Gianrico
Carofiglio “La misura del tempo” Einaudi s.p. (Regalo de “I Floridi”: Mario,
Ines e sig.ra Laura)
[A: 07/05/2020
– I: 15/11/2020 – T: 17/11/2020] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno: 2019]
Ecco
un altro della tonnellata (metaforica) di libri acquistati con i buoni per il
mio ultimo compleanno. Acquisto doppiamente motivato: sempre piacevole leggere
le storie di Carofiglio, in particolare se compare come protagonista l’avvocato
Guido Guerrieri e perché mi incuriosiva come uno dei candidati al Premio Strega
(poi vinto invece da Sandro Veronesi).
Sbrighiamo
il secondo assunto. Non mi è sembrato un libro che potesse aspirare ad un premio.
Ben scritto, con qualche riflessione extra testo che si potrebbe approfondire.
Ma non un libro che prende, che coinvolge, che riesce a tenere sulla pagina.
Elementi che per me dovrebbero meglio caratterizzare la premialbilità di un
testo.
Più
interessante è l’evolversi della storia dell’avvocato. Ormai da tempo, la sua
prima compagna, Margherita, si è trasferita in America. E lui si accompagna,
senza un legame fisso, ma con buona frequentazione, con Annapaola, che poi
agisce, in comunione con il bravo Carmelo, come tandem investigativo dello
studio Guerrieri. Rimane anche, pur in sottotono, il suo sfogarsi con Mr.
Sacco, il pungiball dove i pugni sostituiscono pensieri foschi. Scaricando
pensieri e adrenalina. Rimane anche la lettura, uno dei motivi di simpatia del
personaggio. Sia nelle letture nei tempi morti dei processi, sia nelle visite
notturne alla stupenda e fantomatica libreria “L’Osteria del Cappuccino”. Una
libreria aperta solo di notte, per i sonnambuli dei libri. L’idea è stupenda,
anche se in questi tempi virali poco attuabile.
C’è
anche un po’ di volontà di allargamento di prospettiva, nell’impianto generale,
dove Guido viene coinvolto nella difesa di un possibile omicida, dalla madre di
quest’ultimo, che presto scopre essere stata, ventisette anni prima, una sua
fiamma per qualche mese. Qui si biforcano leggermente i due filoni tematici del
testo.
C’è
il tempo della giovinezza, anche se non della gioventù. Che Guido è già avocato
quando conosce Lucrezia, donna libera e piena di interessi. Di letture, ma
soprattutto di film, dove porta spesso Guido al cinema, in quell’estate dell’87
che vide nascere, crescere e morire il loro amore. Com’è trovare una fiamma
persa dopo tanti anni? Cosa si pensa, cosa si prova? Guido ripensa al suo io di
allora, alle sue speranze, al suo modo di affrontare la vita. Ripercorre tutta
la storia con Lucrezia, arrivando alla conclusione che sì, è stata una bella
storia, ma anche che è giusto sia finita e che ognuno abbia preso una sua
strada. Ci si può ritrovare, ma se ci perse di vista una ragione c’era (vero
Facebook?).
Poi
c’è il tempo del “giallo”, che poi è giallo sino ad un certo punto. Iacopo, il
figlio di Lucrezia, è stato condannato in primo grado per l’omicidio del suo
amico Mino. Attraverso una montagna di prove indiziarie, ed anche per colpa di
un difensore non all’altezza. Guido e la sua squadra provano a trovare, e
trovano, tutti i fili perduti della storia. Iacopo incontra un amico dopo aver
visto Mino e non prima. Iacopo potrebbe avere i vestiti con polvere da sparo
(anche) perché si è andato ad allenare in una cava con un suo amico, e non per
aver sparato a Mino. Insomma, l’avvocato Guerrieri ricostruisce tutta la
dinamica del tempo dalle 17 alle 20 ipotizzando una diversa lettura di tutti i
comportamenti. Insinuando anche il dubbio che Mino possa essere coinvolto in
qualche resa di conti con persone di alto livello mafioso.
Arriveremo
così al processo, tutto da gustare, ed alla sentenza. Sarà assolto? Sarà
condannato anche in appello? Dov’è la verità? E ci si arriverà?
Quello
che resta, visto che non c’è giallo, non c’è mistero, è un po’ di legal
thriller, ma non così coinvolgente alla Grisham o alla Turow. Ma resta anche, e
questo da quel mezzo voto in più, tutta una serie di riflessioni sulla giustizia,
e soprattutto sul ruolo dell’avvocato di difesa, espresso in un capitolo tutto
dedicato al tema, che forse è la cosa migliore del libro.
Carofiglio
è del resto una persona simpatica, umanamente, e non cesserò di leggerne altro,
che, in fin dei conti, porta sempre qualche sassolino nella mente di noi
decerebrati e decadenti.
“Parlare
da solo ad alta voce è una mia vecchia abitudine che tende a peggiorare con
l’età.” (39)
Gianrico
Carofiglio “La versione di Fenoglio” Repubblica Brivido Noir 12 euro 8,90
[A: 24/08/2020
– I: 26/01/2021 – T: 27/01/2021] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 158; anno: 2019]
In
realtà, è tutto meno che un giallo. Forse un libro di formazione, forse un
manuale per investigatori reali. Insomma, come “Brivido Noir” siamo alla
frutta. Come romanzo, scrittura e qualche idea per riflettere potrebbe essere
interessante studiarlo meglio.
Personalmente
continuo a preferire il primo Carofiglio, quello dell’avvocato Guerrieri, e
dico primo visto che nel tempo si è andato leggermente involvendo. Ho letto gli
altri di Fenoglio, e devo dire che pur gradendoli, ne avverto un’aria di
stanchezza, o forse di maturità verso la vecchiaia. C’erano le atmosfere
cittadine, c’è il maresciallo Fenoglio e la sua dirittura morale, c’erano trame
da dipanare, e casi umani da affrontare. Una scrittura in ogni caso che non ti
abbandona per strada, e che, nei limiti del fantasticare, riesce a portare a
termine (quasi) tutto quello che inizia a cucinare.
Come
dicevo, non è propriamente un giallo, che la maggior parte del tempo si svolge
in una palestra riabilitativa, che Fenoglio deve frequentare dopo un intervento
all’anca. Potrei iniziare una disquisizione su questo argomento ma mi limito a
segnalarvi la frase che ho riportato. Domandandoci se siamo anche noi sulla via
di diventare anziani.
In
palestra c’è la fisioterapista Bruna, prodiga di consigli e che ha di sicuro un
debole per il buon Pietro (e di sicuro è ricambiata, ma questo sviluppo, forse,
sarà materia di altri scritti).
Poi
c’è Giulio, reduce da un grave incidente, che deve rimettere a posto le sue
ossa. Cosa più semplice in quanto ventenne. Sotto la spinta tutelare di Bruna,
i due cominciano a farsi confidenze, con la facilità della promiscuità del
luogo, della curiosità di Giulio e della voglia di Pietro di riprendere nella
memoria fili antichi. E forse farsi qualche domanda.
Così
che Pietro racconta alcuni episodi della sua vita da maresciallo, anzi anche da
appuntato. Nelle sue parole si dipanano le storie di fatti diversi, di sangue,
di indagine, di persone che si sono conosciute, che magari hanno anche lasciato
un segno, e che ora non ci sono più.
Con
l’ottica di Fenoglio, seguiamo la prima indagine, giovane appuntato appena
giunto in città. Ha fiuto ed occhio il buon Pietro, così da scorgere un
dettaglio (una ricetta in bianco) sfuggito ai più. E magari non seguendo vie
ortodosse, riesce a risalire ad un drogato di optalidon, abbastanza fuori di
testa da uccidere il mite dottore che non voleva prescrivergli altre dosi di
antidolorifici. Poteva finire male l’iniziativa di Pietro, invece il capo
dell’investigativa, pur facendogli una giusta reprimenda, ne intuisce le doti,
e lo imbarca nella sua sezione.
Incontriamo
altri personaggi che hanno costellato la vita del maresciallo. Quello che
sapeva parlare bene, tanto da riuscire a convincere un possibile suicida a
desistere. Quello che aveva molte conoscenze nel demi-monde della malavita.
Quelli che erano mezze tacche, e che invece di essere presi e messi in
gattabuia, Pietro cercava una via per la loro uscita. Financo signorine di buon
passo, che passeggiavano spesso alla sera. Capisci a me…
Ma
questo è solo la trama visibile, quella più semplice da condividere, anche se,
capite bene, dato che c’è uno che racconta ed uno che ascolta, noi che leggiamo
non siamo coinvolti nella risoluzione dei possibili misteri. Siamo, in realtà,
coinvolto dal resto, da quello più difficile forse da raccontare in maniera
“piana”.
Potremmo
forse dire che diventa, pagina dopo pagina, un manuale del buon investigatore,
e perché no, anche del corretto personaggio sociale. Vediamo con Pietro che
l’investigatore è uno che deve saper usare le parole, parole che servono a
costruire storie, storie che convergono verso le spiegazioni di quello che
abbiamo davanti. Il fatto criminoso.
Ma
seppur partendo da un’indagine, il “metodo Fenoglio” porta sempre oltre:
momenti di riflessione sulla vita, che serviranno a Giulio per capire quale
possa essere la sua strada futura, e momenti platonici di filosofia, interrogandosi
il nostro sull’uso della coscienza nella vita, sul dover mettere sempre da
parte i pregiudizi, sull’ascoltare gli altri.
Dicevo
momenti platonici, che tutto è spesso risolto nel dialogo, nel contraddittorio,
e poi nelle esegesi che alle sue avventure di vita tira fuori Fenoglio.
Quindi,
ecco perché l’ho anche definito un “manuale del buon investigatore”, laddove mi
ha incuriosito l’ultima frase riportata sulla consonanza tra il suo lavoro e lo
storico. Storico che deve ricostruire fatti cui non ha partecipato, basandosi
su parole ed azioni altrui. Una bella riflessione per il mio amico Luciano.
Io
continuo tuttavia a non essere del tutto soddisfatto del libro che in fondo ho
trovato irrisolto, cioè che alla fine ci lascia, dopo averci accompagnato per
un po’. Mentre noi aspettiamo di sapere altro, Pietro, Giulio e Bruna se ne
tornano nell’ombra.
“La
protesi all’anca … è un intervento che fanno gli anziani, i vecchi. In realtà
non sono persone tanto più grandi di me, ma sono ‘anziani’. Ammettere di avere
la protesi all’anca significa ammettere di essere anziani.” (13)
“Una
parte del lavoro investigativo … ha molto a che fare con le parole. Per certi
aspetti [è un lavoro che] assomiglia a quello dello scrittore di romanzi, o
dello storico.” (40)
Donato
Carrisi “L’uomo del labirinto” Longanesi s.p. (Prestito di Fako)
[A: 05/02/2020
– I: 01/04/2021 – T: 02/04/2021] &&
---
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 390; anno: 2017]
Giusto
perché il mio amico se ne voleva sbarazzare, che poco gli era piaciuto. Che
alla fine del primo Carrisi di tre anni fa espressi grosse perplessità su
questo autore. Perplessità che rimangono anche in questa prova, che nella bio
dell’autore su Wiki, è considerata come il terzo volume della serie su “Mila
Vazquez”. E direi che anche qui stiamo veramente fuori.
Intanto,
riporto le mie (costanti) perplessità sulla scrittura dell’autore: poca
attenzione ai luoghi (non ci sono indicazioni, ci sono nomi che possono andar
bene ovunque), ricerca di effetti, magari non così spinta come ne “Il
suggeritore” dove c’era un colpo di scena a capitolo, ma effetti ci sono, tanto
che alla fine prendono la mano all’autore che non sa più maneggiarli, ce li
butta alla rinfusa, ed alcuni sono poco credibili (e malamente spiegati).
Infine, due ciliegine: la comparsa in finale di Mila, che era stata solo
indicata a volte nel testo, ma messa lì come a voler creare quella continuità
di serie che invece è manchevole (e mi domando chi legge questo come primo
libro dell’autore se ne farà di domande). Poi la stampa Longanesi, “a maglie
larghe”, tanto per aumentare il numero delle pagine, e conseguentemente, il
prezzo del libro.
Certo,
Carrisi ha sempre qualche idea interessante, cosa che consente di far salire
(anche se di poco) il gradimento librario. Qui, ad esempio, si concentra sul
ritorno, sul ritrovamento di persone scomparse. Già questa è un’idea
interessante da sviluppare. Carrisi aumenta la dose, prendendo a spunto la vicenda
di Samantha (con l’acca ovvio), che ricompare dopo 15 anni. Qui ci poteva stare
un lungo approfondimento sui disturbi psicologici di persone che riappaiono
dopo tanti anni (rimando solo per citazione e memento alla vicenda della
famiglia Fritzl), e che Carrisi cerca di sviluppare, senza però prendere una
via sicura.
Perché
è preso dal resto della trama, e dalle complicazioni che vuole inserire. Di
certo, pensava di far entrare in scena Mila, la cercatrice di fanciulle
scomparse, ma non trovo (almeno nella prima parte) un modo “easy” di farlo. Si
affida allora nell’incentrare le ricerche sulla figura dell’investigatore
solitario Bruno Genko. Strano tipo, anche lui un po’ disturbato (ne vedremo
momenti quando torna nella sua vera casa, si toglie la maschera da trasandato,
e si aggira per un appartamento lussuoso, confortevole, con notevoli strumenti
tecnologici a disposizione) che ha un serio problema: i medici hanno
diagnosticato una degenerazione cardiaca che lo deve portare ben presto nella
tomba.
Ma
Bruno, pur cosciente della sentenza di morte, una volta saputo del ritrovamento
di Sam, non può tirarsi, moralmente, indietro. Era stato lui a fare delle
indagini quindici anni prima, senza cavare un ragno dal buco. Ora però ci sono
elementi maggiori.
La
strana liberazione della ragazza, il tizio che la ritrova e che dice di aver
visto una persona travestita da coniglio nelle vicinanze. Bruno, con gli
strumenti a sua disposizione (ma perché non li usa anche la polizia, visto che
per trovare un filo rosso proprio nel computer della polizia Bruno si
intrufola), vede profilarsi una traccia. Un bimbo, sparito per tre giorni, è
associato al termine “coniglio”. Bruno allora segue questa pista, risale al
bimbo, che ora dovrebbe avere sui trentacinque anni, risale alla famiglia
adottiva, risale ad un libro di fumetti degli anni ’40, che ha per protagonista
un coniglio di nome Bunny (sarà ispirato al mitico “Bugs” Bunny?), e che un
mercante d’arti nonché fumettologo gli spiega essere un gioco di specchi: nei
cuoricini che coprono gli occhi di Bunny sono miniaturizzate scene di sesso dal
violento all’estremo.
Bruno
risale all’infanzia di Ronnie, al sagrestano che forse lo ha rapito,
all’identità di uno che forse è l’identità di un altro. Ritrova anche Ronnie, o
forse una vittima di Ronnie. Compare un Peter che sembra essere stato plagiato
da Ronnie, che uccide una trans amico di Bruno, che si fa ospedalizzare laddove
è ricoverata Sam. E dove finisce anche Bruno inseguito all’infarto che ci
aspettavamo dall’inizio.
Si
salverà Bruno? Peter riuscirà laddove Ronnie ha fallito? Sam uscirà dagli
incubi psicologici? Perché per tutto il libro c’è un dottor Green che cerca di
curare Sam, e poi vediamo una dottoressa Green che parla con l’aiuto di Mila
alle persone scomparse?
Carrisi
tenta di far quadrare tutti i conti alla fine, ma ci sarebbero volute molte più
pagine per rispettare i criteri del buon giallo come da decalogo Van Dine del
’29.
Quindi,
qualche buon voto per alcune idee (soprattutto quella centrale), per la scrittura,
mai sciatta, sempre concentrata. Ma poco altro: non avvince, non coinvolge, è
dispersiva, si perde qualche personaggio nei rivoli della storia, e non ci fa
mai appassionare ad uno dei “buoni”. Anche se, e l’ho detto nell’altra trama,
nei libri di Carrisi non sembra che ci siano mai personaggi veramente positivi.
“Non
era cattiveria, era sciatteria. Che … era imperdonabile più della crudeltà.”
(230)
Autori
Vari “Roma Noir” Repubblica s.p. (omaggio di Repubblica)
[A: 28/01/2021
– I: 28/04/2021 – T: 29/04/2021] &&
---
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 113; anno: 2021]
Anche con questo “scritto” il giornale di
Scalfari cerca di risalire la china delle vendite. Purtroppo, l’intenzione è
buona ma il risultato è poco convincente. Perché la confezione, pur con tutte
le buone intenzioni risulta particolarmente sciatta. Non si possono assemblare
diversi articoli, anche ben scritte, e sbagliare le date degli avvenimenti: la
morte di Alberica Filo della Torre è avvenuta il 10 luglio 1991 e non 1993,
quindi andrebbe prima di quello descritto per il 25 febbraio 1993; il “suicido”
di Mario Ferraro è datato 16 luglio 1995 e non 1985 come indicato a pagina 88.
Così si dimostra una inaccuratezza sospetta.
Ma poco ci interessa, in fondo, capire i come
ed i perché. Rimane una serie di dieci articoli più uno che toccano momenti
“neri” della vita romana, con i suoi cold case da analizzare. Tutti meno due:
c’è l’intervista iniziale a Nicola Lagioia, che serve solo a pubblicizzare il
suo ultimo libro, che parla dell’omicidio di Luca Varani, di cui si sa tutto, e
c’è la morte della contessa Alberica, dove, seppur a distanza di decenni, si sa
chi ha fatto cosa. Certo, quel delitto è uno dei tanti esempi di mala
investigazione, ma di certo non è irrisolto.
Irrisolti, invece, sono quasi tutti gli
altri. E dico quasi, non perché ci siano delle soluzioni ma poiché almeno due
sembrano essere suicidi, o tali sono stati archiviati anche se forse furono
esecuzioni ver e proprie.
È anche vero, e questo non lo posso negare,
che da buon romano, rileggere queste storie, mi fa fare un viaggio nella mia
città, nella sua parte oscura, che in pratica avevo fatto ai tempi delle
vicende. Ma poi ci si dimentica, si rimuove, si va oltre.
Ma qual è l’idea, lo schema proposto?
Articoli, scritti o dai giornalisti che se ne sono occupati o da firme
“celebri” della nera di Repubblica, al fine di ripercorrere alcuni dei misteri
della capitale. In questo, devo dire, ho trovato una sicura spanna sugli altri
gli articoli di Emilio Radice (anche a prescindere dalla lontana amicizia) e
soprattutto di Massimo Lugli, che ritengo, per i misteri romani, quello che è
Colaprico per quelli milanesi: due penne magistrali.
In così esimia compagnia, quindi, eliminati i
due casi “risolti”, percorriamo la maggior parte degli altri, che si annida
negli anni ’90 (sei su nove). Rimangono spuri i primi due e l’ultimo. E, in
particolari i primi, non sono da poco. Si parte infatti da lontano, da quel ’77
che stavo impiegando nei miei sei mesi da professore, con l’uccisione di Ida
Pischedda. Corpo ritrovato carbonizzato, vicenda annosa, mai risolta, con
possibilità che sia una combutta del fidanzato e della madre di lui. Ma
soprattutto, con l’83, sia per il caso, ben descritto ed argomentato, di
Emanuela Orlandi, talmente noto che non ci torno sopra. Ma su cui sempre mi
aleggia una questione irrisolta: ma c’entra anche Mirella Gregori, scomparsa un
mese prima di Emanuela? Per passare poi all’ultimo, l’esecuzione, sul greto del
Tevere, del fotografo Daniele Lo Presti, nel febbraio del 2013, con una tecnica
che ritroviamo anni dopo anche nell’uccisione di Fabrizio Piscitelli detto
Diabolik. Con un curioso parallelo: Daniele si allena, erano un runner, e viene
ucciso in un posto isolato, Diabolik viene ucciso da un runner in un parco
molto frequentato.
In mezzo i sei casi degli anni ’90. Alcuni
super noti: la morte di Marta Russo alla Sapienza nel maggio del ’97, il
tentativo multiplo poi riuscito per soffocamento di uccide Antonella Di Veroli
nel ’94, il caso di Semeraro del ’90 (talmente noto che Matteo Garrone ne ha
fatto un film). Poi i due “suicidi” il manager Castellari nel ’93, in piena
Mani Pulite, e l’agente segreto Ferraro nel ’95, con molta probabilità, anche
uccisi e/o morti per dare segnali “altri”.
L’ultimo che voglio menzionare è quello forse
più vicino anche logisticamente: il massacro a via Poma di Simonetta Cesaroni.
Una via che ho percorso migliaia di volte, sia per andare da mia zia a Piazza
Mazzini, sia per andare al vicino Ufficio Postale. Uno stabile dove conoscevo
anche delle persone che vi abitavano. Un mistero che, dopo trent’anni, attanaglia
per la sua implausibilità. Certo anche gli altri sono delitti che lasciarono il
fiato sospeso ad una Roma che meriterebbe senz’altro una migliore fama.
Quindi, alcuni buoni giornalisti, un
ripercorrere quarant’anni di vita romana, dalla parte più oscura. Ma un
pensiero finale alla deriva che le iniziative di Repubblica stanno prendendo
negli ultimi tempi, anche a fronte del cambio di proprietà. Peccato.
Visto che ci siamo rimessi in riga dopo un
po’ di confusione negli invii, questo essendo sicuramente il secondo invio di
luglio, possiamo tornare a dedicarci anche agli allegati mensili, questa volta
dedicato ai malesseri del ventunesimo secolo.
Visto che si stenta ancora a viaggiare,
niente di meglio, almeno, che rivolgersi all’ottimo Claudio Magris che
ci fornisce alcuni bei pensieri viaggianti: “Perché hai viaggiato sin qui?
Risponde Don Chisciotte: qui io so chi sono”, “Kant, mai mossosi da
Koninsberg, esortava a leggere letteratura di viaggio”, ma soprattutto “L’avventura
più rischiosa … si svolge a casa: è là che si gioca la vita, la capacità o
incapacità di amare e di costruire”.
Perché, anche se non sappiamo quando, si risalirà su di un aereo, non spensierati, ma festanti. Ed arrivando in nuovi porti ci saranno tanti abbracci.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
LUGLIO 2021
Certo, che di malessere ne
abbiamo incamerato tanto, speriamo che una risata lo seppellirà.
VENTUNESIMO SECOLO, MALESSERE DEL
Benoît Duteurtre “Nuoce gravemente alla salute”
Gary Shteyngart “Storia d’amore vera e supertriste”
Il senso di disagio che si prova
e che è specifico per questo secolo nasce dalla distanza che separa il
desiderio di una vita compiuta, soddisfacente e anche avventurosa e l’assurdità
della società come la vediamo funzionare intorno a noi: la burocrazia, il
“politically correct”, la normativa sulla sicurezza, la disfunzionalità
individuale provocata dall’uso eccessivo della tecnologia... L’elenco potrebbe
continuare.
Nessun romanzo coglie questo
malessere con maggiore efficacia di “Nuoce gravemente alla salute” di Benoît
Duteurtre. Il punto di partenza è il caso immaginario di Désiré Johnson che,
sul punto di essere giustiziato per l’omicidio di un poliziotto, chiede
un’ultima sigaretta. La richiesta getta nello scompiglio la direzione del
carcere. Désiré si appella all’articolo 47, com’è suo diritto, ma all’interno
della struttura è vietato fumare. L’assurdità della richiesta, assolutamente
fuori tempo, e la determinazione con cui l’uomo insiste affinché venga esaudita
mettono alla prova le capacità normative della direzione, finché non viene
deciso che solo la Corte Suprema può pronunciarsi al riguardo.
Nel frattempo, un altro uomo sta
vivendo una crisi diversa, che comunque riguarda le sigarette. L’uomo lavora
come consulente tecnico per il Dipartimento Servizi Generali, e il fumo è il
suo vizio segreto. Un giorno, mentre si fa una sigaretta e butta fuori il fumo
dalla finestra del gabinetto, una bambina di cinque anni entra e lo trova con i
pantaloni calati. Lo racconta a tutti e ben presto l’uomo si trova a dover
affrontare un’accusa per molestie sessuali. Il romanzo, una satira diabolica
nello stile de “Una modesta proposta” di Jonathan Swift, mette la giustizia
nelle mani dei bambini. Condividete la frustrazione di Duteurtre per un mondo
ormai fuori di testa. Rendersi conto che non siamo i soli a invocare un po’ di
buon senso certamente aiuta.
In “Storia d’amore vera e
supertriste” di Shteyngart, invece, Lenny ed Eunice vivono in un futuro non
troppo lontano, dove un flusso di dati aggiorna costantemente gli individui sul
loro punteggio di reputazione e relativo posizionamento nei social network,
oltre a dare consigli per gli acquisti e riportare le ultime chiacchiere degli
amici. Lenny ha trentanove anni ed è un ebreo arrivato dalla Russia che, in
modo anacronistico, ama ancora - e li legge pure - i libri (soprattutto
Tolstoj, che i suoi amici considerano dannoso per la salute). Il suo oggetto
del desiderio, Eunice, è una giovane studentessa coreana. La loro storia viene
raccontata attraverso quello che ciascuno scrive sul proprio diario, Lenny alla
vecchia maniera, Eunice attraverso il suo account su Global Teens - una sorta
di versione totalizzante di Facebook - e così ci divertiamo ad ascoltare Eunice
che fa la teenager. Quello che scrive, comunque, mostra tutta la sua angoscia
per il futuro, ma anche la contentezza che riesce a provare, con grande
sorpresa, col suo «caro sciocchino» Lenny. Nel frattempo, New York comincia a
disintegrarsi intorno a loro, l’America è in guerra con il Venezuela e tutti
sono così indebitati con la Cina che da un momento all’altro Pechino può
decidere di staccare la spina.
Dopo la satira di Duteurtre,
questa scorribanda in un mondo post-letterario e ossessionato dai media, fatto
di «amici» in cerca di immortalità che sanno tutto l’uno dell’altro ma devono
mettere un «Emo-Pad» sul cuore per sapere cosa provano, vi scoprirete a
desiderare un «manufatto stampato, rilegato e non riproducibile in streaming» -
magari di Tolstoj - anche se questo farà scendere il vostro «punteggio di personalità».
Capirete che Lenny Abramov, ultimo lettore sulla Terra, ha ragione su un sacco
di cose.
Bugiardino
Non
ho letto Duteurtre, anche se questa sintesi di fumopatia può renderlo interessante.
Mentre ho letto questo libro di Gary dal cognome complicato (ed anche il
precedente “Mi chiamavano piccolo fallimento”).
Gary Shteyngart “Storia d’amore vera e supertriste” Guanda euro 18,50
(in realtà, scontato a 13,87 euro)
[tramato
il 5 novembre 2017]
Un libro che entra velocemente
nella libreria e nelle letture in base ad un emendamento dei miei criteri di
lettura. Ora c’è anche iBUK a suggerirmi mensilmente i più venduti. Che
acquisto e metto in liste prioritarie, così che i miei amati lettori abbiano
anche un po’ di attualità. Comunque, sarebbe un libro entrato in ogni caso
nella mia libreria, per i suggerimenti delle nostre libropeute, anche come uno
dei dieci migliori libri del 2010. Devo confermare che, nonostante qualche alto
e basso, ed una parte finale un po’ scontato e non forse all’altezza del resto,
il libro ha un suo interesse. Tra l’altro l’autore nasce Igor Semyonovich in
quel di Leningrado esattamente 45 anni fa, per poi mutare il proprio nome in
Gary, e, dopo alterne vicende, dedicarsi ad una letteratura di marcato stampo
satirico. Anche se a volte, l’eccesso di satira rischia di essere un po’
vincolante per l’andamento del libro, in molte parti si riesce a trovare la
misura.
In una epopea che non è, come il
nostro marketing vorrebbe suggerire, la descrizione di una nazione marcata a
fuoco da Trump. Ma è una proiezione visionaria, in tempi da Obama, di quella
che potrebbe diventare l’America post-trumpiana. Cioè un’America devastata
dalle ossessioni, nate in tempi non sospetti, ma portate all’esasperazione da
Trump e dai suoi sodali. Gary esaspera i tratti attuali del mondo, politici, di
vita quotidiana, ma quanto sarà lontana dal vero la sua visione? Un mondo dove
ci sono due potenze che governano la vita di ognuno.
La Cina dal punto di vista
economico, tanto da diventare presidente del FMI. La Norvegia dal punto di
vista delle telecomunicazioni, che tutti sono connessi attraverso apparati
elettronici, e la Telecom norvegese ne ha il monopolio. Scenari che non sono
lontani da quelli attuali. L’America è pian piano regredita, ed il pensiero
principale dello scenario americano è trovare il modo di allungare la vita,
allungarla sino all’immortalità. Attraverso una compagnia, i Servizi Post Umani
(SPU), che la governa più o meno occultamente. Mentre dal punto di vista
politico, il management americano è praticamente asservito ad Israele. In
questo mondo in bilico, con tanti poveri al limite della sussistenza e pochi
ricchi che fanno il bello e cattivo tempo, si muove il nostro eroe Lenny
Abramov.
Ebreo di famiglia russa (come
Gary) alla ricerca del modo di vivere all’infinto, asservito al capo della SPU,
che durante un anno sabbatico a Roma conosce un’oriunda coreana, Eunice, più
giovane di lui di 15 anni (lui essendo un quasi quarantenne), e se ne innamora
follemente. In questo mondo bislacco, vediamo il nascere di questa vera storia
d’amore, punteggiata dalle due scritture di Gary: il diario di Lenny ed i
messaggi elettronici di Eunice. Vediamo tutto il nascere e crescere del loro amore,
anche se Eunice non si concede mai fino in fondo. Che rimprovera a Lenny il suo
non essere presente in casa, nelle pulizie, nel mondo quotidiano.
Lenny ha anche un altro difetto:
legge i libri! Mentre tutti il massimo che fanno è scansionarli con i loro
apparati alla ricerca di qualcosa da ritenere, ma tutti in via elettronica. Non
ci si meraviglia quindi che quando Eunice viene a contatto con Joshua, il capo
di Lenny, venga abbagliata dalla sua potenza (procura cibo, sistema la famiglia
coreana di Eunice, insomma è un berlusconiano ringiovanito). Ci avviamo così
alla parabola finale, la parte supertriste. Che Eunice lascia Lenny. Ma lascerà
anche Joshua, per andare a vivere e fare figli a Londra con un suo coetaneo.
Lenny, scottato ma non domo, pubblicherà con successo il diario di questi suoi
mesi allegri e tristi, cambierà il suo nome in Larry, ed andrà a vivere nello
Stato Libero della Toscana. E incontrerà di nuovo Joshua, che vede fallire il
suo progetto, dove il ringiovanimento delle cellule, ad un certo punto, provoca
crisi di rigetto, ed i Post Umani falsamente ringiovaniti andranno anche loro
incontro alla morte. Unica certezza del libro e della vita.
Il tutto è anche inframmezzato da
altri momenti tipici di possibili scenari: guerre e guerriglie, blackout
elettrici, ed altre ovvie e probabili amenità. Ma non è questo il bello del
libro. Quello che atterrisce e colpisce è la visione di tutte queste persone
attaccate al loro iPhone (che viene chiamato con altri nomi, ma sappiamo tutti
che è lui). Che non si parlano ma si messaggiano. Tanto che a volte per uscire
dalla routine decidono di verbalizzare, cioè di parlarsi a voce. iPhone che
consente di seguire cosa accade. Dove un’amica di Lenny vive in streaming
narrando le sue storie in diretta, anche durante la cena con gli amici. Come fa
Noah, altro amico di Lenny, che invece fa il commentatore politico in diretta.
Con Eunice che compra solo su iPhone nei mercati virtuali. E che, nel momento
di blackout e bancarotta mondiale si ritrova con Lenny a comprare vestiti di
cotone in un mercato tipo suq nel centro di New York. Questa visione, che Gary
proietta nel futuro, è invece già qui. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, tutti i
momenti. Andate cinque minuti in una metropolitana, e contate quanta gente ha
un cellulare acceso! Sarà almeno l’80%. Andate in un ristornate e vede quante
gente per parlare con un vicino di là dal tavolo, non verbalizza ma whatsappa!
Ripeto, il libro ha cadute di tono, ha momenti anche troppo semplicistici. Ma è
un campanello d’allarme gigante. Una campana direi! Cerchiamo di frenare, prima
che sia troppo tardi. Prima che tutto sia talmente caldo da non poter essere
più maneggiato né gestito. Un libro satirico dice il marketing. No, un libro
che mette addosso una grande paura.
“Speravo che aggiungesse
‘faccia da sfigato’ [o ‘giurassico’] tanto per essere sicuro che fosse tutto a
posto, ma non l’ha detto.” (132)
Conclusioni
Non era nelle corde degli autori,
ma avrei con oculatezza aggiunto Paolo di Paolo ed il suo libro sugli anni
Venti, con i malesseri paralleli di ora e di cento anni fa.
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