Tommy Wieringa “Questi sono i nomi”
Corriere della Sera Boreali 23 euro 8,90
[A: 01/11/2018
– I: 06/03/2021 – T: 09/03/2021] - &&&
[tit.
or.: Dit zijn de namen; ling. or.: nederlandese; pagine: 306;
anno 2012]
Un’altra
buona uscita della collana dedicata alla letteratura del Nord. Tornando ancora,
dopo Noteboom, in una Olanda multietnica e piena di buoni pensatori e
scrittori. Come questo Tommy Wieringa, classe ’67, e per di più toro.
Scrittore, giornalista, ed all’occorrenza facente parte di un gruppo musicale.
Nei commenti locali se ne parla bene, soprattutto per i suoi romanzi scritti
dopo il 2000. Non sapendone nulla, mi sono accostato al libro con una buona
dose di aspettative, almeno partendo dal titolo, unica cosa che ricollego ad
altro.
Perché
“Questi sono i nomi” è l’attacco del Libro dell’Esodo, il secondo del Vecchio
Testamento. Per essere precisi, il primo versetto recita: “Questi sono i nomi
dei figli d'Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua
famiglia”. Con questa frase in mente, seguendo la lettura, anche se non
facilmente, si va scoprendo una grande parabola sul mondo attuale (o almeno su
quello al momento della scrittura). L’Esodo come forma di vita, il degrado, la
voglia, l’idea di un riscatto, ed i passi per fare tutto ciò.
Seppur
quindi la scrittura è potente, a volte si fa troppo ellittica per i miei poveri
neuroni, ma in particolare, quando si parla degli sperduti nella steppa, diventa
quasi una risonanza de “La strada” di McCarthy. Inoltre, seppur il “Libro
dell’Esodo” è comune a cristiani ed ebrei, la via del riscatto sembra essere
soltanto verso Israele, svelata come terra promessa nelle ultime pagine del
romanzo.
Tuttavia,
il romanzo è anche altro. Che vediamo due storie partire disgiunte, per trovare
(e noi lo pensiamo dall’inizio) un modo di congiungersi e risolversi in un
racconto unitario. Due storie-parabole, la migrazione e la religione.
Da
una parte, vediamo una cittadina probabilmente post-nucleare (o post-Chernobyl
quanto meno), e sicuramente anni dopo il disgregarsi dell’Impero sovietico. Una
volta importante, ora si va spegnendo a poco a poco, anche perché sembra
esserci un quasi nullo ricambio generazionale. Il motore narrativo di questa
parte è il capo della polizia Pontus Beg, uomo moderatamente corrotto in un
mondo che va verso la completa corruzione. Vive con la cameriera Zita che
occasionalmente si offre per notti d’amore, mangia dalla ex-prostituta Tina, ha
un doloroso acufene. È un uomo alla deriva, che tuttavia legge Confucio e
Lao-Tse. Poi, ricordandosi di nenie materne infantili, e del cognome materno
(Medved che significa, anche, ebreo), si unisce al rabbino locale ed inizia a
studiare la Torah per recuperare il suo lato “ebraico”.
Se
questo è il lato religioso, l’altro è quello migratorio. Vediamo un drappello
di persone perdute nel deserto, e verremmo a sapere che sono migranti in fuga
da situazioni di diversa ma comunque profonda povertà. Migranti venduti, che
c’è sempre qualcuno che lucra su di loro. Ne vediamo la giornaliera lotta per
la sopravvivenza. Come vediamo la morte, a poco a poco, di metà dei partenti.
Per catalizzare gli sforzi contro qualcosa, si coalizzano con l’unico nero,
l’Etiope, che non parla la loro lingua. Diventa il diavolo da combattere. Che
uccidono insieme, ma da morto, viene nei sogni del ragazzo del gruppo, e li
porta versa una possibile salvezza.
Cioè
verso la città di Pontus, dove arrivano. Dove si scontrano culturalmente, che
loro, i cinque sono sopravvissuti in quanto hanno rivolto le loro speranze, il
loro credo, al nero. Elevandolo quasi ad un loro Cristo privato.
Negli
interrogatori tra loro e Pontus emerge in controluce tutta la storia. Emerge
come il potere ancora in voga li voglia zittire, non voglia far sapere
l’esistenza di caporioni che lucrano sul commercio dei migranti (si potrebbe
aprire una lunga parentesi su tutto ciò).
Sarà
la discesa verso il suo lato ebraico che porterà Pontus a trovare il modo di
salvarne almeno uno, il ragazzo. Dal profetico nome di Said Mizra, che, come
tutti i cultori di lingue arabofone sanno, significa “felice figlio del
sultano”.
Facendo un sunto dei sunti, Tommy ha cercato
di fare una lunga parabola sul vivere odierno. Riuscendo, con grande sforzo di
immagini e di cultura, a creare un parallelo non banale con il libro di
riferimento (e non a caso si citano in bibliografia la Torah e la Bibbia di
Gerusalemme). Al fine però, ed è questo il motivo di un giudizio mediano, non
riesce ad essere completamente coinvolgete. Sia per alcuni stereotipi sulle
migrazioni poco incalzati, sia per quelle scelte religiose, corrette, ma forse
andrebbero meglio spiegate (o interpretate da qualcuno più bravo di me nel
decifrare rimandi). Non un libro da sottovalutare, e sicuramente con una
lettura interessante.
“Così doveva essere il cammino verso la
fine: l’aumento progressivo della distanza fra sé stessi e il proprio corpo.”
(11)
“Andrà tutto bene. Se Dio vuole.” (159) [e
lo dicevano i migranti del testo dieci anni prima della pandemia; speriamo]
Kari
Hotakainen “Via della Trincea” Corriere della Sera Boreali 19 euro 8,90
[A: 01/11/2018–
I: 09/03/2021 – T: 10/03/2021] - &&&
e ½
[tit.
or.: Juoksuhaudantie; ling. or.: finlandese; pagine: 301;
anno 2002]
Sempre piacevole e foriera di novità, la
collana Boreali del Corriere, in unione con le edizioni Iperborea. Ed allora,
eccoci ad un nuovo, per me, autore finlandese. Una bella scrittura, ironica e
creativa, ben inserita nel solco di Arto Paasilinna, maestro dell’humor
finnico. Anche se Kari parla più di città che di campagna.
Però è un libro ben congeniato, vincitore di
premi in patria e fuori, nonché base di un film che, credo, non sia mai
arrivato in Italia.
Intanto, il titolo non è anodino, ma è
esattamente il nome di una via di Helsinki, dove ci sono casette unifamiliari,
un po’ a villino ed un po’ a schiera.
La storia del romanzo segue l’odissea
personale di Matti Virtanen, casalingo per scelta. Lui si occupa della casa e
della figlia Sini, mentre la moglie Helena lavora fuori casa, si autodefinisce
“una sfigata ambiziosa”, e soffre per la piccola casa condominiale, e per
l’apatia progressiva di Matti. Il punto di svolta, nonché inizio del romanzo, è
quando, dopo una lunga lita domestica, Matti colpisce Helena con un pugno. Lei
va via di casa, e Matti pensa al modo di riconquistarla. Scoprendo che l’unica
cosa che desidera è una casa non condominiale, magari con un giardino, degli
alberi, ed un posto per far giocare Sini. Tutto il testo si incentra quindi su
questa ricerca, sul modo di trovare i soldi per pagarla, sugli sforzi di Matti,
e sul suo progressivo cadere in una spirale senza fine, dove ad ogni passo
avanti, sembra essercene uno o anche due indietro.
La struttura della storia è complessa, ma non
complicata, divisa in quattro parti che segnano l’avvicinamento di Matti al suo
sogno di una casa e di un ricongiungimento. Nelle prime tre parti il narratore
è annunciato all’inizio, e gli avvenimenti avvengono senza una vera sequenza
temporale, si accavallano tempi e prospettive. L’ultima sezione invece copre
gli eventi dell’ultimo giorno della trama, cronologicamente, ma senza
indicazione di chi stia agendo.
Le quattro parti del testo scandiscono la
“costruzione” della casa di Matti. Nella prima (“Fondamenta”) vediamo il pungo,
la fuga di Helena, Matti che concepisce l’idea di una casa. Matti fa i suoi
primi progetti, si occupa delle questioni finanziarie legate alla nuova casa, e
cerca di figurarsi come dovrebbe essere la casa dei suoi sogni. Nella seconda
(“L’armatura”) Matti si concentra sulle agenzie immobiliari, sperando tramite
loro di trovare la casa sperata. Si scarica correndo per le strade della città,
e scopre la casa di Taisto, iniziando a farne la posta. Nella terza (“Posa
dell’ultima trave”), Matti si concentra su Taisto, e sul modo di convincerlo a
vendergli la casa, cortocircuitando l’agente immobiliare. Nell’ultima (“Il
giorno del trasloco”), Matti, ormai fuori di testa (e ne abbiamo visto i segni
nel corso della narrazione), costringe Taisto con la forza a firmare l’atto di
vendita. Mentre Helena e Sini vengono a vedere la casa, i poliziotti arrestano
Matti.
Matti lavora in fabbrica e mette da parte i
soldi vendendo i mobili di casa e lavorando in nero come massaggiatore. Matti
si occupa dei lavori domestici, e Kari ha l’idea di rovesciare l’usale rapporto
uomo-donna sul fronte della guerra lavoro domestico-lavoro esterno. Matti, in
fondo, è un idealista, sognando che la casa che troverà risolverà tutti i
problemi che ha causato, in casa e fuori. Determinato in modo quasi autistico,
è convinto che risolverà tutto.
La moglie Helena, fuggita dalla violenza
domestica, non sa però gestire un ménage familiare con la figlia. Tutto ciò che
Helena sa sui lavori domestici e sulla cucina, l'ha imparato da Mati, ma non sa
come metterli in pratica così come sa fare suo marito. Avendo sempre sognato
una casa indipendente, Matti crede che riprenderà Helena se gliela comprerà.
Poi ci sono gli altri, i guardiani delle
norme di buon vivere, che non tollerano che Matti fumi, che faccia jogging
nelle loro proprietà, ed altre modalità della vita comune finlandese. Kari riesce
a creare una contrapposizione ironica ed amara tra questi buoni, che sono
insopportabili, ed il cattivo Matti.
Tutto il testo è percorso da questa dualità.
I sogni e le attività estreme di chi cerca la sua nuova vita, e di chi vive la
propria senza pensare che si possa vivere in modo diverso. In questo modo Kari
riesce a costruire tutta una serie di scena, anche potentemente comiche, ma che
ci portano passo dopo passo ad una ineluttabile fine.
Certo, il testo è anche pieno di riferimenti
alla vita finlandese, televisiva e sportiva. Alcune sono spiegate in nota, ma
non tutte, e forse ce ne sarebbe stato bisogno. Riporto solo l’accenno a Mika
Hakkinen, che pochi anni prima vinse due campionati mondiali di F1 su McLaren
sempre davanti ad una Ferrari. nonché il fondista Risto Ulmala non
particolarmente noto (miglior risultato un settimo posto al campionato del
mondo sui 5000m), citato da Matti quando fa jogging, ma importantissimo in
quanto nato esattamente dieci anni dopo di me. Waw!
Una bella lettura, che apre un bello squarcio
fotografico sul mondo finnico, sul rapporto colà stabilito tra uomo e donna
(parliamo di venti anni fa) e sul rapporto pubblico-privato in quella società.
Insomma, a me è piaciuto.
Thorkild Hansen “Arabia felix” Corriere
della Sera Boreali 33 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 02/06/2021 – T:
04/06/2021] - &&&
e ½
[tit. or.: Det lykkelige Arabien; ling. or.: danese; pagine: 369;
anno 1962]
Un libro che sta per compiere le sessanta
candeline, ma che mantiene freschezza e capacità di interessare. Anche perché
scritto da una persona che ha dedicato tutta la vita ai viaggi. Da cui ha
tratto spunto per libri che non sono romanzi, non sono saggi, non sono
biografie. Ma un intreccio intrigante di tutto ciò. Come questo, che ne fu il
primo. Ed altri, tra cui quello che mi incuriosisce molto sulla vita di Jens
Munk, l’esploratore danese che dedicò gran parte della propria vita nella
ricerca di un passaggio a nord-ovest, la rotta navale che, sopra il Canada,
collega Atlantico e Pacifico.
Ma qui abbiamo un’altra spedizione da
celebrare, ed altri personaggi da ricordare. L’Arabia felice, infatti, è
dedicata ad una spedizione scientifica danese in Egitto e penisola Arabica, il
cui obiettivo principale era chiarire alcuni passi dell'Antico Testamento,
decifrare il nome “Arabia felice” ed obiettivi di ricerca considerati secondari
relativi alla storia naturale, alla geografia e alla cartografia.
La spedizione fu fortemente voluta da
Federico V re di Danimarca e Norvegia, sotto la spinta del suo primo ministro Johann
Hartwig Ernst von Bernstorff per “il progresso delle scienze”, al fine di
celebrare l’Accademia delle Scienze danese, e cercare anche di distogliere
qualche attenzione alla disastrosa Guerra dei Sette Anni, allora in corso.
La spedizione era composta da cinque
personaggi più o meno eminenti, ed un aiuto. Diciamo subito che cinque su sei
morirono in corso di viaggio, e la spedizione, alla fine, fu più fallimentare
che riuscita. Anche se non per colpa dei partecipanti. I quali erano: Frederik
Christian von Haven, filologo, incaricato di acquistare manoscritti orientali,
di trascrivere iscrizioni eventualmente trovate, fare osservazioni sulla lingua
araba, con il fine ultimo di chiarire alcuni passaggi oscuri dell'Antico
Testamento; Peter Forsskål, naturalista svedese e allievo di Carl von Linné
(Linneo per noi del sud) con il compito di trovare specie nuove di piante e
animali, a sostegno della tassonomia introdotta dal suo maestro; Carsten
Niebuhr, matematico, cartografo e agrimensore tedesco poi naturalizzato danese,
con il compito di disegnare le mappe dei luoghi attraversati; Christian Carl
Kramer, medico danese, che, oltre a curare le malattie della spedizione, doveva
impratichirsi nella medicina araba; Georg Wilhelm Baurenfeind, disegnatore ed
incisore tedesco, incaricato di documentare per immagini la spedizione; ed
infine lo svedese Lars Berggren, ingaggiato come inserviente.
La capacità narrativa di Hansen ci porta a
seguire tutti i passaggi della spedizione: la decisione, l’ingaggio
(problematico) del personale, le immediate lotte tra i vari membri, le
avventure e le disavventure lungo tutto il viaggio. Che terminerà
ufficialmente, dopo la partenza il 4 gennaio 1761, al ritorno a Copenaghen, nel
1767, dell’unico sopravvissuto, Carsten Niebuhr.
Il motore iniziale della spedizione doveva
ruotare intorno a von Haven, che però Hansen ci dipinge presto come egoista,
codardo e pigro, sempre in cerca di frenare il lavoro degli altri. Il suo
antagonista principale era Forsskål, sia per questione nazionaliste, sia per il
suo spirto poco incline ai compromessi. In mezzo, Niebuhr faceva da ago della
bilancia, ma essendo di non forte carattere, non riesce quasi mai a portare la
spedizione su binari più funzionali. Il pittore incide e non si mette mai in
mezzo. Il medico, purtroppo, non era neanche medico, non curerà mai nessuno, e
di lui nulla si ricorda.
Certo, e documenti posteriori al libro ne
terranno conto, von Haven non ha sempre torto, che la spinta scientifica degli
altri lo emargina, lasciando poco spazio alla sua filologia. Tuttavia, pur con
questi raddrizzamenti, sembra un torsolo sperduto nel mare. Faccio un esempio:
devono visitare il Monastero di Santa Caterina nel Sinai, e lui non si fa dare
nessuna lettera di presentazione. Così che i monaci, che vivono da cristiani,
in un mondo tutto islamico, non li faranno entrare, e lui non avrà modo di fare
alcunché per i suoi compiti.
Cosa che invece faranno gli altri due. Anche
se tutto il lavoro di Forsskål andrà perduto sia durante il viaggio, sia dopo,
quando i suoi reperti verranno tenuti per decenni nei sottoscala universitari e
accademici, e non saranno di nessuna utilità. Seppur sembra, da accenni ed
altro, che il suo lavoro, se pubblicato in tempo, gli avrebbe dato fama
imperitura.
Una fama, seppur piccola, che ebbe il modesto
Niebuhr, che si salva dalla malaria (era quella la malattia che tutti
contraggono in viaggio, e che il medico scambia per una infreddatura),
pubblicherà densi tomi sul viaggio, incluse ricerche ed osservazioni di
Forsskål. Ma soprattutto vivrà, dopo il viaggio, una vita agiata, metterà al
mondo dei figli, tra cui Barthold Georg Niebuhr, il fondatore della moderna
storiografia.
Personalmente ho amato grandemente tutta la
parte in cui si descrivono le mosse della spedizione, da Copenaghen ad
Alessandria d’Egitto passando per Costantinopoli, la risalita del Nilo, la
traversata sino a Suez, la puntata sul monte Sinai, il viaggio in nave da Suez
allo Yemen, l’agosto bollente a Mokka, dove, nel 1763, muore von Haven, il
periglioso viaggio verso Sana’a, durante il quale muore Forsskål, l’imbarco su
di una nave verso Bombay, dove durante la traversata muoiono Baurenfeind e
Berggren, l’attesa in India di tornare verso l’Europa, dove ci lascia anche Kramer.
Nonché il ritorno via terra di Niebuhr in Europa, passando anche per Persepoli.
Dove il nostro cartografo avrà il più grande successo, trascrivendo iscrizioni
cuneiformi che saranno la base della loro decifrazione.
Altri risultati eminenti seppur di molto
posteriori, saranno il “Parupeneus forsskali” un pesce d’acqua salata ed il “Lepidochrysops
haveni” una farfalla yemenita. Mi sembra ovvio capire a chi siano dedicati.
Per tornare al testo, certo Hansen forse
esagera nel demonizzare von Haven, ma, per l’equilibrio narrativo, aveva
bisogno di un “cattivo indispensabile”. E comunque, la narrazione scorre
piacevolmente, tanto che ne sto parlando a lungo, seppur senza entrare in
meriti specifici, che troppo complicato sarebbe ricordare tutti gli avvenimenti.
Solo un ultimo punto vorrei toccare. Uno dei
punti di partenza della spedizione era capire il perché di quel nome. Cosa che
nonostante la presenza di un filologo (von Haven) e di due scienziati che in
poco tempo si impadronirono a fondo dell’arabo (Forsskål e Niebuhr) non
succede. Ora possiamo svelare questo “mistero”. Che la terra ricercata,
l’Arabia felice, non era altro che lo Yemen. Nelle lingue semitiche, per chi ne
fosse all’oscuro, i nomi derivano da un radicale di tre consonanti che ne
caratterizzano l’ambito. Ora “Yemen” ha la radice in “YMN”. Una radice che
indica anche qualcosa di positivo, di giusto (al-yimin). Ma lasciamo la
chiusura di questo dilemma a Hansen:
“Il nome Arabia Felix, deriva da un errore di
traduzione, e l’equivoco nasce proprio dalla piccola parola “yemen”, che ancora
oggi, dà il nome al paese. In arabo “yemen” significa la mano destra, o la
parte destra. Ma quando gli arabi devono designare i punti cardinali, fin
dall’alba dei tempi, si sono sempre rivolti verso l’est, come gli europei
trovano naturale rivolgersi al nord. Quando un arabo si trova davanti
all’ombelico del mondo, la sacra pietra della Ka’aba alla Mecca, ha sempre il
volto rivolto ad est. È così che la parola “Yemen”, che in origine significava
“destra”, è arrivata con il tempo a indicare “sud”. Quindi lo Yemen è
semplicemente il paese che si trova a destra, il paese a sud. Inoltre, per gli
arabi, ancora oggi, la mano destra è migliore della sinistra, detta la “mano
sporca” e viene considerata inferiore. Intrisa di questi significati, la parola
“Yemen”, ha finito per assumere il significato di “felice” o “dispensatrice di
benedizioni”. Arabia Yemen, è così diventata, per una traduzione inesatta,
Eudaimon Arabia in greco, poi Arabia Felix in latino, l’Arabie Heureuse dei
francesi o das Gluckliche Arabien tedesca. In realtà la parola indica
semplicemente Arabia del Sud.”
“La capitale dell’Arabia Felice supera
ogni loro previsione: Sana’a è davvero un paradiso terrestre.” (275) [confermo
in pieno]
“[La felicità si trova nel] posto che è
più vicino del paese più vicino; eppure, è più lontano del paese più lontano,
perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.” (288)
“Eccomi arrivato a Gerusalemme, la più
straordinaria città del mondo.” (332) [concordo anche qui]
Frank
Westerman “Ararat” Corriere della Sera Boreali 30 euro 9,90 (in realtà,
scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018
– I: 26/06/2021 – T: 28/06/2021] - &&
e ½
[tit.
or.: Ararat; ling. or.: nederlandese; pagine: 260; anno 2007]
Un’altra
buona uscita della collana “Boreali”, anche se non superiore alla media, come
mi stavo aspettando quando ho iniziato a leggerne. Sebbene la collana si
dovrebbe occupare della “Letteratura del Grand Nord”, non pochi sono gli autori
olandesi presenti. E spesso, come in questo caso, autori che si occupano di
viaggi e di leggende.
Westerman
non si discosta da questo filone. Esperto di agricoltura tropicale (note i suoi
articoli sulle coltivazioni a Puno in Perù), poi giornalista, con ottimi
reportage sia sul massacro di Srebrenica, che sull’ex-URSS. Da un suo viaggio
in Armenia, nel 1999, vedendo il Monte Ararat incombere su Erevan, ma dalla
parte turca, gli viene la voglia di approfondire il mito del monte, del diluvio
universale e dell’Arca di Noè.
Il risultato
si è condensato in questo libro, che in origine aveva anche il sottotitolo:
“Alla ricerca della montagna mitica”, che però è sparito nella versione
italiana.
Il
libro è sorprendentemente vario, ed in un certo senso, personale, deludente.
Non per la ricerca, per le vicende personali ed altro, ma per il fatto che,
alla fine, per la salita al monte ed i problemi connessi, sono stati dedicati
un paio di capitoli. Che invece io aspettavo più dilatati e pieni di immagini e
suggestioni. Anche perché l’Ararat è stato uno dei pochi viaggi quasi
realizzati, ma alla fine abortiti, nella mia lunga carriera di accompagnatore
avventuroso. Una decina fi anni fa, in realtà, ebbi un’assegnazione per un
trekking sull’Ararat, che purtroppo, non per mia volontà, abortì per mancanza
di permessi in loco.
Il
discorso di Westerman, allora, da buon giornalista, mescola vari piani, e li
porta avanti con capacità. C’è il piano personale, il rapporto dolcissimo con
la figlia Vera, e quello altrettanto intenso con la moglie (che mi ricorda
rapporti che vivo con forte passione e con uguale rispetto). C’è il piano
professionale, la ricerca delle fonti, la ricerca dei visti, la ricerca dei
contatti. C’è il piano storico, sulla cronologia di diluvi ed arche. C’è,
infine, il piano religioso, che mescola il rapporto personale di Frank con la
religione (lui proveniente da una famiglia Cristiano-riformata, poi confluita
una quindicina di anni fa nella “Chiesa Protestante d’Olanda”) con i miti, le
leggende, le teorie evoluzioniste e creazioniste.
Nella
mescolanza dei vari piani, la ricerca delle fonti ha un suo interesse,
soprattutto nelle descrizioni del primo avventuroso viaggio verso l’Ararat del
francese Parrot. Descrizione che mi ha spinto poi a ricerche personali
sull’argomento, trovando un collegamento ed una necessità di approfondimento
con il piano religioso, e con la proliferazione, in ambienti i più disparati e
lontani possibili, di leggende intorno al diluvio universale ed alla salvazione
del mondo che ne conseguì.
Meno
coinvolgente il piano religioso personale di Westerman, che tuttavia l’autore
tratta con delicatezza personale. Raccontando all’inizio il suo salvarsi,
bambino, dalla rottura di una diga. Tratteggiando il progressivo allontanarsi
dalla fede ed avvicinarsi alla scienza (ma non è detto che i due termini siano
sempre contrapposti). Fino a vedere nell’Ararat, più che la montagna, l’approdo
che nella Bibbia cristiana, nella Torah ebraica e nel Corano islamico, viene
riservato all’Arca costruita da Noè – Noa – Nuh.
Infine,
il piano politico, laddove il monte è in Turchia, è sacro per gli Armeni che lo
vedono oltre confine, è un business per i curdi che ne gestiscono la scalata, è
un crocevia di spionaggio tra USA, ex-URSS e le Repubbliche Islamiche. Insomma,
è un monte simbolo. E Frank, dopo averci girato intorno sui differenti lati
descritti, dopo aver penato alquanto per ottenere un visto di ascesa, si
avvicina alla sua base. Riuscirà nell’impresa? Lascio a voi lettori lo
scoprirlo.
Perché
è un libro interessante da leggere, un libro di viaggio come piacciono a me,
dove, oltre il viaggio, si vede la vita che c’è nei viaggiatori e nei
viaggiati.
Un
ultimo appunto per quelle ricerche che avevo accennato. Non solo esiste il
“mito” del Diluvio in un’epopea precedente al Vecchio Testamento, nel “Libro di
Gilgamesh”, ma è presente in molte leggende asiatiche, e, addirittura, nei
sogni degli aborigeni australiani e nei miti dei nativi americani. Un caso?
Anche
se in ritardo, e ne conoscete i motivi, siamo alla prima trama di ottobre.
Quindi, vi dedico i venti libri di luglio. Dove sono presenti due eccellenti
letture: il solito, a me Luano-caro, Paul Auster, e l’imperdibile “Storia del
giallo italiano” di Luca Crovi. C’è anche un tonfo, che la nuova serie di
Camilla Läckberg non mi sembra nata sotto una buona stella.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Peter Fröberg Idling |
Il sorriso di Pol Pot |
Corriere Boreali |
9,90
|
3 |
2 |
Imma Vitelli |
La guerra di Nina |
Longanesi |
16,90 |
2 |
3 |
Levi Henriksen |
Norwegian Blues |
Corriere Boreali |
9,90
|
3,5 |
4 |
Guillaume Musso |
Central Park |
Bompiani |
12 |
3 |
5 |
Stefania Auci |
L’inverno dei leoni |
Nord |
20 |
2,5 |
6 |
Kjell Westö |
Miraggio 1938 |
Corriere Boreali |
9,90
|
3 |
7 |
Tahar Ben Jelloun |
Marocco, romanzo |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2,5 |
8 |
Camilla Läckberg |
La gabbia dorata |
Feltrinelli |
10 |
2,5 |
9 |
Paul Auster |
Follie di Brooklyn |
Repubblica New York |
9,90 |
4 |
10 |
Nadine Gordimer |
Ora o mai più |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2 |
11 |
José Luis Peixoto |
Libro |
Repubblica Mondo |
9,90 |
3 |
12 |
Michael Connelly |
Il lato oscuro dell’addio |
Pickwick |
10,90
|
3 |
13 |
Benjamin Myers |
All’orizzonte |
Bollati Boringhieri |
16,50
|
2 |
14 |
Fernanda Torres |
Fine |
Repubblica Mondo |
9,90 |
3 |
15 |
Luca Crovi |
Storia del giallo italiano |
Marsilio |
19 |
4 |
16 |
Alina Adams |
La scelta di Nataša |
Nord |
18 |
2 |
17 |
Camilla Läckberg |
Ali d’argento |
Marsilio |
s.p. |
1 |
18 |
Paco Nadal |
Il viaggio perfetto |
Newton Compton |
s.p. |
3,5 |
19 |
Marco Malvaldi |
A bocce ferme |
Sellerio |
14 |
3 |
20 |
Amets Arzallus Antia & Ibrahima Balde |
Fratellino |
Feltrinelli |
s.p.
|
3 |
Essendo
la prima del mese, niente addendi o inserimenti subdoli, ma solo citazioni. Che
vengono da un’autrice non molto nota, ma degna di alcune opere interessanti,
come fu Maria Corti. Che nel suo primo libro, “L’ora di tutti”, mi dedica due perle assolute. La prima sulla
vita in generale: “ma perché, io dico, uno vuol fare una cosa, lo vuole
proprio, e tutto a un tratto ne fa un’altra?”. La seconda su questo mio
(magico) momento attuale: “ogni tanto ci penso. Non al basso amore, non
sono fantasie da vecchio, ma al ‘grande amore’ per cui uno, incontrando una
donna, scopre di essere nato appositamente per amare quella donna, scopre il
suo destino”.
Confermo, ed ora, consapevolmente, l’ho anche
sposata. Ma non vi farò mancare tantissimi abbracci e, sempre, sempre,
Giovanni
Nessun commento:
Posta un commento