domenica 14 novembre 2021

Grandi investigatori - prima - 14 novembre 2021

Una collana che poteva salire di tono, se avesse puntato non solo a presentare investigatori di buon livello, ma se fosse riuscita a contornarli con una paginetta critica sulla genesi dell’investigatore. Così anche gli intramontabili Camilleri e Agatha Christie sono in sordina, avvicinati da una decente ma non eccelsa prova di Antonio Manzini, e da una illeggibile storia di Alicia Giménez-Bartlett. Fortuna che il grande Simenon non ci delude mai.

Andrea Camilleri “Doppia indagine” Repubblica “I Grandi Investigatori” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 25/04/2021 – I: 16/05/2021 – T: 16/05/2021] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 2014]

Iniziamo con questo volumetto una nuova serie di racconti che Repubblica usa per spingere all’acquisto dei numeri festivi e prefestivi del giornale. Dopo aver spinto, alla fine dello scorso anno, prima ad una “Italia in Giallo”, poi, avvicinandosi la fine dell’anno, ad un “Natale in Giallo”, inframmezzata da una serie dedicata alla poesia, ecco che ritornano ai “gialli” proponendo una sedicina di volumi dedicati ai “Grandi Investigatori”. Evitando di entrare nello specifico del marketing, che tanto non caveremo un ragno dal buco, vorrei, prima di addentrarci nel testo, dedicare un pensiero al titolo della serie.

Perché parliamo di sedici volumetti, dove, ed è ovvio, ci sono Miss Marple, Hercule Poirot, il commissario Maigret, Sherlock Holmes, e tanti italiani (Montalbano e Ricciardi in primis). E poi Petra, Wallander e Pepe Carvalho. Ma, tanto per dirne una, e Nero Wolfe? Chissà se un giorno riuscirò a tirar fuori qualcosa da quelli che io ritengo “Grandi Investigatori”.

Venendo allo scritto, viene da un volume edito da Sellerio nel 2014 (“Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano”), dove le otto storie che vi sono presentate spaziano appunto sulle prime indagini di Salvo (ed il curatore di questa collana avrebbe fatto bene a dirlo). Tanto che, se mettiamo insieme qualche indizio, possiamo farle risalire (come svolgimento) intorno agli anni ’80. Anche perché, laddove si parla di soldi, si parla di lire e non di euro.

Anche i personaggi di contorno sono più “acerbi”: Catarella quasi non compare, Fazio non si manifesta con i suoi pizzini, e Augello è ancora lo sciupafemmine della gioventù. Anche Livia, che fugacemente appare, non ha carattere né nerbo.

La doppia indagine del titolo è poi solo di “facciata”, che in effetti sono due indagini. Una per la scomparsa della signora Guarraci, benestante e danarosa, con marito che ha come unica occupazione quella di perdere soldi al tavolo da gioco. L’altra arriva da una sparatoria cui sono coinvolti, per fortuna senza conseguenze letali, Salvo e Mimì.

La prima indagine aspettiamo solo che si concluda, che, date le premesse, non può che risolversi in una morte anzitempo della signora, di modo che il marito possa prendere i soldi e continuare a perderli al gioco. Seguiamo e cerchiamo di capire i come ed i perché. Cosa che la veloce e capace scrittura di Camilleri ci fa seguire senza troppi danni celebrali. Arriverà al suo sbocco naturale, noi capiremmo come sono andati i fatti, ma la brevità del testo non ci permette grandi pensate. Tanto vale seguire l’autore nelle sue descrizioni, sempre piacevoli.

La seconda indagine, che forse proprio indagine non è, dopo che le famiglie mafiose della zona si sono premurate di far saper a Salvo la loro estraneità ai fatti, si risolve in una dotta citazione di Camilleri verso il suo grande corregionale ed amico Sciascia. Che Livia convince Salvo a leggere un romanzo di Sciascia del ’66 (“A ciascuno il suo”) e ripercorrendo la storia del farmacista Manno e del dottor Roscio, il nostro capisce la trama ed il sottotesto della sparatoria. Se conoscete Sciascia, l’avrete capito anche voi. Se non avete letto il libro penso che vi manchi qualcosa. Che è stata per me una delle letture illuminanti della mia giovinezza.

Quindi, per concludere, non si può certo dire che Camilleri ci deluda troppo. Il racconto è ben congeniato, e scorre facilmente (per di più letto nell’attesa del prima e del dopo della prima dose vaccinale anti-Covid). Rimangono i dubbi che espressi alla lettura del volume completo di queste storie (nell’agosto del 2016) e le perplessità sul resto della collana (ma questo lo vedremo e ne riparleremo più avanti).

Un piccolo addendo, in queste note alla collana, verrà dedicato ai “Grandi Investigatori” di cui si parla. Qui narriamo di Salvo Montalbano che, dal corpo degli scritti di Camilleri, risulta essere nato a Catania il 6 settembre 1950. Dopo la laurea in Giurisprudenza, entra in polizia, prima come vicecommissario a Mascalippa, provincia di Enna, poi a Vigata. Dove si stabilisce in una villa al mare in località Marinella, dove vive solo, accudito dalla fida Adelina Cirrinciò, e visitato, saltuariamente da Livia Burlando, sua fidanzata storica, che vive a Boccadasse, un quartiere di Genova. Se non mangia le leccornie di Adelina, va abitualmente prima al ristorante “San Calogero”, e quando questo chiude, da “Enzo a Mare”. Ma per i mangiari di Montalbano, rimando allo scritto “La caponatina di Adelina”. Per completare il quadro, citiamo soltanto i suoi collaboratori: il vice Domenico “Mimì” Augello, un tempo sciupafemmine, poi sposato con Beba e con figlio cui dà il nome Salvo, l’ispettore Giuseppe Fazio, mago degli indizi che scrive su pizzini che Salvo non sopporto, e l’agente Agatino Catarella, macchietta degli scritti, ma insuperabile nell’uso della tecnologia.

Agatha Christie “Morte per annegamento” Repubblica “I Grandi Investigatori” 2 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 25/04/2021 – I: 19/05/2021 – T: 19/05/2021] &&

[titolo: Death by Drowning; lingua: inglese; pagine: 44; anno: 1931]

Il primo commento di questo secondo scritto è la scarsa referenzialità dei testi. Viene solo detto che il racconto proviene dalla raccolta “Miss Marple e i tredici problemi”. Non viene citato né il titolo del racconto originale (sopra riportato da me), né il titolo della raccolta (che si chiama solo “The Thirteen Problems” senza l’indicazione di “Miss Marple”), né, infine, l’anno di scrittura, che, da mie ricerche, risulta essere il 1931. Tutto ciò denota una mancanza di “serietà” che a me dispiace.

La raccolta l’avevo letta e commentata nel giugno del 2015, rilevandone la poca incisività. Non solo, ma è uno dei racconti in cui Miss Marple praticamente non compare, cosa assai straniante in una collana dedicata ai “Grandi”. Se uno, per caso, non sapesse niente di lei, rimarrebbe assai colpito di un racconto “sfasato”. Infatti, la vecchia signora è presente all’inizio ed alla fine, ma le quaranta pagine centrali parlano d’altro e di altri. Come quasi sempre nella raccolta da cui proviene, l’io narrante è l’ex commissario capo di Scotland Yard, sir Henry Clithering, grande amico ed estimatore di Miss Marple.

Ovvio che, dato il titolo, ci sia una persona morta. In questo caso, si chiama Rose, è una ragazza non sposata, ma rimasta incinta di un architetto di passaggio nella cittadina. Rose muore nel fiume, annegata. Ma è una morte accidentale, un suicidio, o un omicidio? La nostra eroina è convinta di sapere chi sia il colpevole, lo scrive su di un pizzino che consegna a sir Henry. Da lì in poi, seguiremo quindi l’ex poliziotto, che, insieme ai poliziotti locali, indaga sull’accaduto.

Ma chi può aver voluto la morte di Rose? Intanto, dati i segni sul corpo, è acclarato che non sia una morte accidentale. Allora, potrebbe essere stato Stanford, che, dopo averla messa incinta, spaventato dai possibili ricatti di Rose, decide di metterla fuori combattimento in modo definitivo. Oppure potrebbe essere stato Joe, che da sempre è innamorato di Rose, che le avrebbe probabilmente perdonato tutto, ma di fronte all’ostinazione della ragazza, perde la testa commettendo un gesto irreparabile. Un altro candidato come colpevole è la vedova Bertlett, presso cui vive Joe, che la aiuta in casa, mentre lei si mantiene facendo il bucato per le signore del villaggio. La vedova è da sempre contraria a Rose, considerandola una farfallona, e contemporaneamente, da sempre (o almeno dalla vedovanza in poi) presa da Joe (in fondo, è una vedova poco più che quarantenne, e di certo piacente). Infine, il quarto possibile indiziato è il padre di Rose, nel caso non fosse riuscito a sopportare di avere una figlia disonorata (ed anche un po’ troppo farfallona).

Dopo aver interrogato tutti i papabili colpevoli, senza ricavarne un ragno dal buco, sir Henry riceve la testimonianza del piccolo Jimmy, che gli fornisce il quadro risolutivo. Jimmy aveva visto qualcuno nel bosco, il signor Sandford, circa dieci minuti prima del fatto. Poi riferisce di aver notato Joe Ellis che camminava lungo il sentiero adagio e fischiettava. Lo aveva riconosciuto proprio per la canzone che fischiettava! Joe Ellis andava verso il villaggio. Al ragazzo pareva, inoltre che ci fossero due uomini con una carriola sul sentiero del ponte. Quando sir Henry riferisce il tutto a Miss Marple, lei lo fa riflette, il caso viene risolto, ed il nome del colpevole era quello sul pizzino iniziale.

Un racconto esile, meno debole di quelli della raccolta, ma di certo, personalmente, non il più esemplificativo della carriera di Miss Marple.

Veniamo ora all’addendo sul personaggio. Agatha Christie per la descrizione di miss Marple si basò sulla fisionomia di una sua zia, e prese il cognome della “vecchia signora” da una cittadina inglese nei pressi di Stockport. La nostra eroina è appassionata di birdwatching, le piace lavorare a maglia e curare il giardino. Inoltre, è abile nel cucinare dolci, che mangia insieme alle amiche, prendendo il tè. Vive nel piccolo villaggio di St. Mary Mead, spesso teatro dei casi che risolve, ma maggiormente modello di comunità dove tutto è presente, così che la nostra signora, basandosi sulla sua comunità, prende spunto per risolvere brillantemente le trame poliziesche. Come dice lei stessa, il suo passatempo è lo studio della “Natura Umana”, in questo abbastanza simile al quasi contemporaneo commissario Maigret. Il suo nome, quasi mai usato, è Jane. Nelle prime apparizioni è bisbetica e poco socievole, poi il suo carattere si ammorbidisce. È sempre indicata come “vecchia signora”, tanto che le sue storie dovrebbe compiersi in un arco che va dai suoi sessanta ai circa settantacinque anni. Non si è mai sposata, ma ha un nipote scrittore, Raymond West, che compare in alcuni scritti, e che le passerà un vitalizio quando Miss Marple diventa troppo anziana per fare attività lucrative.

Antonio Manzini “L’eremita” Repubblica “I Grandi Investigatori” 3 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/05/2021 – I: 23/05/2021 – T: 23/05/2021] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2015]

Terza uscita dei supplementi di Repubblica che servono per incrementare le vendite in edicola. Questa volta il “grande investigatore” è Rocco Schiavone (per sempre legato all’immagine televisiva di Marco Giallini) uscito dalla penna di Antonio Manzini. Sulla figura di Rocco torno alla fine. Intanto veniamo al testo. Che era già uscito nel 2017 nella raccolta “Un anno in giallo”, e poi riproposto l’anno seguente ne “L’anello mancante”. Come dire, le strategie di marketing non finiscono mai di stupire.

Come ho detto in entrambe le occasioni, un giallo di buona fattura, dove Rocco si dibatte tra febbre e ipocondria. Ma già nella raccolta del 2018 dovevo rilevare che il racconto aveva un suo senso soprattutto nella catena di Sant’Antonio che era l’idea forte della raccolta: un racconto al mese, con un aggancio tra l’uno e l’altro. Questo era l’ultimo, cioè dicembre, e, per chiudere il cerchio con gennaio dedicato a Camilleri, il buon patologo Fumagalli, al nostro Rocco influenzato e convalescente, regala due storie di Montalbano.

La storia in sé è abbastanza lineare, laddove muore un eremita, che si scopre essere stato un prete, scomunicato “latae sententiae” per aver violato il segreto confessionale, come prescrive il Libro VI del “Codice di Diritto Canonico”. Una volta interpretata la sentenza apostolica, il resto è un ruscelletto che va da solo a valle, coinvolgendo (banalmente) il soggetto colpito dalla violazione dell’eremita. Fortunatamente, ma ciò non ci può meravigliare, il racconto finisce con un’ulteriore prova, seppur laterale, dell’umanità di Rocco.

Alla fine, tuttavia, anche questo racconto nulla aggiunge alle storie di Rocco meglio espresse nei romanzi lunghi. Né aumenta o diminuisce il mio senso di gratitudine verso Manzini per aver pensato e scritto la serie di romanzi con protagonista il vicequestore.

Come orami usuale in questi brevi racconti, diamo il solito spazio ai “Grandi Investigatori”. Anche se non paragonerei Rocco Schiavone ai “figli” di Agatha Christie. Dal corpo delle opere di Manzini deduciamo che Rocco è nato a Roma, nel rione Trastevere, il 7 marzo 1966, da una famiglia di operai. Rimasto presto orfano, si accompagna con i suoi amici trasteverini, che sono però molto sul limitar del crimine, pur non essendo dei “cattivi”. Rocco però studia, si laurea in giurisprudenza ed entra in polizia. A 35 anni (quindi nel 2001) si sposa con Marina, che rimarrà sempre il suo grande ed unico amore. Anche quando viene uccisa il 7 luglio del 2007. In contrasto con le gerarchie per una serie di motivi che potete leggere, viene punito per le sue intemperanze e trasferito alla Squadra Mobile di Aosta. Non si adatterà mai alla montagna ed alla neve, continuando ad indossare la sua divisa romana: Loden e Clarks. Fuma Camel e qualche canna. Ha stilato una lista di "rotture di coglioni", dove al decimo livello ci sono i nuovi casi da risolvere. Rocco Schiavone è un uomo burbero, alquanto maleducato e violento, collerico, scontroso, sarcastico nel senso più romanesco, cinico con tutto e con chiunque e infedele con le numerose amanti che si ritrova ad avere ad Aosta. Rimanendo tuttavia sempre fedele alla morta Marina. Questo è in fondo anche un limite, che Marina, pur dicendo a parole che Rocco deve volare via, in realtà non ne stacca mai l’ala materna.

Sotto quest'apparenza che sembra respingente, Rocco, in fondo, nasconde un lato gentile (a modo suo), bonaccione e saggio, soprattutto con Gabriele (il suo giovane vicino di casa, il quale vede in Rocco una sorta di figura paterna). Ma anche con molti personaggi laterali delle sue storie. Che se non hanno colpe gravi, o palesi, vengono “graziate” dal suo buon cuore. Vedi ad esempio proprio la fine di questo racconto.

Georges Simenon “La testimonianza del chierichetto” Repubblica “I Grandi Investigatori” 4 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/05/2021 – I: 30/05/2021 – T: 30/05/2021] - &&&& -

[tit. or.: Le témoignage de l'enfant de choeur; ling. or.: francese; pagine: 46; anno 1946]

Qui, per ora, è l’unico punto in cui rivolgo un sentito ringraziamento a questa collana di Repubblica, sino ad ora poca riuscita. Non solo perché è un bel racconto di Maigret, ma soprattutto perché è un racconto di Maigret, un genere che ancora non ho praticato molto. Vi ricordo infatti, che ho tramato l’intero corpus di romanzi del nostro commissario (75 volumi) ma nulla dei racconti (che in realtà sono solo 28).

Possiamo quindi non dico colmare ma iniziare a riempire questo buco, con questo racconto, breve, e, secondo la critica, uno dei meglio riusciti. Il testo, tra l’altro, viene scritto a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson nel Québec (Canada), uno dei primi scritti dall’inizio dell’esilio nordamericano. Poiché, comunque, di questo periodo, se n’è parlato a lungo, veniamo invece al testo.

Al solito modo di Simenon di scrivere, completare, utilizzare, riporre, e riprendere, l’ossatura del racconto è riportata in alcune carte del 1940 con l’intestazione “La bicicletta del chierichetto”. Testo poi rimaneggiato, e al fine pubblicato in quella versione “non maigrettiana”, in una raccolta del 1963, con il titolo questa volta “La mattina dei tre funerali”.

È al solito un racconto che poi ripercorre alcune linee fondamentali dell’autore. Che anche Simenon è stato chierichetto, e tale “mestiere” viene fatto fare anche a Maigret in gioventù. Inoltre, come riportato nei romanzi, c’è un breve periodo in cui viene allontanato da Parigi, per motivi vari. E qui, abbiamo appunto una storia non parigina. Dovrebbe essere Luçon, dove Maigret passò un anno. Ma la descrizione dei luoghi si attaglia ad una città molto simenoniana e poco maigrettiana: Liegi. Infatti, se consideriamo i nomi delle strade e le descrizioni, possiamo ricostruire che, nel quartiere della giovinezza di Simenon c’è una "place du Congrès", una "rue Sainte Catherine", e la cappella de ”l’hôpital de Bavière” (dove Simenon serviva messa), nonché un ponte sul fiume, anche se il fiume è la Mosa.

In questa città di Liegi-Luçon, Maigret svolge un’inchiesta abbastanza particolare. Perché, dopo un capitolo introduttivo in cui prende tanta pioggia, il resto dell’inchiesta Maigret la conduce dal letto. Dove pensa, e ricostruisce la trama e gli avvenimenti. Anche seguendo il filo dei suoi pensieri, delle sue reminiscenze di chierichetto. Avvicinandosi al modo di pensare di Justin. Che sostiene di aver visto un cadavere in mezzo alla strada, mentre andava a servire nella cappella dell’ospedale. E di aver visto l’assassino fuggire. La polizia non lo prende sul serio, mentre Maigret gli crede, sentendo anche una nota stonata da qualche parte. Nota che si ripercuote quando parla con l’acido giudice davanti alla cui porta si sarebbe dovuto svolgere il brutto fatto.

Dal letto, accudito dalla signora Maigret che gli misura la febbre, gli fa bere tisane, e gli promette, dopo la guarigione, un crème caramel, il commissario ripercorre i fatti, capisce dove il giudice ha taciuto per omissione, e dove, di conseguenza, anche Justin, il chierichetto, non ha detto tutta la verità. Forse allettato dalla promessa di una bicicletta (promessa che ricollega appunto questo racconto a quello sopra menzionato, senza Maigret).

Risalta quindi tutta l’umanità del personaggio, tanto che, convincendo Justin a dire “tutta” la verità (confessione che porterà alla completa risoluzione del caso), è lui che regala la biciletta che Justin avrebbe in quel modo perduto. Abbiamo qui quello che rivelammo nell’analisi dei romanzi: Maigret che pensa sé stesso come un “aggiustatore di destini”, piuttosto che un commissario dedito a reprimere il crimine.

Credo che dovrò intraprendere, prima o poi, anche la lettura dei racconti di Maigret. Finendo qui, che la descrizione del “personaggio” Maigret ha già preso troppe pagine delle mie trame.

Alicia Giménez-Bartlett “Un vero e proprio viaggio” Repubblica “I Grandi investigatori” 5 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 07/05/2021 – I: 01/06/2021 – T: 01/06/2021] - &

[tit. or.: Un auténtico viaje; ling. or.: spagnolo; pagine: 46; anno 2017]

Eccoci al quinto volume degli omaggi investigativi di Repubblica (sui quali poi si farà una pensata che mi sembra siano complicatamente gestiti dall’editore).

Anche qui abbiamo una piccola “riedizione”, visto che il raccontino venne pubblicato nel 2017 all’interno della raccolta “Viaggiare in giallo”, regalo compleannico di quattro anni fa, gradito e ben commentato fin d’allora. Era una antologia di diversi autori italiani, con l’unico intarsio della nostra “amica” spagnola Alicia. Tutti, come vuole il titolo, sul tema del viaggio, o qualcosa di analogo. Alla fine, trovai il testo con Petra, il meno viaggiante degli altri, ma forse il più giallo. Che di un mistero ed un’indagine si parla.

Il viaggio è solo un su e giù tra Barcellona e Girona, un po’ meno di 100 chilometri. Da fare in pullman, o, meglio, come gradisce Fermín, in auto con sosta culinaria “on the road”.

Riprendo quanto ne sintetizzai allora: “Una studentessa torna a casa da Barcellona a Girona, e lì trova nella valigia un cadavere. Alicia è al solito più incisiva degli altri sul versante giallo (questione di passati libri memorabilmente scritti), anche se, da qualche inchiesta in qua, si fa prevedibile. Dalla terza pagina immagino che il padre della ragazza, non so per quale ragione, abbia le mani in pasta. Interrogatori, pedinamenti di un immigrato dell’est misteriosamente scomparso, cocaina che compare. Insomma, tutti gli ingredienti di un giallo. Che però non ha la forza né delle soste in trattoria che il grande Garzon impone alla riluttante Petra, né delle descrizioni dell’evolversi della famiglia allargata di Petra. Anzi, questa, al solito, mi risulta di più divertente approccio. Andante”.

Riprendendo le descrizioni dei personaggi assurti, secondo Repubblica, alla fama di Grandi Investigatori, eccoci a parlare un po’ del personaggio ossimorico, nel nome e nel carattere. Un personaggio duro ed al contempo sensibile, Petra Delicado. Appunto dura come una pietra e delicata verso alcuni altri (non tutti e non sempre). Alicia ce la descrive complessa già nella vita privata. Sposa in giovane età l’avvocato Hugo, serio e pedante. Poi, dopo il divorzio, sposa il giovane e immaturo Pepe. Al terzo tentativo, sembra più centrata, convolando con l’architetto Marcos Artigas. Il bello è che anche lui è plurisposato. In più ha anche quattro figli: Federico (16 anni), Theo e Hugo (gemelli, 12 anni) sono i figli della prima moglie: Marina, di otto anni, della seconda.

Sebbene come tutti gli Investigatori di rango sembra sempre fissa ad un’età intorno ai quaranta, in realtà contando le ammissioni personali tra laurea, gli anni con Hugo, le inchieste con Garzon, ora, nell’ultimo romanzo, dovrebbe essere sui cinquantadue anni. Comunque, ben portati.

Dal punto di vista del carattere, possiamo affermare che Petra sia una femminista scontrosa, progressista e decisionista. Tanto che ritengo sia stata ben rappresentata dalla serie televisiva italiana, dove aveva il volto e l’atteggiamento di una molto concentrata Paola Cortellesi.

Infine, da interviste varie concesse dall’autrice, e dalla lettura di tutta la sua opera, da un lato constatiamo che Petra si occupa sempre di casi che ruotano intorno all’amore ed al sesso. Dall’altro, il personaggio si ispira ad un ispettore capo del Corpo di Polizia Nazionale di Barcellona di nome Margarita García.

Per finire, ribadisco ancora una volta il poco coinvolgimento che hanno i racconti, specialmente gialli, rispetto a romanzi, che consentono un maggior respiro ed un maggior ventaglio di possibilità espressive. 

“Nessun viaggio è un vero viaggio se non ci si ferma per mangiare.” (44)

Seconda trama di novembre, ed ancora un allegato dedicato ai viaggi.

Mentre chiudo questa trama, giunge notizia della morte di un altro scrittore ben presente nei miei scaffali. Ci lascia, ad 88 anni e 49 libri, Wilbur Smith. Un addio alle grandi avventure!

Allora, affiora una sua frase contenuta nel suo “Monsone”: “Ogni viaggio comincia con il primo passo.”

Noi si spera di farne ancora alcuni, per vedere, viaggiare, spostarsi, anche solo da Prati a Montesacro. Scusate il velo di tristezza, ma c’è anche la pioggia, che io non amo. Fortuna che ci siete sempre voi, che non posso non abbracciare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2021

Forse sarà un chiodo fisso, ma anche questo mese…

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CURARE LA VOGLIA DI VIAGGIARE

Salvate il pianeta, e il portafogli, viaggiando seduti sulla vostra poltrona.

Amitav Ghosh                       “Il palazzo degli specchi”

Ernest Hemingway                 “Per chi suona la campana”

Ryszard Kapuscinski               “Ebano”

Yasunari Kawabata                “Il paese delle nevi”

D. H. Lawrence                     “Canguro”

Marco Polo                           “Il Milione”

Jean Rhys                            “Buongiorno, mezzanotte”

Robert Schneider                   “Le voci dal mondo”

Tiziano Terzani                      “Un indovino mi disse”

Paul Theroux                        “Mosquito Coast”

Bugiardino

Premetto che ritengo sbagliato l’approccio, che è giusto leggere di viaggi, non per rimanere in poltrona, ma per programmare la prossima partenza. Delle dieci proposte, ne ho tramate 4, anche se il grande fotografo ha avuto poco più che una menzione. Mentre avrebbero bisogno di essere ben letti sia il libro di Schneider che quello di Ghosh. Eviterei invece il giapponese Kawabata, che non mi ha per nulla coinvolto. Degli altri, ho letto, nello scorso secolo, Hemingway (tornando poi già due volte a Ronda, e ve ne parlerò se vorrete) e Terzani (su cui non mi dilungo, che andrebbe tutto letto e riletto). Nonché, seppur con fatica e poca voglia, le pagine di Marco Polo. Mi mancano invece sia l’Australia di Lawrence che il libro di Theroux. Jean Rhys è nelle mie corde e se ne leggerà, prima o poi.

Ryszard Kapuscinski “Ebano” Feltrinelli euro 7,50

[tramato il 17 settembre 2007]

Africa, africa, africa. Non sbavata, non osannata, ma sempre presente, con molto, molto su come ci si arriva al presente attuale. Bellissime le pagine sul Ruanda.

Tre citazioni

“per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo finisce sulla soglia di casa” 

“il nostro mondo … non è che un pianeta di migliaia di province che non si incontrano mai”

“l’acqua è tutto. Il deserto ti insegna una verità: esiste qualcosa che si può desiderare più di una donna: l’acqua”.

Robert Schneider “Le voci del mondo” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)

[tramato il 29 giugno 2014]

Flavio Cuniberto fa una bella e condivisibile post-fazione a questo ormai ventennale libro, e probabilmente anche una buona traduzione (mi fido, che non so il tedesco). Non so se però sia colpa sua o dei soliti, malefici pensatori di marketing librario, quel titolo che, al solito, travisa un po’ il senso originale. Sebbene sia un libro pieno di voci (e ci torneremo), quella parentela con il sonno a ben altro si ispira. Penso (nella mia ignoranza germanofona) ai versi di uno dei capitoli finali (“Vieni, morte, sorella del sonno”) che credo “Tod” sia maschile e quindi ha senso tradurre con “sorella” il “Bruder(à fratello)” originale.

Perché, alla fine, con ironia, con tristezza, con rimpianto, è la morte che pervade tutto il libro. Non sempre angosciosa, in alcuni casi liberatoria. Pur tuttavia, ricostruendo le vicende che si svolgono nella cittadina austriaca di Eschberg, lo scrittore Schneider fa una specie di resoconto dei lutti e delle morti. Cominciando dalla fine, dall’ultimo incendio che devasta e finalmente distrugge senza speranza la cittadina ed il suo ultimo abitante.

Un Adler, che, come sanno i montanari, in quelle sperdute lande, nell’altro versante delle Alpi, ci si mescolava molto, ed in Eschberg, in pratica, c’erano due famiglie: gli Adler e i Lamparter. Schneider segue le vicende del paesino, dalla nascita alla morte di un genio irrivelato, Johannes Elias Adler. Questa è la parte di tristezza che alla fine non può non lasciarci il libro: Elias era un genio della musica e dei suoni. Per una sua capacità sapeva imitarne di ogni specie. Aveva un orecchio globale (un “terzo orecchio” come diceva il jazzista Berendt), e riproponeva i suoni come erano. Con la voce, imitando tutti gli abitanti del villaggio, ma anche gli animali. Con ultrasuoni, con cui (forse) parlava agli animali stessi. Con l’organo, attraverso la cui musica (quando riuscì a suonarlo) costruiva cattedrali di luci e silenzi, degni e superiori a tutti i maestri (passati, presenti e futuri). Ma come dice l’autore, nessun buon samaritano passò mai di là, e Johannes non fu mai preso e fatto sbocciare.

Qualcuno si ricorda delle sue costruzioni armoniose, ma quel che ci rimane è una lapide sulla tomba, con i suoi 22 anni di vita. E con i tormenti che l’hanno costellata. Nascita laboriosa, poi comprensione dei suoni, cambiamento degli occhi dal verde al giallo, ostracismo del paese. Ma capacità, appunto, di sentire tutto. Strano rapporto, fin dal battesimo, con il cugino Peter.

Il loro intreccio pervade tutto il romanzo. Elias viene ostracizzato per gli strani poteri che ha (occhi, suoni, empatia che non riscuote simpatia, voce strana per un bambino). E solo Peter, sebbene da lontano, gli fa compagnia. Elias a cinque anni, sentendo il battito di un cuore nascente, si innamora perdutamente di Elsabeth. E cercherà per tutta la vita di conquistarla, di dichiararle il suo amore. Ma i montanari son di poche parole, e la musica non riesce a far breccia nei cuori. Peter invece ama quasi omosessualmente (ma solo nella sua fantasia) il cugino. E soprattutto, ha un senso di odio per il paese, per il padre che gli spezza il braccio. Tanto che sarà lui a dar origine al Primo Incendio del paese.

Dove Elias salverà la piccola Elsabeth. Dove il padre di Elias ucciderà l’innocente carbonaio (ma solo Elias lo vedrà e non lo perdonerà mai). Dove Elias, ancora, sa che è colpa di Peter, ma non lo tradirà. Come in un racconto di campagna, descrivendo la vita austera dei monti, ed ogni tanto perdendosi (con molta felicità di noi lettori) in qualche rigagnolo laterale, la storia va avanti.

Elias per caso diventa organista. Elias si accompagna ad Elsabeth. Elias continua a suonare senza che i rozzi paesani capiscano. Peter lo coinvolge in suoi strani giochi tra l’erotico e l’ironico. Crescono, invecchiano. Elias a 20 anni ne dimostra 40. Ma ha un suo momento di gloria suonando l’organo nella città principale. Questo non gli darà la serenità. Anzi, capirà fino in fondo l’inutilità della sua vita. Avrà una lotta tremenda tra il sé e la religione. Perderà completamente il lume della ragione, ipotizzando che l’amore totale deve essere sempre presente, giorno e notte. E deciderà di andare verso sorella morte uccidendosi attraverso la tortura del non dormire.

La vita andrà avanti, Peter diventerà più buono. Elsabeth si sposerà ed avrà tanti figli. Ma non è questo il nucleo della storia. Schneider ci vuole portare verso la comprensione che ci sono (ci possono essere) migliaia di geni che vivono ovunque. Milioni di cose e di persone che meriterebbero attenzione. Ma nulla è bello, nulla è importante, se non lo si svela, se non se ne toglie il manto oscuro, e lo si condivide, tutti. Questo a me rimane, più che la musica ed altro. La necessità, la voglia, il bisogno di aver un rapporto con l’altro. Solo così anche il nostro piccolo apporto alla vita di tutti avrà un senso.

“È meglio conoscere la verità che nutrirsi di illusioni!” (114)

“Quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perché non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio di pena e felicità.” (167)

Yasunari Kawabata “Il paese delle nevi” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)

[tramato il 04 ottobre 2015]

Continuo a leggere qualche autore “non occidentale”, che bisogna sempre avere più frecce ai propri archi. Tuttavia, a parte Banana, continuo a non entrare nella mentalità della scrittura giapponese. Faticai e lasciai più volte Osamu Dazai. Lessi e trovai palloso Yukio Mishima (e ne scrissi male). Ora provo anche Kawabata. Ed il risultato è sempre lo stesso.

Forse con qualcosa in più, è vero, che Yasunari ha una sua bellezza di scrittura formale, che prende nelle descrizioni, nell’ambientazione, nello scorrere della storia. Ma tutto il resto mi rimane freddo, come questo paese innevato, sperduto nel Nord del Giappone, dove si svolge questa labile storia. E mi domando se non ci sia anche qualche elemento derivante dalla traduzione, che inopinatamente l’editore confessa aver preso dalla traduzione inglese. Mentre più tardi, nei Meridiani Mondadori, il traduttore della Yoshimoto ne fa una nuova traduzione dall’originale, che forse potrebbe essere migliore. E che sicuramente avrebbe evitato quella catastrofica nota in cui ci spiega come un personaggio avrebbe voluto fare l’infermiera o l’assistente ai nidi infantili, in quanto viene utilizzato il termine inglese equivalente “nurse”. Chissà il termine originale qual era.

Come nella migliore tradizione della scrittura giapponese, il racconto è fatto di pochi elementi, e di molte sensazioni (paesaggi e stati d’animo, in primo luogo). Il nucleo centrale è la passione (amore?) tra un signore di Tokyo ed una geisha di provincia, che si dipana nella cittadina termale di Yuzawa (sebbene il nome non compaia nel testo, ma viene desunto dalle descrizioni).  Le sorgenti di Yuzawa sono frequentate da uomini che viaggiano soli ed hanno bisogno di relax.

Le geishe di Yuzawa non hanno l’esperienza e la preparazione di quelle di Kyoto o di Tokyo, sono un gradino al di sotto, al limite tra lo status di geisha e quello meno onorevole di donne a pagamento. È quindi scontato che il legame fra il ricco cittadino, esperto di balletti occidentali (su carta, non avendone mai visto uno) e la geisha Komako sia destinato al fallimento.

Il tentativo di Kawabata è proprio la contrapposizione tra Shimamura, attratto dall’occidente, e la concezione tradizionale di bellezza, che incarna Komako. Sul treno che lo riporta a Yuzawa, al nuovo appuntamento con Komako, il nostro amante è anche attirato da una ragazza che si occupa di un malato, Yoko. Poco succede, in fondo. Komako suona, Shimamura ascolta e pensa. Alla fine, ci sarà una catastrofe, forse morirà Yoko. Di sicuro, Shimamura non tornerà più nel paese delle nevi.

Anche nella scrittura si nota la nipponicità della confezione. Kawabata scrive il primo nucleo del romanzo come un breve racconto nel 1935. Per poi ampliarlo, integrarlo, e riscriverlo come se fosse nuovo, per farlo uscire come testo unico solo dodici anni più tardi. Questo per limare ogni frase, ogni parola, ogni descrizione. Per arrivare a dare quello che lo scrittore aveva in mente di rappresentare: uno scontro, lieve eppur profondo, tra due concezioni del mondo, tra una visione modernista ed una tradizionale. Non ci scordiamo poi che in questi 12 anni, poi, il Giappone stesso muta profondamente la sua pelle, attraversando la pesante sconfitta della guerra, e tutti i cambiamenti conseguenti. I sostenitori di questo tipo di scrittura accusano chi non capisce la via giapponese alla lentezza di non saper entrare in questo mondo, e di far meglio a leggere romanzi alla Dan Brown. Io ritengo che ci sia un giusto mezzo tra l’azione e la stasi.

Torno, ad esempio, a molti scritti di Banana Yoshimoto, dove c’è poca azione, ma molte sensazioni passano tra lo scritto ed il lettore. Qui, mi trovo in difficoltà. Ne leggo, seguo i pochi avvenimenti. Ma non riesco ad entrare nel mondo di Kawabata. Ne capisco forse un po’ con la testa, ma il cuore e lo stomaco rimangono distanti. E se non vogliamo tornare a Banana, anche “Il fucile da caccia” di Yasushi Inoue, pur nella sua lievità, mi comunicò molto di più.

“Fu colpito quando seppe che aveva annotato accuratamente tutti i romanzi e i racconti letti dall’età di quindici o sedici anni. … - Annotate anche le vostre critiche? – Non sarei mai capace di fare una cosa del genere. Semplicemente prendo nota dell’autore e dei personaggi e dei loro rapporti. … - Ma a che serve? – Proprio a niente.” (40)

Amitav Ghosh “Il palazzo degli specchi” Beat euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)

[tramato il 09 settembre 2018]

[tit. or.: The Glass Palace; ling. or.: inglese; pagine: 631; anno 2000]

Torno sempre con piacere ai libri di Ghosh, sia perché indiano di Calcutta (o di Kolkata) sia perché sono sempre dei grandi affreschi. Sociali, politici, storici, personali. Tanto che aspetto con piacere che tra qualche tempo mi verrà in mano l’ultimo libro della trilogia della Ibis (di cui qui non parlerò). Intanto mi sono goduto questo libro, con un’odissea indo-birmano che si stende per circa 110 anni. L’esimio libro di cure librarie lo consiglia come uno dei migliori libri per combattere la voglia di girovagare. Sarà. A me invece ha dato voglia di tornare in Birmania, dove forse manco da troppi anni.

Ghosh, in questa grande saga, mette molto (anche) di personale, trasponendo fatti della propria storia familiare, ma la bellezza del libro è che se ne prescinde tantissimo. Si viene presi dalla grande avventura che si svolge laggiù, ai margini dell’Oceano Indiano. E da tutti i suoi personaggi. Con la capacità, lieve ma di assoluta precisione, dell’autore di mescolare un po’ di elementi correttamente storici con le vicende personali e private dei suoi personaggi. Con i quali gioca abilmente, facendocene seguire lunghi tratti come se fossero i soli perni della vicenda. Quando poi i perni sono tanti, e quello che Ghosh ci vuole comunicare è anche la vita ed i sentimenti di tutti i popoli che si affacciano in quell’angolo di mondo.

Infatti, cominciamo a seguire Rajkumar, che dovrebbe nascere in India intorno al 1875, che vede morire tutta la sua famiglia in una epidemia, che tenta di diventare mozzo, per poi arenarsi a Mandalay. In un anno cruciale, il 1885, quando le forze inglesi decidono che hanno bisogno dei proventi delle piantagioni di tek, e per questo invadano e sbaragliano il timido regno di re Thibaw. Nella cui corte, a far da governante alle principesse reali, c’è anche la giovane Dolly, orfana indiana. I due, al colmo dei loro dieci anni di età, si guardano negli occhi, mentre l’entourage reale lascia il “Palazzo degli Specchi”, la residenza birmana del re (ricordo la città, e l’Irawaddy, il Gange dei birmani, ed altro ancora, ma non è di questo che si parla).

Poi seguiamo la crescita di Rajkumar, la sua abilità nel commercio, dietro le direttive e i consigli di un meticcio, Saya John. Seguiamo la vita in esilio a Ratnagiri, poco sotto Goa (quindi dalla parte opposte dell’India rispetto alla Birmania), del re, di Dolly, e del console indiano in rappresentanza della corona inglese. Nonché di sua moglie Uma Day, dell’amicizia di Uma con Dolly. Dell’arrivo, ormai quasi trentenne, di Rajkumar, delle dichiarazioni d’amore, della fuga di lui con Dolly, della crescita della coscienza della situazione locale di Uma, della morte del marito.

Poi arrivano i figli di Raj e Dolly, Neel, ed il giovane Dinu, gli altri giovani, come i gemelli Arjun e Marjun. C’è il ritorno dall’America di Matthews il figlio di Saya John, il suo matrimonio con la bella Elisabeth, la nascita di Neel, di Allison. Il lavoro intrecciato tra Raj e Matthews, gli amori e i dolori. Dinu con la poliomielite, da cui guarisce, anche se rimane claudicante.

Tutto intrecciato con la storia della dominazione inglese, della crescita di una coscienza sociale, l’emigrazione di Uma in America, dove prende coscienza piena della situazione e dove diventa un’attivista, prima “guerreggiante”, poi, al ritorno in India, conquistata dalla non violenza di Gandhi. Ci sono matrimoni, ci sono rotture, ci sono riconciliazioni. Raj tenta di riprendere il vigore dei tempi andati durante la Seconda Guerra mondiale, anche se ormai si avvia alla settantina.

 L’accidentale morte di Neel, il dolore insostenibile di Marjun, la vita militare di Arjun, la breve storia d’amore di Dinu e Allison. Tanti piccoli elementi che costruiscono un grande puzzle. Che non si parla solo del privato. Si parla della presa di coscienza degli indiani, della lotta con gli inglesi, della rottura interna durante la guerra dei soldati indiani che disertano per andare dai giapponesi a combattere gli inglesi ed accorgersi di essere caduti dalla padella nella brace. Si parla della Birmania, della sua indipendenza, di come abbia vissuto un grande periodo di pace, poi sconvolto dal golpe dei militari.

L’intreccio pubblico-privato è potente e ben gestito. Anche se, per forza di cose, gli ultimi anni scorrono velocemente. Che la saga finisce nel 1996, quando Amitav decide di cominciare a scrivere la sua storia. Finisce con piccoli tocchi di pennello, così come era cominciata con grandi colpi di cannone. Delicata la figura di Dinu, che decide di occuparsi per sempre di fotografia. Coinvolgente la figura di Bela, anche nel poco spazio dedicatole. Ammirevole il ritirarsi in un convento buddista di Dolly quando vede finiti i suoi spazi pubblici. C’è tanto sali e scendi delle fortune di tutti, anche se poi la fine ci lascia amaro in bocca. Pochi i personaggi che hanno uno svolgimento allegro delle loro vite.

Ghosh ci vuole far intendere non tanto questo dolore privato, quanto il fatto che questi dolori riflettono i dolori pubblici della vita nello scacchiere indo-birmano. Un libro complesso, in fine, che non ci farà dire come vedendo Tara, che domani è un altro giorno. Ma che ci dà la speranza che qualcuno riprenda le fila di Uma, di Dinu, di Bela, per arrivare ad una vera pace delle proprie sensazioni. E della vita di ognuno. Che si ritorni presto in Myanmar, ce n’è bisogno.

“È così che succede con la politica, se ti lasci coinvolgere, cancella dalla tua vita tutto il resto.” (264)

“Negli ultimi anni avevo cominciato a occuparmi di molte cose che prima erano appannaggio di mamma o di papà… [ora non ci sono più, ma] quando mi sveglio la mattina … continuano a venirmi in mente … devo dire questo alla mamma. … Ma non è esattamente una pena o in dolore … ma ti manca il respiro e sembra di soffocare.” (383)

Conclusioni

Finivo il mese scorso lamentando l’assenza di Terzani tra i libri viaggianti, cosa che invece qui si rimedia. Ma per viaggiare ci sono tanti e tanti libri, che forse, prima o poi, ne potrei fare una bella sinossi completa. Una lista che potrebbe partire da “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini per l’Afghanistan ed arrivare a “La casa della fame” di Dambudzo Marechera per lo Zimbabwe.

Sarà opera di altri scritti, spero.

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