domenica 10 ottobre 2021

Letteratura scandinava - 10 ottobre 2021

Anche se rimango sempre interdetto quando ai “puri scandinavi” si aggiungono gli olandesi, che mi sembrano un po’ forzati. Anche se il primo, Wieringa, produce un libro sinceramente accettabile, mentre l’ultimo, Westerman, rimane un po’ sottotono. In mezzo, due quasi eccellenti, il finlandese Hotakainen ed il danese Hansen.

Tommy Wieringa “Questi sono i nomi” Corriere della Sera Boreali 23 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 06/03/2021 – T: 09/03/2021] - &&&

[tit. or.: Dit zijn de namen; ling. or.: nederlandese; pagine: 306; anno 2012]

Un’altra buona uscita della collana dedicata alla letteratura del Nord. Tornando ancora, dopo Noteboom, in una Olanda multietnica e piena di buoni pensatori e scrittori. Come questo Tommy Wieringa, classe ’67, e per di più toro. Scrittore, giornalista, ed all’occorrenza facente parte di un gruppo musicale. Nei commenti locali se ne parla bene, soprattutto per i suoi romanzi scritti dopo il 2000. Non sapendone nulla, mi sono accostato al libro con una buona dose di aspettative, almeno partendo dal titolo, unica cosa che ricollego ad altro.

Perché “Questi sono i nomi” è l’attacco del Libro dell’Esodo, il secondo del Vecchio Testamento. Per essere precisi, il primo versetto recita: “Questi sono i nomi dei figli d'Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua famiglia”. Con questa frase in mente, seguendo la lettura, anche se non facilmente, si va scoprendo una grande parabola sul mondo attuale (o almeno su quello al momento della scrittura). L’Esodo come forma di vita, il degrado, la voglia, l’idea di un riscatto, ed i passi per fare tutto ciò.

Seppur quindi la scrittura è potente, a volte si fa troppo ellittica per i miei poveri neuroni, ma in particolare, quando si parla degli sperduti nella steppa, diventa quasi una risonanza de “La strada” di McCarthy. Inoltre, seppur il “Libro dell’Esodo” è comune a cristiani ed ebrei, la via del riscatto sembra essere soltanto verso Israele, svelata come terra promessa nelle ultime pagine del romanzo.

Tuttavia, il romanzo è anche altro. Che vediamo due storie partire disgiunte, per trovare (e noi lo pensiamo dall’inizio) un modo di congiungersi e risolversi in un racconto unitario. Due storie-parabole, la migrazione e la religione.

Da una parte, vediamo una cittadina probabilmente post-nucleare (o post-Chernobyl quanto meno), e sicuramente anni dopo il disgregarsi dell’Impero sovietico. Una volta importante, ora si va spegnendo a poco a poco, anche perché sembra esserci un quasi nullo ricambio generazionale. Il motore narrativo di questa parte è il capo della polizia Pontus Beg, uomo moderatamente corrotto in un mondo che va verso la completa corruzione. Vive con la cameriera Zita che occasionalmente si offre per notti d’amore, mangia dalla ex-prostituta Tina, ha un doloroso acufene. È un uomo alla deriva, che tuttavia legge Confucio e Lao-Tse. Poi, ricordandosi di nenie materne infantili, e del cognome materno (Medved che significa, anche, ebreo), si unisce al rabbino locale ed inizia a studiare la Torah per recuperare il suo lato “ebraico”.

Se questo è il lato religioso, l’altro è quello migratorio. Vediamo un drappello di persone perdute nel deserto, e verremmo a sapere che sono migranti in fuga da situazioni di diversa ma comunque profonda povertà. Migranti venduti, che c’è sempre qualcuno che lucra su di loro. Ne vediamo la giornaliera lotta per la sopravvivenza. Come vediamo la morte, a poco a poco, di metà dei partenti. Per catalizzare gli sforzi contro qualcosa, si coalizzano con l’unico nero, l’Etiope, che non parla la loro lingua. Diventa il diavolo da combattere. Che uccidono insieme, ma da morto, viene nei sogni del ragazzo del gruppo, e li porta versa una possibile salvezza.

Cioè verso la città di Pontus, dove arrivano. Dove si scontrano culturalmente, che loro, i cinque sono sopravvissuti in quanto hanno rivolto le loro speranze, il loro credo, al nero. Elevandolo quasi ad un loro Cristo privato.

Negli interrogatori tra loro e Pontus emerge in controluce tutta la storia. Emerge come il potere ancora in voga li voglia zittire, non voglia far sapere l’esistenza di caporioni che lucrano sul commercio dei migranti (si potrebbe aprire una lunga parentesi su tutto ciò).

Sarà la discesa verso il suo lato ebraico che porterà Pontus a trovare il modo di salvarne almeno uno, il ragazzo. Dal profetico nome di Said Mizra, che, come tutti i cultori di lingue arabofone sanno, significa “felice figlio del sultano”.

Facendo un sunto dei sunti, Tommy ha cercato di fare una lunga parabola sul vivere odierno. Riuscendo, con grande sforzo di immagini e di cultura, a creare un parallelo non banale con il libro di riferimento (e non a caso si citano in bibliografia la Torah e la Bibbia di Gerusalemme). Al fine però, ed è questo il motivo di un giudizio mediano, non riesce ad essere completamente coinvolgete. Sia per alcuni stereotipi sulle migrazioni poco incalzati, sia per quelle scelte religiose, corrette, ma forse andrebbero meglio spiegate (o interpretate da qualcuno più bravo di me nel decifrare rimandi). Non un libro da sottovalutare, e sicuramente con una lettura interessante.

“Così doveva essere il cammino verso la fine: l’aumento progressivo della distanza fra sé stessi e il proprio corpo.” (11)

“Andrà tutto bene. Se Dio vuole.” (159) [e lo dicevano i migranti del testo dieci anni prima della pandemia; speriamo]

Kari Hotakainen “Via della Trincea” Corriere della Sera Boreali 19 euro 8,90

[A: 01/11/2018– I: 09/03/2021 – T: 10/03/2021] - &&& e ½

[tit. or.: Juoksuhaudantie; ling. or.: finlandese; pagine: 301; anno 2002]

Sempre piacevole e foriera di novità, la collana Boreali del Corriere, in unione con le edizioni Iperborea. Ed allora, eccoci ad un nuovo, per me, autore finlandese. Una bella scrittura, ironica e creativa, ben inserita nel solco di Arto Paasilinna, maestro dell’humor finnico. Anche se Kari parla più di città che di campagna.

Però è un libro ben congeniato, vincitore di premi in patria e fuori, nonché base di un film che, credo, non sia mai arrivato in Italia.

Intanto, il titolo non è anodino, ma è esattamente il nome di una via di Helsinki, dove ci sono casette unifamiliari, un po’ a villino ed un po’ a schiera.

La storia del romanzo segue l’odissea personale di Matti Virtanen, casalingo per scelta. Lui si occupa della casa e della figlia Sini, mentre la moglie Helena lavora fuori casa, si autodefinisce “una sfigata ambiziosa”, e soffre per la piccola casa condominiale, e per l’apatia progressiva di Matti. Il punto di svolta, nonché inizio del romanzo, è quando, dopo una lunga lita domestica, Matti colpisce Helena con un pugno. Lei va via di casa, e Matti pensa al modo di riconquistarla. Scoprendo che l’unica cosa che desidera è una casa non condominiale, magari con un giardino, degli alberi, ed un posto per far giocare Sini. Tutto il testo si incentra quindi su questa ricerca, sul modo di trovare i soldi per pagarla, sugli sforzi di Matti, e sul suo progressivo cadere in una spirale senza fine, dove ad ogni passo avanti, sembra essercene uno o anche due indietro.

La struttura della storia è complessa, ma non complicata, divisa in quattro parti che segnano l’avvicinamento di Matti al suo sogno di una casa e di un ricongiungimento. Nelle prime tre parti il narratore è annunciato all’inizio, e gli avvenimenti avvengono senza una vera sequenza temporale, si accavallano tempi e prospettive. L’ultima sezione invece copre gli eventi dell’ultimo giorno della trama, cronologicamente, ma senza indicazione di chi stia agendo.

Le quattro parti del testo scandiscono la “costruzione” della casa di Matti. Nella prima (“Fondamenta”) vediamo il pungo, la fuga di Helena, Matti che concepisce l’idea di una casa. Matti fa i suoi primi progetti, si occupa delle questioni finanziarie legate alla nuova casa, e cerca di figurarsi come dovrebbe essere la casa dei suoi sogni. Nella seconda (“L’armatura”) Matti si concentra sulle agenzie immobiliari, sperando tramite loro di trovare la casa sperata. Si scarica correndo per le strade della città, e scopre la casa di Taisto, iniziando a farne la posta. Nella terza (“Posa dell’ultima trave”), Matti si concentra su Taisto, e sul modo di convincerlo a vendergli la casa, cortocircuitando l’agente immobiliare. Nell’ultima (“Il giorno del trasloco”), Matti, ormai fuori di testa (e ne abbiamo visto i segni nel corso della narrazione), costringe Taisto con la forza a firmare l’atto di vendita. Mentre Helena e Sini vengono a vedere la casa, i poliziotti arrestano Matti.

Matti lavora in fabbrica e mette da parte i soldi vendendo i mobili di casa e lavorando in nero come massaggiatore. Matti si occupa dei lavori domestici, e Kari ha l’idea di rovesciare l’usale rapporto uomo-donna sul fronte della guerra lavoro domestico-lavoro esterno. Matti, in fondo, è un idealista, sognando che la casa che troverà risolverà tutti i problemi che ha causato, in casa e fuori. Determinato in modo quasi autistico, è convinto che risolverà tutto.

La moglie Helena, fuggita dalla violenza domestica, non sa però gestire un ménage familiare con la figlia. Tutto ciò che Helena sa sui lavori domestici e sulla cucina, l'ha imparato da Mati, ma non sa come metterli in pratica così come sa fare suo marito. Avendo sempre sognato una casa indipendente, Matti crede che riprenderà Helena se gliela comprerà.

Poi ci sono gli altri, i guardiani delle norme di buon vivere, che non tollerano che Matti fumi, che faccia jogging nelle loro proprietà, ed altre modalità della vita comune finlandese. Kari riesce a creare una contrapposizione ironica ed amara tra questi buoni, che sono insopportabili, ed il cattivo Matti.

Tutto il testo è percorso da questa dualità. I sogni e le attività estreme di chi cerca la sua nuova vita, e di chi vive la propria senza pensare che si possa vivere in modo diverso. In questo modo Kari riesce a costruire tutta una serie di scena, anche potentemente comiche, ma che ci portano passo dopo passo ad una ineluttabile fine.

Certo, il testo è anche pieno di riferimenti alla vita finlandese, televisiva e sportiva. Alcune sono spiegate in nota, ma non tutte, e forse ce ne sarebbe stato bisogno. Riporto solo l’accenno a Mika Hakkinen, che pochi anni prima vinse due campionati mondiali di F1 su McLaren sempre davanti ad una Ferrari. nonché il fondista Risto Ulmala non particolarmente noto (miglior risultato un settimo posto al campionato del mondo sui 5000m), citato da Matti quando fa jogging, ma importantissimo in quanto nato esattamente dieci anni dopo di me. Waw!

Una bella lettura, che apre un bello squarcio fotografico sul mondo finnico, sul rapporto colà stabilito tra uomo e donna (parliamo di venti anni fa) e sul rapporto pubblico-privato in quella società. Insomma, a me è piaciuto.

Thorkild Hansen “Arabia felix” Corriere della Sera Boreali 33 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 02/06/2021 – T: 04/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Det lykkelige Arabien; ling. or.: danese; pagine: 369; anno 1962]

Un libro che sta per compiere le sessanta candeline, ma che mantiene freschezza e capacità di interessare. Anche perché scritto da una persona che ha dedicato tutta la vita ai viaggi. Da cui ha tratto spunto per libri che non sono romanzi, non sono saggi, non sono biografie. Ma un intreccio intrigante di tutto ciò. Come questo, che ne fu il primo. Ed altri, tra cui quello che mi incuriosisce molto sulla vita di Jens Munk, l’esploratore danese che dedicò gran parte della propria vita nella ricerca di un passaggio a nord-ovest, la rotta navale che, sopra il Canada, collega Atlantico e Pacifico.

Ma qui abbiamo un’altra spedizione da celebrare, ed altri personaggi da ricordare. L’Arabia felice, infatti, è dedicata ad una spedizione scientifica danese in Egitto e penisola Arabica, il cui obiettivo principale era chiarire alcuni passi dell'Antico Testamento, decifrare il nome “Arabia felice” ed obiettivi di ricerca considerati secondari relativi alla storia naturale, alla geografia e alla cartografia.

La spedizione fu fortemente voluta da Federico V re di Danimarca e Norvegia, sotto la spinta del suo primo ministro Johann Hartwig Ernst von Bernstorff per “il progresso delle scienze”, al fine di celebrare l’Accademia delle Scienze danese, e cercare anche di distogliere qualche attenzione alla disastrosa Guerra dei Sette Anni, allora in corso.

La spedizione era composta da cinque personaggi più o meno eminenti, ed un aiuto. Diciamo subito che cinque su sei morirono in corso di viaggio, e la spedizione, alla fine, fu più fallimentare che riuscita. Anche se non per colpa dei partecipanti. I quali erano: Frederik Christian von Haven, filologo, incaricato di acquistare manoscritti orientali, di trascrivere iscrizioni eventualmente trovate, fare osservazioni sulla lingua araba, con il fine ultimo di chiarire alcuni passaggi oscuri dell'Antico Testamento; Peter Forsskål, naturalista svedese e allievo di Carl von Linné (Linneo per noi del sud) con il compito di trovare specie nuove di piante e animali, a sostegno della tassonomia introdotta dal suo maestro; Carsten Niebuhr, matematico, cartografo e agrimensore tedesco poi naturalizzato danese, con il compito di disegnare le mappe dei luoghi attraversati; Christian Carl Kramer, medico danese, che, oltre a curare le malattie della spedizione, doveva impratichirsi nella medicina araba; Georg Wilhelm Baurenfeind, disegnatore ed incisore tedesco, incaricato di documentare per immagini la spedizione; ed infine lo svedese Lars Berggren, ingaggiato come inserviente.

La capacità narrativa di Hansen ci porta a seguire tutti i passaggi della spedizione: la decisione, l’ingaggio (problematico) del personale, le immediate lotte tra i vari membri, le avventure e le disavventure lungo tutto il viaggio. Che terminerà ufficialmente, dopo la partenza il 4 gennaio 1761, al ritorno a Copenaghen, nel 1767, dell’unico sopravvissuto, Carsten Niebuhr.

Il motore iniziale della spedizione doveva ruotare intorno a von Haven, che però Hansen ci dipinge presto come egoista, codardo e pigro, sempre in cerca di frenare il lavoro degli altri. Il suo antagonista principale era Forsskål, sia per questione nazionaliste, sia per il suo spirto poco incline ai compromessi. In mezzo, Niebuhr faceva da ago della bilancia, ma essendo di non forte carattere, non riesce quasi mai a portare la spedizione su binari più funzionali. Il pittore incide e non si mette mai in mezzo. Il medico, purtroppo, non era neanche medico, non curerà mai nessuno, e di lui nulla si ricorda.

Certo, e documenti posteriori al libro ne terranno conto, von Haven non ha sempre torto, che la spinta scientifica degli altri lo emargina, lasciando poco spazio alla sua filologia. Tuttavia, pur con questi raddrizzamenti, sembra un torsolo sperduto nel mare. Faccio un esempio: devono visitare il Monastero di Santa Caterina nel Sinai, e lui non si fa dare nessuna lettera di presentazione. Così che i monaci, che vivono da cristiani, in un mondo tutto islamico, non li faranno entrare, e lui non avrà modo di fare alcunché per i suoi compiti.

Cosa che invece faranno gli altri due. Anche se tutto il lavoro di Forsskål andrà perduto sia durante il viaggio, sia dopo, quando i suoi reperti verranno tenuti per decenni nei sottoscala universitari e accademici, e non saranno di nessuna utilità. Seppur sembra, da accenni ed altro, che il suo lavoro, se pubblicato in tempo, gli avrebbe dato fama imperitura.

Una fama, seppur piccola, che ebbe il modesto Niebuhr, che si salva dalla malaria (era quella la malattia che tutti contraggono in viaggio, e che il medico scambia per una infreddatura), pubblicherà densi tomi sul viaggio, incluse ricerche ed osservazioni di Forsskål. Ma soprattutto vivrà, dopo il viaggio, una vita agiata, metterà al mondo dei figli, tra cui Barthold Georg Niebuhr, il fondatore della moderna storiografia.

Personalmente ho amato grandemente tutta la parte in cui si descrivono le mosse della spedizione, da Copenaghen ad Alessandria d’Egitto passando per Costantinopoli, la risalita del Nilo, la traversata sino a Suez, la puntata sul monte Sinai, il viaggio in nave da Suez allo Yemen, l’agosto bollente a Mokka, dove, nel 1763, muore von Haven, il periglioso viaggio verso Sana’a, durante il quale muore Forsskål, l’imbarco su di una nave verso Bombay, dove durante la traversata muoiono Baurenfeind e Berggren, l’attesa in India di tornare verso l’Europa, dove ci lascia anche Kramer. Nonché il ritorno via terra di Niebuhr in Europa, passando anche per Persepoli. Dove il nostro cartografo avrà il più grande successo, trascrivendo iscrizioni cuneiformi che saranno la base della loro decifrazione.

Altri risultati eminenti seppur di molto posteriori, saranno il “Parupeneus forsskali” un pesce d’acqua salata ed il “Lepidochrysops haveni” una farfalla yemenita. Mi sembra ovvio capire a chi siano dedicati.

Per tornare al testo, certo Hansen forse esagera nel demonizzare von Haven, ma, per l’equilibrio narrativo, aveva bisogno di un “cattivo indispensabile”. E comunque, la narrazione scorre piacevolmente, tanto che ne sto parlando a lungo, seppur senza entrare in meriti specifici, che troppo complicato sarebbe ricordare tutti gli avvenimenti.

Solo un ultimo punto vorrei toccare. Uno dei punti di partenza della spedizione era capire il perché di quel nome. Cosa che nonostante la presenza di un filologo (von Haven) e di due scienziati che in poco tempo si impadronirono a fondo dell’arabo (Forsskål e Niebuhr) non succede. Ora possiamo svelare questo “mistero”. Che la terra ricercata, l’Arabia felice, non era altro che lo Yemen. Nelle lingue semitiche, per chi ne fosse all’oscuro, i nomi derivano da un radicale di tre consonanti che ne caratterizzano l’ambito. Ora “Yemen” ha la radice in “YMN”. Una radice che indica anche qualcosa di positivo, di giusto (al-yimin). Ma lasciamo la chiusura di questo dilemma a Hansen:

“Il nome Arabia Felix, deriva da un errore di traduzione, e l’equivoco nasce proprio dalla piccola parola “yemen”, che ancora oggi, dà il nome al paese. In arabo “yemen” significa la mano destra, o la parte destra. Ma quando gli arabi devono designare i punti cardinali, fin dall’alba dei tempi, si sono sempre rivolti verso l’est, come gli europei trovano naturale rivolgersi al nord. Quando un arabo si trova davanti all’ombelico del mondo, la sacra pietra della Ka’aba alla Mecca, ha sempre il volto rivolto ad est. È così che la parola “Yemen”, che in origine significava “destra”, è arrivata con il tempo a indicare “sud”. Quindi lo Yemen è semplicemente il paese che si trova a destra, il paese a sud. Inoltre, per gli arabi, ancora oggi, la mano destra è migliore della sinistra, detta la “mano sporca” e viene considerata inferiore. Intrisa di questi significati, la parola “Yemen”, ha finito per assumere il significato di “felice” o “dispensatrice di benedizioni”. Arabia Yemen, è così diventata, per una traduzione inesatta, Eudaimon Arabia in greco, poi Arabia Felix in latino, l’Arabie Heureuse dei francesi o das Gluckliche Arabien tedesca. In realtà la parola indica semplicemente Arabia del Sud.”

“La capitale dell’Arabia Felice supera ogni loro previsione: Sana’a è davvero un paradiso terrestre.” (275) [confermo in pieno]

“[La felicità si trova nel] posto che è più vicino del paese più vicino; eppure, è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.” (288)

“Eccomi arrivato a Gerusalemme, la più straordinaria città del mondo.” (332) [concordo anche qui]

Frank Westerman “Ararat” Corriere della Sera Boreali 30 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 26/06/2021 – T: 28/06/2021] - && e ½  

[tit. or.: Ararat; ling. or.: nederlandese; pagine: 260; anno 2007]

Un’altra buona uscita della collana “Boreali”, anche se non superiore alla media, come mi stavo aspettando quando ho iniziato a leggerne. Sebbene la collana si dovrebbe occupare della “Letteratura del Grand Nord”, non pochi sono gli autori olandesi presenti. E spesso, come in questo caso, autori che si occupano di viaggi e di leggende.

Westerman non si discosta da questo filone. Esperto di agricoltura tropicale (note i suoi articoli sulle coltivazioni a Puno in Perù), poi giornalista, con ottimi reportage sia sul massacro di Srebrenica, che sull’ex-URSS. Da un suo viaggio in Armenia, nel 1999, vedendo il Monte Ararat incombere su Erevan, ma dalla parte turca, gli viene la voglia di approfondire il mito del monte, del diluvio universale e dell’Arca di Noè.

Il risultato si è condensato in questo libro, che in origine aveva anche il sottotitolo: “Alla ricerca della montagna mitica”, che però è sparito nella versione italiana.

Il libro è sorprendentemente vario, ed in un certo senso, personale, deludente. Non per la ricerca, per le vicende personali ed altro, ma per il fatto che, alla fine, per la salita al monte ed i problemi connessi, sono stati dedicati un paio di capitoli. Che invece io aspettavo più dilatati e pieni di immagini e suggestioni. Anche perché l’Ararat è stato uno dei pochi viaggi quasi realizzati, ma alla fine abortiti, nella mia lunga carriera di accompagnatore avventuroso. Una decina fi anni fa, in realtà, ebbi un’assegnazione per un trekking sull’Ararat, che purtroppo, non per mia volontà, abortì per mancanza di permessi in loco.

Il discorso di Westerman, allora, da buon giornalista, mescola vari piani, e li porta avanti con capacità. C’è il piano personale, il rapporto dolcissimo con la figlia Vera, e quello altrettanto intenso con la moglie (che mi ricorda rapporti che vivo con forte passione e con uguale rispetto). C’è il piano professionale, la ricerca delle fonti, la ricerca dei visti, la ricerca dei contatti. C’è il piano storico, sulla cronologia di diluvi ed arche. C’è, infine, il piano religioso, che mescola il rapporto personale di Frank con la religione (lui proveniente da una famiglia Cristiano-riformata, poi confluita una quindicina di anni fa nella “Chiesa Protestante d’Olanda”) con i miti, le leggende, le teorie evoluzioniste e creazioniste.

Nella mescolanza dei vari piani, la ricerca delle fonti ha un suo interesse, soprattutto nelle descrizioni del primo avventuroso viaggio verso l’Ararat del francese Parrot. Descrizione che mi ha spinto poi a ricerche personali sull’argomento, trovando un collegamento ed una necessità di approfondimento con il piano religioso, e con la proliferazione, in ambienti i più disparati e lontani possibili, di leggende intorno al diluvio universale ed alla salvazione del mondo che ne conseguì.

Meno coinvolgente il piano religioso personale di Westerman, che tuttavia l’autore tratta con delicatezza personale. Raccontando all’inizio il suo salvarsi, bambino, dalla rottura di una diga. Tratteggiando il progressivo allontanarsi dalla fede ed avvicinarsi alla scienza (ma non è detto che i due termini siano sempre contrapposti). Fino a vedere nell’Ararat, più che la montagna, l’approdo che nella Bibbia cristiana, nella Torah ebraica e nel Corano islamico, viene riservato all’Arca costruita da Noè – Noa – Nuh.

Infine, il piano politico, laddove il monte è in Turchia, è sacro per gli Armeni che lo vedono oltre confine, è un business per i curdi che ne gestiscono la scalata, è un crocevia di spionaggio tra USA, ex-URSS e le Repubbliche Islamiche. Insomma, è un monte simbolo. E Frank, dopo averci girato intorno sui differenti lati descritti, dopo aver penato alquanto per ottenere un visto di ascesa, si avvicina alla sua base. Riuscirà nell’impresa? Lascio a voi lettori lo scoprirlo.

Perché è un libro interessante da leggere, un libro di viaggio come piacciono a me, dove, oltre il viaggio, si vede la vita che c’è nei viaggiatori e nei viaggiati.

Un ultimo appunto per quelle ricerche che avevo accennato. Non solo esiste il “mito” del Diluvio in un’epopea precedente al Vecchio Testamento, nel “Libro di Gilgamesh”, ma è presente in molte leggende asiatiche, e, addirittura, nei sogni degli aborigeni australiani e nei miti dei nativi americani. Un caso?

Anche se in ritardo, e ne conoscete i motivi, siamo alla prima trama di ottobre. Quindi, vi dedico i venti libri di luglio. Dove sono presenti due eccellenti letture: il solito, a me Luano-caro, Paul Auster, e l’imperdibile “Storia del giallo italiano” di Luca Crovi. C’è anche un tonfo, che la nuova serie di Camilla Läckberg non mi sembra nata sotto una buona stella.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Peter Fröberg Idling

Il sorriso di Pol Pot

Corriere Boreali

9,90

3

2

Imma Vitelli

La guerra di Nina

Longanesi

16,90

2

3

Levi Henriksen

Norwegian Blues

Corriere Boreali

9,90

3,5

4

Guillaume Musso

Central Park

Bompiani

12

3

5

Stefania Auci

L’inverno dei leoni

Nord

20

2,5

6

Kjell Westö

Miraggio 1938

Corriere Boreali

9,90

3

7

Tahar Ben Jelloun

Marocco, romanzo

Repubblica Mondo

9,90

2,5

8

Camilla Läckberg

La gabbia dorata

Feltrinelli

10

2,5

9

Paul Auster

Follie di Brooklyn

Repubblica New York

9,90

4

10

Nadine Gordimer

Ora o mai più

Repubblica Mondo

9,90

2

11

José Luis Peixoto

Libro

Repubblica Mondo

9,90

3

12

Michael Connelly

Il lato oscuro dell’addio

Pickwick

10,90

3

13

Benjamin Myers

All’orizzonte

Bollati Boringhieri

16,50

2

14

Fernanda Torres

Fine

Repubblica Mondo

9,90

3

15

Luca Crovi

Storia del giallo italiano

Marsilio

19

4

16

Alina Adams

La scelta di Nataša

Nord

18

2

17

Camilla Läckberg

Ali d’argento

Marsilio

s.p.

1

18

Paco Nadal

Il viaggio perfetto

Newton Compton

s.p.

3,5

19

Marco Malvaldi

A bocce ferme

Sellerio

14

3

20

Amets Arzallus Antia & Ibrahima Balde

Fratellino

Feltrinelli

s.p.

3

 

Essendo la prima del mese, niente addendi o inserimenti subdoli, ma solo citazioni. Che vengono da un’autrice non molto nota, ma degna di alcune opere interessanti, come fu Maria Corti. Che nel suo primo libro, “L’ora di tutti”, mi dedica due perle assolute. La prima sulla vita in generale: “ma perché, io dico, uno vuol fare una cosa, lo vuole proprio, e tutto a un tratto ne fa un’altra?”. La seconda su questo mio (magico) momento attuale: “ogni tanto ci penso. Non al basso amore, non sono fantasie da vecchio, ma al ‘grande amore’ per cui uno, incontrando una donna, scopre di essere nato appositamente per amare quella donna, scopre il suo destino”.

Confermo, ed ora, consapevolmente, l’ho anche sposata. Ma non vi farò mancare tantissimi abbracci e, sempre, sempre,

un bacio

Giovanni

 

 

 

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