lunedì 18 ottobre 2021

Penultimi scandinavi - 17 ottobre 2021

Due norvegesi e due islandesi, due premi Nobel e due no. Ma alla fine, prevale, seppur di poco la mia adorata Islanda, cui spero di tornare prima o poi.

Knut Hamsun “Misteri” Corriere Boreali 24 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 11/02/2021 – T: 13/02/2021] - &&+

[tit. or.: Mysterier; ling. or.: norvegese; pagine: 310; anno 1892]

Torniamo ancora una volta ad uno dei caposaldi (nonché capostipiti) della letteratura del Nord. Torniamo, dopo aver letto e gradito anni fa il suo primo libro, nonché capolavoro (“Fame”) al norvegese Knut Hamsun. In un libro che ha quasi 130 anni, e questa volta si sente.

Si capisce, per la forza della scrittura e delle immagini e delle idee, sparse a piene mani, che Hamsun abbia avuto il suo peso nella letteratura (tanto che nel 1920 fu anche insignito del Premio Nobel). Eppur tuttavia, in questa sua furia descrittiva ed in questo profluvio di immagini e situazioni, mi sono perso un po’. Ho perso il filo, mi trovo a ripensare alle pagine ed alle vicende del protagonista, l’eccentrico Johan Nilsen Nagel e vengo preso da sconforto. Cosa vuole questo quasi trentenne che piomba, insalutato ospite anche un po’ mal sopportato, in una cittadina norvegese, sconvolgendone, con i suoi comportamenti, l’ordinato filo delle attività quotidiane.

Ma soprattutto, cosa vuole dimostrare Hamsun? Che messaggio ci vuole mandare?

Nagel arriva dal mare, con un completo di un assurdo color giallo, portando con sé una vuota custodia di violino ed una boccetta di veleno. Chi è? Hamsun non ci dice molto del suo passato, né delle sue intenzioni. Nagel sostiene di essere un agronomo, ma capiamo ben presto che è una facciata. Sostiene di non essere ricco, e si auto scrive lettere di credito per far sembiante di esserlo. Ma pur non ricco, ecco che spende e spande corone in mance ed acquisti inutili. Afferma di portare la custodia per capriccio, poi si improvvisa in un assolo magistrale di violino.

In Nagel l’autore cerca di rappresentare un “topos”, un elemento senza tempo: un ciarlatano, una persona contraddittoria che ha cura solo di fare il contrario di quello che si aspetta da lui “l’ordine costituito”. Con il risultato di riuscire (è questo quello che vuole?) a scombussolare i placidi cittadini.

Sconvolge la quarantenne vedova Martha Gould, prima con elemosine non richieste, poi con folli promesse di matrimonio, tanto che la compita donna preferisce allontanarsi in silenzio. Sconvolge Johannes Grögaard, detto Minuto, considerato lo zimbello del villaggio; anima semplice, sempre pronta ad essere servizievole con tutti, senza chiedere nulla in cambio. Nagel gli si attacca come una piattola, lo blandisce, lo irretisce con promesse, con doni, per poi allontanarlo freddamente. Tanto che lo stresso emotivo porterà il semplice Minuto sull’orlo della follia.

Ma è soprattutto con la bella Dagny Kielland che la personalità di Nagel e l’ordine norvegese avrà il suo crollo. Donna di puntuale bellezza, promessa ad un ufficiale di marina, assente dalla scena, sconvolge in modo totale il pur fragile Nagel. In lui scoppia un amore totalizzante e sconclusionato, che Hamsun rappresenta anche con sbalzi di umore e di eloquio degni di una grande penna. Ma Dagny non ha alcuna intenzione di accondiscendere. Nagel parla, sproloquia, assume atteggiamenti contrastanti e contraddittori ad ogni pagina. Sostiene il rosso per un capitolo, poi passa al verde ripudiando quanto diceva prima. Per fare un esempio, all’inizio sostiene Gladstone e la sua politica inglese, per poi scagliarsi contro di lui, citando la posizione bigotta del leader inglese nella controversia con il leader irlandese Charles Parnell (se avete tempo, leggetene sulle vicende anglo irlandesi dal 1880 al 1890).

Tuttavia, l’irresoluta capacità di Nagel di prendere posizione, di non essere capace, come ci ricorda Magris nella bella postfazione, di prendere una posizione, di inserirsi in qualche modo nella società, non possono che portarlo alla rovina. Nagel vuole solo, in modo epicureo, vivere e godersi la vita, ma si rifiuta di definire, per sé stesso ed il suo perimetro vitale, uno scopo, una modalità di navigare verso la felicità.

Nagel, ed Hamsun con lui, è fondamentalmente anarchico. Si sottrare a legami, a ruoli, a impegni di qualsiasi tipo. La fine, come direbbe Holiday Hall, è nota. Hamsun, in fondo, rappresenta anche qui l’alienazione dell’uomo, gli eccessi disarmonici della vita, la negazione della realtà e dei suoi valori, a vantaggio del proprio star bene. Anche quando questo fa star male tutti gli altri. Non è una filosofia che mi appartiene, non la segue, non capisco Nietzsche, né quello che Hamsun diventerà in vecchiaia. E non mi appassiona, neanche dal solo punto di vista intellettuale.

Forse solo in alcune esternazioni di Nagel, dove si scaglia contro Tolstoj ed altri russi, a favore dell’accademico Bjørnstjerne Bjørnson trovo della verve (anche se Hamsun li cita rovesciandone il suo giudizio personale, e dove vi rammento che Bjørnson, dieci anni dopo, fu il primo norvegese a ricevere il Premio Nobel).

Finisco solo con un piccolo cross letterario laddove Hamsun, raccontando un suo sogno, cita la Torre dei Venti di Atene, monumento costruito tardivamente nell’antichità per ricordare comunque Eolo ed i suoi figli. Tributando quindi un omaggio alle isole Eolie, come dal libro su Aristotele di Margaret Doody da non molto tramato.

“Ma se tu sapessi con quanto ardore e costanza ho pensato a te … senza mai dimenticarti … gli altri ricordano per un anno e poi basta, io continuo a ricordare.” (38)

“Magris: la vecchiezza non aveva portato maturità, ma soltanto e nient’altro che la vecchiezza.” (310)

Halldór Laxness “Gente indipendente” Corriere Boreali 25 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 27/04/2021 – T: 03/05/2021] - &&& +

[tit. or.: Sjálfstætt fólk; ling. or.: islandese; pagine: 604; anno 1934-35]

Un grande affresco, un grande libro epico, che, attraverso l’epopea di persone semplici, restituisce un dipinto della profonda anima islandese: dura, solitaria, ma anche pronta alla vicinanza dei simili, specialmente se reietti, e spesso in contrasto con l’ufficialità, il potere, in particolare nelle sue espressioni più coercitive.

Faccio un inciso inziale sulle date: due sono gli anni di pubblicazione che il libro, per la sua mole, venne pubblicato in due parti, una nel ’34 con il sottotitolo “Landnámsmaður Íslands” ed una nel ’35 con il sottotitolo “Erfiðir tímar”. In italiano, il titolo è correttissimo, e le due parti si traducono “Il colonizzatore d’Islanda” e “Tempi duri”. Riunti sotto l’altrettanto esatto titolo di “Sjálfstætt folk”, cioè “Gente indipendente”.

L’autore è considerato poi il fondatore della letteratura islandese, non a caso premio Nobel per la letteratura nel 1955. Nasce nel 1902, in un aprile sotto il segno del toro, con il nome di Halldór Guðjónsson. Nome che poi cambierà utilizzando come cognome il luogo della sua infanzia, Laxness, una fattoria a 12 km da Reykjavík. È un caparbio giramondo, dai venti anni comincia a girare l’Europa e poi anche l’America. Negli anni Trenta scrive i suoi romanzi migliori, anche se poi continuerà a produrre cose considerate egregie anche negli anni Cinquanta e Sessanta (metto il dubitativo, che non molto è tradotto in italiano). Finirà la sua vita a più di 95 anni, purtroppo avendo gli ultimi anni funestati dall’Alzheimer.

Veniamo allora al testo, che segue una gran parte della vita di un eponimo islandese Guðbjartur Jónsson, familiarmente chiamato Bjartur. All’inizio ero rimasto un po’ disorientato, che l’attacco del libro sembrava riprendere troppo le modalità descrittive di Selma Lagerlöf, con le sue disquisizioni epiche. Poi, però entriamo nei personaggi, nella vita quotidiana, nella lotta per la propria personale indipendenza di Bjartur.

Bjartur ha lavorato diciotto anni presso un padrone, ora ha messo da parte i soldi, ha sposato Rósa, ed entra in possesso di una fattoria, che battezza Sumarhús (la casa dell’estate). Ma non sarà mai solatia come la bella stagione. Non si trova con Rósa, pensa più al gregge che alla moglie. Anche se lei è incinta va in giro a trovare pecore e renne ed altri animali. Così che, al ritorno, trova Rósa morta di parto, ed una piccola creatura accudita dalla cagna. Le mette il nome di Ásta Sóllilja (che si può tradurre come “Amato Girasole”). Ma non la può accudire da solo, così che si mette in casa una donna di buon carattere, Finna, e Hallbera, la madre di lei.

Nella seconda parte, sono passati dieci anni. Bjartur e Finna si sono sposati ed hanno avuto tre figli: Helgi, Gvendur (Guðmundur) e Nonni (Jón). Questo è il capitolo della durezza e delle rivelazioni. Bjartur scopre che l’amato girasole è figlia del suo vecchio padrone di casa. Poi ci sono passaggi alla fattoria, un aiuto che poi aiuta poco, un pittore che porta aria nuova, ma che non si rivela molto a modo. Il vecchio padrone gli regala una mucca, ma Bjartur non è contento: avrà latte, ma anche meno fieno per le sue amate pecore. Bjartur e Ásta Sóllilja fanno una gita in città, ma la ragazza ne esce più sconvolta che felice. Vengono momenti di carestia, Finna si ammala. E quando Bjartur, dovendo decidere se soffrire o uccidere la mucca, decide per la seconda opzione, anche Finna ci lascia.

La terza parte, se vogliamo, è ancora più cruda e difficile. Non a caso, il titolo è “Tempi duri”. Muoiono inspiegabilmente molte pecore, una cooperativa cerca di associare i contadini ma Bjartur preferisce il suo vecchio sodale per investire i suoi soldi. Helgi, responsabile delle morti ovine, fugge e scompare nei crepacci islandesi. Il sodale fallisce e Bjartur si trova senza soldi. Va in città per rimettere in sesto l’economia familiare, ed invia un precettore per far studiare i figli rimasti. Ovvio che, per una serie di motivi, data la solitudine, Ásta Sóllilja rimane invaghita del tipo, e poi anche incinta. L’unico a risolvere in positivo è il piccolo Nonni, che, invitato da parenti, riesce ad andare a vivere in America. Al suo ritorno, Bjartur scopre la gravidanza di Ásta Sóllilja e la scaccia di casa.

Il quarto è un “libro” di transizione. Prima viene la Guerra che porta benessere perché la lana islandese è molto richiesta. Gvendur potrebbe andare in America, ma si innamora di una donna sbagliata e perde tutti i soldi. Bjartur decide di investire i soldi in una casa in cemento. Che consuma tutti i suoi averi, fino a che, la fine della Guerra, porta recessione. Anche se potrebbe essere aiutato da una nuova donna che circola per casa, l’orgoglioso Bjartur continua a voler essere indipendente, e scaccia tutti, o tutti si allontanano. Cerca di riavvicinarsi alla figliastra, ma anche lei lo rifiuta. La bancarotta costringe Bjartur a svendere la casa, e con l’unico figlio rimasto e nonna Hallbera decide di lasciare la casa dell’estate e rifugiarsi nella capanna della vecchia a Urdarsel.

Siamo arrivati alla fine. Bjartur e il figlio si fermano ad una riunione di comunisti, che convincono Gvendur a rimanere con loro. La mattina passa davanti alla casa di Asta Sóllilja, rimasta sola e malata con la figlia piccola. E finalmente i due si riconciliano e vanno a vivere a Urdarsel.

Seppur cercando di ridurre il commento all’essenziale, non sono riuscito ad essere più stringato di così. Ed ho tralasciato molte parti, e molte descrizioni che solo noi islandofili riusciamo a digerire. È un libro che, nella sua “fredda” nordica, potrebbe essere considerato l’antesignano del nostro emisfero dei Cent’anni di Garcia Marquez. E non solo, come citato sopra, c’è il rapporto con la natura di Selma Lagerlöf, ma ci si può trovare (soprattutto nella parte finale) il realismo sociale di Jorge Amado. E perché no, l’analisi dei personaggi come poteva derivare da Dostoevskij.

Alla fine, per tornare al testo, i due protagonisti della saga, il brutale ma eroico Bjartur e la dolce, strabica Ásta Sóllilja, hanno tutte le cattive qualità per risultare antipatici: sono stupidi, rozzi, ciechi, eppur tuttavia non li dimentichiamo facilmente. Sono esemplari, che tutto il loro mondo si racchiude nei confini della fattoria. L’amore strania la debole personalità di Ásta Sóllilja, perché nessuno le ha mai spiegato cosa sia. Bjartur, nella smania di essere indipendente, non fa che prendere decisioni che hanno il solo risultato di isolarlo, quindi di incattivirlo. Bjartur è un antieroe, ma è la grandezza della scrittura di Laxness che ne rende immortale l’epopea. Forse non sono attuali, ora negli anni Venti di questo secolo. Ma sono lì da dove noi si viene. Sono i nostri nonni, quando non sono ancora i nostri genitori.

Un’ultima raccomandazione: NON leggete questo libro (molto bello)! Potreste avere subito il bisogno (che a me è venuto e viene mentre ne lessi e mentre ne parlo) di visitare (di tornare in) l’Islanda.

Einar Már Guðmundsson “Angeli dell’universo” Corriere Boreali 27 euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,91 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 23/06/2021 – T: 25/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Englar alheimsins; ling. or.: islandese; pagine: 225; anno 1993]

Pur non essendo una fucina infinta di autori, in questo giugno in cui i miei cari amici hanno realizzato un grande ring islandese, ecco che è già il secondo autore dell’isola nordica che capita nelle mie trame. Autore molto noto in patria, poeta, romanziere, traduttore ed altro ancora, nato un giorno fausto (il 18 settembre) di molti anni fa.

Il libro, devo dire, non è per nulla facile, anche se alla fine risulta interessante, ed anche a suo modo coinvolgente. Il testo nasce da una tragedia personale e privata di Einar, la morte (forse suicidio, ma non sono riuscito ad appurarlo) del fratello Palmi, più grande di lui ed affetto da schizofrenia. E schizofrenico, o comunque colpito da disturbi della personalità è il protagonista del romanzo. Che, per vicinanza al fratello, viene chiamato Pall, cioè Paolo in islandese.

La difficile strada scelta da Einar è di narrare della malattia soggettivamente, dalla parte di Pall, che, fin dalle prime righe, ci dice che appunto sta parlando di sé da una prospettiva particolare: è morto suicida, e vede la sua vita in prospettiva. Una prospettiva che porta anche il lettore a seguire i fatti, le allucinazioni, i sentimenti di Pall, dal suo punto di vista. E come Pall, anche noi non capiamo il perché della malattia. Certo, indizi ci sono, ma sono indizi labili, validi un po’ ovunque, per molte patologie (ed anche per molti stati d’animo non patologici). Un cattivo rapporto con i genitori. Una difficoltà a rapportarsi con gli altri, siano essi i propri fratelli, o i propri amici, o le donne in genere.

Il viaggio nostro condotti per mano da Pall, ci fa conoscere i protagonisti del disagio, le persone cosiddette “diverse” (ma dov’è il confine tra normalità e follia?), ci descrive la loro solitudine, ci dipinge con colori crudi la loro incomunicabilità verso il mondo. Che certo è un’incomunicabilità a due vie. E nello stesso tempo, quasi a volte prendendo il volo, e parlando d’altro, ci porta nella natura islandese, nella potenza e nella contemporanea delicatezza dei suoi paesaggi. A me rende sempre viva l’immagine dei suoi colori. Quelli forti, quando c’è il sole nel giugno assolato delle notti senza ombre. Quelli tenui, verso i tramonti al nord, verso le scogliere di Akureyri o verso l’isolotto dei puffin. Quelli di un bianco senza contrasti dei ghiacciai eterni. Quelli scuri, ombrosi, impenetrabile, delle notti invernali.

Pall, da quel suo posto ormai fuori dal mondo, ci porta dentro il mondo reale e dentro il suo mondo immaginario. Seguiamo la nascita, nel marzo del ’49, lo stesso giorno dell’entrata dell’Islanda nella NATO. Un giorno di lotte, per gli islandesi. Un giorno fondamentale per Pall. Segnato dal sogno della madre: quattro cavalli che corrono, tre roani, belli potenti, uno maculato, presto stanco, tanto che si accascia e muore. Pall avrà tre fratelli, e capite da soli la metafora.

Pall giovane, con i suoi amici bambini, scherzoso, intelligente. Pall in campagna, a pascolare mucche e pecore, atterrito da navi ignote. Pall a scuola, con i suoi amici che lo accompagneranno fino all’adolescenza. L’uno che sembra realizzarsi per poi buttarsi in un fiordo. L’altro che non si trova, e finirà alcolizzato in Danimarca. Pall vicino alle donne, dove sembra farsi normale, ma che non accetta rifiuti, che diventa violento, che si dà alle droghe per superare i dolori. E che da quelle droghe, e da quell’alcool non uscirà più fuori.

Pall che sogna di essere un Van Gogh redivivo. Che alla fine non può che entrare ed uscire dal grande ospedale psichiatrico. Dove incontra i suoi ultimi amici. Baldvin il re d’Inghilterra, Oli il Beatle mancato, e Petrus, con cui farà un sodalizio apostolico (Pietro e Paolo, ovvio), fino alla morte di Petrus. Per poi, lui nato in un giorno speciale, congedarsi da noi e dal mondo in un giorno normalissimo.

Pur con tutta la difficoltà immaginabile, Einar non ci lascia soli in questo viaggio, non ci fa sentire altri. Anzi, spesso ci fa sentire meno normali di Pall. A volte pecca di lirismo forse inutile, di voli di parole che non seguo a fondo, per cui alla fine è ben sopra la sufficienza, anche se non verso vette altissime.

Un libro che fa riflettere, che sottolinea, dal punto di vista letterario, quello che dirà Vasco in una sua canzone “perché la vita è tutta un equilibrio sopra la follia”. Quant’è vero!

“È comunista e non se ne vergogna: o si è comunisti o si è idioti.” (72)

“L’ho amata tanto che è passata come una gomma da cancellare sul mio cuore e ha fatto sparire qualsiasi altra donna.” (108)

Levi Henriksen “Norwegian Blues” Corriere Boreali 32 euro 09,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 04/07/2021 – T: 05/07/2021] - &&&+

[tit. or.: Harpesang; ling. or.: norvegese; pagine: 297; anno 2014]

Levi Henriksen è uno strano personaggio nell’ambito del panorama culturale norvegese. Intanto è un toro (15 maggio) e questo non guasta. Nasce musicista (basso) e si fa un piccolo nome nel mondo musicale intorno alla sua città natale, Kongsvinger. Poi dopo i quaranta anni comincia a scrivere, con storie ambientate spesso nella sua cittadina, ed anche sovente legate a quel mondo, provinciale e molto religioso. Come lui stesso, proveniente da una famiglia di grandi tradizioni pentecostali. E come si evince anche da questo romanzo.

Ha sempre avuto (per quanto ne ho visto io) un discreto uso dell’ironia, specie nelle titolazioni delle sue uscite. Un’antologia intitolata “L’uomo che non era di Kongsvinger”, la canzone “Albert Einstein non ha mai vissuto nella mia città” ed il romanzo “La neve cadrà sulla neve già caduta”. Qui, il titolo è abbastanza tranquillo, peccato che sia stravolto nell’edizione italiana. Allora, il libro si chiama “Canto dell’arpa”. E si sa che l’arpa è uno strumento molto presente nella musica soft, in quella da camera ed in quella religiosa (come mi ricordava sempre mia zia Isabella in gioventù). Qui, l’arpa si trasforma in un “blues norvegese” … Ora, è vero che siamo in Norvegia, è anche possibile sentire un’atmosfera blues nel libro, ma un’arpa blues…

Ma veniamo allo svolgimento dello scritto. Che, come detto e come si può intuire dalle parole sulla vita di Levi, è pervaso di musica e misticismo (o meglio, religiosità). Il protagonista è un discografico, quarantenne ormai stanco della sua vita un po’ falsata da regole che non condivide più (ne farà una parodia verso la fine, con quell’insistere sull’inglese, sulle abbreviazioni, sulla pubblicità di cose inutili, ed altro che fa di quell’industria, a volte, un’insulsa appendice di altro, mentre dovrebbe tenersi vicino al suo fulcro: la musica). In una chiesa, presente a causa di un battesimo, sente un trio di anziani cantare a cappella canzoni di argomento religioso. Ma non è il testo, o non è solo il testo, che colpisce Jim. È la purezza e l’armonia delle voci.

Da questo punto si instaura un braccio di ferro tra lui ed i tre fratelli Thorsen: Timoteus, Maria e Tulla. I tre sono più o meno ottantenni, hanno ancora voci angeliche, ed in gioventù avevano successo come cantanti-predicatori. Tanto che fecero anche una tournée in America. O meglio, come dice Maria, nell’America norvegese, laddove si insediò l’emigrazione scandinava.

C’è un lungo braccio di ferro tra loro e Jim, laddove il discografico, dismettendo tutti i suoi panni esteriori, ritorna alla sua essenza umana (spogliarsi del superfluo per essere sé stessi, uno dei messaggi religiosi di Levi), e uno dopo l’altro, entra in comunione con i tre Thorsen.

Prima con Tulla, la più giovane, quella dalla vita più movimentata, che in America conosce Jingo un musicista jazz di colore, si innamorano, si sposano, fanno un figlio, Jingo muore, il figlio ha a sua volta un figlio, che dirazza, che abbondano la serietà e serenità dei suoi avi canterini, e diventa un “mercante del tempio”. Cosa che costringerà Jim a lottare con tutte le sue forze per emarginarlo.

Poi Maria, l’elemento equilibratore del trio, quella che non sbanda mai, ma che forse ha segreti che non dirà nemmeno a Jim, quando riusciranno a comunicare. Ed infine Timoteus, il più scorbutico, ma anche il più ironico. Quello che da cinquanta anni soffre il dolore di non aver avuto la possibilità di sposare Thina. Quello che prende in giro Jim perché si scusa sempre, senza avere il coraggio delle proprie azioni. Ma casualmente, sarà Jim ad organizzare un concerto presso la struttura di Thina, iniziando un processo di riavvicinamento che porterà a situazioni nuove ed inaspettate nel piccolo mondo antico di Kongsvinger.

Così, mentre i tre anziani riscoprono il gusto della vita e dell’amicizia, anche in questa tarda epoca della vita, Jim riscopre la bellezza di una vita meno frenetica, dove può tornare alla musica più genuina e vicina alla sua sensibilità. Levi chiude il suo cerchio, battendo molto su alcuni temi che spiccano come casse di risonanza nella letteratura scandinava: la voglia di fuggire dal caos della città (rifugiandosi così in questa poco abitata cittadina pochi chilometri fuori Oslo), il contatto con la natura (Greta docet), ma anche la musica come aiuto, la solitudine come risorsa, l’ineluttabilità della vecchiaia e l’avvicinarsi della fine. Non sempre il libro è su alti registri, cadute sono inevitabili. Ma anche la religiosità di Levi, che potrebbe essere di intralcio, è invece lieve ed accompagna docilmente l’andamento del romanzo.

“Uno scrittore di cui avevo letto un’intervista sosteneva che i libri migliori sono quelli mai scritti. Capivo molto bene che cosa intendesse. A volte il successo più grande sta nel fallire invece che ripetere sempre lo stesso successo.” (127)

“Il grande amore … era finito … Un amore del genere capita una sola volta nella vita. O si impara a convivere con la sua perdita, o si cola a picco.” (156)

Siamo alla seconda trama, e quindi vi porgo un allegato sul volo, sperando di tornare presto a farlo.

Mentre per le citazioni, mi rivolgo ad un Alessandro Baricco d’annata, che in “Questa storia”, continua a suggerirmi alcuni comportamenti intelligenti, se ami qualcuno che ti ama, non smascherare mai i suoi sogni”, ma soprattutto, un suggerimento su come non passare il proprio tempo: “la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare.”

Per il resto, vorrei continuare a dedicare questi ultimi mesi del 2021 per incontrare tutti gli amici che non sono riuscito a vedere (spesso) in quest’epoca clausurale, e continuare a festeggiare con loro. Loro sanno perché (ed anche Guðmundsson lo sa). Quindi posso anche continuare ad abbracciarli.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2021

Una cura pensando, sperando che presto si ritorni a viaggiare

I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE DURANTE UN VIAGGIO IN AEREO

Così avvincenti che dimenticherete di essere a diecimila metri da terra.

Jorge Amado                        “La bottega dei miracoli”

Niccolò Ammaniti                   “Io non ho paura”

Paul Auster                          “La città di vetro”

Denis Diderot                        “Jacques il fatalista”

Jerzy Kosinski                       “Oltre il giardino”

William Somerset Maugham    “Il filo del rasoio”

Raymond Queneau                “I fiori blu”

Rudolf Erich Raspe                 “Il barone di Münchhausen”

Alice Sebold                          “Amabili resti”

Jules Verne                          “Il giro del mondo in 80 giorni”

Bugiardino

Anche se, a parte Diderot e Maugham, li ho letti tutti, le letture risalgono a tempi molto lontani, che poco ricordo e soprattutto nulla scrivevo. Amado lo lessi se non ricordo male una trentina di anni fa, mentre Queneau, Raspe e Verne risalgono alle mie letture da ventenne. Auster fu divorato agli inizi di questo secolo, insieme a Kosinski (e contemporaneamente al bellissimo film). Rimane Ammaniti, che lessi agli inizi di queste scritture, con un commento sinteticamente fulmineo. Quindi, solo Alice merita un suo degno spazio.

Niccolò Ammaniti “Io non ho paura” Einaudi euro 9,50

[tramato il 31 marzo 2007]

Bella scrittura, ti avvolge e ti porta sino alla fine. Meglio il libro del film. Un buon scrittore italiano.

Alice Sebold “Amabili resti” E/O euro 11

[tramato il 24 maggio 2015]

Ecco un altro di quei libri di cui uno sente tanto parlare e non sa se comprare o meno, se leggere o meno. Rimasto a lungo nell’indecisione, sotto la spinta libropatica che ormai avete imparato a conoscere, mi sono deciso ad intraprenderne l’ardua lettura. Ardua non in quanto difficile, ma in quanto mi aspettavo qualcosa di leggermente più “realistico”.

Soprattutto dopo quell’attacco in prima persona in cui la narrante confessa di essere una ragazza di quattordici anni, stuprata ed uccisa. Quest’artificio si può accettare, visto che così Suzie, la protagonista, può descriverci gli avvenimenti e commentarli, agendo come “deus ex-cathedra” della storia (non machina giacché non riesce praticamente mai ad intervenire, e tuttavia descrive e bene quello che accade ed i sentimenti degli attori sulla scena).

Quello che mi è andato meno a genio è quel sottofinale un po’ fantasy, quasi ad imitare il film “Ghost”, quello con Demi Moore, per intenderci. Tralasciando questa parte, ed anche il finale vero e proprio, dove vediamo i protagonisti (a parte la morta) cresciuti ed il cattivo… beh quella del cattivo non ve la dico.

Comunque, tralasciando le ultime 40 pagine, veniamo al libro in sé, alla parte “sana” del racconto. Sicuramente, c’è tutto un grido di dolore contro le ragazze stuprate in giro per tutta l’America, dove credo sia un fenomeno con una ricorrenza ed una risonanza maggiore che da noi (ovviamente, con questo non dico che non ci sia anche in Italia; tuttavia, un conto è lo stupro, che penso sia purtroppo presente costantemente, un conto è l’omicidio che ritengo meno frequente nel nostro vecchio e bistrattato mondo).

Contro l’assassino, contro la polizia che spesso è incapace di trovare prove e portare a compimento indagini (ed il libro è più realistico di molte fiction tv, a volte troppo consolatorie, dove i colpevoli sono sempre puniti). Vediamo i modi con cui George circuisce ed uccide la piccola Suzie, il modo con cui prende in giro vicini di casa e poliziotti. Poi la stessa Suzie ci porta negli omicidi precedenti dello psicopatico, ci fa vedere come solo suo padre Jack pensa a lui come colpevole. Ci porta accanto alla sorella Lindsey che trova possibili prove, ma anche ci fa vedere come George riesca a scappare perché… Questo tormentone, poi, ci seguirà per tutto il romanzone.

Insieme alla storia della famiglia di Suzie, e di alcuni personaggi che le sono vicini e che vengono coinvolti dal dolore della morte e dalla incapacità, per molto tempo, di elaborare il lutto. Abbiamo la madre, che era compressa nel ruolo di portare avanti una famiglia senza molto aiuto da parte di Jack, che prima cerca di rifiutare la morte, poi di esorcizzarla (magari con una scopata selvaggia nei momenti meno opportuni), poi, quando non può fare a meno di costatarla, decide di fuggire. Lascia la famiglia e la Pennsylvania, e si rifugia in California, fino a che …

C’è Jack, il gran lavoratore, tutto preso dall’amore verso il figlio maschio, ma che rimane attonito alla morte di Suzie, non ne esce fuori, abbandona (almeno di testa) la moglie ed il resto, aggrappandosi a piccoli episodi e riti quotidiani, ma che rimane (per me) una figura di poca simpatia.

C’è il fratellino Buck, troppo piccolo per capire a pieno la morte di Suzie (all’inizio ha quattro anni), poi cresce coccolato dal padre, con l’idea dell’esistenza di questa strana sorella mai realmente conosciuta, ma anche con la mancanza della madre che, rabbiosamente, rivedrà solo dieci anni dopo. Inciso: alla fine il romanzo copre un po’ più di dieci di storia, dalla morte di Suzie allo scioglimento del suo Cielo (checché voglia dire quello che ho scritto).

C’è la sorella Lindsay, quella più brava, più intelligente, più colpita dalla morte (che da entità a sé, diventa “Lindsay, la sorella di…”). Quella che trova le prove della colpevolezza di George, quella che si innamora di Samuel, un compagno di classe, con il quale, dopo la laurea, decide di sposarsi ed andare a vivere in una casa fortuitamente scovata nei boschi, e di proprietà del padre di Ruth.

C’è Ruth, appunto, quella dark, quella strana, quella sfiorata dall’anima di Suzie quando questa muore, che dedicherà la sua vita di poetessa alternativa alla commemorazione di Suzie ed alla ricerca di tutte le altre ragazze morte, per ricordarle nei suoi diari. Coinvolgendo, non spesso ma nei momenti significativi, l’indiano Ray, quello innamorato di Suzie, quello, solo, che riuscì a darle un bacio vero prima della morte della nostra eroina. Speravo che Ray e Ruth si mettessero insieme, ma non era destino, anche se…

Insomma, tutta la parte non “poliziesca”, è dedicata agli sforzi di Suzie di far accettare la propria morte ai propri cari. E tutto il libro è quasi un inno alla elaborazione del lutto, ed alla maniera, quindi, di uscirne in modo positivo. L’utilizzo di metodi fantastici, tuttavia, mi ha fatto apprezzare meno questo sforzo. Rimane tutto avvolto in un po’ di favolistico, che mi è poco congeniale, poco fruibile in questo nostro mondo concreto. Dove, purtroppo, tanti lutti avremo da elaborare, fortunatamente non così “funesti” come questo. Peccato!

Conclusioni

Libri mediamente avvincenti, con il mio adorato Queneau su tutti. Io avrei aggiunto “Un indovino mi disse” di Terzani, non perché solo avvincente, ma perché sommamente bello da leggere.


Nessun commento:

Posta un commento