domenica 25 luglio 2021

Garzanti vs. Sellerio: un pareggio - 25 luglio 2021

Questa settimana, visto che siamo in tempi olimpici, vi propongo una sfida tra due grandi case editrici, tutta al femminile. Per Garzanti abbiamo una turca che parla di Brasile ed una spagnola che ci riporta a Barcellona. Per Sellerio, invece abbiamo la finta autobiografia di Petra ed un intrigante libro quasi “juvenilia” che viene dalla Francia. Alla fine, un salomonico pareggio, purtroppo neanche tanto eccelso.

Aslı Erdoğan “La città dal mantello rosso” Garzanti s.p. (prestito di Fako)

[A: 03/06/2020– I: 19/01/2021 – T: 21/01/2021] - &&

[tit. or.: Kırmızı Pelerinli Kent; ling. or.: turco; pagine: 151; anno 1998]

Dopo tanto tempo, una nuova scrittrice turca, letto sotto il solito perverso impulso del mio amico Fako. Purtroppo, una piccola delusione che mi aspettavo qualcosa in più, o diverso. La Erdoğan è un’attivista ben nota, e noi siamo con lei (idealmente) nel contrastare il regime del suo omonimo non parente Recep Tayyip Erdoğan.

È anche nota e discretamente apprezzata come scrittrice, pur avendo seguito un percorso decisamente ellittico per arrivare alla scrittura. Laureatasi in Fisica all’Università del Bosforo, si specializza al CERN di Ginevra studiano il bosone di Higgis, quindi ai avvia ad un dottorato di ricerca in Brasile. Dove continuerà ad avere il suo gran colpo di fulmine verso la scrittura. Colpo già iniziato da tempo, ma proprio a Rio de Janeiro maturato e portato (quasi) ad un punto di non ritorno. Tornata in Turchia, intorno al ’96-’97 decide di abbandonare l’Università e di dedicarsi completamente alla scrittura, terminando la scrittura di questo romanzo che stiamo tramando e che prenderà la luce nel 1998.

Queste notizie non sono peregrine ma servono ad inquadrare meglio anche lo scritto. Per quanto riguarda invece la scrittrice, dall’uscita del libro, intraprende anche la via giornalistica, unita, ovvio, alla protesta sociale. Per arrivare alla Aslı oppositrice del regime che molti conoscono.

Il libro si muove su due piani, e già questo non è facile da gestire, né per la scrittrice né per il lettore. C’è il racconto della vita della protagonista, cui l’autrice dà il nome significativo di Özgür (che in turco significa “libera”). Intrecciato, c’è il racconto o meglio brani del libro che Özgür sta scrivendo, questa “Città dal mantello rosso”, che noi stiamo leggendo. Özgür arriva a Rio carica di aspettative: segue il suo corso di dottorando, e da trentenne in cerca della sua strada, prova anche a mantenersi dando lezioni di inglese (tanto che verrà presto chiamata “gringa”). Una volta inseritasi nelle pieghe della città, la sua vita ed il modo di percepirsi cambia. Cambiando anche lei, incuneandosi in un vortice di povertà, di solitudini, di privazioni e di eccessi.

Non è un caso, che Özgür si ritrovi alla fine a vivere in una favela, seppur non in una delle peggiori. Lì sentirà (e questo cercherà spesso di esprimerlo parlando delle passeggiate di un viaggiatore nella città) i denti della città che cominciano a morderla. La scrittrice reale, la scrittrice fittizia, ed il romanzo composito che stiamo leggendo, cominciano a descrivere allora quella che è la Rio più reale e quotidiana: rapine all’ordine del giorno in molte delle strade secondarie, morti, omicidi, stupri, traffici vari (droga e armi soprattutto), scontri tra bande rivali, epidemie e soprattutto caldo, tanto caldo che neanche i succhi di frutta gelati riescono a sedare.

Lì a Rio, nelle favelas dove l’arrivo di un nuovo carico di droga viene salutato da una selva di fucileria, si può essere uccisi per strada in qualsiasi momento. Per strada dove vivono e giacciano senzatetto, per strada dove vagano bambini affamati, con i segni delle percosse e di torture, persi nei meandri di prostituzione infantile, bambini tubercolotici fin dall’infanzia. E le donne, sensuali fino all’unghia. Ma anche le donne “ibride”, anime perse che sono l’ossatura della città, brutali, violente e violentate. Con una descrizione fenomenale nella sua non ortodossia, del Carnevale e del famoso “Sambodromo” di Rio.

Tutto porta Aslı a denunciare in fondo il contrasto immenso tra la città turistica, la spiaggia di Copacabana, e i sobborghi malfamati, che poi sono l’80% di Rio stessa. Ma la denuncia di Aslı è poi da un lato nota, dall’altro cosa apporta al suo superamento. Sappiamo che è così, ma cosa si può fare? E soprattutto, cosa può fare una turca con un libro, che non so quanto mercato abbia avuto nello stesso Brasile.

Seguiamo la vicenda di Özgür nelle non molte pagine, seguiamo idealmente il ritorno di Aslı in Europa, ma la vicenda non prende, non decolla. Anche perché in Italia arriva solo ora, venticinque anni dopo. Forse sono realmente troppi.

Poiché quindi il libro in sé non mi ha entusiasmato, e pensando al mio amico Maurizio, vi lascio con le raccomandazioni che Aslı fa ai viaggiatori: “Guardate il tramonto dal Corcovado (quella famosa e colossale statua di Cristo), uno spettacolo impressionante (ma veloce ai tropici) e provate sicuramente il succo di papaia fresco. Ma vi raccomando di ricordare per un momento l'AIDS di Rio e i record del crimine, di non vagare mai da soli in nessuna circostanza, di non indossare mai orologi, oro o gioielli e di prendere tutti i tipi di precauzioni razionali in modo che il sangue della città non ricada su di voi”.

Alicia Giménez-Bartlett “Autobiografia di Petra Delicado” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)

[A: 18/01/2021 – I: 14/02/2021 – T: 17/02/2021] - &&   

[tit. or.: Sin Meurtos; ling. or.: spagnolo; pagine: 455; anno 2020]

Una lettura immediata, senza troppo tempo dopo l’uscita, in base ad una nuova serie di algoritmi di lettura. Anche perché appena uscito, è un libro che è balzato ai primi posti delle classifiche di vendita. Sarà per l’effetto “Cortellesi” dell’uscita televisiva, sarà per il nome di Alicia che in ogni caso attira. Certo, una volta letto, mi ha lasciato un po’ deluso.

Innanzi tutto, trovo molto più calzante il titolo spagnolo. In effetti, è un libro senza morti, o comunque senza indagini. Certo, Petra scrive con la penna di Alicia, raccontando la sua vita, dalle origini ai giorni nostri. Una bio-fiction perfetta. Cioè, non una biografia inventata di una persona reale, ma una biografia reale di una persona inventata. Magistrale.

Ma una volta reso omaggio all’idea, non è che sia entusiasmante, o che sia particolarmente coinvolgente. Perché noi attenti lettori degli scritti della brava spagnola, già sappiamo quasi tutto di Petra. E questa lettura poco ci aumenta nella conoscenza, ma in compenso ci priva delle storie e del quotidiano di Petra e di Fermín.

Il tentativo poteva anche avere una sua validità, o forse ce l’avrà per chi conosce solo in parte la vita di Petra. Ma noi, i caposaldi del suo percorso di vita li abbiamo seguito libro dopo libro, scoprendone alcuni, prendendo conoscenza di altri. Come il fatto che si è sposata due volte prima di avere questa forse ultima avventura con il buon Marcos. Con Hugo, il primo, in cui rivedeva forse la figura paterna, o comunque qualcuno cui affidare il proprio avvenire senza farsi tante domande. Laureandosi, senza tanta convinzione, in Giurisprudenza, facendo per un po’ l’avvocato, per poi rendersi conto che quella era la vita di Hugo, non la sua.

Quindi il primo divorzio, la decisione di entrare in polizia, e quel passaggio verso l’Ufficio Documentale, che non sembrava esserci altro per lei. E poi Pepe, dove i ruoli si ribaltano, e Pepe vede in lei la figura genitoriale che gli era mancata. Si, bello avere qualcuno che ammira sempre quello che fai. Ma meno avere qualcuno che dipende sempre da te, anche per scegliere i calzini. E che non ha mai una sua iniziativa propositiva.

Quindi il secondo divorzio, meno traumatico, tanto che Pepe rimarrà sempre un amico con la sua aria sfrontata ed un po’ tra le nuvole. Però questo coincide con il passaggio alla Sezione Omicidi, con l’incontro fondamentale e reciprocamente utile con Fermín. È inutile, qui, ripercorrere tutti i momenti della storia di questa che diventerà l’amicizia di fondo della vita di Petra. L’abbiamo seguita passo dopo passo. Abbiamo gioito quando Fermín decide di convolare con l’esuberante Beatriz. Abbiamo penato quando non si sapeva se tra Marcos e Petra c’era solo sesso. Ed abbiamo ringraziato Alicia di averli riportati su binari altri, con l’ulteriore sfida, per Petra, non solo di accettare le condivisioni con Marcos, ma anche le sue famiglie pregresse. E sappiamo bene, dai vari libri, quanto poi si si affezionata ai gemelli ed a Marina.

Quello che mancava, forse la sola parte di novità, anche se qualcuno si potrebbe domandarne l’utilità, sono i primi venti anni di Petra. L’infanzia, le due sorelle maggiori, la madre onnipresente ed onnigiudicante. I primi anni nella scuola delle suore, le ribellioni velate. E poi la scoperta dell’Università, di un mondo libero fuori dal mondo oppressivo, anche se liberale, di famiglie comunque segnate sia dalla Guerra Civile, sia dai lunghi anni del franchismo imperante.

Capiamo di più e meglio alcuni tratti del carattere di Petra, delle sue piccole ribellioni anche da adulta, del micro-femminismo che a volte mette nelle indagini. E sì, che qualche accenno c’è, e non può non esserci, alle indagini che ben conosciamo dai libri. Agli interrogatori duri, a volte più duri da parte sua che da parte di Fermín.

Ma alla fine, molte sono le domande che restano, e molte, purtroppo, forse senza risposta.

Il più importante, per me, è che benché collocata nel tempo, con precisi riferimenti anche agli avvenimenti esterni, non si ha la percezione precisa di quanti anni abbia Petra, e soprattutto di quando li abbia. Certo, i personaggi letterari sono un po’ nebulosi. È raro che qualche scrittore riesca a farli aderire alla realtà, passo dopo passo. Quindi, se ora, mettiamo, Petra potrebbe avere una cinquantina d’anni, ne avrebbe avuti solo sei-sette alla morte di Franco. E sarebbe andata all’Università in un clima molto post-franchista. Se invece stiamo ai suoi racconti, allora dovrebbe avere almeno sessant’anni, se non di più.

Se facciamo un po’ di calcoli, all’inizio Petra dice di essere poco al di sopra dei quaranta. Siamo in “Riti di morte” del 1996. In realtà arrivati a "Il silenzio dei chiostri" (2009) la nostra protagonista avrebbe dovuto aver superato abbondantemente i cinquanta! Infatti, nel primo libro, "Riti di morte" dice di essere stata sposata 14 anni con Hugo, conosciuto all'università, e che altri sette anni sono passati da allora: e fanno ventuno. In "Un bastimento carico di riso" (2004) afferma di lavorare con Fermín da sette anni. In "Nido vuoto" (2007) è passato ancora un altro anno. Il conto è semplice: almeno 29 anni dal momento del primo matrimonio, avvenuto dopo la laurea in giurisprudenza.

Ma probabilmente sono io che sono un po’ “rompino”. Alicia fa dire a Petra, per via traversa, che è nata negli anni Cinquanta. Così che ora si dovrebbe avviare ai settanta. Ma i personaggi letterari godono della sospensione temporale, per loro ogni anno sulla carta dura dure o tre anni reali.

Infine, per non tediarvi troppo con le mie elucubrazioni, quanto di Alicia c’è in Petra, visto che Alicia sì che è nata negli anni Cinquanta, per l’esattezza il 10 giugno del 1951, per cui quest’anno festeggeremo i suoi settanta bellissimi anni

Carolina Pobla “I gerani di Barcellona” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 19/08/2020 – I: 02/03/2021 – T: 05/03/2021] - && e ½ 

[tit. or.: Geranios en el balcón; ling. or.: spagnolo; pagine: 407; anno 2018]

Uno dei tanti libri estivi di Alessandra, preso per l’estate passata che ci ha visto un po’ fermi e quindi anche più leggente. Inserito anche nel filone delle grandi storie familiari che l’anno scorso hanno un po’ dominato il mercato, sull’onda di Stefania Auci e dei Florio.

Qui, il tempo è più stringato, anche se comunque importante, visto che andiamo dal 1928 al 1953 (anno eponimo come non mai). Il solco narrativo è però sempre simile, anche se, cambiando i nomi, l’autrice confessa di parlare dei suoi nonni paterni. Facendo un po’ di conti, quindi, essendo Carolina del 1962, dovrebbe essere figlia di quel Santiago nato agli inizi degli anni ’30.

La vicenda si svolge (quasi) tutta in Catalogna, prendendo le mosse dal capostipite della famiglia Torres, uomo dai mille mestieri che ora si trova a governare traffici marittimi, con quattro figli a carico (per tradizione familiare tutti con la R): quattro femmine, Rosario, Remedios, Roscio e Rosa, ed un maschio, Rafaelito. Ovvio che comincia tutto con un dramma: la perdita della nave, da cui però il signor Torres si ricicla andando a vivere all’interno, e dedicandosi al commercio di armi da fuoco. Vediamo Rosario, la maggiore, la più bella, che si fa abbindolare da un artista che le millanta conoscenze e la spinge al canto per la sua comunque notevole voce. Vediamo la seconda, Remedios, succube del fascino della sorella, dedicarsi ai giardini e soprattutto ai gerani del titolo. Vediamo la terza, Roscio, sempre tra casa e chiesa. Vedremo anche il dramma dei due piccoli. Che porteranno Roscio a prendere le redini della casa, e chiudere per sempre con le due sorelle, che in cerca di avventure, si trasferiscono a Barcellona.

Lì, scoprono che il millantatore non aveva gran che da proporre loro se non una vita presso una anziana ex-tenutaria di bordelli. Certo, la signora Paquina ha ancora molte conoscenze, che istradano Remedios verso la sartoria, dove conoscerà il suo futuro marito e con il quale avrà lunga vita altrove. Ma conducono anche Rosario presso un imprenditore che, per farle fare strada nel canto, non ha altro mezzo che “venderla” ad un anziano ricco signore. Rosario inizierà la carriera facendosi chiamare Charito, avrà iniziali successi, fino a che conoscerà il bel Tobias. Di lui, nella prima metà seguiamo vita e peripezie in Canada, prima del ritorno a Barcellona, e l’incontro fatale con Charito.

Ci meravigliamo forse che i due finiscono presto a letto? Che Rosario rimanga incinta? Che debba decidere se previlegiare la famiglia o la carriera? Tutto un po’ scontatello. Ma tant’è, la vita di tutti cambia. Anche perché si approssima, e poi deflagra, la guerra civile. Questa è la parte più debole del libro, che viene affrontata un po’ dal basso (e non sarebbe una brutta idea), vedendo più le sofferenze quotidiane che le grandi manovre politiche. Ma questo passa la scrittura.

Tobias un po’ si barcamena, un po’ viene imprigionato, ma salvato da Magda, una anziana amica di Rosario. Fuori dal carcere, Tobias si rifà una vita lavorativa, riciclandosi in mille lavori, per poi finire l’ultima parte della sua storia inseguendo collezioni di francobolli.

Remedios sposa il suo Enrique, si trasferisce ad Alicante, dove la raggiunge la ormai vecchia Paquina, che lì morirà, lasciando tutte le sue sostanze alla cameriera Hortensia. Tobias e Rosario avranno intanto una seconda figlia, la bella Soledad. Non ci meravigliamo neanche che durante gli anni ’40, Charito incupisce, risvegliandosi solo al mattino, quando canta in casa accompagnata da un pianoforte di ignota suonata. Ma quando il pianista muore, Charito entra in depressione, andrà dentro e fuori istituti psichiatrici, uscendone dopo un elettroshock, assai stordita.

Tanto da non accorgersi che nel frattempo Tobias si consola con Juanita, che la mette incinta. Con Juanita che muore di parto, la piccola affidata ad Hortensia, e Tobias tornato nell’alveo familiare, accanto ad una Charito sempre più assente.

Una saga di 25 anni, un po’ moscetta, anche se con qualche spunto da “fiction di Rai1”. Anche i personaggi non hanno mai un rilievo forte, quasi attraversassero la vita senza rendersi conto della vita che stanno vivendo.

Ritorno solo sulla parte dedicata agli anni della Guerra Civile, che, per il modo in cui incise nella vita spagnola per quasi quaranta anni, andrebbe forse trattata in maniera meno “leggera”.

Penso che rimarrà una lettura isolata, tanto per riposare i due neuroni affaticati.

Finisco con la solita domanda: perché i gerani del balcone diventano “gerani di Barcellona”? Certo la capitale catalana è ben presente nel racconto, ma il titolo italiano dà un connotato alla vicenda che non è presente nel corso della scrittura di Carolina.

Ingrid Seyman “La piccola conformista” Sellerio euro 15 (consigliato d Robinson)

[A: 25/02/2021 – I: 13/04/2021 – T: 14/04/2021] - && e ½

[tit. or.: La petite conformiste; ling. or.: francese; pagine: 187; anno 2019]

Continuando nelle letture di libri nuovi suggerite dal supplemento repubblicano, mi imbatto in questo libro che pensavo nordico ed invece è francese. Opera prima di una giornalista da anni scrivente su “Marie Claire”. Si vede che Ingrid sa sbrogliarsi da difficili momenti di scrittura, come impara chi lavora ai periodici. Ma si vede anche il vezzo giornalistico di affrontare mille e mille problemi, in un calderone a volte un po’ pesante per la digestione.

Perché se è vero che la lettura scorre leggera, è anche vero che si parla di rapporti familiari, adolescenti (o infanti) in crescita, legami e dissapori tra religioni, ciclotimia, burrasche psichiche, emigrazione, vittoria di Mitterand e delusioni della sinistra al potere, pieds-noir e francesi doc. Vi basta? Forse troppo, vero?

Intanto, e di sicuro, non possiamo che plaudire all’ambientazione. Una Marsiglia non solo Izzo, anche se piena di contraddizioni. E lunghe puntate anche nei dintorni: Cassis e le calanche, La Ciotat, fino alle spiagge naturiste di Port Grimaud. Alcune gite che fanno tornare la voglia di frequentare di nuovo la costa mediterranea francese.

Tuttavia, la storia è imperniata, incistata direi, intorno all’io-narrante (se volessi fare il sapiente parlerei di narrativa autodiegetica, ma sorvoliamo), la piccola (quando inizia il romanzo) Esther Dahan. Una narrazione che affronta (anche) tutti i problemi sopracitati con un fare ironico ed a volte sapientemente comico. Esther che narra essere nata di destra da una famiglia di sinistra. Nata il giorno di Natale da Babeth, una madre atea ed hippie che ha fatto il ’68, e da Patrick, un padre ebreo non molto praticamente. Che in effetti ricorda le sue origini solo in alcune situazioni specifiche: per fare il bar mitzvah al fratello Jeremy, per litigare con Esther quando questa vuole (e farà) il battesimo e la comunione. Per sentirsi omologata nella scuola ipercattolica che frequenta, ma anche per fare un dispetto ai suoi.

Che sempre in antagonismo con Patrick si trova, ma sempre a Babeth che farà, involontariamente, del male. Patrick che l’assilla, anche, con il fatto che, benché siamo alla fine degli anni ’70, c’è sempre la possibilità che arrivino i cattivi e portino di nuovo tutti gli ebrei nei campi di sterminio. Patrick che vive nel mito, molto campato in aria, delle origini algerine della famiglia. Come stavano bene laggiù ad Orano, che vita si faceva ad Algeri prima che la famiglia fosse costretta a tornare in Francia. Di cui rimane solo un vaso di terracotta piena della terra del loro vecchio giardino.

Vediamo Esther con le sue manie di ordine e pulizia, che lei etichetta appunto di destra, in contrapposizione allo schema libertario di vita della famiglia. Che Babeth e Patrick girano sempre nudi per casa, non si fanno remore di darsi ad effusioni anche con i bambini in giro, che parlano di tutto. Laddove Esther vuole andare a letto alle otto, ama la grammatica, ordina i libri per argomento, anela vestitini blu e gonne a pieghe, invece dei pantaloni a zampa d’elefante di Babeth. Vorrebbe musica e televisione invece delle pantomime paterne, che si traveste da Alain Delon e si registra mentre canta canzoni di Jacques Brel e Georges Brassens.

Una situazione forte, per una bimba che, vessata e stressata, medita anche parricidi ed altre morti, immergendosi nella lettura integrale di Agatha Christie per avere spunti.

Pur non essendo riuscito fino in fondo, di sicuro merita una lettura per una serie di motivi. I siparietti comici: la circoncisione di Jeremy e la storia del vaso algerino, le visite antagonistiche alle famiglie borghesi ed i battibecchi con i nonni. Un modo di mettere alla berlina il progressismo di un tempo ormai passato. La storia di una famiglia “diversa” ma uguale tolstoianamente a tante altre, vista con gli occhi di una Esther controrivoluzionaria interprete di una ribellione anticonformista alle irrequietezze della sua famiglia e del mondo.

Ed il finale, che merita di essere letto senza essere commentato, che solo arrivati alla fine si legge e si interpreta quanto letto. Ma di ciò non dico altro, per tema di uscire dal seminato.

Personalmente, a volte trovo sbilanciato il troppo riso, enfatizzato il comico a spese dell’analitico, per cui non mi ci sono ritrovato fino in fondo. Mi sembrava promettesse molto nel primo capitolo. Ma non sempre si riesce a mantenere a lungo quel modo di leggere la realtà, e di viverla. Per cui, giudizio interlocutorio.

Essendo la quarta trama, vi faccio riposare con allegati et similia, ma non posso dimenticare una bella frase, di un libro che mi regalarono i miei compagni di lavoro quando andai in pensione. Ed era una frase (anzi è) molto giusta. Il libro è “E poi siamo arrivati alla fine” di Joshua Ferris che mi suggeriva: "È davvero irritante lavorare con persone irritanti".

Anche luglio volge al termine, e le incertezze, invece di diminuire, aumentano. Si riuscirà a partire? Ad agosto? A settembre? E per dove? Che ansia…

Per fortuna che ci siete voi, miei amici e sodali, che posso abbracciare ed a cui posso inviare un bacio. 

Nessun commento:

Posta un commento