Come mi scrisse una persona alcuni anni fa, e sa che ne abbiamo fatto tesoro insieme. Ma forse dovrei dire viaggiatrice, visto che abbiamo quattro scrittrici che ci mandano le loro piccole o grandi scritture in giro per il globo. Una settimana invero decisamente buona, con due letture di alto livello: la kossovara Elvira Dones e la coreana Han Kang (con sentiti ringraziamenti a Raul). A ruota segue la danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen (che però parla e ci parla delle Fær Øer). Chiude ultima ma sempre sopra media, la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie.
Siri Ranva Hjelm Jacobsen “Isola” Repubblica Mondo 17 euro 9,90
[A: 18/03/2019 – I: 27/04/2021 – T: 28/04/2021] - &&&
[tit. or.: Ø; ling. or.: danese; pagine: 149;
anno 2016]
Interessante,
pur con dei limiti, libro danese, con una ambientazione tuttavia decentrata,
visto che la nostra esimia scrittrice è oriunda (e lì ambienta gran parte del
corto romanzo) delle isole Fær Øer. Non meravigliatevi del corto titolo, che in
effetti, in danese “Ø” significa
“isola”; ed al plurale fa” Øer”, quindi “isole”. La prima parte pare
derivi da qualche lingua norrena, col significato di pecore. Quindi, in virtù
dei primi che vi sbarcarono, e per il grande numero di animali presenti, questo
insediamento a metà tra Scozia e Islanda, viene chiamato “Isole delle pecore”.
Ed al plurale, che le isole sono tante, pur se piccole: in totale la superficie
è la metà del Lussemburgo, e gli abitanti sono intorno ai 50.000 (più o meno
come il Lichtenstein, che però è un decimo in superficie).
Prima
di entrare nel merito, un plauso va alla traduttrice Mara Valeria D’Avino, che
si è dovuta districare tra danese puro e derive faroesi, che è intellegibile
dagli scandinavi, essendo, insieme all’islandese, derivante dall’antico
norreno. Ma è pur diverso. Come capii parlando con la mia amica svedese
Annamaria, che capiva il danese pur non parlandolo (penso di aver capito, ma
qualcuno potrà correggermi, che sono lingua molto vicine, quasi come italiano e
spagnolo).
Tant’è
che Siri Ranva, danese d’origini faroesi, quando tornava nella patria dei suoi
avi, veniva apostrofata in danese, che gli isolani parlano correttamente.
Facendo poi un passo di lato, soprattutto nella prima parte, descrittiva e
legata a leggende isolane, mi è sembrato riprendesse le modalità di scrittura
di Halldór Laxness in “Gente indipendente”.
Tornando
al testo, accompagnati dalla sapiente traduzione, Siri Ranva, forse a volte con
una scrittura che io personalmente trovo non semplice seguire, fa un viaggio
nel tempo e nella memoria, portando alla luce due filoni che si intersecano: le
migrazioni dei popoli del Nord e l’amore che gli scandinavi in generale portano
alle loro terre, siano esse quelle propriamente nativa che quelle vicine,
accomunate da un senso generale di affiatamento. Il senso del rapporto, ma
anche della lotta, con la natura, con la terra, con gli animali.
L’autrice,
in questo testo definito semi-autobiografico, parla della propria famiglia, ma
non sappiamo, né forse ci interessa, quanto sia realmente accaduto e quanto sia
potuto accadere, o sia accaduto a qualche d’un altro. I personaggi di fondo
sono omma e abbi, cioè il nonno e la nonna, protagonista di una storia
complessa iniziata negli anni Trenta.
Fritz,
il nonno, è il quarto di cinque fratelli di una famiglia normalmente numerosa
come capita lì al Nord. C’è il primogenito, Ragnar, duro, uno che legge libri,
una che forse ha una storia con Marita, ma che poi vivrà una vita per lui
soddisfacente con Beate. Ma morirà prima che l’io narrante entri in scena. C’è
la seconda, zia Ingrún, quella che ha fatto un buon matrimonio e che gestisce i
cordoni della borsa. C’è Jegvan, il terzo, che vuole far carriera sul mare ed
otterrà i soldi dalla zia a scapito di Fritz e c’è il piccolo Arni, che sarà
solo marginale al racconto.
Fritz
voleva fare l’ingegnere, ma si deve mettere in coda, emigra in Danimarca per
diventare insegnante. Ed è lì che lo raggiunge, proprio il 1° settembre 1939,
la sua promessa, Marita.
Marita,
la nonna, si sente sia uno spirito libero, ma si adatta, sa che la sua strada
di migrante la deve percorrere tutta, raggiunge Fritz, e vivranno in Danimarca
fino a potersi ritirare, anziani ma mai dimentichi, nelle natie isole. Ed è in
Danimarca che nasce la madre della narratrice.
Comunque,
questi sono avvenimenti. Che vengono fuori, appunto, come bolle di memoria.
Quello che più irretisce dello scritto è il modo di affrontare la materia. La
sensazione di spaesamento di migranti che non emigrano. Di ritorni a terre
natie che non lo sono mai state. C’è un grande
potenziale associabile allo sradicamento e al passaggio da una cultura
all'altra, e qui viene fuori con tutta la sua violenza.
Personalmente, pur non essendo ancora andato
alle Fær Øer, ritrovo il clima respirato nella mia amata Islanda, dove
spero di tornare quanto prima.
Quindi,
lettura non facilissima, ma di estrema gradevolezza, se si riesce ad entrare
nella sospensione del tempo cui l’autrice colloca tutti gli avvenimenti, le
storie, le sensazioni, dei personaggi che scorrono nelle pur non tante pagine.
Finisco
ricordando che questo è il primo libro dedicato alla collana “Mondo” di
Repubblica, dove compaiono testi da diverse zone, spesso inusuali. Come queste
spero presto vedibili Fær Øer.
Elvira Dones “Piccola guerra perfetta” Repubblica Mondo 15 euro 9,90
[A: 04/03/2019 – I: 12/05/2021 – T: 13/05/2021] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 156;
anno 2010]
Secondo
romanzo in lettura della collana dedicata alle letterature in giro per il Mondo
(e cosa di meglio per celebrare i miei due amori, leggere e viaggiare?). Non
sembri poi una contraddizione, anche se scritto in italiano, non è un volume
dedicato all’Italia, ma al Kossovo. Scritto da Elvira Dones, kossovara
cosmopolita, ora sessantenne, per anni alla televisione svizzera di lingua
italiana, poi brevemente in America per poi tornare a vivere in Svizzera, dove
risiede tuttora.
Laureatasi
in letteratura inglese, per la sua storia personale è quindi multilingue, ma
principalmente, per la sua produzione letteraria, utilizza l’albanese e
l’italiano. Non ci meravigliamo quindi, che questo breve ma intenso romanzo sul
Kosovo sia scritto in italiano. Mi dà invece un po’ di fastidio che l’esegesi
di Saviano, pur condivisibile, sia stata posta prima del testo, invece di
essere messa, come andava correttamente, in postfazione.
Il
libro, come dice l’autrice in finale, è un romanzo, seppur basata su lunghe
interviste da lei fatte proprio a partire dal 1999 a donne kosovare che hanno
attraversato l’orrore di questa “piccola guerra”. Romanzo e non saggio, che non
vengono affrontati i come ed i perché della guerra, non ci si addentra nelle
motivazioni e nelle conseguenze. È un collage di racconti umani, dove si
prendono alcune persone che diventano simbolo ed emblema di quanto è successo
nei pochi mesi del racconto. Che tutto si svolge dal 24 marzo al 12 giugno del
1999.
Stiamo
a Pristina, quel giorno. Capoluogo del Kosovo, provincia serba a maggioranza
albanese. Ed il romanzo ci porta in un mondo di donne: Rea, che festeggia il
compleanno, giovane e piacente, alterata che il suo uomo, giornalista in
carriera, non ha voluto, chissà perché, far l’amore con lei. C’è la sua amica
Nita, di poco più grande, ma già professoressa, libera, indipendente, con un
amore “storto” alle spalle. Si vorrebbe fare una festa, ma gli spari non sono
fuochi d’artificio, ma esplosioni, di bombe e sparatorie. Che i kosovari
vorrebbero l’indipendenza, mentre l’ultranazionalista Milosevic, li vorrebbe
scacciare e schiacciare. Sappiamo, a posteriori, della pulizia etnica che
ordinò, dei massacri che avvennero sotto la sua direzione (fu accusato di
crimini contro l’umanità, ma morì prima della fine del processo). Nita, oltra a
Rea, ospita anche alcuni parenti. Nei brevi capitoli le notizie si susseguono e
incalzano. Pare che i serbi, sotto il bombardamento NATO, allentino la morsa.
Ed allora gli albanesi tentano di partire da Pristina. Ci sono i figli di Hana,
i parenti di Rea, amici di Nita, che fuggono. E quasi tutti non faranno fini
gloriose. Avremo tempo di assistere e di abituarci (si fa per dire) alle
atrocità serbe.
La
città rimane deserta, spettrale, ostile ai pochi kosovari rimasti. Con le
comunicazioni bloccate ai non serbi, con militari e paramilitari che si
aggirano, sparando casa per casa. Si può venire accusati di essere dei
terroristi dell’Uck (Esercito liberazione Kosovo) senza alcuna prova, senza
processo, e così, in mezzo alla strada, mentre stai cercando di sopravvivere, la
tua vita può finire in un attimo.
Non
è interessante, da parte mia, entrare in tutte le storie. È bene che ne
leggiate e ne soffriate di persona. Anche dopo la fine della guerra, le ferite
descritte rimarranno aperte. Con un finale in controtendenza dove, dopo tante
morti violente, c’è una morte per cause naturali: forse la scia di sangue si
interromperà per riprendere un flusso normale?
Tornando
alla sensazione generale, è di certo un libro drammatico, intenso, e molto al
femminile (si sente, ed è un punto di forza). Racconta una guerra, in cui, sono
morti circa 4000 serbi e 12000 tra kosovari e albanesi. Ma solo due
occidentali, due americani che hanno perso la vita addestrandosi con un
elicottero.
Come
detto all’inizio, Elvira racconta sofferenze, speranze e delusioni. Non è un
saggio, non entra nei perché. Entra solo nel dovere di ricordare, nel
raccontare quello che resta nel ricordo. Perché è un “dovere” non dimenticare.
Come diceva il grande Esopo: “Le offese [intese anche in senso esteso] possono
essere perdonate, ma non dimenticate”.
Han Kang “La vegetariana” Repubblica Mondo 5 euro 9,90
[A: 22/12/2018 – I: 16/05/2021 – T: 18/05/2021] - &&&& --
[tit. or.: The Vegetarian; ling. or.: coreano; ling. usata: inglese; pagine: 168; anno 2007]
In realtà il titolo originale è “채식주의자” scritto in coreano classico o tuttalpiù
“Chaesikjuuija” se si usa la latinizzazione riveduta della lingua coreana, utilizzata
in Corea del Sud dal 2000. Le piccole note negative del gradimento derivano dal
fatto che qui è stata utilizzata la traduzione inglese, e non il testo
originale.
Detto
questo, era un libro che da tempo stava nel retro del mio cervello, da quando
il mio amico Raoul mi disse: “Lo devi leggere”. Ma i miei tempi di lettura sono
diversi dai vostri, e sono passati due anni prima che mi decidessi a seguire
quel consiglio. Che comunque è un buon consiglio. Un libro forte, che non può
lasciare indifferenti, anche se poi è diverso da come uno si aspetta essere un
libro, o almeno un libro con questo titolo.
Intanto,
due passi di lato. Han Kang, ora sui cinquanta, è scrittrice figlia di
scrittore (il padre Han Seung-won pare sia molto noto in patria, anche se non
di certo in Italia), con una sua carriera articolata, tra poesia, racconti,
romanzi, financo insegnamento di scrittura creativa. Secondo passo: il libro
nasce dopo che Han scrive e pubblica tre racconti, che hanno un filo conduttore
comune, che poi riaggiusta un po’ per darne una visione più univoca. Ed è
questo che alla fine, con i racconti che diventano un romanzo, quello che viene
pubblicato in lingua inglese, e che gli farà vincere l’International Booker
Prize, un premio dedicato ogni anno (dal 2016) ad un libro ed alla sua
traduzione in inglese.
Torniamo
allora alla strada principale, al testo, ed al suo (incomprensibile?)
significato. Intanto, togliamo subito un dubbio: non è un libro sulla scelta di
vita di diventare vegetariani o vegani, anche se questa scelta è una componente
fondamentale della struttura del romanzo. Come dice un bravo critico americano,
più cerchi il significato in un’opera criptica, meno sarai soddisfatto dalle
spiegazioni che arrivano (e che talvolta non è neanche corretto inseguire).
Forse sarebbe quindi corretto pensare che sia un libro sul rifiuto, una specie
di onnipresente “I prefer not” di Bartleby, trasportato a tutte le attività
umane. Con le tre parti che potrebbero essere viste con i seguenti titoli:
“Preferisco non mangiare carne”, poi “Preferisco non seguire le convenzioni
comuni”, ed infine “Preferisco non essere un animale”. Dove preferisco potrebbe
essere sostituito dal più potente “Rifiuto di…”.
La
storia del “rifiuto” di Yeong-hye è seguita sempre dall’esterno, da altre
persone.
La
prima parte è seguita con gli occhi del marito. Che la sposa in quanto la trova
insignificante, e che difficilmente può dargli intralcio. Tutto vero, fino a
che Yeong-hye fa un sogno, e da quel momento, rifiuta prima la carne, poi
qualsiasi cibo animale. Qui cominciano una serie di peripezie, descritte dal
punto di vista di Cheong, che vanno precipitando verso l’abisso la situazione.
Tanto che viene anche coinvolta la famiglia, che si cerca di forzare Yeong-hye
a mangiare carne. Tanto che lei, piuttosto cerca di tagliarsi le vene. Il
racconto finisce che lei esce dall’ospedale e si ritrova, denudata, all’aperto,
ripetendo “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
La
seconda parte viene seguita dalla parte del cognato (di cui non sapremo mai il
nome). Video artista concettuale, vive alle spalle della moglie (la sorella di
Yeong-hye), senza particolari scosse. Quando sa che la cognata ha una “macchia
mongolica” (cioè una voglia congenita con un tipico colorito bluastro, tipica
delle popolazioni mongole) ha un sogno folgorante, e si appresta a realizzarlo.
Convince la cognata a farsi riprendere con il corpo dipinto di fiori. Cerca anche
di farle fare sesso con un altro artista “infiorato”. Ma sarà solo quando lui
si farà dipingere il corpo, che avranno momenti di sesso feroce ed assoluto,
contro tutte le convenzioni sociali. Scoperti da In-hye, la moglie, sembrano
voler fare passi estremi, ma sono bloccati ed internati in ospedali
psichiatrici.
L’ultima
parte è seguita dalla visuale di In-hye che, lasciato il marito, è l’unica a
tentare di aver un rapporto con la sorella. Che man mano, rifiuta tutto, anche
il cibo. Seguiamo i percorsi mentali di In-hye, e gli ultimi tentativi di
trovare un legame con Yeong-hye. Ma quando i medici tentano l’alimentazione
forzata, anche In-hye non resiste, sbrocca. Mentre, nelle diverse ambulanze che
le portano in diversi ospedali, Yeong-hye vedendo gli alberi dice di non essere
più un animale, In-hye si augura, forse, che sia stato tutto un sogno.
Ripeto
quanto detto sopra, forse non è neanche significativo cercare di spiegar tutto.
Forse è solo un dipinto che va visto, aspettando le sensazioni che ci rimanda.
Di certo, non è una prosa occidentale, che, anche laddove compaiono rabbia ed
orrore, il tutto avviene attraverso una scrittura che rimane calma. Che rimane
un passo indietro, con l’efficacia e la descrittività di uno scritto di
Murakami, che i due si avvicinano molto nel modo di porgerci le loro parole.
Critici
più forniti di me di conoscenze e di rimandi ne hanno visto proteste, rivolte
sull’uso (e lo sfruttamento) della donna nel mondo moderno. Una pulsione
sociale e ambientale che forse c’è o forse sarebbe bello ci fosse.
Io,
banalmente, mi sono lasciato afferrare dalle parole, dal ritmo,
dall’insensatezza del mondo moderno e delle sue convenzioni, dall’anelito di
libertà, dal rispetto delle scelte. E dalla fondamentale incomunicabilità del
proprio essere ad altri da sé.
Di
sicuro un libro che andrà condiviso e commentato ancora.
Chimamanda Ngozi Adichie “Metà di un sole giallo” Repubblica Mondo 1
euro 9,90
[A: 25/11/2018 – I: 19/05/2021
– T: 21 /05/2021] - &&&--
[tit. or.: Half of a Yellow Sun; ling. or.: inglese; pagine: 542; anno 2006]
Secondo libro che leggo della scrittrice africana, che trovo un po’
sotto il primo (in alcune parti di intreccio), ma di sicuro molto più di
impatto sui temi trattati e sul periodo descritto. Adichie parla sempre della
sua terra, e qui entriamo ancora più in profondità, direttamente nella
spaccatura verticale che si operò in Nigeria alla fine degli anni Sessanta.
La corposa struttura del romanzo ha la sola pecca di dividere i tempi
del racconto in due frame: una nei primi anni Sessanta ed una alla fine degli
stessi. Ma non è questo che, al solito, mi sfasa, ma la commistione dei due
tempi. Certo, la suspense di alcuni avvenimenti viene accentuata, che nel primo
salto in avanti vediamo intrecciarsi situazioni che lasciano perplessi e che
verranno spiegati con il ritorno al flusso temporale ordinario.
Il tentativo di Adichie è comunque di parlare della sua terra, seguendo
la vita, normale, di persone che anche se non normali, sono comunque più vicini
a quello sguardo sulla “storia” che permette di vedere la “Storia” anche con
altri occhi. Con gli occhi di chi ne auspica svolgimenti, ma che, per la
maggior parte del tempo, ne subisce e patisce le conseguenze.
Cinque sono i personaggi principali del romanzo: Ugwu, un domestico
nigeriano che apre e chiude il racconto, Odenigbo, professore di materie
scientifiche nonché datore di lavoro di Ugwu, Olanna e Kainene, due gemelle figlie di un ricco
uomo d’affari, la prima che si accompagna con il professore, la seconda che
andrà a vivere con Richard, un inglese trapiantato in Nigeria, scrittore e
innamorato dell’arte locale.
I
cinque, in varia natura, sono “igbo” o coinvolti con la cultura “igbo”. Uno dei
più grandi gruppi etnici africani, la maggioranza dei quali in Nigeria, nelle
regioni prospicenti il mare. Furono grandemente influenzati dalla
colonizzazione europea, come ha ben descritto lo scrittore igbo Chinua Achebe
nel libro “Il crollo”. Qui siamo negli anni Sessanta, gli igbo sono cristiani,
rispetto alla maggioranza nigeriana mussulmana, ed hanno molte delle leve
culturali, in particolare nelle Università.
Entriamo
nel loro mondo, seguendo Odenigbo, i suoi cenacoli con i professori
universitari e le élite culturali locali. Ma anche nella crescita di Ugwu, che
vediamo tredicenne entrare al servizio del professore, e che ci riporta le
situazioni più legate alla cultura tradizionale igbo. I liberi costumi, la
solidarietà, il rispetto degli anziani e dei parenti tutti. Lo vediamo in
Olanna, laureatasi in Inghilterra, e tornata, andando a vivere senza matrimonio
con Odenigbo. Lo vediamo nella spigliatezza di Kainene, che gestisce le imprese
paterne, ma non disdegna di affrontare la vita con humor, e di innamorarsi
dello spaesato Richard.
Quest’ultimo
consente a Adichie di presentarci le due facce del bianco in Africa. Quella
empatica, di Richard, che ammira la cultura locale, che impara la lingua, che
si innamora di Kainene. E quella degli altri bianchi che incontra. La sua ex
Susan, che non nasconde il suo razzismo verso i neri, pur frequentandone l’alta
borghesia. O quella di due giornalisti, che vengono solo per “il colore” anche
nei momenti bui, e non provano mai a comunicare con i locali. Fino a Padre
Marcel che da un lato aiuta i rifugiati, dall’altro abusa delle giovani locali.
Il
punto di svolta, e di non ritorno, avviene intorno al 1966. Tentativi di colpo
di Stato, accuse di reciproche uccisioni, conflitto tra gli Yoruba, del nord e
mussulmani, e gli Igbo, del sud e cristiani. Fino a che quest’ultimi proclamano
la secessione, costituendo la Repubblica del Biafra. Elemento che scatenerà,
dal ’67 al ’70, la guerra civile, ed il quasi genocidio degli igbo. Un nome,
Biafra, che risuona in parti lontane della mia giovinezza.
Nelle
diverse parti, seguiamo da un lato i problemi dei rapporti tra i cinque
protagonisti. Odenigbo e Olanna che non riescono ad avere figli, Odenigbo che
tradisce Olanna, Olanna che va a letto con Richard, cosa che mette in crisi il
rapporto di quest’ultimo con Kainene. Sarà la guerra che smusserà di forza
tutti questi problemi, unendoli nella resistenza ad anni senza cibo, senza
medicinali, senza speranze, con parenti e amici che muoiono uno dopo l’altro.
Punto fermo rimane Ugwu, nonostante molti altri problemi che affronta, ma che
alla fine, ventenne, avrà la forza di scrivere un libro, come vorrebbe ma non
riesce Richard. Un libro di cui vediamo alcuni brani posto sotto il titolo,
crudo ma vero, “Mentre noi morivamo”.
Forse
ci sarebbe da entrare meglio nei personaggi. Nella ricerca dell’amore in Ugwu,
ma anche nella sua ingenuità, nel suo essere forzato alla guerra, negli orrori
che vedrà. Nei modi di Odenigbo, nei suoi rapporti con le donne, forse
condizionati anche dall’ingombrante madre, nel suo “socialismo” facile quando
c’è la pace, nel suo pessimismo durante la guerra. Nella figura centrale di
Olanna, nella sua bellezza che destabilizza gli altri, nel suo ruolo di donna
decisa ad avere il proprio ruolo in un mondo molto ma molto maschile. Nel suo
contraltare, la gemella Kainene, all’inizio cinica e dura, ma piegata dalla
guerra, ed alla fine l’unica di cui si perdono le tracce. Infine, Richard,
innamorato della cultura igbo, poi di Kainene, tanto che alla fine diventa più
biafrano di un biafrano stesso.
Ma
questi intrecci vanno letti più che raccontati. E mentre li leggiamo, pensiamo
ai temi che Adichie ci vuole narrare: la guerra come ferita non rimarginabile
nel cuore nigeriano, i problemi legati alla politica post-coloniale ed al ruolo
degli occidentali, prima e dopo l’indipendenza. Ed in ultimo, ma non meno
importante, il ruolo delle donne, esemplificato nei rapporti con il matrimonio
(le due gemelle vivono a lungo con i loro uomini senza sposarli e senza averne
la necessità o la voglia). Il tutto legato all’emancipazione femminile (ricordo
che siamo negli anni Sessanta, laddove anche in Occidente non è che ci fosse
tutta questa libertà), che mi viene cristallizzata in mente da una frase della
zia di Olanna: “Non devi mai comportarti come se la tua vita appartenesse a un
uomo. La tua vita appartiene a te, e solo te”.
In
conclusione, un libro non facile, ma da tenere in considerazione, un buon
inizio di una collana dedicata alla letteratura in giro per il mondo.
“Stavano troppo bene nella loro prosaica felicità … temeva che il
matrimonio potesse svilire tutto al rango di un’unione prosaica.” (69)
“Così funziona l’amore: una catena di coincidenze che accumulano
significato e si trasformano in miracoli.” (138)
Ancora senza libri felici, ma con una ragionevole felicità interiore,
vi sottopongo il solito florilegio di citazioni, con una punta di senescenza da
non dimenticare.
Siamo tornati, ed io torno, a lavorare per futuri viaggi (si spera non
molto futuri). Prima di andare a chiudere, ho lisciato, lo scorso settembre il
centenario della nascita di mio zio, cui dedico questa frase di Hilbert, citata
da Francesco Berto in
“Tutti pazzi per Gödel”: “Dove potremo trovare certezza e verità, se anche
il pensiero matematico fallisce?”.
Dopo i primi incontri informali, organizzeremo anche momenti topici fino ad esaurirvi. Qualcuno di certo ne saprà. Io misterioso sono e rimango. Ma non faccio mistero di abbracciarvi tutti.
Citazioni dagli appunti di
Giovanni
Citazioni di ottobre
Un
ottobre che si aperto all’insegna di un bel viaggio che non poteva non essere
fatto, con tutte le promesse che porta e porterà. Con le citazioni mi è quindi
facile tornare ai tempi del mio primo anno lontano dal lavoro,
nell’elaborazione di un modo di vivere che non poteva che mettere le premesse
di quello che siamo ora. Perché, come parafrasava Luisa, nulla cambia che tutto
si trasforma.
Veniamo
così ai mesi di settembre ed ottobre del 2008.
Si
comincia facilmente ricordando quel primo anno da fuoriuscita del lavoro
ritenendo una frase di Ermanno Rea ne “La dismissione”: “appartengo a quella categoria di uomini capaci di un amore soltanto:
un accanito monogamo (almeno rispetto al lavoro)”.
A volte poi ci sono autori che colpiscono nel segno. E
registi che ne prendono il libro e ne fanno anche un bell’oggetto da guardare.
Come fu per “Caos calmo” sia per la regia di Antonello Grimaldi, sia,
e soprattutto, per il libro di Sandro
Veronesi. Fu una fucina di
citazioni e di ricordi.
La prima frase è
un’esortazione che non mi stanco di ripetere: “stai molto attenta con me, perché io sono buono!”. Con a ruota un
ricordo di mio padre, e delle cose che non gli ho mai detto: “c’è sempre un
padre dietro le soddisfazioni che gli uomini si prendono nella vita”.
Veronesi riesce poi ad esprimere una cosa che mi ha
sempre colpito, e che trova in me un’adesione totale: “io l’inglese lo so
abbastanza bene, ma … se mi chiedi cosa dice una canzone … non ci capisco
nulla”.
Ci sono poi due frasi che la psicologia e la vita mi
hanno inculcato dentro. La prima mi riporta ai tempi di via dei Sabelli (e che
lo sa, lo sappia): “appena senti che non ce la fai, molla. Sempre, in qualsiasi
situazione, molla”. La seconda l’ho imparata nel corso degli anni: “quelli che
si accorgono di essere stati stronzi un secondo dopo esserlo stati sono i più
stronzi”.
Infine, ci sono due frasi, d’amore, e di espressione
che sono la prima di una validità universale: “era meglio se stavo zitta! – no
… le cose vanno dette. Hai fatto bene. Fallo sempre. Dille sempre, le cose”. La
seconda di una valenza personale molto forte: “perché sta dedicando la sua vita
a…? perché lo amo”.
Nel settembre di quell’anno poi una serie di letture
nordiche portavano a piccole e grandi riflessioni. La prima, generale, viene da
Daniel Kehlmann che in “È tutta una finzione” ammonisce:
“Chi è in grado di capire sé stesso? Chi è in grado di capire un’altra
persona? Solo gli idioti possono affermare di riuscire a capire un altro essere
umano”. La seconda forse allora era prematura, ma ora viene quasi naturale, con
gli acciacchi che piccoli, ma persistenti, ci perseguitano. Così Per Olov Enquist in
“La partenza dei musicanti” avverte: “cominciava sempre così … si cominciava
con lo star male, si finiva con lo star male. E per tutto il tempo, una
sofferenza continua”.
Poi, in un ottobre che poteva sembrare sereno, prima
si continuava (come in tutto l’anno) a pensare al rapporto con i propri
genitori. Laddove Giorgio Scerbanenco ne “I ragazzi del massacro” ci
avvisa: “Non esiste assolutamente il caso in cui il padre o la madre o tutti e
due insieme non abbiano nessuna colpa di come cresce il figlio”.
Terminerei infine con una lunga digressione su di un
autore che in questo libro (ma anche in altri che purtroppo ho letto poco),
esprime una summa di contenuti su tre direttrici: la vita civile, il rapporto
tra sé ed il mondo, e quell’epoca che ora stiamo vivendo in pieno.
Parlo di Norberto
Bobbio e di un libro che tutti
dovreste leggere: “De
senectute".
Sul primo volano del
ragionamento ci ammonisce con due massime: “le
virtù del laico … sono … il rigore critico, il dubbio metodico, la moderazione,
il non prevaricare, il rispetto delle idee altrui” e “l’intellettuale … può
permettersi di analizzare pacatamente i pro e i contro di una questione e
terminare la sua analisi con un punto interrogativo”.
Sul secondo, prima riporta una massima di Anatole
France che diceva: “i vecchi amano troppo le loro idee e per questo sono di
ostacolo al progresso”. Poi esprimeva alcune considerazioni su quel rapporto
tra il pensare e l’agire: “siccome non mi pare di aver dato tutto quel che
avrei dovuto, temo sempre di essere chiamato in giorno a renderne conto”; “dopo
aver cercato [per tutta la vita] di dare un senso alla vita, ti accorgi che non
ha senso porsi il problema del senso, e che la vita deve essere accettata e
vissuta nella sua immediatezza”; “la chiarezza non è sempre un pregio e
l’oscurità non sempre è un difetto”; “la libertà consiste nell’obbedire alla
legge che ognuno dà a sé stesso”.
Infine, parlando della vecchiaia, sua, mia e di noi
tutti, mi hanno colpito tante frasi che quasi verrebbe voglia di riportare il
libro per intero. Ma ne faccio invece una scelta:
1)
"Il vecchio
vive di ricordi e per i ricordi, ma la sua memoria si affievolisce di giorno in
giorno. Il tempo della memoria procede all'inverso di quello reale: tanto più
vivi i ricordi che affiorano nella reminiscenza quanto più lontani nel tempo
degli eventi. Ma sai anche che ciò che è rimasto, o sei riuscito a scavare in
quel pozzo senza fondo, non è che un'infinitesima parte della storia della tua
vita."
2)
“non è che la
vecchiaia sia brutta, è che dura poco”
3)
“la vecchiaia… è
la continuazione della tua adolescenza, giovinezza, maturità”
4)
“i vecchi mi
hanno sempre meravigliato: ma come mai sono riusciti a passare in mezzo a tanti
pericoli, arrivando sani e salvi alla più tarda età? (Campanile)”
5)
“solo io non
posso raccontare la mia morte”
6)
“la vita del
vecchio si svolge al rallentatore”
7)
“la vecchiaia è
una fortuna, non una virtù”
8)
“la saggezza per
un vecchio consiste nell’accettare rassegnatamente i propri limiti”
9)
“il mondo del
vecchio è un mondo in cui contano più gli affetti che i concetti; … e per dirla
con Hobbes … quasi trascorsa è ormai / della mia vita la lunga favola”
Ed io concluderei con questa mia riflessione personale
“allora la vita ha un senso perché, a un certo punto, si muore”.
Per iniziare a parlare di Bobbio, invece, comincerei
con il riportare due citazioni tratte dal suo libro “Politica e cultura” del
1955:
“Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze”.
“Quando non si vede bene cosa c'è davanti, viene
spontaneo chiedersi cosa c'è dietro”.
Quanto ci ha insegnato il filosofo torinese!
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