasi che Cees volesse raccontarci del presente, volesse ricordarci visioni del passato, e cercasse una comprensione per le aspettative del futuro. Ecco che ci rimanda anche della guerra, delle sofferenze patite, del non sempre risolto rapporto con il padre (anche per la di lui precoce morte).

Ma poi forti e per me meglio assonanti, arrivano le quartine dell’ultima parte del testo, dove il poeta fa trasparire il vagabondare che ha caratterizzato tutta la sua vita. Tante le strade percorse, tante le esperienze accumulate, forse a tutto ciò agganciata un’idea di saggezza, quella che ognuno pensa di portarsi appreso dopo aver visto, fatto e vissuto tante cose. E pur tuttavia, nella vita sua (e di noi, con lui mortali) non può che rimanere solitudine, confusione dubbi. Vede amici e conoscenti sparire ad uno ad uno (“e tutti mi hanno detto addio … sono scomparsi come spettri, ognuno solo con sé stesso” pagina 67).

Sono versi pieni di tante cose: solitudine, dubbi, disperazione, abbondoni e incomprensioni. Pur tuttavia, a me, alla fine, danno anche un senso diverso. Un senso, comunque, di una persona che ha fatto tanto, che ha accumulato tanto, e che chiosando come l’ultimo verso che riporto, mi dice: sì, ho vissuto.

Una lettura, amici miei, che va fatte diverse volte, prima di poterla lasciare.

“Quante vite stanno in una vita?” (39)

“Tante strade / ho percorso, sempre in cerca di qualcosa / che doveva trovarsi più lontano.” (75)

Friedrich Dürrenmatt “Minotauro” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 9,30 euro e consigliato da Robinson)

[A: 10/04/2021 – I: 22/04/2021 – T: 23/04/2021] - &&&& --

[tit. or.: Minotaurus. Eine Ballade; ling. or.: tedesco; pagine: 78; anno 1985]

Un bel libro, estremamente corto, se vogliamo, ed assai complicato, nella struttura e nella realizzazione. Come ben leggiamo nelle note di traduzione di Donata Berra. Per i cultori delle lingue, poi, è previsto il mirabile testo a fronte, che mi ha fatto piacere visivo scorgere, ma di cui non ho capito una parola essendo in quella lingua a me oscura che è il tedesco.

Dal titolo originale, poi, sappiamo che è definita “una ballata”, laddove questa precisazione sparisce nella titolatura italiana. Fortunatamente, appunto le note di Barra ci riportano quale sia la struttura, e quale siano state le difficoltà nel tradurre. Perché, in effetti, è una poesia, il cui metro (se fossimo germanisti e adusi all’individuazione degli accenti) è la “pentapodia giambica”, un verso con cinque accenti sulla prima sillaba, usato da Sofocle ed Euripide, ripreso poi dai “Racconti di Canterbury” di Chaucer, nonché nel “Don Carlos” di Schiller. Laddove quest’ultimo utilizzo ne ha fatto il verso principe del teatro classico tedesco.

La bella confezione adelphiana è infine impreziosita dalla riproduzione di alcuni acquarelli dedicati al Minotauro di mano dello stesso Dürrenmatt.

Allora, tolte le sovrastrutture, la confezione, veniamo allora ai contenuti. Dürrenmatt non si discosta di certo dalla trama ufficiale e consolidata della storia. C’è il Minotauro, corpo di uomo e testa di toro, nato dall’unione contro natura di Pasifae, regina di Creta, e del Toro di Creta, regalo di Poseidone a Minosse, re dell’isola. Il “mostro” viene tenuto segregato in una costruzione apposita, pensata e realizzata da Dedalo, uno dei più grandi architetti ed inventori dell’epoca. Per inciso, Dedalo si era rifugiato a Creta in quanto ricercato per aver ucciso il suo aiutante Calo, geloso che lo stesse per superare in maestria. Ma questa è un’altra seppur intrigante storia. Come intrigante è la parte riguardante i sacrifici umani. C’era infatti Androgeo, altro figlio di Minosse, un atleta invincibile. Durante giochi olimpici organizzati da Egeo di Atene (il padre di Teseo), gelosi della sua bravura, altri atleti lo uccisero. Minosse muove guerra a Egeo, lo sconfigge e chiede il tributo di sette fanciulli e sette fanciulle da inviare a Creta ogni nove anni, per fornire carne umana al Minotauro. Dopo alcuni anni, Teseo si adombra, e chiede di essere inserito nella fornitura al fine di uccidere il mostro. Non avrebbe molte chance, se nonché, arrivato nell’isola, si innamora, ricambiato, di un’altra figlia di Minosse e Pasifae (quindi anche sorellastra del Minotauro), Arianna. La quale gli fornisce il famoso filo per uscire dal labirinto. Teseo compie la sua missione, ma quello che accade dopo è materia di altri miti.

L’idea forte di Dürrenmatt è di ribaltare il mito, facendo del Minotauro una vittima “malgré soi”. Non ha chiesto lui di nascere, non è diventato così perché è “un mostro”. Anzi, non sa di esserlo, la sua coscienza gli dice solo che è lì solitario in un luogo che non conosce. Un luogo dove entrano periodicamente cose diverse da lui. Vittima del “profumo sessuale”, cerca accoppiamenti che non potranno avvenire, e che portano a mucchi di carne ed ossa, dove, prevalendo la sua natura animale, non può che utilizzarle per sostentarsi.

La seconda idea è di fare del labirinto una costruzione tappezzata di specchi. Per cui, non solo non si trova l’uscita, ma il proprio sé è moltiplicato all’infinito. Il grande svizzero ci fa toccare con il cervello la paura, la irrealtà che pervade il Minotauro che vede esseri “strani” moltiplicarsi all’infinito. E muovere la sinistra quando lui muove la destra.

Sarà solo vedendo una di queste figure che invece si muove in sincrono, destra con destra, che capisce di vedere un altro da sé. Perché qui Teseo si è mascherato da Minotauro. E come in quasi tutte le lotte tra uomo e toro, sarà Teseo ad avere la meglio. Forte e invincibile nel fisico, il Minotauro mostra la sua innocente vulnerabilità nell’incapacità di riconoscere la falsità e da questa viene sconfitto.

Dürrenmatt ovvio gioca sul rovesciamento, ma anche sulla metafora: il labirinto simboleggia il mondo spietato di cui siamo trappola (altrove troverà il modo di definire il mondo in cui viviamo “una polveriera in cui non è vietato fumare”). Quasi a ricordarci che il mostro che vive prigioniero per una sentenza che non sa e non conosce, in realtà è il noi stesso che attraversa la sua vita sperando di trovare scampo e amicizia, ma dove troverà l’unica cosa sicura per tutti: la morte.

È un autore duro e spietato, di una filosofia senza speranza (come in altre letture fatte, e come vedremo in altre future). Ma con quella dirittura morale che, sempre, deve guidare le nostre azioni. Un libro potente, difficile, ma di breve, intensa ed appagante lettura.

Siamo già alla terza trama, che ricordo non aver più conforto di libri felici, per cui ci si affida a citazioni e ricordi anche personali su molte passate letture (e riflessioni collegate).

Qui, per strapparvi un sorriso, vi riporto una frase tratta dal non eccelso libro di Nick Hornby “Non buttiamoci giù”: “come fa quella gente che deve prendere l’aereo, non so, una o due volte l’anno…”. Poiché mi conoscete bene, capite come non abbia smesso di ridere per alcuni minuti dopo averla letta.

Sarà quindi un buon augurio per i prossimi mesi, quello di poter riprendere aerei, che so, uno o due volte … al mese! Per ora, chiudendo questa trama mentre sto andando a prendere la prima dose del vaccino, mi accontento, una volta a settimana, di inviarvi tanti abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di maggio

Eccoci ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e pensieri Riferite al periodo marzo – maggio 2007.

Il primo che mi torna alla memoria, agli inizi di quel marzo (di un anno mirabile che mi avrebbe portato fuori dal mondo del lavoro, con mia grande gioia), inciampai in Marco Belpoliti che nel bel saggio “Crolli” mi fece appunto riflettere sulle possibili strade del futuro, laddove non sarei stato, o laddove ci sarebbe stato un vuoto: “le opere degli artisti… ci obbligano a concepire l’assenza, a pensare che anch’essa è fatta di materia”.

A metà marzo, infilai una trilogia dedicata alla allora nascente fame dell’ispettrice Petra Delicado, nonché del suo aiutante Firmino Garzon. Dal primo libro trassi due frasi assolutamente autobiografiche: ovvio che la prima parlasse della mia bellezza, e la seconda di un possibile futuro. Stiamo parlando di Alicia Gimenez-Bartlett che in “Giorno da cani” prima dice: “La visione del bellissimo Juan riuscì a rasserenarmi. Come poteva uno andarsene in giro con due occhi verdi come quelli e far finta che tutto fosse normale?”. Poi si sofferma in un lungo rapporto di coppia: “Cosa voleva, un fidanzamento di dieci anni? – Pensavo solo che è difficile adattarsi ad un’altra persona quando non si è più giovanissimi”.

La seconda citazione della nostra amata scrittrice spagnola viene da “Messaggeri dell’oscurità”, dove l’unica diversità sta nel fatto che mi piace abbastanza viaggiare: “e lei è felice? Sono solo, non ho un amore, non sono ricco, non sono bello e neppure giovane. Eppure …. Ci sono giorni in cui sto da Dio: chiacchiero … litigo … lavoro… e poi mi piace mangiare … e mi piace abbastanza andare al mare” (ricordo che è un libro che ho letto nel2007).

Infine, abbiamo due lunghe frasi prese da “Morti di carta”. La prima rimanda ad un libro di Barnes che chi mi conosce sa qual è e quanto lo amo: “Di tutto quello che mi è successo nella vita, non ho capito nemmeno la metà”. La seconda, con la quale sono mediamente in accordo, cambia solo nel finale: se la notte non dormo, io leggo. “Certo che la solitudine mi pesa. In genere non ci penso … ma quando vado a letto a volte penso che potrei non svegliarmi. E allora penso che nessuno sentirebbe la mia mancanza. La mia morte non cambierebbe la vita di nessuno… allora di solito vado in cucina a mangiucchiare”.

Siamo sempre nel 2007, ricordo, e vi ricordo (e mi ricordo) che aprile non fu degno di note particolari. Non così maggio.

Cominciammo con i ricordi dei miei passi falsi giovanili, con Glenway Wescott che nel suo "Il falco pellegrino" mi ricorda: "Se hai poco giudizio ti innamori di chi non può assolutamente amarti".

Il secondo, portandomi verso la Scozia, che già sentivo d’amare prima di conoscerla, mi prefigurava momenti a venire (che ancora sono qui). Infatti, Bartholomew Gill ne "L'assassino ha letto Joyce?" sostiene: "non si chiedeva spesso se amasse sua moglie. Non l'avrebbe sposata se non l'avesse amata".

Un altro autore che ho sempre amato, pur nella sua scarna produzione, dovuta purtroppo ad una breve vita, è il marsigliese Jean-Claude Izzo. Qui, mi parla da uno dei suoi meno noti libri, e mi parla non solo delle storie di Marsiglia, ma del Mediterraneo, dove mi ricorda molti miei viaggi: "Se si riconosce che Beirut è latina, si capisce che Marsiglia è mediorientale". Una frase che si trova in "Aglio, menta e basilico".

Un diverso autore, di cui ho letto poco ma intensamente, fu Richard Yates. In queste sue “Undici solitudini”, prima dà vita alla mia angoscia: “nessuno avrebbe indovinato le ore di ansia, i giorni di preparazione strategica e tattica che quel preciso momento gli era costato”. Poi mi libera, con una contro spiegazione di tutto quello che si può fare nei momenti d’ansia: “Oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve, perciò ho dovuto scriverne una lunga”.

Anche Claudio Magris mi porta lontano, mi porta ai miei vagabondaggi, dove in "Un altro mare" descriveva un modo di andare e di stare altrove: "Si porta … una provvista di vecchi abiti così non occorrerà mai più comprarne altri. In casa niente orologi, solo una meridiana là fuori, infilzata nel muro grigiastro. Due sedie accanto al letto sono più che sufficienti per appoggiare i vestiti quando si va a dormire".

Poi, e lo sapete, le mie letture a volte si rivolgono a testi meno noti, a rivoli di ruscelli magari neanche troppo profondi. E tuttavia mi colpì questa dichiarazione d’amore di Pino Roveredo: "Io ho dalla mia una speranza che vince mille a zero sulla pazienza, così so e ho sempre saputo che un giorno … un giorno arriverà il tramonto e si siederà sopra il sole, ma in quel momento il sole si rifiuterà di scendere giù, giù in fondo al mare, allora succederà che ci sarà luce tutto il giorno, … e tu non sarai astratta come il sogno. Sarà un giorno senza numero, senza mese e senza anno, … Ci credi? Se sì, mandami a dire". Ovviamente, il libro si intitolava "Mandami a dire".

Finisco infine, con qualcosa legata al tempo ed allo stare. Un modo in cui mi riconosco in pieno. Così abbiamo Nicole Fabre che ne "La solitudine" ci presenta queste due immagini.

La prima legata allo stare, "vivere da soli significa davvero essere soli? Vivere da soli permette di rendere più profondi legami che a volte chi vive in coppia rischia di trascurare". La seconda al tempo: "a 50 anni [lui] si rende conto che il tempo è passato, che anche la sua gioventù è passata e che la sua libertà non è più così piacevole".

Finisco qua, che si sa maggio è mese di compleanni. 

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