Iniziamo questa ultima tornata che ci porta verso la fine di quest’anno con un bel gruppo di saggi. Tutti con un gradimento più che buono (tendente all’ottimo). Di cui immagino viaggi, anche se non espliciti. Viaggi nel tempo con Di Paolo, viaggi nel cinema con Peter Biskind, viaggi nel mondo del giallo italiano con Luca Crovi, ed infine viaggi reali, un po’ dovunque, con l’interessante libro di Paco Nadal. Sperando che si riprenda anche a viaggiare di persona.
Paolo Di Paolo “Svegliarsi negli anni
Venti” Mondadori euro 18
[A: 01/02/2021 – I: 28/02/2021 – T:
02/03/2021] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno:
2020]
Seguo sempre con piacere la scrittura di
Paolo Di Paolo, sia quando scrive romanzi sia quando scrive articoli sia,
infine, come in questo caso, si cimenta più che in un saggio, in una serie di
considerazioni a ruota libera. Precisate da due elementi, uno oggettivo, il
sottotitolo “Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”. Ed uno
soggettivo, riferito al fatto di avere una copia firmata con il suo commento di
pugno “Anni inaspettati?”.
Ovvio anche che il modo in cui l’autore cerca
di rispondere alla domanda di cui sopra, mi affascina, perché usa, in un suo modo
personale, i libri ed i personaggi che attraverso i libri cercano risposte a
domande epocali. Cosa sai? Che cosa desideri? Ti fa paura il futuro?
Sono i personaggi che ci guidano dal passato
al presente. Come il protagonista di “Sabato” di Ian McEwan, che dalla sua casa
londinese ci porta al momento attuale, alla pandemia che tutti stiamo vivendo e
soffrendo. Proseguendo nel collasso della civiltà di “La simmetria dei
desideri”, dove con Eshkol Nevo ci domandiamo quanto stiamo imparando da questo
momento storico. Incontriamo Michel Houellebecq che, nella sua negatività,
dubita che potremmo risollevarci. Ma per fortuna c’è anche l’innocente
esuberanza della signora Dalloway che sembra portarcene fuori.
La differenza, grande, tra questi cento anni,
segnati ora dal Covid allora dalla Spagnola, è che, allora, si usciva anche
dalla Guerra, un elemento che porta un segno indelebile in chi l’ha vissuta
sulla propria pelle. Anche se, appunto, il concetto di “Anni Venti” porta con
sé, indubbiamente, allora come ora, un vento di cambiamento. Come sottolineava
Hemingway, le decadi finiscono ogni dieci anni, mentre le epoche possono finire
in ogni momento.
Si potrebbe continuare a lungo, seguendo Di
Paolo citazione dopo citazione. Invece dovremmo fare un salto, porre noi stessi
al centro del discorso, mettendoci in discussione. Perché qualcosa sta
cambiando e non possiamo assumerne i cambiamenti goccia a goccia, come il
veleno di Mitridate. Perché, ed io concordo, siamo noi, individualmente e
collettivamente, che lavoriamo a questo cambiamento, con le nostre scelte,
personali e pubbliche.
Allora usiamo un po’ di Di Paolo per dare un
segno. Ad un certo punto, intervistato da Luca Sofri, ci racconta della Rue
Crémieux a Parigi, famosa per le sue casette dalle tenui tinte pastello. Lì si
danno appuntamento i malati di Instagram per le foto più cliccabili del XXI
secolo. Per lasciare un segno? Per adeguarsi ad una moda? Io le ho viste quelle
case, ed a me basta portarle nel cuore. Sono forse meno “moderno”? Sto ancora
dormendo insieme a mio padre fanciullo (lui era del ’24).
Per un’anti finale, poi, comincerei citando
l’ultimo passaggio, preso da un libro che adoro, “Il senso di una fine” di
Julian Barnes, dove Marshall, interrogato dal professore su come definirebbe il
tempo di Enrico VIII, risponde “Un tempo inquieto”. Richiesto di approfondire,
conclude con un definitivo: “Un tempo molto inquieto”. Una risposta che
condivido.
Come condivido quel passaggio di un altro
autore del mio cuore. In un racconto de “Le cosmicomiche”, Calvino ci mostra un
uomo che scruta il buio con il suo telescopio. E vede, da una galassia distante
milioni di anni luce una gigantesca scritta: “TI HO VISTO”. Rifletteteci. O
andate a rileggere Calvino.
Un solo inciso di passaggio, a pagina 151 si
cita il computer di Kubrick come AL 9000. Errore. Il computer si chiamava HAL,
laddove l’autore giocava con le lettere sottraendone una al demone dei computer
del tempo, la società IBM.
Con tutti i suoi alti e bassi, pur non
svalicando oltre una più che dignitosa classifica, continuo a ritenere l’autore
una presenza costante e utile, per analizzare il tempo presente. E per
discutere di vita e letteratura. Paolo, continuerò a leggere i tuoi articoli
sui giornali, che sono sempre interessanti. E spero anche i tuoi libri.
Per rispondere infine all’ultima domanda, io
(e Alessandra) penso che abbiamo dato una vigorosa risposta.
“Il tassista scortese che mi lascia
davanti alla fermata del métro Jussieu, un tè preso nel caffè della moschea…”
(67) [grazie di avermi riportato a Parigi]
“I dominanti possono lamentarsi di un
governo … ma un governo … non gli spacca la schiena.” (106) [ripreso da Èdouard
Louis “Chi ha ucciso mio padre”]
“Cosa ti aspetti dai tuoi anni Venti?”
[180]
[A: 04/03/2021
– I: 04/05/2021 – T: 07/05/2021] - &&&
e ½
[tit.
or.: My Lunches with Orson.
Conversations between Henry Jaglom and Orson Welles; ling. or.: inglese; pagine: 340; anno 2013]
Ancora un consiglio di Robinson, questa volta
in linea con i “buoni” suggerimenti. Infatti, non credo avrei pensato
l’acquisto di un libro-saggio-conversazione con il grande personaggio (poi
spiegherò meglio questa definizione). Invece ha meritato il suo posto. Compreso
il ricordo obituario di Harry. E con una buona “annotazione” del curatore Peter
Biskind, laddove si passano in rassegna una serie di personaggi spesso citati
nel testo, e non sempre noti ai meno addetti ai lavori.
Pur con l’interesse di una buona scrittura,
mi ha meno stuzzicato la postfazione di Tatti Sanguineti. Che certo spigola qua
e là su alcuni aspetti del rapporto tra Orson e l’Italia, ma chissà perché non
mi ha preso molto. Preferisco, lo dico con il rimpianto della scomparsa, le
poche conversazioni, scambiate, a volta in pizzeria a volte su autobus
notturni, con il mio scomparso cugino Paolo, il grande cinefilo.
Come quindi ben descrive il titolo, il testo
del libro sono la riproposizione delle conversazioni avvenute a tavola dal 1983
al 1985 (fin quasi alla morte di Orson avvenuta il 10 ottobre 1985) tra appunto
Orson Welles ed il suo amico, sceneggiatore e regista Harry Jaglom. Orson
mangiava sempre lì, al suo tavolo al ristorante “Ma Maison”, situato a Melrose
Avenue, Los Angeles. Era ad un tiro di schioppo dalla Walk of Fame
hollywoodiana, e con una visuale verso il Griffith Park. Era famoso per
l’ottima cucina e per il fatto che il numero di telefono del ristornate non era
in nessun elenco, perché, come diceva il proprietario, "Se non hai il
numero, non ti vogliamo".
Da queste conversazioni, Welles si staglia
appunto come un grande personaggio. Si, era stato un grand regista, un grande
attore, uno spirito visionario. Ma anche un conoscitore dei meccanismi interni
del cinema, un affabulatore presente nei talk show, financo presente in diversi
spot pubblicitari (spesso di vino). Anche se, più che conversazioni, sono in
realtà dei monologhi dove Jaglom fa bene il suo ruolo di spalla, lasciando che
Orson spazi su tutto ciò che lo interessa. Certo, progetti, concreti o
strampalati, ma con al fondo sempre il suo più grande problema: la ricerca di
fondi, di finanziamenti, ed il modo di ottenerli senza vincoli o censure.
Se
si ama il cinema, è bello star lì a seguire le sparate di Welles, che tutto
toccano. Il lato segreto di Katherine Hepburn (che diceva parolacce ed aveva
una grossa propensione al sesso) alle invenzioni de “Il Padrino”, una storia di
gangster che non sono mai esistiti (e Welles lo sa bene che andava a letto con
le stesse stelline con cui si accompagnavano i gangster reali). La grande
amicizia con Joseph Cotten (fin dai primi teatri degli anni ’30), alla sua
ammirazione verso la signorilità di personaggi di destra con John Wayne, lui
che sempre è stato un uomo liberale. La grande contraddizione di Welles appare
quando una dirigente della catena HBO gli offre del lavoro, e lui comincia ad
essere offensivo, e continua finché lei non se ne va.
Non
rinuncia mai ad essere il sé stesso che vuole mostrare, sopra le righe nel
parlare, nel giudicare, nel mangiare (alla fine arriverà a pesare 180 chili).
Di certo, e quando recita meno sembra forse ammetterlo, comprende i suoi
difetti. Ma non può fare a meno di avere quell’aria autodistruggente, quella
dell’artista frustrato ed incompreso, che tanto aveva rappresentato nei suoi
film, solo perché erano uno specchio della sua realtà interiore.
Basterebbe
guardare con occhio distaccato “F per Falso”, il suo ultimo lavoro, per capire
che, in fondo, quella è la vita: tutta una finzione. Vince, riesce a
sopravvivere, chi finge meglio, chi, in fondo, crede alle proprie finzioni, e
non se ne fa condizionare.
Ottima,
infine, per i meno addetti, come dicevo sopra, la passerella finale, in cui il
curatore Peter Biskind passa in rassegna attori, registi e produttori che hanno
incrociato Orson nella vita, e che noi abbiamo incontrato sulla carta. Che
magari tutti conoscono Samuel Goldwyn o Luis Mayer, ma sempre meno si faranno
avanti ai nomi di Lena Horne o Greg Toland.
Un
ultimo appunto: avrei messo in nota a pagina 53 che Zubin Metha non era indù
come dice Welles, ma un indiano di religione parsi (quella di Zarathustra). In
finale, di certo, una buona lettura.
“Non
erano molto belle, le sue recensioni. Né brillanti, né spiritose, né originali.
Erano solo intelligenti, normali, qualunque. Se vuoi essere un critico
interessante, un po’ di mordente lo devi avere. Se sbagli pazienza, ma devi
essere interessante.” (111)
“Se
l’opera di uno scrittore mi rapisce, non voglio sapere niente di lui … mi
rallegro di non sapere nulla di Shakespeare come uomo. Penso che le sue opere
contengano già tutto.” (113)
“Brooke
Shields è così stupida che l’hanno bocciata anche al pap test.” (144)
“[Harry
Lime ne ‘Il terzo uomo’] In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto
assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo,
Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno,
cinquecento anni di pace e democrazie, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a
cucù.” (174)
“Per
me i sessi sono sempre stati tre: uomini, donne e attori. Gli attori riuniscono
le peggiori qualità degli altri due.” (219)
Luca Crovi “Storia del giallo italiano”
Marsilio euro 19
[A: 14/02/2021 – I: 01/05/2021 – T: 28/07/2021]
- &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 507; anno 2020]
Tutti sanno che sono un lettore onnivoro.
Tutti sanno che una buona fetta (direi verso il 50%) delle mie letture è
orientata al cosiddetto genere “giallo” (etichetta che forse faremo bene ad
analizzare meglio). Non tutti sanno, ma si intuisce, che sono molto “drogato”
del giallo italiano. Sia perché ritengo che talvolta fotografi la realtà meglio
di tante prove romanzesche e cerebrali, sia perché sono curiosamente attratto
dai meccanismi di svelamento dei misteri (che non sono solo appannaggio della
letteratura italiana, ma che qui, in un ambiente che conosco a memoria, è
possibile seguire ed apprezzare i modi espressivi degli autori).
Seguendo la bella scrittura di Crovi, mi sono
nuovamente immerso in due tematiche che mi ronzano da sempre nella testa: la
genesi del nome e la nascita del primo libro italiano del genere. In Italia, si
sa, viene cristallizzato nel 1929 quando Mondadori inizia a pubblicare romanzi
polizieschi tutti con la copertina gialla, che diviene così il simbolo del
genere (il romanzo giallo). In Francia si usa invece il termine “polar”,
contrazione dei termini poliziesco (“policier”) e nero (“noir”). Mentre in
Germania si chiamano Krimi (contrazione di “Kriminalroman”). Solo nei paesi
anglofoni abbiamo un proliferare di definizioni a partire dal cappello “Crime
fiction”: detective fiction (con investigatore), cozy mistery (con tocchi
umoristici), whodunit (il mistero a chiave), locked-room (i misteri della
stanza chiusa), hardboiled (duro e americano), police procedural (dove c’è una
squadra che indaga), forensic (dove l’eroe è un medico legale), legal thriller
(legati agli avvocati), e via discorrendo.
Ma noi qui si parla di gialli. E di gialli
italiani. Con la diatriba, irrisolvibile, se il capostipite sia Francesco
Mastriani con “Il mio cadavere” del 1851 o Emilio De Marchi con “Il cappello
del prete” del 1857. Quello che risolviamo, seguendo le belle pagine di Crovi,
è sia la possibilità di progredire in linea temporale, sia in linea spaziale.
Per la seconda linea, con l’autore viaggiamo
tra città come Milano, Napoli, Torino e territori come l’Emilia, la Toscana, la
Sicilia. Cosa che ci dà modo di incontrare personaggi che hanno scaldato i miei
occhi di lettore. Cito alla rinfusa: il commissario De Vincenzi, Duca Lamberti,
Salvo Montalbano, Rocco Schiavone, l’Alligatore, Grazia Negro, Lolita Lobosco,
Vanina Guarrasi, Alice Allevi, Imma Tataranni, l’avvocato Guerrieri, il
brigadiere Sarti Antonio. Che rimandano subito ai loro e ad altri autori: De
Angelis, Scerbanenco, Sciascia, Camilleri, Faletti, Lucarelli, Malvaldi,
Carlotto, Macchiavelli, De Cataldo, Biondillo, Sclavi, Carrisi, Carofiglio, e
tanti altri. E tante altre: Laura Grimaldi, Paola Barbato, Barbara Baraldi,
Ilaria Tuti, Grazia Verasani, Marilù Oliva, Cristina Cassar Scalia, Gabriella
Genisi, Alice Basso, Mariolina Venezia.
La bravura di Crovi sta anche in quella linea
temporale, dove l’autore dimostra che la nostra scrittura non solo regge le più
note scritture estere, ma nel tempo, si è innovata, ha recepito e poi anche
creato nuove tendenze narrative. In questo, gli autori italiani sono riusciti a
comprendere e ben descrivere i segnali di una società in cambiamento. Così come
aveva intuito già Gramsci, in un suo scritto sul romanzo popolare e sul genere
poliziesco uscito coevo ai Gialli Mondadori.
Non solo, ma rispetto a quei gialli
anglosassoni spesso ambientati in ville isolate o luoghi sperduti, l’autore
italiano si rivolge a località note, a città riconoscibili, ad avvenimenti che
se non li leggessimo sul libro, potremmo leggerli sulla cronaca locale dei
nostri quotidiani.
La sapienza enciclopedica di Crovi ci porta
anche a gustare alcune chicche impagabili. Ad esempio, alle storie della Mano
Nera, pubblicate poco dopo che nel 1909 a Palermo venne ucciso il famoso
poliziotto Jo Petrosino. O i sei anni di pubblicazione de “Le avventure del
poliziotto americano Ben Wilson”, scritte dall’italianissimo Ventura Almanzi,
salgarianamente senza mai muoversi dal suo studio. Non ultimo, infine, il
giallo dell’ultimo capitolo, che vi lascio leggere e scoprire da soli.
Certo, si tratta di un saggio, non è
scorrevole come un romanzo, ma ha una sua organicità, e continuo a consigliarlo
per chi voglia avere una panoramica sul genere, nonché alcune visioni di
momenti di scrittura interessanti: le città, la nascita dei duri, la scrittura
al femminile. Tanto per dire qualcosa e stimolarvi la curiosità.
Termino con una esortazione, che desumo dalle
parole dell’autore, che riprendo dagli scritti descrittivi americani, e che
faccio mia, per questa e per tutte le scritture “gialle”. Il lettore deve avere
le stesse possibilità dell’investigatore (inteso come personaggio che sta al
centro dei ragionamenti, sia esso poliziotto, detective, avvocato, o qualsiasi
altra espressione) di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce
debbono essere chiaramente elencati e descritti. Sarà un gioco tra noi lettori
e te scrittore, a chi sarà più abile, a chi arriverà prima alla soluzione.
Trasformando così eventi potenzialmente tragici in momenti di vita comunque
piacevoli da trascorrere.
Paco Nadal “Il viaggio perfetto” Newton
Compton s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 14/07/2021 – I: 14/07/2021 – T:
30/07/2021] - &&&
e ½
[tit. or.: El viaje perfecto: para ti y tus circunstancias; ling. or.: spagnolo; pagine: 399; anno 2018]
Senza
nessuna ricorrenza, senza nessun vero perché, solo per il comune amore dei
viaggi, ecco un super gradito regalo di Ale. Nella speranza che potesse fornire
qualche spunto, anche in vista del prossimo settembre. Che qualcuno lo sa,
altri lo sapranno, altri ancora l’avranno saputo.
Sono 330 idee ed io ne ho già visitate 97 …
Francisco Nadal Yuste detto Paco è un
giornalista specializzato in viaggi. E di viaggi raccontano i suoi scritti: sul
Cammino di Santiago, sulla sua Murcia natia, sui 365 luoghi della Spagna che
non si può far a meno di vistare. Non sono aduso citare spunti su internet, ma
per Paco spezzo una lancia, consigliandovi di visitare il suo blog https://elpais.com/agr/paco_nadal/a (in
spagnolo, ma comprensibilissimo).
Cercando di creare una summa delle sue
esperienze, in questo graditissimo libro ci propone tre motivi per
intraprendere un viaggio. Per ognuno dei quali, è possibile trovare il viaggio
che meglio si addice a quella esigenza. Per creare, appunto, “il viaggio
perfetto”.
Ma quale sono le grandi categorie di viaggi e
viaggiatori, secondo Nadal?
Ci sono le motivazioni legate alla propria
vita in questo preciso momento, ed alle sue conseguenze: viaggiare con i
bambini (se abbiamo messo su famiglia) o viaggiare da soli (sia
indifferentemente con lo zaino, sia da donne che giustamente si avventurano da
sole in giro per il mondo).
Ci sono i viaggi legati all’età: una data
critica da superare (che siano i trenta o i quaranta), un pensionato che si
voglia divertire o che voglia vedere il mondo.
Ci sono viaggi legati a passioni ed interessi
personali: l’architettura coloniale, la natura o il suo opposto (la città), le
culture indigene o l’archeologia, i treni o le profondità marine o le grandi
camminate.
Ci sono posti da visitare per stare in
solitudine o per bivaccare con gli amici. Ci sono viaggi per persone molto
innamorate o per dimenticare una delusione amorosa.
Ci sono posti che è bello visitare da
scapoli, magari anche per rimorchiare, ed altri che si consiglia frequentare
durante la luna di miele.
Ci sono viaggi tematici, ad esempio alla
ricerca dei luoghi dei romanzi, o alla ricerca del senso della vita.
C’è posto, chi lo cerca, per nascondersi in
un’isola inaccessibile o per confondersi nella folla durante una crociera.
Non può mancare il tocco felino, sia alla
ricerca della fauna, sia per chi crede che l’Africa sia piena di pericoli.
Tutto serve, anche se gli viene dedicato un
solo capitoletto, per allentare lo stress quotidiano.
E poi ci sono i due must: i luoghi da vedere
almeno una volta nella vita ed i viaggi per gente schifosamente ricca. Su
quest’ultimo punto, fatto salvo che non mi interessa un viaggio nello spazio
(da 250.000 dollari), opterei per il giro del mondo in un aereo privato, che
costa solo la metà (ovviamente a testa), dura 24 giorni e comprende anche
escursioni a numero chiuso: un catamarano alla Hawaii, un safari fotografico
per gli oranghi del Borneo, nonché un giro in elicottero sull’Everest!
Ma sono i luoghi da vedere una volta nella
vita che segno nel mio carnet. Ho visto Ushuaia, Tamanrasset ed i territori
Canadesi. Dovrò aggiungere ai miei futuri viaggi: l’isola di Pasqua, il Tibet.
Tahiti, Samarcanda, la Nuova Guinea e le isole Svalbard. C’è qualcuno che vuole
venire?
Nadal è bravo a farci vedere (anche con
discreto corredo fotografico) posti che solleticano la nostra voglia di
viaggiare. Ogni capitoletto, ogni paragrafo, è pieno di spunti, di rimandi, ed
anche di link per soddisfare i più disparati desideri. Per ora, con lui,
continueremo a farlo dalla nostra stanza. Spero, per me, per voi, e per tutti,
che si riesca a farlo presto, liberi e vaccinati.
Ultima trama del mese, quindi con riposi di allegati
ed altro, ma solo con una bella frase presa dal libro di Roberto Alajmo “1982 Memorie di un giovane
vecchio”. Dove appunto, parlando di
quell’anno mirabile, pone la seguente domanda a tutti noi: "Poi
come è andata a finire? Dipende. Per me, per l’Italia o per l’umanità nel suo
complesso?".
Io ben ricordo quell’anno di svolta, ed ora soprattutto, che di svolte ce n’è a iosa. Per l’intanto ci si impegna a finire tuti i possibili traslochi, tutti i trasferimenti di materiali ed altro. Sperando (sapendo) che il prossimo anno ci segnerà tutti. Per questo non smetto di abbracciarvi.
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