domenica 28 novembre 2021

Saggi e viaggi - 28 novembre 2021

Iniziamo questa ultima tornata che ci porta verso la fine di quest’anno con un bel gruppo di saggi. Tutti con un gradimento più che buono (tendente all’ottimo). Di cui immagino viaggi, anche se non espliciti. Viaggi nel tempo con Di Paolo, viaggi nel cinema con Peter Biskind, viaggi nel mondo del giallo italiano con Luca Crovi, ed infine viaggi reali, un po’ dovunque, con l’interessante libro di Paco Nadal. Sperando che si riprenda anche a viaggiare di persona.

Paolo Di Paolo “Svegliarsi negli anni Venti” Mondadori euro 18

[A: 01/02/2021 – I: 28/02/2021 – T: 02/03/2021] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno: 2020]

Seguo sempre con piacere la scrittura di Paolo Di Paolo, sia quando scrive romanzi sia quando scrive articoli sia, infine, come in questo caso, si cimenta più che in un saggio, in una serie di considerazioni a ruota libera. Precisate da due elementi, uno oggettivo, il sottotitolo “Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”. Ed uno soggettivo, riferito al fatto di avere una copia firmata con il suo commento di pugno “Anni inaspettati?”.

Ovvio anche che il modo in cui l’autore cerca di rispondere alla domanda di cui sopra, mi affascina, perché usa, in un suo modo personale, i libri ed i personaggi che attraverso i libri cercano risposte a domande epocali. Cosa sai? Che cosa desideri? Ti fa paura il futuro?

Sono i personaggi che ci guidano dal passato al presente. Come il protagonista di “Sabato” di Ian McEwan, che dalla sua casa londinese ci porta al momento attuale, alla pandemia che tutti stiamo vivendo e soffrendo. Proseguendo nel collasso della civiltà di “La simmetria dei desideri”, dove con Eshkol Nevo ci domandiamo quanto stiamo imparando da questo momento storico. Incontriamo Michel Houellebecq che, nella sua negatività, dubita che potremmo risollevarci. Ma per fortuna c’è anche l’innocente esuberanza della signora Dalloway che sembra portarcene fuori.

La differenza, grande, tra questi cento anni, segnati ora dal Covid allora dalla Spagnola, è che, allora, si usciva anche dalla Guerra, un elemento che porta un segno indelebile in chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Anche se, appunto, il concetto di “Anni Venti” porta con sé, indubbiamente, allora come ora, un vento di cambiamento. Come sottolineava Hemingway, le decadi finiscono ogni dieci anni, mentre le epoche possono finire in ogni momento.

Si potrebbe continuare a lungo, seguendo Di Paolo citazione dopo citazione. Invece dovremmo fare un salto, porre noi stessi al centro del discorso, mettendoci in discussione. Perché qualcosa sta cambiando e non possiamo assumerne i cambiamenti goccia a goccia, come il veleno di Mitridate. Perché, ed io concordo, siamo noi, individualmente e collettivamente, che lavoriamo a questo cambiamento, con le nostre scelte, personali e pubbliche.

Allora usiamo un po’ di Di Paolo per dare un segno. Ad un certo punto, intervistato da Luca Sofri, ci racconta della Rue Crémieux a Parigi, famosa per le sue casette dalle tenui tinte pastello. Lì si danno appuntamento i malati di Instagram per le foto più cliccabili del XXI secolo. Per lasciare un segno? Per adeguarsi ad una moda? Io le ho viste quelle case, ed a me basta portarle nel cuore. Sono forse meno “moderno”? Sto ancora dormendo insieme a mio padre fanciullo (lui era del ’24).

Per un’anti finale, poi, comincerei citando l’ultimo passaggio, preso da un libro che adoro, “Il senso di una fine” di Julian Barnes, dove Marshall, interrogato dal professore su come definirebbe il tempo di Enrico VIII, risponde “Un tempo inquieto”. Richiesto di approfondire, conclude con un definitivo: “Un tempo molto inquieto”. Una risposta che condivido.

Come condivido quel passaggio di un altro autore del mio cuore. In un racconto de “Le cosmicomiche”, Calvino ci mostra un uomo che scruta il buio con il suo telescopio. E vede, da una galassia distante milioni di anni luce una gigantesca scritta: “TI HO VISTO”. Rifletteteci. O andate a rileggere Calvino.

Un solo inciso di passaggio, a pagina 151 si cita il computer di Kubrick come AL 9000. Errore. Il computer si chiamava HAL, laddove l’autore giocava con le lettere sottraendone una al demone dei computer del tempo, la società IBM.

Con tutti i suoi alti e bassi, pur non svalicando oltre una più che dignitosa classifica, continuo a ritenere l’autore una presenza costante e utile, per analizzare il tempo presente. E per discutere di vita e letteratura. Paolo, continuerò a leggere i tuoi articoli sui giornali, che sono sempre interessanti. E spero anche i tuoi libri.

Per rispondere infine all’ultima domanda, io (e Alessandra) penso che abbiamo dato una vigorosa risposta.

“Il tassista scortese che mi lascia davanti alla fermata del métro Jussieu, un tè preso nel caffè della moschea…” (67) [grazie di avermi riportato a Parigi]

“I dominanti possono lamentarsi di un governo … ma un governo … non gli spacca la schiena.” (106) [ripreso da Èdouard Louis “Chi ha ucciso mio padre”]

“Cosa ti aspetti dai tuoi anni Venti?” [180]

Peter Biskind “A pranzo con Orson” Adelphi euro 13 (in realtà scontato a 10,15 euro; consigliato da Robinson)

[A: 04/03/2021 – I: 04/05/2021 – T: 07/05/2021] - &&& e ½

[tit. or.: My Lunches with Orson. Conversations between Henry Jaglom and Orson Welles; ling. or.: inglese; pagine: 340; anno 2013]

Ancora un consiglio di Robinson, questa volta in linea con i “buoni” suggerimenti. Infatti, non credo avrei pensato l’acquisto di un libro-saggio-conversazione con il grande personaggio (poi spiegherò meglio questa definizione). Invece ha meritato il suo posto. Compreso il ricordo obituario di Harry. E con una buona “annotazione” del curatore Peter Biskind, laddove si passano in rassegna una serie di personaggi spesso citati nel testo, e non sempre noti ai meno addetti ai lavori.

Pur con l’interesse di una buona scrittura, mi ha meno stuzzicato la postfazione di Tatti Sanguineti. Che certo spigola qua e là su alcuni aspetti del rapporto tra Orson e l’Italia, ma chissà perché non mi ha preso molto. Preferisco, lo dico con il rimpianto della scomparsa, le poche conversazioni, scambiate, a volta in pizzeria a volte su autobus notturni, con il mio scomparso cugino Paolo, il grande cinefilo.

Come quindi ben descrive il titolo, il testo del libro sono la riproposizione delle conversazioni avvenute a tavola dal 1983 al 1985 (fin quasi alla morte di Orson avvenuta il 10 ottobre 1985) tra appunto Orson Welles ed il suo amico, sceneggiatore e regista Harry Jaglom. Orson mangiava sempre lì, al suo tavolo al ristorante “Ma Maison”, situato a Melrose Avenue, Los Angeles. Era ad un tiro di schioppo dalla Walk of Fame hollywoodiana, e con una visuale verso il Griffith Park. Era famoso per l’ottima cucina e per il fatto che il numero di telefono del ristornate non era in nessun elenco, perché, come diceva il proprietario, "Se non hai il numero, non ti vogliamo".

Da queste conversazioni, Welles si staglia appunto come un grande personaggio. Si, era stato un grand regista, un grande attore, uno spirito visionario. Ma anche un conoscitore dei meccanismi interni del cinema, un affabulatore presente nei talk show, financo presente in diversi spot pubblicitari (spesso di vino). Anche se, più che conversazioni, sono in realtà dei monologhi dove Jaglom fa bene il suo ruolo di spalla, lasciando che Orson spazi su tutto ciò che lo interessa. Certo, progetti, concreti o strampalati, ma con al fondo sempre il suo più grande problema: la ricerca di fondi, di finanziamenti, ed il modo di ottenerli senza vincoli o censure.

Se si ama il cinema, è bello star lì a seguire le sparate di Welles, che tutto toccano. Il lato segreto di Katherine Hepburn (che diceva parolacce ed aveva una grossa propensione al sesso) alle invenzioni de “Il Padrino”, una storia di gangster che non sono mai esistiti (e Welles lo sa bene che andava a letto con le stesse stelline con cui si accompagnavano i gangster reali). La grande amicizia con Joseph Cotten (fin dai primi teatri degli anni ’30), alla sua ammirazione verso la signorilità di personaggi di destra con John Wayne, lui che sempre è stato un uomo liberale. La grande contraddizione di Welles appare quando una dirigente della catena HBO gli offre del lavoro, e lui comincia ad essere offensivo, e continua finché lei non se ne va.

Non rinuncia mai ad essere il sé stesso che vuole mostrare, sopra le righe nel parlare, nel giudicare, nel mangiare (alla fine arriverà a pesare 180 chili). Di certo, e quando recita meno sembra forse ammetterlo, comprende i suoi difetti. Ma non può fare a meno di avere quell’aria autodistruggente, quella dell’artista frustrato ed incompreso, che tanto aveva rappresentato nei suoi film, solo perché erano uno specchio della sua realtà interiore.

Basterebbe guardare con occhio distaccato “F per Falso”, il suo ultimo lavoro, per capire che, in fondo, quella è la vita: tutta una finzione. Vince, riesce a sopravvivere, chi finge meglio, chi, in fondo, crede alle proprie finzioni, e non se ne fa condizionare.

Ottima, infine, per i meno addetti, come dicevo sopra, la passerella finale, in cui il curatore Peter Biskind passa in rassegna attori, registi e produttori che hanno incrociato Orson nella vita, e che noi abbiamo incontrato sulla carta. Che magari tutti conoscono Samuel Goldwyn o Luis Mayer, ma sempre meno si faranno avanti ai nomi di Lena Horne o Greg Toland.

Un ultimo appunto: avrei messo in nota a pagina 53 che Zubin Metha non era indù come dice Welles, ma un indiano di religione parsi (quella di Zarathustra). In finale, di certo, una buona lettura.

“Non erano molto belle, le sue recensioni. Né brillanti, né spiritose, né originali. Erano solo intelligenti, normali, qualunque. Se vuoi essere un critico interessante, un po’ di mordente lo devi avere. Se sbagli pazienza, ma devi essere interessante.” (111)

“Se l’opera di uno scrittore mi rapisce, non voglio sapere niente di lui … mi rallegro di non sapere nulla di Shakespeare come uomo. Penso che le sue opere contengano già tutto.” (113)

“Brooke Shields è così stupida che l’hanno bocciata anche al pap test.” (144)

“[Harry Lime ne ‘Il terzo uomo’] In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazie, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.” (174)

“Per me i sessi sono sempre stati tre: uomini, donne e attori. Gli attori riuniscono le peggiori qualità degli altri due.” (219)

Luca Crovi “Storia del giallo italiano” Marsilio euro 19

[A: 14/02/2021 – I: 01/05/2021 – T: 28/07/2021] - &&&&     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 507; anno 2020]

Tutti sanno che sono un lettore onnivoro. Tutti sanno che una buona fetta (direi verso il 50%) delle mie letture è orientata al cosiddetto genere “giallo” (etichetta che forse faremo bene ad analizzare meglio). Non tutti sanno, ma si intuisce, che sono molto “drogato” del giallo italiano. Sia perché ritengo che talvolta fotografi la realtà meglio di tante prove romanzesche e cerebrali, sia perché sono curiosamente attratto dai meccanismi di svelamento dei misteri (che non sono solo appannaggio della letteratura italiana, ma che qui, in un ambiente che conosco a memoria, è possibile seguire ed apprezzare i modi espressivi degli autori).

Seguendo la bella scrittura di Crovi, mi sono nuovamente immerso in due tematiche che mi ronzano da sempre nella testa: la genesi del nome e la nascita del primo libro italiano del genere. In Italia, si sa, viene cristallizzato nel 1929 quando Mondadori inizia a pubblicare romanzi polizieschi tutti con la copertina gialla, che diviene così il simbolo del genere (il romanzo giallo). In Francia si usa invece il termine “polar”, contrazione dei termini poliziesco (“policier”) e nero (“noir”). Mentre in Germania si chiamano Krimi (contrazione di “Kriminalroman”). Solo nei paesi anglofoni abbiamo un proliferare di definizioni a partire dal cappello “Crime fiction”: detective fiction (con investigatore), cozy mistery (con tocchi umoristici), whodunit (il mistero a chiave), locked-room (i misteri della stanza chiusa), hardboiled (duro e americano), police procedural (dove c’è una squadra che indaga), forensic (dove l’eroe è un medico legale), legal thriller (legati agli avvocati), e via discorrendo.

Ma noi qui si parla di gialli. E di gialli italiani. Con la diatriba, irrisolvibile, se il capostipite sia Francesco Mastriani con “Il mio cadavere” del 1851 o Emilio De Marchi con “Il cappello del prete” del 1857. Quello che risolviamo, seguendo le belle pagine di Crovi, è sia la possibilità di progredire in linea temporale, sia in linea spaziale.

Per la seconda linea, con l’autore viaggiamo tra città come Milano, Napoli, Torino e territori come l’Emilia, la Toscana, la Sicilia. Cosa che ci dà modo di incontrare personaggi che hanno scaldato i miei occhi di lettore. Cito alla rinfusa: il commissario De Vincenzi, Duca Lamberti, Salvo Montalbano, Rocco Schiavone, l’Alligatore, Grazia Negro, Lolita Lobosco, Vanina Guarrasi, Alice Allevi, Imma Tataranni, l’avvocato Guerrieri, il brigadiere Sarti Antonio. Che rimandano subito ai loro e ad altri autori: De Angelis, Scerbanenco, Sciascia, Camilleri, Faletti, Lucarelli, Malvaldi, Carlotto, Macchiavelli, De Cataldo, Biondillo, Sclavi, Carrisi, Carofiglio, e tanti altri. E tante altre: Laura Grimaldi, Paola Barbato, Barbara Baraldi, Ilaria Tuti, Grazia Verasani, Marilù Oliva, Cristina Cassar Scalia, Gabriella Genisi, Alice Basso, Mariolina Venezia.

La bravura di Crovi sta anche in quella linea temporale, dove l’autore dimostra che la nostra scrittura non solo regge le più note scritture estere, ma nel tempo, si è innovata, ha recepito e poi anche creato nuove tendenze narrative. In questo, gli autori italiani sono riusciti a comprendere e ben descrivere i segnali di una società in cambiamento. Così come aveva intuito già Gramsci, in un suo scritto sul romanzo popolare e sul genere poliziesco uscito coevo ai Gialli Mondadori.

Non solo, ma rispetto a quei gialli anglosassoni spesso ambientati in ville isolate o luoghi sperduti, l’autore italiano si rivolge a località note, a città riconoscibili, ad avvenimenti che se non li leggessimo sul libro, potremmo leggerli sulla cronaca locale dei nostri quotidiani.

La sapienza enciclopedica di Crovi ci porta anche a gustare alcune chicche impagabili. Ad esempio, alle storie della Mano Nera, pubblicate poco dopo che nel 1909 a Palermo venne ucciso il famoso poliziotto Jo Petrosino. O i sei anni di pubblicazione de “Le avventure del poliziotto americano Ben Wilson”, scritte dall’italianissimo Ventura Almanzi, salgarianamente senza mai muoversi dal suo studio. Non ultimo, infine, il giallo dell’ultimo capitolo, che vi lascio leggere e scoprire da soli.

Certo, si tratta di un saggio, non è scorrevole come un romanzo, ma ha una sua organicità, e continuo a consigliarlo per chi voglia avere una panoramica sul genere, nonché alcune visioni di momenti di scrittura interessanti: le città, la nascita dei duri, la scrittura al femminile. Tanto per dire qualcosa e stimolarvi la curiosità.

Termino con una esortazione, che desumo dalle parole dell’autore, che riprendo dagli scritti descrittivi americani, e che faccio mia, per questa e per tutte le scritture “gialle”. Il lettore deve avere le stesse possibilità dell’investigatore (inteso come personaggio che sta al centro dei ragionamenti, sia esso poliziotto, detective, avvocato, o qualsiasi altra espressione) di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti. Sarà un gioco tra noi lettori e te scrittore, a chi sarà più abile, a chi arriverà prima alla soluzione. Trasformando così eventi potenzialmente tragici in momenti di vita comunque piacevoli da trascorrere.

Paco Nadal “Il viaggio perfetto” Newton Compton s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 14/07/2021 – I: 14/07/2021 – T: 30/07/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: El viaje perfecto: para ti y tus circunstancias; ling. or.: spagnolo; pagine: 399; anno 2018]

Senza nessuna ricorrenza, senza nessun vero perché, solo per il comune amore dei viaggi, ecco un super gradito regalo di Ale. Nella speranza che potesse fornire qualche spunto, anche in vista del prossimo settembre. Che qualcuno lo sa, altri lo sapranno, altri ancora l’avranno saputo.

Sono 330 idee ed io ne ho già visitate 97 …

Francisco Nadal Yuste detto Paco è un giornalista specializzato in viaggi. E di viaggi raccontano i suoi scritti: sul Cammino di Santiago, sulla sua Murcia natia, sui 365 luoghi della Spagna che non si può far a meno di vistare. Non sono aduso citare spunti su internet, ma per Paco spezzo una lancia, consigliandovi di visitare il suo blog https://elpais.com/agr/paco_nadal/a (in spagnolo, ma comprensibilissimo).

Cercando di creare una summa delle sue esperienze, in questo graditissimo libro ci propone tre motivi per intraprendere un viaggio. Per ognuno dei quali, è possibile trovare il viaggio che meglio si addice a quella esigenza. Per creare, appunto, “il viaggio perfetto”.

Ma quale sono le grandi categorie di viaggi e viaggiatori, secondo Nadal?

Ci sono le motivazioni legate alla propria vita in questo preciso momento, ed alle sue conseguenze: viaggiare con i bambini (se abbiamo messo su famiglia) o viaggiare da soli (sia indifferentemente con lo zaino, sia da donne che giustamente si avventurano da sole in giro per il mondo).

Ci sono i viaggi legati all’età: una data critica da superare (che siano i trenta o i quaranta), un pensionato che si voglia divertire o che voglia vedere il mondo.

Ci sono viaggi legati a passioni ed interessi personali: l’architettura coloniale, la natura o il suo opposto (la città), le culture indigene o l’archeologia, i treni o le profondità marine o le grandi camminate.

Ci sono posti da visitare per stare in solitudine o per bivaccare con gli amici. Ci sono viaggi per persone molto innamorate o per dimenticare una delusione amorosa.

Ci sono posti che è bello visitare da scapoli, magari anche per rimorchiare, ed altri che si consiglia frequentare durante la luna di miele.

Ci sono viaggi tematici, ad esempio alla ricerca dei luoghi dei romanzi, o alla ricerca del senso della vita.

C’è posto, chi lo cerca, per nascondersi in un’isola inaccessibile o per confondersi nella folla durante una crociera.

Non può mancare il tocco felino, sia alla ricerca della fauna, sia per chi crede che l’Africa sia piena di pericoli.

Tutto serve, anche se gli viene dedicato un solo capitoletto, per allentare lo stress quotidiano.

E poi ci sono i due must: i luoghi da vedere almeno una volta nella vita ed i viaggi per gente schifosamente ricca. Su quest’ultimo punto, fatto salvo che non mi interessa un viaggio nello spazio (da 250.000 dollari), opterei per il giro del mondo in un aereo privato, che costa solo la metà (ovviamente a testa), dura 24 giorni e comprende anche escursioni a numero chiuso: un catamarano alla Hawaii, un safari fotografico per gli oranghi del Borneo, nonché un giro in elicottero sull’Everest!

Ma sono i luoghi da vedere una volta nella vita che segno nel mio carnet. Ho visto Ushuaia, Tamanrasset ed i territori Canadesi. Dovrò aggiungere ai miei futuri viaggi: l’isola di Pasqua, il Tibet. Tahiti, Samarcanda, la Nuova Guinea e le isole Svalbard. C’è qualcuno che vuole venire?

Nadal è bravo a farci vedere (anche con discreto corredo fotografico) posti che solleticano la nostra voglia di viaggiare. Ogni capitoletto, ogni paragrafo, è pieno di spunti, di rimandi, ed anche di link per soddisfare i più disparati desideri. Per ora, con lui, continueremo a farlo dalla nostra stanza. Spero, per me, per voi, e per tutti, che si riesca a farlo presto, liberi e vaccinati.

Ultima trama del mese, quindi con riposi di allegati ed altro, ma solo con una bella frase presa dal libro di Roberto Alajmo “1982 Memorie di un giovane vecchio”. Dove appunto, parlando di quell’anno mirabile, pone la seguente domanda a tutti noi: "Poi come è andata a finire? Dipende. Per me, per l’Italia o per l’umanità nel suo complesso?".

Io ben ricordo quell’anno di svolta, ed ora soprattutto, che di svolte ce n’è a iosa. Per l’intanto ci si impegna a finire tuti i possibili traslochi, tutti i trasferimenti di materiali ed altro. Sperando (sapendo) che il prossimo anno ci segnerà tutti. Per questo non smetto di abbracciarvi.

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