domenica 18 luglio 2021

New York, un po’ … - 18 luglio 2021

Una settimana tutta dedicata alla Grande Mela, per letture della collana di Repubblica, e perché, guardando di là dall’Oceano, si spera di tornare a viaggiare. Una quartina in salita, dove quello a me più noto, McInerney, comincia con buon passo, poi si perde. Meglio procedono O’Neill e Gopnik, per finire molto bene con Colum McCann, dove mi unisco anche io al suo bacio.

Jay McInerney “La luce dei giorni” Repubblica New York 3 euro 9,90

[A: 03/09/2018 – I: 09/01/2021 – T: 12/01/2021] - && e ½  

[tit. or.: Bright. Precious Days; ling. or.: inglese; pagine: 508; anno 2016]

Finisco questo libro praticamente in concomitanza con il 66° compleanno dell’autore. Che è un veterano della scrittura, anche se non un grande pubblicatore. Io lessi il suo primo libro, lui trentenne (“Le mille luci di New York”), interessante, ma già da allora (1985) troppo pieno di droghe e troppo vuoto di intrecci significativamente coinvolgenti. Infatti, Jay è anche considerato più che un autore minimalista (anche se andò a lezione da Raymond Carver) un autore della “brat pack”, la teppaglia (in senso ironico) di attori coagulatisi intorno a Demi Moore negli anni ’80.

Comunque, producendo poco, e di poco segnalatomi, non ho letto altro, fino a questo, che riprende due temi: una nel titolo, su cui torniamo, ed uno sui protagonisti. Dicevo del titolo: una grossa fette dei libri di McInerney contiene il termine “bright” nel titolo. Indicante sempre qualcosa di luminoso, e che spesso i suoi traduttori non riescono a rendere pienamente. Ad esempio, il primo libro sopra citato si intitolava “Bright Lights, Big City”. E questo, come vedete sopra, contiene sempre un accenno alla luce, chiosandola con quel “giorni preziosi” che la definisce e forse ne fa emergere una critica.

Il secondo tema viene dai protagonisti. Io leggo i libri senza prima compulsare quarte e risvolti, così che solo a libro finito ho scoperto che era il terzo libro della trilogia dei Calloway. Ora, l’autore è stato discretamente abile a non far trapelare nulla dal testo, ma alla fine, probabilmente, il libro stesso acquista una valenza diversa, non so se positiva o negativa, dal fatto che è appunto il terzo capitolo di una saga. E forse non sarà neanche il capitolo finale.

Nel primo libro, per voi che invece leggete le mie trame e non i miei libri, si parla della giovinezza di Russell e Corinne, del loro incontro all’Università, e del loro amore. Nel secondo, invece, il focus è sì sui protagonisti, ma anche sulle vicende dell’11 settembre, che i nostri vivono prima, durante e dopo. Nel primo, trasversale all’amore tra i nostri, c’era anche la presenza di Jeff, amico e sodale di Russell, scrittore promettente, innamorato di Corinne, e stroncato dalla droga. Nel secondo, è invece presente la storia tra Corinne e Luke, un ricco uomo d’affari, che è preso cotto da Corinne. Con cui lavora per aiutare i poveri e gli affamati dopo la caduta delle torri.

Qui, al fine, li ritroviamo tutti. Russell, editore di buon successo, con fiuto per i buoni libri, ma anche con grosse ingenuità. Sia personali (ogni tanto ha qualche scappatella) sia lavorative (andando a pubblicare un libro pieno di falsi che lo porta quasi alla rovina). Corinne ha ormai abbondonato la sua professione per lavorare in una associazione caritativa (“Nutrire New York”). Peccato che ritrova Luke sulla sua strada, per cui prenderà una sbandata che porterà la coppia sull’orlo della crisi definitiva. Ed i loro amici: i coniugi Lee, neri, con il marito che prende una sbandata per Casey, la più cara amica di Corinne. C’è come detto Luke, diviso tra New York e le sue vigne in Sud Africa, ma che non riuscirà mai a fare il passo definitivo per conquistare Corinne. C’è Jack, un giovane e promettente autore di provenienza sudista, che Russell lancia, ma che Jack tradisce ammaliato dal finto successo e dalle tante droghe.

Questi poi sono i due fili conduttori (più un terzo più valido): si scopa e ci si droga a tutta. Certo, l’ambiente è quello dei possidenti americani, pieni di soldi, propri e in prestito. Che l’unica cosa che sanno fare è andare a letto con qualcuno che non è il proprio coniuge, e riempirsi il naso di coca (se non le vene di ero ed altri sballi).

La vicenda è inzeppata, oltre che di sesso, di piccoli intoppi quotidiani: gravidanze eterodirette, liti familiari, bulimia dei figli, pesca alla mosca. Ma tutto scorre con quel minimalismo che in Leavitt ed epigoni poteva essere interessante, mentre qui scorre piatto, senza mai fare una grande presa.

Rimane il terzo filo, latente, ma di sicuro migliore: New York. I protagonisti ci vivono, camminano, girano tra SoHo e TriBeCa, tra Upper West e l’Upper East, tra gli Hamptons e Harlem. Con una capatina, che a me ha fatto tornare ai tempi in cui spesso sono capitato nella grande mela, a Brooklyn Heights ed alle sue casse in mattoni marroni, le “brownstone”, le case d’arenaria a schiera con i cinque gradini per entrare che danno sui marciapiedi.

Il tentativo di McInerney è stato anche qui di inserire la storia in un contesto sociale: siamo nel 2008, quindi i nostri WASP si dividono tra Hillary e Obama, e saranno contenti della vittoria del secondo. Ma è anche l’anno della crisi di Lehman Brothers, e molti dei nostri ne avranno conseguenze anche pesanti. Tuttavia, non prende, anche perché si spera che l’America sia anche altro. Pur se vedendo i Donald successivi ci si pongono forti domande. Però, alla fine, pur ammirando un autore che riesce a tenerti sveglio per 500 pagine, non lo ritengo un libro imperdibile.

Un ultimo accenno sempre alla traduzione. Ad un certo punto, Luke vuole convincere Corinne a venire in Africa per un safari, e vedere, così dice il traduttore, i “cinque grandi”. Detto così è insensato. Quelli, si sa, sono i “big five”, che certo letteralmente sarebbe giusto tradurlo così, ma se non si sa che i detti “big” sono l’elefante, il leone, il bufalo, il rinoceronte ed il leopardo, la citazione rimane monca. Speriamo in meglio in altre traduzioni.

“Aveva insistito sul fatto che quella non era una festa di compleanno, non avendo alcun desiderio di celebrare i propri …, a differenza di … che aveva fatto una gran baldoria per…” (66)

“Non conosco la musica recente … cioè me la cavo fino a … li Stones e i Led Zeppelin, ma dopo di loro … mi pare che il rock si sia esaurito.” (81)

“A colazione vuole sapere cosa c’è per pranzo, e a pranzo chiede della cena.” (214)

“Non era esattamente così che me l’immaginavo, sai, quando pensavo al mio futuro.” (270)

“Invecchia insieme a me. Il meglio deve ancora venire.” (493)

O’Neill “La città invincibile” Repubblica New York 8 euro 9,90

[A: 24/09/2018 – I: 01/02/2021 – T: 04/02/2021] - &&& 

[tit. or.: Netherland; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 2008]

Non sembra proprio un caso che il libro preferito da Obama, presidente americano di origini non africane, che lo ritiene il miglior libro su New York e sul post-11 settembre pubblicato in America, sia questo scritto da un irlandese di madre turca, vissuto a lungo in Olanda, che mette al centro visivo del testo il gioco del cricket, un suo alter-ego olandese ed una spalla che proviene da Trinidad.

O’Neill, infatti, è nato proprio a Cork in Irlanda, ma gira per molti posti, sino a stabilirsi a lungo in Olanda. Si laurea, diventa un buon giocatore di cricket, fa l’avvocato a Londra, poi nel ’98 emigra in America con la moglie. Vivono al Chelsea Hotel (quello dove morì Dylan Thomas nel ’53, tanto per ricordarsene), hanno tre figli. Poi la vita di Joseph prosegue in altro modo, ma tutta questa prima parte ha un suo riscontro bio-fiction nel testo appena letto. Dove però il protagonista è direttamente olandese, e si chiama Hans van der Boek.

Comunque, tanto per fare un salto sopra a quello appena detto, alla fine non è un romanzo né sul cricket né sugli immigrati delle Indie Occidentali. È di sicuro un romanzo che ha per protagonista New York, ed è un romanzo sull’amore, sula matrimonio e sui rapporti interpersonali.

La cosa che più mi ha colpito e fatto amare gran parte del romanzo è quel modo dell’autore di entrare ed uscire dal tempo, senza crearne fratture. Da tempo, leggo libri i cui autori ricorrono spesso ai flash-back per illustrare meglio momenti e situazioni. Qui, Joseph riesce, pur andando su e giù nel tempo, a creare un’unità descrittiva che non disturba. Seguiamo i pensieri di Hans, che, come in tutti noi, mentre vedono l’oggi che scorre, a volte svolazzano indietro o di lato nel tempo. Il tutto senza perdere ritmo. Molto interessante.

Hans è un analista dell’andamento mondiale del petrolio, ha una moglie-avvocato inglese, Rachel, che decide di andare a New York per la carriera. Lì i due prima vivono a TriBeCa (ricordo per i non newyorchesi, “Triangle Below Canal Street”, dove Canal Street è l’inizio di Little Italy), ma dopo l’11 settembre si spostano al Chelsea Hotel (vedi sopra), hanno un figlio ed il loro matrimonio entra in crisi. Per affrontarlo hanno strategie diverse: Rachel con il figlio Jake torna a Londra, Hans si dà al cricket.

Qui si apre una grande parentesi del narrato: primo, il cricket che è l’antenato del baseball, e che quindi avrebbe senso fosse ancora praticato in America; secondo, il cricket ancora che è uno sport cavalleresco, ma anche troppo lungo per la realtà statunitense (prima che venissero adottate regole restrittive, una partita poteva durare fino a cinque giorni); terzo, è nel cricket che Hans incontra sia una colonia di immigrati di colore sia, e ben più importante, l’arbitro trinidadiano nonché grande faccendier e megalomane, Chuck Ramkissoon.

Hans è l’unico bianco a praticare il cricket, ma Chuck lo prende sotto la sua ala protettiva, e lo introduce ai mille misteri della città e delle sue attività. Chuck è veramente innamorato della sua nuova patria, tanto da voler essere sepolto a Brooklyn. E sì, Chuck è megalomane, inventore di mille improbabili attività (come un ristorante sushi per ebrei) all’insegna del suo motto “think fantastic”.

Poi, c’è New York. I suoi luoghi chiave, le usanze, le solitudini, visti sempre attraverso gli occhiali di un immigrato del Vecchio Mondo. Così che da un lato vediamo gli strani personaggi di Chelsea: il gay turco che si aggira per l’hotel visto da angelo, un artista ben drogato ed i suoi occhiali da sole anche di notte, i proprietari di cani che fanno feste quadrupedi nella hall. Nonché luoghi inusitati della grande Mela: il Floyd Bennett Field (il primo aeroporto di New York), il Green-Wood Cemetery, con le sue tombe di Tiffany e Steinways, ma anche di Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart. Perfino la lunghissima (15 chilometri) Flatbush Avenue, che Hans descrive come zeppa di locali bucati "dedicati all'abbellimento ... di quelle parti del corpo che continuano a prosperare dopo la morte: ... barbieri, specialisti africani nell'intrecciatura dei capelli, fornitori di parrucche e acconciature ... "

Una bellissima ed ironica pagina è dedicata al tentativo di Hans di prendere una patente statunitense, laddove si scontra con la burocrazia quando sulla sua tessera sanitaria e sulla sua green card il suo nome è scritto con due grafie diverse.

Ma tutto poi torna a ruotare tra il rutilante Chuck e l’incerto Hans, fino al loro allontanarsi definitivo, per la decisione dell’olandese di tornare in Europa per salvare il suo matrimonio. Tentativo forse riuscibile, impreziosito da alcuni ricordi materni di toccante bellezza.

È un libro che ho letto con piacere, sia per ritornare alla mente a New York, sia per le peripezie mentali del protagonista, sia, infine, per quelle descrizioni di un gioco che pochi, al di fuori di una ristretta fascia asiatica conoscono in profondità. Per non dimenticare una bella anche se complessa vacanza della famiglia van der Boek nel Kerala. Ah, che ricordi!

Un’ultima menzione va al titolo. In inglese arcaico “nether” significa sotto, inferi, per cui, aggiungendo il suffisso “land” siamo da un lato vicino al nostro “Paesi Bassi”, anche se al singolare. Mentre dall’altro siamo nel territorio dei sobborghi (altro significato di nether) con l’aggiunta di un evidente connotato di inferiorità. Ed allora, da dove viene l’invincibilità di una città? Misteri editoriali.

“[citando Socrate] Sposati: se trovi una buona moglie sarai felice, se ne trovi una cattiva diventerai filosofo.” (205)

“Ho bisogno di due donne … una che si occupi della casa e della famiglia, l’altra che mi faccia sentire vivo.” (229)

Adam Gopnik “Una casa a New York” Repubblica New York 13 euro 9,90

[A: 01/11/2018 – I: 26/03/2021 – T: 29/03/2021] - &&& 

[tit. or.: Through the Children’s Gate: a home in New York; ling. or.: inglese; pagine: 436; anno 2006]

Interessante, anche se non semplice, questo nuovo scritto sulla città di New York (o almeno su scrittori che sono di profumo “newyorchese”). Non semplice anche perché di difficile collocazione. Quando lo presi, pensavo fosse un romanzo. Ma non lo è. Quando ho cominciato a leggerne, credevo di aver capito fossero racconti. Ma non lo sono. Alla fine, mi sono deciso ad approfondire notizie sull’autore, ed un quadro più chiaro ne è uscito (unito certo a quanto stavo leggendo).

Poiché io mi avvicino al libro (così come ai film quando vado al cinema), con quasi nessuna notizia precedente. Non voglio essere (troppo) condizionato da chi ne ha letto (o ne ha visto), o da chi sia l’autore (a meno che non sia già tra le mie conoscenze). È così che è cominciato questo viaggio attraverso il “Cancello dei Bambini” (sulla Quinta all’altezza della 76ima).

Scoprendo poi che Gopnik è un giornalista che dal 1986 (cioè da quando aveva 30 anni) scrive sul “New Yorker”, rivista per la quale si trasferì cinque anni a Parigi, per poi tornare, nel 2000, nella Grande Mela. Questi lunghi flash, che alla fine risultano essere venti, e che (in varie forme) sono usciti sulla rivista, illustrano sei anni della vita della famiglia Gopnik a New York. Ed è ovvio, quindi, che siano giustamente inseriti in una collana dedicata alla città.

Meno ovvia è la decisione degli editori italiani di tagliare la prima parte del titolo, lasciando la seconda, che quindi rimane monca. È attraverso il passaggio in quel cancello, infatti, che si celebra il ritorno dei Gopnik in America, soprattutto per la presenza dei due figli, Luke e Olivia, protagonisti e motori di alcune delle storie.

Iniziano così questi venti spezzoni di vita, descrittivi, spesso, ed impreziositi da richiami a lettere ed arti (non a caso Gopnik è anche laureato in arte). L’autore fa quasi un percorso a tappe, iniziando dalla ricerca di una casa, che sia confortevole, economica, con tante finestre sulla città. Per dimenticare la prima che lui e Martha presero trasferendosi a N.Y dal Canada. Poi i giorni con gli amici, i giochi, le reminiscenze, nonché, molto importante, il rapporto con il suo amico Kirk (che morirà di cancro, ed a cui sono dedicate pagine bellissime).

Visto che si trasferiscono nel 2000, è anche facile capire come una fetta sostanziosa sia dedicata all’11/9, alle Torri, ai sentimenti degli abitanti, allo smarrimento di quello uptown, ben diverso dal terrore di quelli downtown. Devo dire che sono le prime pagine che ne leggo senza che mi comunichino angoscia o astio. Non sono pagine né semplici né consolatorie, ma fotografano quel momento come pochi (nelle mie letture) sono riusciti a fare.

C’è anche una parentesi culinaria, che Gopnik è (o è stato) anche un “food writer”, così gustiamo descrizioni di ristoranti, di cuochi, del mercato di Union Market. Il tutto condito da un divertente “gioco di cucina”: Gopnik indica alcuni ingredienti, reperibili nel mercato, ed i cuochi li devono usare (insieme a tutto quello che viene loro in mente) per costruirci un menu.

Poi, e tante sono le pagine, i figli. La crescita, la diversità, le modalità di integrazione. Luke, il grande, era già “cosciente” a Parigi (credo quattro anni), quindi passa tutta una serie di modi per arrivare ad essere e sentirsi americano. Olivia ha più difficoltà, si inventa un amico immaginario, che, come tutti i newyorchesi, è sempre indaffarato. E poi un pesce da acquario (un “betta splendens” che l’autore avrebbe potuto chiamare con il nome italiano, “pesce combattente”, invece di lasciare l’anonimo “pesce betta”). Pagine molto interessanti, anche per il rapporto tra i figli e la città.

Non è comunque un libro raccontabile, ma di sicuro leggibile anche se non scorrevole. Menziono solo l’omaggio dedicato al suo amico Kirk, descritto negli ultimi mesi prima della morte non tanto nella sua veste ufficiale di storico dell’arte (ho trovato che è stato uno dei principali rivalutatori dell’impressionista Caillebotte) quanto nell’occupazione di allenatore di una squadra di decenni patiti di football.

E ricordo e termino con poche riflessioni derivanti dalle ultime frasi sotto riportate. Una previsione futuribile sui destini della razza umana inopinatamente colpita da un virus (una frase che certo ora colpisce molto più di allora). Una seconda riflessione sull’impatto delle nuove tecnologie nella vita quotidiana, con quell’immagine di “tolleranza nei soliloqui” (come faccio io con voi nelle mie trame).

Ma più di tutte, quel flash sulla Grande Mela, che abbiamo imparato a conoscere tra le sue pagine e quello che abbiamo visto quando l’abbiamo visitata in tutti questi anni. Una città di contrasti, una città compressa, al fine, in un’isola, quando tutto il resto dell’America è piena di grandi spazi aperti. Immagine che rimarrà nella mia mente, almeno fino a quando non riusciremo a tornare di là dell’oceano.

“Alla mia età … un uomo dovrebbe sentire che se continuerà a fare il suo dovere non sarà esposto alla sofferenza, né lui, né i suoi cari.” (51) [da “A Hazard of New Fortunes” di W. D. Howells]

“Sebbene la cosa non ti cambiasse il futuro, era bello aver fatto il viaggio.” (102)

“[ha fra le mani il ‘Times’ …] da qualche parte in queste pagine c’è una breve notizia che metterà fine a tutto questo: qualcosa riguardante un virus …”  (124)

“New York è una città di gente che si muove a piedi, in un paese di automobili; New York è una città compressa in un paese di grandi spazi.” (254)

“Quello che noi vogliamo non è uno scambio di idee, quanto piuttosto una mutua tolleranza di soliloqui.” (410)

Colum McCann “Questo bacio vada al mondo intero” Repubblica New York 15 euro 9,90

[A: 19/11/2018 – I: 06/04/2021 – T: 09/04/2021] - &&& e ½

[tit. or.: Let the Great World Spin; ling. or.: inglese; pagine: 464; anno 2009]

Un libro interessante, complicato, ben scritto, ed in effetti, intrinsecamente newyorchese, anche se alcuni personaggi vengono dall’Irlanda. Come dal Vecchio Mondo viene il titolo, la cui anodina traduzione mi lascia ancora perplesso.

Allora, cominciamo da qui. Il titolo originale è preso da uno dei versi finali del lungo poema di Alfred Tennyson intitolato “Locksley Hall”. Una poesia, tra le più famose del poeta inglese, che narra dell’amarezza di un amore non corrisposto. Il narratore ricorda i momenti felici a Locksley Hall con Amy, la donna che amava. Ma dopo che Amy lo lascia, affronta il mondo amareggiato e arrabbiato. Mormora maledizioni su di lei e sull'uomo che ha scelto. Ed alla fine conclude la poesia sperando che una tempesta distrugga Locksley Hall. Il verso che McCann riprende, posto verso la fine, recita quindi in italiano: “lascia che il grande mondo giri per sempre lungo i solidi solchi del cambiamento”. Gli editori italiani, senza un motivo apparente, lo hanno sostituito con un verso dell’”Inno alla Gioia” di Schiller. Mah!

Sebbene a posteriori si possano leggere le quasi cinquecento pagine come un inno alla vita (ma forse non alla gioia), rimango dell’idea che le giravolte del mondo siano il motore pulsante che tiene insieme queste pagine, unite da un filo che non è rosso, ma d’acciaio.

Tutto, infatti, fa riferimento al 1974, anno dove si svolgono i fatti, con il Vietnam e la sua guerra, con Nixon ed il suo Watergate, ma soprattutto per il giorno centrale del romanzo, il 7 agosto 1974, quando alle 7 del mattino, viene steso un cavo d’acciaio tra le due Torri Gemelle, ed un piccolo uomo lo percorre più volte avanti e indietro. Questo è in realtà l’unico elemento reale del romanzo, la straordinaria impresa di Philippe Petit (ne potete vedere immagini bellissime su YouTube). E mentre i newyorchesi, con il naso per aria, guardano l’acrobata folle, si dipanano le storie che alla fine costituiranno un arazzo capace di restituirci l’essenza della città. Un libro pienamente dentro New York, e non solo Manhattan, ma Harlem e il Bronx, insomma la città vera nella sua totalità.

Da buon irlandese com’è d’origine, McCann fa fare il controcanto del francese a due fratelli irlandesi. Cioran è una delle undici voci narranti che costruiscono il puzzle del romanzo. Che ci parla del suo amato fratello Corrigan detto Corrie. Che cerca Dio tra gli umili, che li aiuta, che accoglie diseredati e puttane nella sua casa sempre aperta. Da lì parte l’intreccio di voci e di situazioni che ogni capitolo illumina da un angolo diverso.

C’è appunto Corrie che cerca il suo Dio tra gli umili, portandosi al loro livello senza mai giudicarli. C’è Alicia, l’infermiera latina che si innamora ricambiata di Corrie, mettendo in crisi il rapporto di quest’ultimo con il suo cielo. C’è Tillie, la quarantenne prostituta madre di Jazzlyn anch’essa prostituta e nonna. Che racconta la sua vita in prigione, che vorrebbe le sue nipotine, quando la figlia muore in un incidente stradale. C’è Lara che, strafatta di droghe, prima provoca l’incidente, poi si mette a compassione dei morti che ha provocato, in cerca di una impossibile redenzione. C’è Claire che ha perso il figlio in Vietnam, che frequenta un gruppo di sostegno di madri private dei figli dalla guerra, che si vergogna della sua agiatezza nei confronti delle altre madri. Tra cui c’è Gloria, che con la sua umanità da persona nera e di Harlem porta raggi di luce nel mondo di Claire, che adotterà i nipoti di Tillie, ed avrà una lunga vita sempre vicina alla sua amica. C’è il marito di Claire, giudice in tribunale, che condanna ad una piccola pena Petit per la passeggiata tra le nuvole, ed una pena senza compassione Tillie per un furto di poca entità.

E tante altre persone, alcune interessanti, altre poco inserite nel contesto narrativo (o almeno poco che io abbia compreso). Per finire con la chiusura di Jaslyn, la nipote di Tillie, che torna a New York, trentadue anni dopo i fatti del romanzo, per la dipartita di Claire, ed in un certo senso, chiudo il cerchio del mondo che gira sui suoi binari, vorticando senza senso.

Alla fine, escono due belle sensazioni: la vita, vissuta nei suoi binari più profondi, dal ricco al povero, dall’ateo al credente, ma sempre degna di essere raccontata, e la città dove si svolge, con i suoi lati chiari ed i suoi lati scuri. Del tipo, le gang del Bronx ed una passeggiata sul ponte di Brooklyn verso lo skyline di Manhattan.

Ricordo solo per chiudere, una citazione che mi ha riportato molto indietro nel tempo, quando i protagonisti sentono Nancy Sinatra cantare “These boots are made for walking.” Un salto indietro per me di cinquant’anni. Ma che ricordi, ancora!

“La cosa più divertente della memoria … è che torna a sprazzi nei momenti più assurdi.” (209)

Come sapete, in attesa di tornare a leggere libri felici, vi “delizio” con dei florilegi delle citazioni a me care negli anni.

In più, dato che non tutti gradiscono gli allegati, vi porgo, da quel grande scrittore che fu Giorgio Scerbanenco una frase estratta da “Venere privata” che mi sembra di un’attualità disarmante: “avrei dovuto imparare qualcosa da quello che mi era successo. Ma solo più tardi imparai che non s’impara quasi mai niente. Noi rimaniamo sempre gli stessi”.

Infine, siamo già a metà luglio, e l’orizzonte, pur con alcune certezze, non ha tutte le chiarezze che meriterebbe, per i tempi e per i luoghi. Non posso quindi che continuare ad abbracciarvi, anche se da lontano.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di luglio

In questo mese problematicamente aperto, traguardiamo un periodo per me assai particolare. Quel tempo, tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, che mi portò lontano da tante cose (buone o cattive che fossero), ed in particolare che portò via mio padre. Ma mi diede anche tante cose che porto ancora nel mio bagaglio, sperando di conservarle a lungo.

S’era iniziato con un dicembre, carico per me di promesse, visto che alla fine di quell’anno mirabile mi sarei finalmente allontanato dall’ufficio. Mentre era carico di riso per l’esimia Alicia Gimenez-Bartlett, che appunto in “Un bastimento carico di riso” diceva: “gli uomini sono un disastro… o vogliono portarti a letto per superare le loro frustrazioni o sperano che tu gli faccia da madre o vogliono farti da padre… l’uomo come compagno sentimentale è rimasto un ricordo”.

Poco dopo, sempre la nostra Alicia Gimenez-Bartlett, nel successivo romanzo “Nido vuoto”, andava sostenendo una massima che stava per portare anche me fuori strada: “chi è abituato a stare solo con sé stesso finisce per non sopportare più nessuno”.

Sempre in quel dicembre, un’altra scrittrice, che in genere non ho mai amato, Rossana Campo, in quello che forse fu il suo più noto scritto: “In principio erano le mutande”, andava ripetendo almeno due frasi, di cui una non sua, che avrei sottoscritto, nei mesi e negli anni successivi: “Signori miei, velo dico, l'amore quando ci si mette è proprio bello", e “mi viene in mente una cosa che dice la mia scrittrice preferita Gertrude Stein che dice, qualunque cosa succede in un giorno arriva sempre la fine di quel giorno”.

Quell’anno terminò con un omaggio ad un poco più che ottantenne Andrea Camilleri, che ne “La luna di carta” mi ricordava un inesorabile passare del tempo e degli anni: “come pesa la neve sopra i rami, come pesano gli anni sulle spalle che ami”.

Il gennaio dell’anno liberatorio, che portandomi lontano dalle scrivanie, originò il mio futuro che porto ancora nel mio presente, inizia con una frase emblematica e profetica presente nel libro “L’accordatore di destini” di Salvio Formisano: “siamo quello che facciamo, la vita che viviamo. Quello che ci capita. O quello che ci facciamo capitare”.

Mentre ne riflettevo, gennaio volgeva in febbraio, quel mese che ho impiegato anni a superare. Ma aveva alcuni paletti, anzi anche alcune pietre che resistono al tempo, al vento, allo spazio.

C’era Carlos Ruiz Zafon che ne “L’ombra nel vento” mi invitava a riflettere sui miei rapporti femminili: “Sembri un altro uomo. [le disse] - Lo sono. ... [lei] mi ha fatto desiderare di essere migliore di quello che sono ... per meritarla... e a me quella donna piace più delle pesche sciroppate”.

C’era Azar Nafisi dove in “Leggere Lolita a Teheran” oltre a farmi desiderare un viaggio che non sono ancora riuscito a fare, mi ripeteva: “vivi più pienamente che puoi; non vivere è un errore. Non importa quello che fai in particolare, purché lei abbia la sua vita.” E molto più in profondo: “c'è un modo di dire persiano: la pietra paziente, che si usa nei momenti di difficoltà e smarrimento. Se un uomo riversa tutti i suoi problemi e i suoi guai sulla pietra, questa lo ascolterà, ne assorbirà i dolori e i segreti, e allevierà la sua pena.”

E soprattutto c’era un libro che non doveva esserci, ma da quando c’è non posso più farne a meno. C’era Laszlo E. Almasy ed il suo “Sahara sconosciuto”. Fotografie mirabili, pensieri sparsi, di cui questo lo avevo già in me, e, da allora, l’ho sempre portato nel mio cuore: “il deserto è terribile e spietato, ma chi lo ha conosciuto è costretto a ritornarvi”

Forse potrei scriverne di più di quel periodo, ma il nodo in gola blocca altri miei pensieri.

Al prossimo mese. 

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