L’inizio è faticosamente in salita, con due autori, Lish e Aciman, che non mi hanno convinto (ed il secondo ancor meno del primo). Poi si risale a buoni livelli, sia con un autoctono, Brian Morton, sia con l’impareggiabile (ed impronunciabile) immigrato Gary Shteyngart (di cui svevo letto e goduto nella sua storia supertriste). Finisce così la buona collana dedicata alla Grande Mela, che nel complesso delle sue 16 letture si è meritato un globale 2 e ¾ andando dai poco felici Aciman (in questa trama) e DeLillo (prima lettura della collana) fino al da me (e non solo da me) sempre amato Paul Auster. N.B. tutte le trame le ho pubblicate quest’anno.
Atticus Lish “Preparativi per la prossima vita” Repubblica New York 14
euro 9,90
[A: 19/11/2018 – I: 17/04/2021
– T: 21/04/2021] - && -
[tit. or.: Preparation for the Next Life; ling. or.: inglese; pagine: 521; anno 2014]
Lish, ora cinquantenne, è personaggio
poliedrico, abbastanza segnato dall’avere un padre, Gordon, grande editore e
scopritore di talenti come Richard Ford e Raymond Carver. Ad ora, per quanto io
ne sappia, è autore di un solo libro, questo, che ha momenti e idee
interessanti, ma tuttavia anche lungaggini ed involuzioni non sempre gradevoli.
La prima cosa che mi ha colpito, comunque, è
il nome dell’autore, che mi ha rimandato all’unico altro “Atticus” a me noto,
il mitico avvocato antirazzista Atticus Finch, protagonista de “Il buio oltre
la siepe” di Harper Lee. Ma forse questo sarebbe materia di altre indagini. Noi
restiamo sul presente Atticus, a volte scapestrato in gioventù, inizialmente
poco motivato agli studi, volontario nei marines. Poi, congedatosi, a 23 anni
sposa Beth, un insegnante di origine coreana, riprende a studiare, si laurea in
matematica con una tesi sul teorema di Ascoli-Arzelà (non penso ne vogliate
sapere, ma se volete…), e sotto la spinta comincia a scrivere. I due vanno in
Cina come insegnanti di inglese per un anno, poi, nel 2008, tornato a Brooklyn,
si dedica a questo librone che lo terrà occupato per cinque anni.
Personalmente, la mia lettura è cominciata
con un disguido. A lungo ho letto male il titolo, cambiandolo in “Preparatevi
per la prossima vita”. Mi sembrava una strana esortazione, anche non troppo in
linea con quanto stavo leggendo. Mi aspettavo sempre uno scatto morale, per
passare alla “Next Life”. Capito l’errore, ho seguito anche meglio la trama,
capito che era una specie di giudizio sugli avvenimenti descritti, dove i
personaggi (che in fondo sono due e mezzo) cercheranno di arrivare ad una vita
diversa.
C’è anche molta New York nel testo, anche se
molto decentrata. Cioè non la New York di Manhattan, ma quella di Flushing nel
Queens. Di certo uno dei quartieri più antichi della città, anche se non dei
più frequentemente visitati. Noto, forse, solo per il torneo di tennis e per le
partite di baseball.
I due personaggi principali sono Zou
Lei immigrata clandestina della provincia cinese dello Xinjiang, figlia di
madre uigura (etnia ora molto in voga per gli stermini a cui è sottoposta in
Cina) e padre Han, e Brad Skinner un veterano della guerra in Iraq.
Zou
Lei fa molti lavori saltuari, sempre all’ombra dell’immigrazione cinese. Ma è
sempre in contrasto con i cinesi doc, venendole rimproverata la sua origine uigura
(per i non addetti è un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord
della Cina, incuneata tra Mongolia, Kazakistan, Uzbekistan e Afghanistan).
Brad, tronato dall’Iraq, soffre di sintomi fortissimi da disturbo
post-traumatico (ed ogni tanto Atticus ce ne fa rivivere gli incubi attraverso
i sogni di guerra, e la morte degli amici di Brad).
I
due si incontrano, si piacciono, si capiscono pur negli alti e bassi delle
rispettive vite. Per i problemi di sopravvivenza di Zou Lei, e per la dipendenza
dall’alcool di Brad. Danno comunque vita ad una bella, seppur poco
sentimentale, storia d’amore. Brad ha bisogno di Zou Lei per non cadere nel
baratro, Zou Lei ha bisogno di Brad per cercare di uscire dall’oscurità di una
vita sommersa.
Il
terzo incomodo, il mezzo di cui sopra, è Jimmy, figlio dei Murphys presso cui
abitano Brad e Zou. Jimmy è stato in prigione, è un suprematista bianco che
incolpa gli immigrati cinesi della decadenza di New York. Drogato e violento,
uccide una massaggiatrice cinese, anche se solo Brad ne viene a conoscenza.
Quando
Zou Lei si allontana (sperando in un aiuto nella comunità mussulmana lontano da
New York), Brad pensa che sia stato Jimmy a farle del male, e, fuori dalla
grazia di Dio, prima lo uccide, poi si uccide. Zou, tornando a casa, trova il
corpo di Brad, raccoglie soldi e cose, e si allontana, per affrontare la nuova
vita cui si sta preparando da cinquecento pagine.
Ci
sono passaggi che non sono chiari (almeno a me), come la visita di Zou in
moschea, ed alcuni atteggiamenti di Jimmy. C’è questa scrittura che fluisce
sulla pagina, ma non nella mente di chi legge. Ci sono questioni che si pongono
e rimangono là: i reduci, gli immigrati, le tensioni infra-cinesi dei senza
passaporto, e via discorrendo. Insomma, molte buone intenzioni, una storia
interessante, una New York non “turistica”, ma mi aspettavo qualcosa in più.
André Aciman “Notti bianche” Repubblica New York 17 euro 9,90
[A: 25/11/2018 – I: 08/05/2021
– T: 11/05/2021] - & -
[tit. or.: Eight White Nights; ling. or.: inglese; pagine: 461; anno 2010]
Se questo è un esempio “classico” della
scrittura di Aciman, sono ben contento di non aver letto “Chiamami con il tuo
nome”, così come sono contento di poter dire tutto il non bene che penso di
questa scrittura. Lunga e noiosa.
Intanto, cominciamo dal titolo italiano. Dove
non si capisce perché nella traduzione sparisca il qualificativo “Otto”. Perché
se abbiamo le notti bianche (e vediamo in che senso), e se con un volo neanche
troppo pindarico ci rimandano a quelle di Dostoevskij, il fatto che siamo otto
è significativo. Prima di tutto per non confondere i libri, e secondariamente
perché per il grande russo bastavano quattro notti. Ma anche l’intento
dell’autore è “perverso”, che lì erano le notti invernali di San Pietroburgo,
laddove il sole non tramonta. Qui, in questa New York un po’ falsa ed un po’ da
inventare, parliamo delle notti che vanno da Natale a Capodanno, bianche di
neve. Una neve che copre la città, ed i suoi parchi. Forse unica cosa decente
del libro (oltre alla frase che riporto).
Facciamo un piccolo passo indietro: Aciman è
un settantino, di origine ebrea sefardita, nato in Egitto, emigrato con la
famiglia prima a Roma, poi in America; laureato in Letteratura e grande esperto
di Proust. Sapendo tutto ciò, non meraviglia quindi questo libro che fluisce
come un lungo flusso di coscienza, in soggettiva dell’io narrante (di cui non
sappiamo il nome), e che attraversa le otto notti (ma ci sono anche dei giorni
oltre le notti) prendendosi e lasciandosi con una bella signorina di nome
Clara. Un'altra cosa bella è quell’iterarsi che in inglese viene meglio “I am
Clara”. Una forza propositiva che l’italiano “Sono Clara” non riesce a rendere.
E non ci si stupisce anche, dato il
retroterra di Aciman, che lo scritto si infarcito di dotti riferimenti. Ovvio,
e già citato, il riferimento traslato al romanzo di Dostoevskij. Ma poi, ecco,
fin dall’inizio, le grandi feste glamour che rimandano a “Il grande Gatsby”.
Ecco le citazioni di Leopardi. Le visite periodiche al cineclub di essai per
seguire una retrospettiva dei fil di Rohmer, con grande spazio a due capolavori
del grande francese: “La mia notte con Maud” e “Il raggio verde”. Aspettando
che vengano proiettati, dopo la fine del romanzo, altri film, di Buñuel, di
Resnais, di Fellini. Non manca la musica. Così che da CD, da pianoforte, anche
da nastri consunti, sentiamo uscire dalle pagine Beethoven, Handel e Mozart. Ma
soprattutto Bach e le trasposizioni pianistiche fatte da Alexander Ziloti
(anche se Aciman lo cita con il nome inglese Siloti, e non ne ricorda l’opera
maggiore, cioè la divulgazione di Liszt, nonché la sua gigantesca performance
nel 1930 a 67 anni, quando eseguì tutti i concerti del grande ungherese sotto
la direzione di Arturo Toscanini).
Tornando brevemente, che solo così se ne può
parlare, il volumone è la lunga introspezione dell’io narrante che la prima
notte conosce Clara, impiega pagine e pagine per descriverci il suo
innamoramento, forse anche quello di Clara, per parlarci di come si prendano,
si lascino, vanno vicino a consumare senza farlo, poi si perdano, poi alla fine
forse, o forse no, torneranno a ritrovarsi. Ma in fondo ad Aciman questo
interessa meno che non seguire le elucubrazioni mentali dei due, i loro giochi
verbali e corporei, per dilatare sulla pagina l’esperienza non comunicabile
della memoria e dei suoi ghirigori. Ci mostra, talmente a lungo che diventa
insopportabile, l’abisso che si scava tra fantasia e realtà, in particolare
quando due persone non si dicono mai le cose “faccia a faccia”.
Ti piace? Diglielo! O almeno chiediglielo,
che vagare per quasi cinquecento pagine senza risposte è una sofferenza per i
protagonisti e per noi lettori. C’è tutto il desiderio del mondo nelle loro
avventure, ma un desiderio che rimane sulla soglia dell’espressione.
Insopportabile.
Le cose migliori, in fondo, vengono quando si
stacca dalle sparate oggettive e soggettive, per narrare piccoli fatti, quelli
degni di rimanere nella memoria. Il ricordo del padre, il tè nella tavola calda,
la visita agli stupendi Max e Margo, di cui ammiriamo la solare anzianità.
E New York, cui sarebbe dedicata la collana?
Autobus, passeggiate tra la 105 e la 107 West, con lunghe soste nel bellissimo
e piccolissimo Strauss Park, un accenno di Broadway, e poco MoMa. Veramente
poco per fare un romanzo newyorchese. Anzi, veramente poco per farne un
romanzo. Soprattutto un romanzo leggibile.
“La
cosa peggiore di morire è sapere che ti dimenticherai di aver vissuto e amato.
Si vive una settantina d’anni o giù di lì, e poi si muore per sempre.” (128)
Brian Morton “Florence
Gordon” Repubblica New York 11 euro 9,90
[A: 21/01/2019 – I: 12/05/2021 – T: 14/05/2021]
- &&& --
[tit. or.: Florence Gordon; ling. or.: inglese;
pagine: 331; anno 2014]
Ecco un nuovo libro che parla di
New York, che un po’ la attraversa come se stessimo sentendo Woody Allen che
racconta cose (un po’ come nel suo ultimo film, quante, ma quante parole). E la
conoscenza con il quasi settantino Brian Morton, insegnante di letteratura ed
autori, in tutta la sua carriera, di cinque libri. Di cui questo è l’ultimo.
Sebbene due suoi libri siano
stati poi trasformati in film, Morton non ha una grande fama fuori dai confini
nazionali (ed anche in quelli, sino ad un certo punto). Si vede che sa di
letteratura, perché sa tornire le frasi, sa metterci nell’attesa degli
avvenimenti, e soprattutto, cosa che a me fa sempre piacere segue il tempo che
scorre. Anticipa poco, forse neanche l’essenziale. E noi siamo lì, a veder
succedere le cose, insieme a chi le cose le sta facendo.
Un elemento non facile nella
narrazione, è che la maggior parte degli elementi salienti sono figure di
donne, quasi fosse un libro di donne per le donne. Peccato che sia scritto,
anche in modo sapiente, da un uomo. Fatto salvo questo elemento che crea, a me,
delle difficoltà, laddove non riesco ad ipotizzare che si riesca a riprodurre
il sentimento di un sesso diverso. E quindi, facendomi pensare che poi, Morton,
intenda più che altro usare archetipi, si può passare a percorrere linee di
trama e di pensiero. Anche se, forse, poca trama.
La figura centrale è Florence
Gordon, settantacinque anni, vive a Manhattan, sola (ha sapientemente lasciato
il marito Saul), è stata una figura storica del femminismo, e continua a fare
la scrittrice. Morton la dipinge come una persona schietta, talmente coerente
con questa sua posizione da risultare tagliente, a tratti antipatica. O forse,
semplicemente, molto simpatica, che noi si vorrebbe a volte essere così
diretti. Di certo una rompiscatole, che ama mettere gli altri in difficoltà
(magari mettendoli di fronte alle proprie incongruenze), che non capisce come
la gente possa vivere lontano da New York.
Per catalizzare gli avvenimenti
Morton decide di immettere due zeppe nella vita di Florence: un articolo del
New York Times che la definisce “patrimonio nazionale” e la convergenza su
Manhattan della sua famiglia. Certo, c’era già l’ex-marito, lo scrittore
fallito Saul, un donnaiolo di bassa lega, capace solo di chiamarla solo per
chiederle favori. E poi arrivano su figlio Daniel, che, schiacciato dal mondo
letterario dei genitori, decise di cambiare rotta, e di fare il poliziotto, e
da Seattle dove vive viene a New York per seguire la moglie, Janine, psicologa
con una borsa di studio di un anno alla Columbia University, dove comincia un
flirt con il suo nuovo capo. Ed Emily, anche lei in città per studiare, amante
della lettura e della scrittura (in questo sulle orme della nonna), imbarcata
in una complicata storia d’amore con un suo ex-compagno di liceo.
Ognuno di loro con i propri
problemi: Janine che adora Florence ma ne ha paura e fa finta di esserle
indifferente, o Daniel che, fatte le sue scelte quasi per caso, non sembra
riuscire a fare né il padre, né il marito e forse neanche il figlio. L’unica è
Emily che, giovane e coerente con sé stessa, è l’unica che penetra nella
corazza di Florence, senza però cedere alla tenerezza. Bella è la scena della
manifestazione femminista cui partecipano nonna e nipote.
La sensazione straniante è che,
benché piena di persone e di momenti corali, tutti i protagonisti sembrano
vivere monadi isolate. Quasi si abbia paura di parlare, di esternare i propri
sentimenti. Un libro che fa riflettere sul fatto che i rapporti con gli altri
non seguono regole precise. Che il fatto di avere un’etichetta (genitore,
figlio, amante, marito) di per sé non vuole dire nulla. Perché, ad esempio,
l’affetto, la confidenza sono sentimenti che devono essere costruiti e
coltivati a prescindere. Ti voglio bene perché tu sei tu, non perché hai un
ruolo nella mia vita.
E quindi, con una cattiveria alla
Florence, non vi dico null’altro sulla trama, sui perché del suo svolgimento, e
dei punti vari che affronta (oltre il modo vago cui ne ho accennato). Non si
riesce ad immedesimarsi con nessuno dei personaggi, eppure è interessante
vedere il microcosmo costruito da Morton e la sua evoluzione. Perché pone
domande, cui bisogna riflettere.
Ribadendo la mia personale
difficoltà nel vedere immedesimazioni spinte in personaggi al femminile, e
sottolineandone a volte una troppa cerebralità, è un libro che consiglio di
leggere. Anche per cui passaggi sull’età che sotto riporto. Impagabili.
“Accettava la vecchiaia, ma si
sentiva comunque fondamentalmente giovane.” (9)
Gary Shteyngart “Mi chiamavano piccolo fallimento” Repubblica New York
18 euro 9,90
[A: 01/12/2018 – I: 08/06/2021
– T: 11/06/2021] - &&& ---
[tit. or.: Little Failure. A Memoir;
ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 2014]
Avevo letto il precedente libro di Gary (non mette il cognome, troppo
complicato e troppe volte ho sbagliato a scriverlo), trovandolo interessante e
con qualche spunto coinvolgente. Ora questo “Memoir” esce quattro anni dopo, e
seppur migliorando alcuni modi espressivi che ci riportano all’ironia di fondo
del personaggio, il risultato complessivo è tuttavia in minore.
Tra l’altro, venne pubblicato da Repubblica nella collana su New York,
e devo dire che, a parte il fatto che i protagonisti vivono nel Queens, e che
Gary studia prima a New York (dato che poi si laureerà a Oberlin, su cui
torno), non è che la città si presente ovunque.
Quello che è presente è “Igor Semyonovich Shteyngart” il nostro eroe,
con questa autobiografia (vera? Inventata? Ma è forse importante?), che ci
porta all’infanzia russa alla maturità americana, fino allo sbocciare
attraverso la satira e l’ironia. A volte un po’ troppo compiaciuta, quasi
autocitantesi. A volte, come dice il libraio di Padova in una recensione su
Internet, un po’ troppo alla “Woody Allen” (anche se alla fine chioserei
anch’io con questa sequenza da piano americano: “Gary Shteyngart seduto su una
panchina ha appena finito di leggere questa recensione. Primo piano. Esclama:
«Woody Allen? Chi è costui?».”).
Prima di entrare nel merito, riprendo la citazione sull’Oberlin
College, che ha le seguenti particolarità: prima università americana ad avere
dormitori misti (1970), stemma composto dai colori rosso cardinale e giallo
mikado (cioè la Roma), una delle più forti squadre di Ultimate (sport
misconosciuto, frisbee a squadre con porte ed altre amenità, tipicamente
americano).
Come candidamente confessa altrove Gary, il libro deriva da una serie
di articoli-ricordi già pubblicati (soprattutto sulla rivista “Travel&Leisure”),
ed ora da lui presi e sistematizzati. Possiamo così seguire l’autobiografia
dello scrittore come fosse un saggio “serio”. Che serio non sarà mai, pervaso
dal mix delle culture di Gary: yiddish, straniamento russo, americanismo.
Il via sarà un attacco di panico del venticinquenne Gary mentre sfoglia
il libro “San Pietroburgo: l’architettura degli zar” e vede la chiesa di Cesme.
Ora il nome completo della chiesa è “Natività di San Giovanni Battista”, è il
primo edificio neogotico della città, è orrenda (a righe verticali bianche e
rosse), ed è posta vicino alla casa natia di Gary/Igor. Perché da Leningrado
viene la famiglia di Gary, che riesce ad emigrare in America nel ’79 inseguito
agli scambi tra Carter e Breznev (cotone in cambio di ebrei).
Ma è da lì, da Piazza a Mosca a Leningrado che partono i ricordi di
Gary, dove faceva volare piccoli aeroplanini con Papa. L’amore profondo passato
con nonna Poljia sul “divano della cultura” a leggere e farsi leggere libri.
Dell’infermiera che, alla domanda di Mama di come alleviare l’asma del figlio,
le dice di ripetere ad ogni starnuto “Che Dio ti benedica”. Al passaggio per
Vienna, dove la famiglia rischia di finire in carcere per maltrattamenti,
quando i segni sul corpo di Gary derivano dalla “coppettazione antiasmatica”.
Al piccolo soggiorno a Roma, fino all’arrivo a New York, (“siamo
sbarcati in un film in tecno-color”),
ai parenti che erano già lì, ai difficili rapporti con il mondo americano dei
genitori. Uno era ingegnere, l’altra insegnante di piano. E lui? Gary era:
piccolo fallimento, moccioso, fetido orso russo, fino a “Scary Gary” al
College. Intanto vive tutti i passaggi della presa di coscienza di essere
straniero in terra straniera, di subire angherie alla scuola ebraica
dell’infanzia, poi all’analogo del nostro liceo, fino al poter nascondersi in
mezzo agli altri al College. E deludere Papa e Mama che lo volevano avvocato,
mentre lui comincia a scrivere, e con successo (tanto che verrà inserito nei
più promettenti “under 40” nel primo decennio di questo secolo).
Il libro finisce con una catarsi che vi lascio leggere, quando,
finalmente, dopo trent’anni, riesce a portare di nuovo i genitori a
Pietroburgo. Mentre Gary ha un’altra catarsi, dopo aver speso tutto il libro
nel cercare di portarsi a letto tutte le ragazze che incontra, fuori dal libro
sposerà la coreano-americana Esther Won.
Non è un libro bellissimo, ma mantiene, di fondo, quel tono di voce
narrante sincera, con la quale, se entriamo in sintonia, possiamo sentirci dire
qualsiasi così. Con empatia. Come a volte succede in queste pagine. Anche se,
altrettanto bisogna dire, l’ironia forzata sale troppo sopra le righe. Nel
finale, tuttavia, posso dire di condividere di metterlo tra i libri tesi a
coltivare la propria autostima, così come dicono i praticamente (quasi)
esauriti, miei libri felici.
“Io e la mia aspirante sposa adesso viviamo in un appartamento … ce lo
possiamo permettere: il suo acume immobiliare è impareggiabile. … Per abitudine
offro tutti i giorni la guancia alla mia ragazza perché la schiaffeggi, e lei
non lo fa mai.” (375)
Prima trama di novembre, quindi passiamo ai libri di agosto, dove nonostante
la vacanza greca, siamo rimasti su di un alto numero di letture, anche di buon
livello. Illuminate da due ottimi saggi di Gabriele Romagnoli e Roberto
Calasso. In fondo, tanto che se ne sono perse le tracce fisiche, l’illeggibile
libro di Alistair McLean.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Walter Tevis |
Lo spaccone |
Minimum fax |
11 |
2.5 |
2 |
Maurizio de Giovanni |
Fiori per i bastardi di Pizzofalcone |
Einaudi |
s.p. |
2,5 |
3 |
Luca Bianchini |
Io che amo solo te |
RCS Media Group |
8,90 |
2 |
4 |
Alessia Gazzola |
Arabesque |
TEA |
6,90 |
2 |
5 |
Guillaume Musso |
Un appartamento a Parigi |
Repubblica Noir |
7,90 |
3,5 |
6 |
Gabriele Romagnoli |
Senza fine |
Feltrinelli |
11,50 |
4 |
7 |
Alistair MacLean |
Burattino in catene |
BUR |
s.p. |
0,5 |
8 |
Victoria Hislop |
L’île des oubliés |
Livre de poche |
13 |
3 |
9 |
Amos Oz |
D’un tratto nel folto del bosco |
Corriere |
8,90 |
2 |
10 |
Roberto Calasso |
Allucinazioni americane |
Adelphi |
14 |
4 |
11 |
Camara Laye |
Un bambino nero |
Alep Editore |
12 |
2,5 |
12 |
Nikos Kazantzakis |
Zorba il greco |
Crocetti |
15 |
3 |
13 |
Valerie Perrin |
Les oubliés du
dimanche |
Livre de poche |
14 |
2,5 |
14 |
Emanuele Trevi |
Due vite |
Neri Pozza |
s.p. |
3.5 |
15 |
Reinaldo Arenas |
Prima che sia notte |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2 |
16 |
Amitav Ghosh |
Le linee d’ombra |
Repubblica Mondo |
9,90 |
3 |
17 |
Petros Markaris |
Il prezzo dei
soldi |
Repubblica Noir |
7,90 |
3 |
18 |
David Madsen |
Amnesie di un viaggiatore involontario |
Meridiano Zero |
s.p. |
1 |
19 |
Tew Bunnag |
Il viaggio del Naga |
Repubblica Mondo |
9,90 |
3 |
20 |
Michael Connelly |
L’ultimo giro della notte |
Pickwick |
10,90 |
2,5 |
Siamo già a novembre, e continua l’improba fatica di rivedere tante carte passate a volte nel dimenticatoio della ragione, ma ora, indubitatamente, presenti, e con decisione, messe in un luogo acconcio.
Per questo, mi torna in mente (perché ne ho riletto, non perché sappia
tutto a memoria), una frase dell’esimia Linda Di Martino, che nel giallo
mondadoriano “L’incidente di Via Metastasio”, parla di una bellissima libreria
fiorentina. Dice la scrittrice: “La libreria Seeber è come l’antro dei
tesori (…). Da Seeber, comodamente disposto, mi sono letto ogni libro che mi
interessava almeno fino alla metà: è mia usanza non tirarmi mai in casa un
perfetto sconosciuto, che potrebbe deludermi o tradirmi; un libro, una volta
entrato, non lo puoi mettere all’uscio come un umano qualsiasi”. Parole
sacrosante.
Tuttavia, bisogna fare delle scelte, e noi si fanno, continuamente, anche senza accorgercene. Ci accorgiamo solo dei viaggi che non riusciamo (ancora) a fare e degli amici che comunque restano, uniti in un abbraccio.
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