Naoise Dolan “Tempi eccitanti” Atlantide euro
16,50 (consigliato da Robinson)
[A: 12/01/2021 – I: 04/02/2021 – T: 07/02/2021]
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[tit. or.: Exciting Times; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 2020]
Continua con questo libro la lettura di
suggerimenti non usuali presi dalla rivista “Robinson” di Repubblica. Qui
abbiamo un risultato non direi a gambero, ma suggerirei a lumaca. Cioè due
passi avanti ed uno indietro. Gli elementi positivi del suggerimento sono
innanzi tutto la scoperta di una nuova casa editrice, almeno per me.
“Atlantide” che mi sembra avere un iniziale catalogo di interesse per nuovi
spunti (nonché avere la sede non distante dalla mia abitazione). Il secondo
punto è la scoperta di una nuova autrice, irlandese di Dublino, con un nome
impronunciabile, giovane e quindi con possibili aspettative positive, per lei e
per noi.
Il passo indietro è il romanzo nel complesso,
con spunti interessanti, momenti linguistici da “pensamento”, eppur tuttavia
irrisolto nelle sue pieghe maggiori. Quasi la Dolan volesse lasciare zone
d’ombra e d’interpretazione, per far sì che poi, il lettore farà proseguire il
testo oltre l’ultima pagina. Nella sua immaginazione.
Intanto, altro elemento di curiosità è il nome
stesso dell’autrice. Ovvio che sia gaelico, meno ovvio che, generalmente, Naoise
(che si pronuncia “Nisha” come ha riferito l’autrice) sia un nome maschile,
riferito al marito dell’eroina Deirdre, ed ucciso, nelle saghe locali, da suo
zio Conchobar (che sembra invece tanto un nome di un locale sudamericano).
Andando poi a spulciare nella vita di Naoise,
oltre che di Dublino, laureatasi al Trinity College, dove aveva come collega
Sally Rooney (di cui ho da non molto tramato un libro), ha poi girato molto (Italia,
Singapore, e soprattutto Hong Kong), per poi rimpatriare e continuare a
scrivere.
Se traguardiamo il testo nel contesto
possiamo di certo vedere similitudini, ma noi, oltre che congiunzioni astrali
non indaghiamo, e quindi ci immergiamo in questo triangolo scaleno asiatico.
Dove seguiamo la vicenda della protagonista, Ava, e dei suoi due principali
interlocutori: Julian e Edith. Ci sono altri personaggi al contorno, ma da
espungere quando vogliamo concentrarci sul testo e sulla sua resa.
La prima cosa che salta agli occhi è la
continua irresolubilità di Ava. Pur essendo la protagonista, nonché il soggetto
parlante (o scrivente), pur essendo moderatamente (o almeno, personalmente)
simpatica, dotata a volte di battute fulminanti e di pensieri caustico-ironici,
non sembra mai fare un passo avanti. Si lascia trasportare dagli eventi,
piccolo vascello senza guida. E per duecentonovanta pagine si incarta sulle sue
paranoie: paure, bellezze, slanci, tutto nella sua testa. Ci vorranno le ultime
quattro pagine per farci capire che, forse, qualcosa è scattato nella sua
testolina.
Ava, dopo il diploma, decide di emigrare ad
Hong Kong, una città ormai cinese, dove per vivere insegna inglese ad una
scuola privata di ricchi cinesi. Questa, tra l’altro, credo sia stata la prova
più ardua per la traduttrice, la bravissima Claudia Durastanti, che nel
battibeccare con gli alunni, Ava si immerge in discussioni su forme
grammaticali inglesi e irlandesi, che solo salti pindarici riescono poi a farne
capire il senso. Ad esempio, c’è tutta una pagina sulla pronuncia di “what” e
“things” (84) o un’altra sulle differenze tra perfect, past, past perfect,
present perfect e present perfect continuous (198).
Comunque, conosce Julian, un consulente
finanziario di livello medio-alto, di stipendio e mezzi altissimi. Dopo strane
schermaglie, Julian le offre una stanza del suo mega appartamento. E dopo altro
poco tempo, i due finiscono a letto. Non è amore, è solo sesso. Anche perché i
due continueranno a trattarsi male (verbalmente) in fondo solo perché
innamorati delle loro relative schermaglie verbali.
Quando Julian deve tornare a Londra per
qualche mese, lasciandole l’appartamento, Ava conosce Edith. Anzi, Edith Mei
Ling Zhang, visto che è hongkonghese, poi laureata a Cambridge. Tra le due
nasce subito un’amicizia, di cui seguiamo i divertiti passi. Che poi sfocia in
amore (sì, anche sesso, ma questo è vero amore). Il problema è che Ava è lì sul
crinale. Non dice a Edith di Julian ed a Julian di Edith.
Ovvio che poi ci sarà un redde rationem.
Anche se Ava mette in chiaro (almeno in sé stessa) che con Julian era sesso e
con Edith amore. Il punto di crisi arriva prima quando Edith chiede ad Ava di
lasciare l’appartamento di Julian, cosa che lei non fa (perché si lascia
vivere). Come conseguenza, le due si lasciano. Facendo nascere pagine e pagine
di tormenti amorosi solitari dell’indecisa Ava.
Il secondo e definitivo punto arriva quando
Julian viene trasferito a Francoforte, chiede ad Ava di venire con lui. Ed Ava
deve decidere: partire? Restare sola a HK? Restare a HK e tentare di ricucire
con Edith? Tutte strade possibili, che avrete il gusto ed il piacere di
leggere, spero.
Che anche se non eccellentissimo, è un
romanzo di gradevole lettura, e di apertura di finestre sul mondo dei venti-trentenni
degli Anni Venti di questo Millennio. Con la sua scrittura tutto sommato
accattivante (con tutti i limiti evidenziati per il mio gusto). Non lo ritengo,
come esprime “Robinson”, un libro da Top Ten, ma sono contento di averne letto.
Carmen Barbieri
“Cercando il mio nome” Feltrinelli euro 16,50 (consigliato da Robinson)
[A: 01/02/2021
– I: 31/03/2021 – T: 01/04/2021] &&
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[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2021]
Ancora una segnalazione di “Robinson” di
Repubblica. Questa volta di gradimento medio, mentre speravo qualcosa in più.
Certo, Carmen è interessante, come personaggio, è gradevole (abbastanza
gradevole) nella scrittura, è sapiente nel dosare frasi e situazioni. Ma il
libro prende poco, pur se è tutto incentrato su di un sentimento. Che è amore,
ma quello di una figlia verso il padre.
Su questo trasporto (che tutto sommato, ho
difficoltà a recepire, in quanto maschio) si svolge tutto il dramma di Anna, la
protagonista. Dramma perché non è tanto e solo l’amore per il padre che vediamo
scorrere nelle pagine, ma il dramma di una ragazza di diciannove anni cui muore
il padre, come si dice ora, per un male incurabile.
E di certo, questo non favorisce la mia
personale serenità, che in questi tempi di malattie, sono molto sensibile a
tutto: ai virus, ai tumori, ma anche alle coxalgie, o a qualsiasi cosa che
alteri il funzionamento di ognuno di noi.
Il racconto di Carmen si indirizza subito su
due binari. C’è Anna napoletana, che viene dai Quartieri Spagnoli, uno degli angoli
più caratteristici ed intensi di napoletanità. Molto legata al padre, cosa
ovviamente reciproca, che si sente in quell’intercalare paterno dove ad ogni
frase si aggiunge la chiosa “apapà”. Inciso: c’è un interessante studio sulla
“Comunicazione parlata” coordinato dall’Università di Napoli, che contiene un
articolo sull’utilizzo di questa forma parlata, definita “allocuzione inversa”,
in uso nel Meridione, da Roma in giù, e generalmente nella comunicazione verso
i bambini (“baby talk”). Ma questo “moto a luogo” (“viene, apapà”, cioè “Vieni
da papà”) si trasforma presto in “alfa privativo”. A/papà, cioè senza papà, che
Giosuè, il padre, muore, e con lui muore tutta una struttura vitale di Anna.
Alternato, dicevo, c’è il binario romano.
Anna ha diciannove anni, vuole fare l’attrice, e vuole studiare. Per cui si
trasferisce a Roma, dove però trova subito delle grosse difficoltà. Tutto
quello che vuole fare (vitto, alloggio, studio, teatro) è legato al denaro che,
mancando il padre, non c’è più. Ma ad Anna è giovane e bella, e lo stesso
“Prete Nero” che aveva trovato lavori domestici alla sua coinquilina, la
indirizza invece verso il mondo notturno dei night club. Così Anna si sdoppia,
diventa Bube, diventa la ragazza della pole dance, degli spogliarelli, degli
occhi che la scrutano, delle mani che la vogliono toccare. Bube è insensibile,
ma quando torna Anna sale addosso tutto il dolore del mondo. Neanche il
rapporto con Alessandro riesce a sanarlo, anche perché Anna non riesce a dire
agli altri di essere Bube.
Anna-Bube a Roma è sostanzialmente sola, e
nel racconto la sua solitudine spesso si scontra, più che si incontra, con la
moltitudine napoletana: la nonna, i due inseparabili gemelli amici fin
dall’infanzia, la madre (che però non entra mai in quella dura corazza), la
folla del quartiere ed anche i defunti, che la nonna gli fa frequentare fin da
bambina. Pur nella durezza dei momenti che vive, il sogno di diventare attrice
rimane sempre dentro la sua anima, e quando un evento, potenzialmente tragico
(o forse realmente tragico) la spinge a lasciare il mondo notturno, è questo
sogno che dà forza alla sua voglia di ricominciare a vivere la sua vita, e non
quella di qualche altro.
Così, quando la sua duplicità si ricompone,
quando ritroviamo la sola ed unica Anna, noi lettori spettatori capiamo che lei
ha ritrovato la sua unità, la sua centralità. Certo, il futuro potrà essere
incerto, soprattutto se non abbiamo superato dentro di noi i bagliori di un
passato che non siamo mai riusciti ad accettare. Forse Anna lo farà, o almeno
noi glielo auguriamo.
Seppur interessante, l’accenno di trama che
mi rimane in testa, non riesce a farmi superare la faticosità di certi momenti
di lettura, la frammentarietà di certi momenti espositivi. Per cui rimane un
interessante esperimento, tuttavia iniziale.
Ringrazio solo, al fine, l’autrice che nella
parte ambientata a Roma, spesso ci si muove in questo mondo che sto cominciando
a conoscere. Che non sempre capisco, ma che vedo crescere intorno a me: piazza
Sempione con i cornetti dell’Angolo Russo, l’autobus “60”, Conca d’Oro e viale
Eritrea, Arion e Romoli. Quasi un’aria di casa ormai.
Chiara Mezzalama “Dopo la pioggia” E/O euro
16,50 (consigliato da Robinson)
[A: 22/03/2021 – I: 17/04/2021 – T:
19/04/2021] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 213; anno:
2021]
Anche questo è uno dei libri consigliati
settimanalmente da Robinson. Mi era ignota l’autrice, a posteriori scoperto
essere una cinquantina romana che vive a Parigi, autrice di libri per
l’infanzia e di un pamphlet sulla vicenda di Charlie Hebdo.
Il libro scorre abbastanza facilmente, con
qualche spunto, ma anche con una vicenda che, stretta all’ossa, è forse un po’
semplicistica. Tuttavia, affronta, a suo modo, il tema del disastro ambientale,
ipotizzando “sacche di resistenza” umana che si oppongono con le loro
iniziative a qualche calamità, umana e/o naturale.
Pur essendo edito in tempi di pandemia e
parlando di pioggia senza fine e dei suoi disastri, l’autrice ha detto di
averlo scritto prima del virus, e poi di aver passato del tempo a “limarlo”.
Operazione fondamentale, anche se non sempre riuscita.
La trama parte piano ed in una direzione
familiare: c’è una famiglia composta da Ettore, ingegnere, Elena, traduttrice,
con i figli Susanna, una tipica (e per questo simpatica) “Friday for Future” e
Giovanni, appassionato di balletto e “poco virile”. Quando Elena scopre
l’ennesimo tradimento di Ettore, lascia tutti e si rifugia nella loro casa
vicino Orte. Inciso: quando parla delle valli tra Orte, Amelia, Umbria e
Viterbese, mi si apre il cuore e penso alla nostra Soriano.
Ettore si arrovella un po’ (ma non tanto), e,
sotto la spinta dei figli, decide di muoversi alla ricerca della moglie
“scomparsa” (ma tutti sanno che sta o sta andando al casale).
Il tutto complicato da una pioggia
torrenziale, che travolge Roma, fa crollare ponti, trasforma in laghetto la
bella Piazza Margana dove i nostri (un po’ radical chic, ovvio) abitano. Certo,
il diluvio è fonte di riflessione e motore di azioni per i nostri protagonisti.
E, ma solo da lontano, eco di quello che succede. Si odono notizie di disastri
che sembrano cambiare tutta la geografia della capitale, ma poi ci si concentra
su quanto succede in campagna, e tutto il resto tace.
Sperduti nella campagna della Tuscia, con le
auto in panne, vicini seppur distanti, con i telefoni che funzionano a
singhiozzo (o non funzionano in quanto scarichi) i nostri quattro “eroi” devono
proseguire con mezzi di fortuna, e adeguarsi all’incontro con i personaggi
alternativi che colà vivono le loro vite “altre”.
Ettore ed i figli incontrano il giovane Ove,
un norvegese che come tanti nordici, s’innamorano dell’Italia e si stabiliscono
in quelle campagne, conducendo una vita vegetariana e alternativa. Ove li
presenta ad una comunità di suore, di clausura, forse, ma ben operose. Che,
oltre a disquisire con Susanna di agricoltura alternativa, consentono a
Giovanni di esibirsi in un ballo liberatorio, anche per le fobie omofobiche del
padre.
Elena, dal canto suo, è slavata da un
disastro automobilistico tra pantani e fiumi in piena da Guido, altro “fattone
alternativo”, che vive in campagna alla ricerca di fungi e tartufi. Tramite
questi, mette in contatto Elena con una strana giapponese, sopravvissuta al
disastro di Fukujima, e lì in Umbria riparatasi con il marito cuoco. E tutti
cominciano a disquisire sulle vicinanze e sulle diversità tra tartufi e matsutake
(inciso: quest’ultimo è un fungo dal forte odore speziato-aromatico, che cresce
con difficoltà, tanto che ad inizio stagione l’originale giapponese ha un costo
intorno ai mille euro al kilo, circa la metà del costo di un tartufo bianco),
entrando nel merito della cultura giapponese, di cui Elena è un’estimatrice.
È anche ovvio che Guido, la giapponese, Ove e
le suore si conoscano, così che alla fine c’è una bella “reunion”. Anche se nel
frattempo, Guido ed Elena hanno saggiato una loro piacevole intimità. Alla
fine, dopo giorni e giorni, la pioggia cessa, ognuno potrebbe riprendere la
propria vita. Ma dopo duecento pagine di riflessioni ecologiche, quanti lo
faranno? A voi la lettura.
La critica e l’intento “morale” della
scrittrice è di portare alla luce un modo di vivere individualista e contro
natura (nel senso di andare contro la natura), incentrato su Ettore ingegnere
poco sostenibile, viaggiatore in aereo, inquinatore senza rendersene conto. Ma,
senza cadere in facili preconcetti, il viaggio campagnolo dei nostri è
costellato da figure maschili e femminili positive. Per farci capire che tutti,
se prendiamo coscienza, possiamo cambiare, migliorare, fermare, forse, il
disastro. O comunque, attuare una micropolitica di resilienza sostenibile:
utilizzo di pannelli solari, sistemi di raccolta delle acque, struttura
composite che consentono di avere energia anche con un’intera regione in blackout.
Tanto che il grido di dolore dell’autrice sembra portarci alla richiesta di non
accettare compromessi, ecologici, etici e sentimentali. È di certo una
forzatura soggettiva, ma lo spunto di dire basta, di cambiare vita, c’è.
Bisogna solo accoglierlo. Soggettivamente. Grazie per lo spunto, Chiara tra le
tante Chiare.
Juliet Lapidos “Talento” Bompiani euro 17
(in realtà, scontato a 16,15 euro; consigliato da Robinson)
[A:
06/04/2021 – I: 29/04/2021 – T: 01/05/2021] - &&
[tit.
or.: Talent; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 2019]
Ulteriore consiglio di Robinson, questa volta
meno riuscito del solito. Di certo ben pensata la trama nel complesso, lascia
invece a desiderare il modo in cui si evolve (o si involve) nel finale.
Non conosceva l’autrice, che vedo essere di
origini ebraiche e per anni, dopo la laurea a Yale, giornalista ed opinionista
per diversi giornali, su entrambe le coste americane. Ciò le dà una facilità di
scrittura, come spesso accade ai giornalisti, anche se rende più vivide le
descrizioni ambientali che il tratteggio dei personaggi. Tutti quelli che si
muovono sulla scena sono forse un po’ troppo “tagliati con l’accetta”, mentre
risalta meglio lo scrittore al centro della vicenda, quello che forse (o forse
non) ha talento. Anche perché Frederick Langley è morto e su di lui si
riversano le congetture della protagonista Anna, e delle persone che lo hanno
conosciuto.
Facendo un po’ d’ordine, quindi, abbiamo la
protagonista Anne Brisker, ventinovenne dottoranda, Helen Langley, rilegatrice
di libri, casualmente incontrata che la introduce alle notizie sullo zio
Frederik, il professor Davidoff, relatore di Anne, accademico e tronfio, ed
Evan, già dottorato e forse amico di Anne (o forse no). Poi, ovvio, Frederik
Langley, poco prolifico scrittore, autore di tre raccolte di racconti in
gioventù, poi cessa di scrivere, vive qualche decennio in Europa, per tornare
in America, vivere alle spalle del fratello, morendo presto in un incidente
d’auto avendo (o forse no) scritto altro, senza pubblicarlo.
Anne sta facendo la tesi sulla “Storia
intellettuale dell’ispirazione”, con alcuni spunti interessanti, ma un po’
arenata. Tanto che Davidoff la sprona ad altro. L’incontro casuale con Helen,
la porta sulle tracce di Langley. Soprattutto, sul possibile contenuto dei suoi
taccuini, custoditi in una biblioteca, ma rivendicati da Helen. Anne trascorre
le sue giornate ciondolante, beandosi del lascito del nonno, così che non ha
fretta di scrivere. Viene però coinvolta nelle elucubrazioni di Helen, legge i
taccuini, capisce una verità fondamentale: Langley scriveva perché era l’unica
cosa che non potesse essere governata dal padre prepotente e autoritario. Un
padre che metteva in ogni instante in competizione lui ed il fratello Thomas,
premiando sempre Thomas. Tipico momento, ad esempio, la richiesta di pulire
l’orto, col premio al migliore. Ovvio che sia Thomas, che viene premiato con le
figurine dell’album di Frederik. Io un padre così lo strangolerei sulla porta
di casa.
Langley è anche paradigmatico per la storia
sull’ispirazione. Non che la finisca, ma smette di scrivere quando il padre
commenta positivamente il suo lavoro. Riprenderà a scrivere, anche se di
nascosto, solo alla morte del padre. Farà anche altre cose per scrollarsi
freudianamente il macigno, ma queste ve le lascio leggere.
Helen apre un mondo a Anne, che ci si
precipita dentro. Ma quando da questo cilindro, tira fuori lo scrittore
Langley, la mancanza di supporti adeguati (non vi dico certo perché) lascia
tutto un po’ poco credibile. O almeno, credibile se si dà credito ad Anne. Cosa
che, con momenti terribilmente astiosi, non fa il professor Davidoff, in questo
supportato dall’atteggiamento di Evan. Anche Helen, alla fine, e non vi dico né
come né perché, si tira indietro. Lasciando al centro della scena, un Anne
sconfitta, e senza particolari velleità di risollevarsi.
Mentre allora, tutta la prima parte scorre
piacevolmente, così come sono interessanti gli intarsi che Juliet inserisce qua
e là: brani del taccuino, note alla Nabokov che aprono microracconti, anche su
più pagine; la parte finale va alla deriva anche con poca originalità. Non dico
che le tesi di Anne dovesse trionfare, ma se ne seguiamo le gesta per duecento
pagine, empatizzando con lei, non possiamo, non posso pensare che sia, alla
fine, un personaggio negativo. O sconfitto dall’insipienza altrui, magari con
il contributo della propria apatia. Ripeto poi, che l’ambiente universitario,
il campus, financo la mansarda di Langley entrano nella memoria, mentre troppo
stereotipati sono Anne, Helen e gli altri.
Un passaggio divertente è quando, a pagina
11, si cita il gioco introdotto dallo scrittore David Lodge nel suo libro
“Scambi”: si chiama “Umiliazione”, dove si ottengono punti a fronte della non
lettura di classici della letteratura, o libri in genere. Qui Anne fa un grosso
balzo in avanti, confessando di non aver letto il “Paradiso Perduto” di Milton.
Spero di aver anch’io un buon punteggio, non avendo letto né “Ulysses” di Joyce
né “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij.
Terza trama, dove in mancanza di “libri
felici”, vi lascio una pagina di citazioni.
Come se non bastasse, in questo possibile
inizio di un percorso autunnale, vi rimando anche un pensiero di Pino Roveredo che nel suo molto
interessante “Capriole
in salita” discettava della malinconia, sostenendo: “La malinconia ha
la capacità di toglierti il sorriso di bocca e lasciarti in cicatrice il
malumore, ti fa vedere tutte le cose sempre dal lato peggiore e riesce a farti
credere che anche il niente ce l’ha su con te”.
Noi invece sappiamo che non è mai il niente, ma a volte siamo noi stessi che ci stortiamo su noi stessi.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Citazioni di agosto
Sempre
in un momento pandemico, ma pronti ad intraprendere uno dei viaggi più
difficili da me organizzato (anche se questa volta non da solo), ritorno a quei
momenti dove si stava mettendo le basi a quanto poi sarebbe successo.
La
fine di marzo del 2008, ancora calda delle lacrime della morte di mio padre, e
pronti, io ed il mio fratellino, a prenderci cura di nostra madre, riporta
nelle mie letture Banana Yoshimoto
con un Giappone che non mi toglierò più dal cuore. Lei riesce a dare un senso
alle mie vicinanze ed alle mie paure. Ne “L’abito
di piume” Infatti, prima afferma “sapevo
bene che quando si sentono più o meno le stesse cose, si comunica meglio col
silenzio”, poi con un colpo di coda mi mette paura dicendo: “le storie troppo
belle finiscono sempre con un colpo di scena tragico”.
Ad inizio aprile, affrontai un trittico di letture tra
lo slavo ed il teutonico. Iniziai con uno dei pochi russi che ho sempre
ammirato. Nelle sue "Umili prose", il grande Aleksander S.
Puskin mi suggerisce una riflessione che, tuttavia, negli anni, mi ha
portato al contrario. Lui diceva “il mio amore bruciava in solitudine e
ora dopo ora diveniva per me più penoso. Persi la voglia di leggere…”. Mentre
io la voglia di leggere non l’ho mai persa.
E sulla stessa falsariga del silenzio, mi parlava
invece un russo che ho sempre letto con difficoltà. Mai riuscendo a portare
avanti il suo “Delitto e Castigo”. Ma Fëdor Dostoevskij ne “La mite” ribadiva
“Sono un maestro nel parlare con il silenzio. Per tutta la mia vita
avevo parlato tacendo, avevo vissuto con me stesso…”.
Scendendo verso le Alpi, l’austriaco Arthur
Schnitzler cercava invece di farmi riflettere sui dolori appena passati. In
un passo delle sue “Novelle” sostiene “ci si può
riconciliare senza perdonare e si può perdonare senza dimenticare”.
Altro invece mi portò la Pasqua di quell’anno. Il mio
vecchio sodale Peppe, per l’inizio degli anni che dall’uscita dal mondo del
lavoro mi avrebbero portato alla pensione, mi regalò un inusuale libro di Adriano Sofri che
usando il titolo come autoriferimento nel “Chi è il mio prossimo” parlava di
come affrontare la fine di qualcosa. Per me, era del lavoro, per altri non so,
e lui sosteneva: “è difficile smettere,
e smettere bene”.
Fortunatamente, ripresi a viaggiare. E quale viatico migliore di
Ryszard
Kapuscinski per accompagnare le escursioni intorno al mondo. Mentre organizzavo
di andare in Perù (che torna come un mantra quando decido di essere felice),
lessi alcune riflessioni che diventarono fondamentali nel bellissimo “Autoritratto
di un reporter”. La prima si ricollegava a quanto avevo sempre tentato di fare
anche quando lavoravo: “la mia
principale ambizione è di dimostrare agli europei che l’Europa non è il mondo
intero”. La seconda sottolineava una speranza, una voglia, che forse si è
realizzata solo nella mia testa: “vai in giro per dieci anni senza prendere
appunti. Poi comincia a scrivere. Le cose che avrai vissute te le ricorderai
comunque, e quelle che dimenticherai vuol dire che non valevano la pena di
essere scritte”. La terza rendeva palese quello che mi aveva, sempre, motivato:
“la curiosità è sempre stata la molla che mi ha spinto a partire”.
Nel mese che si avvicinava ai miei 55, ripresi anche le letture
in francese, che mi hanno sempre gradevolmente accompagnato. Il primo fu il mio
grande amore dai tempi di Beirut e delle sfortunate imprese libanesi. Amin Maalouf scriveva
in “Origines” una frase che spero poter ripetere anche ora a testa alta “Notre unique consolation, avant d’aller nous endormir sous
terre, c’est d’avoir aimé, d’avoir été aimés …” [la nostra unica consolazione,
prima di addormentarci sottoterra, è di aver amato, di essere stati amati].
Mentre, in negativo, leggevo anche un autore che non
mi è mai piaciuto, Michel Houellebecq. Nel
suo romanzo allora più noto “Les particules élémentaires” sottolineava con una
frase quanto io non vorrei mai vivere “Notre malheur n’atteint son plus
haut point que lorsque a été envisagée, suffisamment proche, la possibilité
pratique du bonheur.” [La nostra
infelicità raggiunge il punto più alto, quando si scorge, sufficientemente
vicina, la possibilità pratica della felicità].
Finché, verso la fine del mese, prima dall’Indocina, mi
arrivano le parole di Marguerite Duras, che nel suo “Occhi blu, capelli neri”
ribadisce un sentimento che sono stato sempre il primo a sostenere essere di
fondamento dei rapporti d’amore: “Lei
gli dice di avvertirla se per caso un giorno lui si metterà ad amarla”.
Infine, l’inqualificabile Charles Bukowski, rozzamente
sregolato, nel poco amato (almeno da me) “Storie di ordinaria follia”, anche se
lo ritengo uno scritto da leggere, terminava i miei pensieri sparsi arringando
la folla: “signori, arriva il momento nella vita di
ogni uomo, in cui questi deve scegliere fra resistere o scappare. Io scelgo di
resistere”.
Anch’io, e spero di farcela, anche se poi non è che sia tanto
sicuro.
Lottiamo insieme, allora.