domenica 7 novembre 2021

Ultimi newyorchesi - 07 novembre 2021

L’inizio è faticosamente in salita, con due autori, Lish e Aciman, che non mi hanno convinto (ed il secondo ancor meno del primo). Poi si risale a buoni livelli, sia con un autoctono, Brian Morton, sia con l’impareggiabile (ed impronunciabile) immigrato Gary Shteyngart (di cui svevo letto e goduto nella sua storia supertriste). Finisce così la buona collana dedicata alla Grande Mela, che nel complesso delle sue 16 letture si è meritato un globale 2 e ¾ andando dai poco felici Aciman (in questa trama) e DeLillo (prima lettura della collana) fino al da me (e non solo da me) sempre amato Paul Auster. N.B. tutte le trame le ho pubblicate quest’anno.

Atticus Lish “Preparativi per la prossima vita” Repubblica New York 14 euro 9,90

[A: 19/11/2018 – I: 17/04/2021 – T: 21/04/2021] - && -

[tit. or.: Preparation for the Next Life; ling. or.: inglese; pagine: 521; anno 2014]

Lish, ora cinquantenne, è personaggio poliedrico, abbastanza segnato dall’avere un padre, Gordon, grande editore e scopritore di talenti come Richard Ford e Raymond Carver. Ad ora, per quanto io ne sappia, è autore di un solo libro, questo, che ha momenti e idee interessanti, ma tuttavia anche lungaggini ed involuzioni non sempre gradevoli.

La prima cosa che mi ha colpito, comunque, è il nome dell’autore, che mi ha rimandato all’unico altro “Atticus” a me noto, il mitico avvocato antirazzista Atticus Finch, protagonista de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Ma forse questo sarebbe materia di altre indagini. Noi restiamo sul presente Atticus, a volte scapestrato in gioventù, inizialmente poco motivato agli studi, volontario nei marines. Poi, congedatosi, a 23 anni sposa Beth, un insegnante di origine coreana, riprende a studiare, si laurea in matematica con una tesi sul teorema di Ascoli-Arzelà (non penso ne vogliate sapere, ma se volete…), e sotto la spinta comincia a scrivere. I due vanno in Cina come insegnanti di inglese per un anno, poi, nel 2008, tornato a Brooklyn, si dedica a questo librone che lo terrà occupato per cinque anni.

Personalmente, la mia lettura è cominciata con un disguido. A lungo ho letto male il titolo, cambiandolo in “Preparatevi per la prossima vita”. Mi sembrava una strana esortazione, anche non troppo in linea con quanto stavo leggendo. Mi aspettavo sempre uno scatto morale, per passare alla “Next Life”. Capito l’errore, ho seguito anche meglio la trama, capito che era una specie di giudizio sugli avvenimenti descritti, dove i personaggi (che in fondo sono due e mezzo) cercheranno di arrivare ad una vita diversa.

C’è anche molta New York nel testo, anche se molto decentrata. Cioè non la New York di Manhattan, ma quella di Flushing nel Queens. Di certo uno dei quartieri più antichi della città, anche se non dei più frequentemente visitati. Noto, forse, solo per il torneo di tennis e per le partite di baseball.

I due personaggi principali sono Zou Lei immigrata clandestina della provincia cinese dello Xinjiang, figlia di madre uigura (etnia ora molto in voga per gli stermini a cui è sottoposta in Cina) e padre Han, e Brad Skinner un veterano della guerra in Iraq.

Zou Lei fa molti lavori saltuari, sempre all’ombra dell’immigrazione cinese. Ma è sempre in contrasto con i cinesi doc, venendole rimproverata la sua origine uigura (per i non addetti è un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord della Cina, incuneata tra Mongolia, Kazakistan, Uzbekistan e Afghanistan). Brad, tronato dall’Iraq, soffre di sintomi fortissimi da disturbo post-traumatico (ed ogni tanto Atticus ce ne fa rivivere gli incubi attraverso i sogni di guerra, e la morte degli amici di Brad).

I due si incontrano, si piacciono, si capiscono pur negli alti e bassi delle rispettive vite. Per i problemi di sopravvivenza di Zou Lei, e per la dipendenza dall’alcool di Brad. Danno comunque vita ad una bella, seppur poco sentimentale, storia d’amore. Brad ha bisogno di Zou Lei per non cadere nel baratro, Zou Lei ha bisogno di Brad per cercare di uscire dall’oscurità di una vita sommersa.

Il terzo incomodo, il mezzo di cui sopra, è Jimmy, figlio dei Murphys presso cui abitano Brad e Zou. Jimmy è stato in prigione, è un suprematista bianco che incolpa gli immigrati cinesi della decadenza di New York. Drogato e violento, uccide una massaggiatrice cinese, anche se solo Brad ne viene a conoscenza.

Quando Zou Lei si allontana (sperando in un aiuto nella comunità mussulmana lontano da New York), Brad pensa che sia stato Jimmy a farle del male, e, fuori dalla grazia di Dio, prima lo uccide, poi si uccide. Zou, tornando a casa, trova il corpo di Brad, raccoglie soldi e cose, e si allontana, per affrontare la nuova vita cui si sta preparando da cinquecento pagine.

Ci sono passaggi che non sono chiari (almeno a me), come la visita di Zou in moschea, ed alcuni atteggiamenti di Jimmy. C’è questa scrittura che fluisce sulla pagina, ma non nella mente di chi legge. Ci sono questioni che si pongono e rimangono là: i reduci, gli immigrati, le tensioni infra-cinesi dei senza passaporto, e via discorrendo. Insomma, molte buone intenzioni, una storia interessante, una New York non “turistica”, ma mi aspettavo qualcosa in più.

André Aciman “Notti bianche” Repubblica New York 17 euro 9,90

[A: 25/11/2018 – I: 08/05/2021 – T: 11/05/2021] - & -

[tit. or.: Eight White Nights; ling. or.: inglese; pagine: 461; anno 2010]

Se questo è un esempio “classico” della scrittura di Aciman, sono ben contento di non aver letto “Chiamami con il tuo nome”, così come sono contento di poter dire tutto il non bene che penso di questa scrittura. Lunga e noiosa.

Intanto, cominciamo dal titolo italiano. Dove non si capisce perché nella traduzione sparisca il qualificativo “Otto”. Perché se abbiamo le notti bianche (e vediamo in che senso), e se con un volo neanche troppo pindarico ci rimandano a quelle di Dostoevskij, il fatto che siamo otto è significativo. Prima di tutto per non confondere i libri, e secondariamente perché per il grande russo bastavano quattro notti. Ma anche l’intento dell’autore è “perverso”, che lì erano le notti invernali di San Pietroburgo, laddove il sole non tramonta. Qui, in questa New York un po’ falsa ed un po’ da inventare, parliamo delle notti che vanno da Natale a Capodanno, bianche di neve. Una neve che copre la città, ed i suoi parchi. Forse unica cosa decente del libro (oltre alla frase che riporto).

Facciamo un piccolo passo indietro: Aciman è un settantino, di origine ebrea sefardita, nato in Egitto, emigrato con la famiglia prima a Roma, poi in America; laureato in Letteratura e grande esperto di Proust. Sapendo tutto ciò, non meraviglia quindi questo libro che fluisce come un lungo flusso di coscienza, in soggettiva dell’io narrante (di cui non sappiamo il nome), e che attraversa le otto notti (ma ci sono anche dei giorni oltre le notti) prendendosi e lasciandosi con una bella signorina di nome Clara. Un'altra cosa bella è quell’iterarsi che in inglese viene meglio “I am Clara”. Una forza propositiva che l’italiano “Sono Clara” non riesce a rendere.

E non ci si stupisce anche, dato il retroterra di Aciman, che lo scritto si infarcito di dotti riferimenti. Ovvio, e già citato, il riferimento traslato al romanzo di Dostoevskij. Ma poi, ecco, fin dall’inizio, le grandi feste glamour che rimandano a “Il grande Gatsby”. Ecco le citazioni di Leopardi. Le visite periodiche al cineclub di essai per seguire una retrospettiva dei fil di Rohmer, con grande spazio a due capolavori del grande francese: “La mia notte con Maud” e “Il raggio verde”. Aspettando che vengano proiettati, dopo la fine del romanzo, altri film, di Buñuel, di Resnais, di Fellini. Non manca la musica. Così che da CD, da pianoforte, anche da nastri consunti, sentiamo uscire dalle pagine Beethoven, Handel e Mozart. Ma soprattutto Bach e le trasposizioni pianistiche fatte da Alexander Ziloti (anche se Aciman lo cita con il nome inglese Siloti, e non ne ricorda l’opera maggiore, cioè la divulgazione di Liszt, nonché la sua gigantesca performance nel 1930 a 67 anni, quando eseguì tutti i concerti del grande ungherese sotto la direzione di Arturo Toscanini).

Tornando brevemente, che solo così se ne può parlare, il volumone è la lunga introspezione dell’io narrante che la prima notte conosce Clara, impiega pagine e pagine per descriverci il suo innamoramento, forse anche quello di Clara, per parlarci di come si prendano, si lascino, vanno vicino a consumare senza farlo, poi si perdano, poi alla fine forse, o forse no, torneranno a ritrovarsi. Ma in fondo ad Aciman questo interessa meno che non seguire le elucubrazioni mentali dei due, i loro giochi verbali e corporei, per dilatare sulla pagina l’esperienza non comunicabile della memoria e dei suoi ghirigori. Ci mostra, talmente a lungo che diventa insopportabile, l’abisso che si scava tra fantasia e realtà, in particolare quando due persone non si dicono mai le cose “faccia a faccia”.

Ti piace? Diglielo! O almeno chiediglielo, che vagare per quasi cinquecento pagine senza risposte è una sofferenza per i protagonisti e per noi lettori. C’è tutto il desiderio del mondo nelle loro avventure, ma un desiderio che rimane sulla soglia dell’espressione. Insopportabile.

Le cose migliori, in fondo, vengono quando si stacca dalle sparate oggettive e soggettive, per narrare piccoli fatti, quelli degni di rimanere nella memoria. Il ricordo del padre, il tè nella tavola calda, la visita agli stupendi Max e Margo, di cui ammiriamo la solare anzianità.

E New York, cui sarebbe dedicata la collana? Autobus, passeggiate tra la 105 e la 107 West, con lunghe soste nel bellissimo e piccolissimo Strauss Park, un accenno di Broadway, e poco MoMa. Veramente poco per fare un romanzo newyorchese. Anzi, veramente poco per farne un romanzo. Soprattutto un romanzo leggibile.

“La cosa peggiore di morire è sapere che ti dimenticherai di aver vissuto e amato. Si vive una settantina d’anni o giù di lì, e poi si muore per sempre.” (128)

Brian Morton “Florence Gordon” Repubblica New York 11 euro 9,90

[A: 21/01/2019 – I: 12/05/2021 – T: 14/05/2021] - &&& --  

[tit. or.: Florence Gordon; ling. or.: inglese; pagine: 331; anno 2014]

Ecco un nuovo libro che parla di New York, che un po’ la attraversa come se stessimo sentendo Woody Allen che racconta cose (un po’ come nel suo ultimo film, quante, ma quante parole). E la conoscenza con il quasi settantino Brian Morton, insegnante di letteratura ed autori, in tutta la sua carriera, di cinque libri. Di cui questo è l’ultimo.

Sebbene due suoi libri siano stati poi trasformati in film, Morton non ha una grande fama fuori dai confini nazionali (ed anche in quelli, sino ad un certo punto). Si vede che sa di letteratura, perché sa tornire le frasi, sa metterci nell’attesa degli avvenimenti, e soprattutto, cosa che a me fa sempre piacere segue il tempo che scorre. Anticipa poco, forse neanche l’essenziale. E noi siamo lì, a veder succedere le cose, insieme a chi le cose le sta facendo.

Un elemento non facile nella narrazione, è che la maggior parte degli elementi salienti sono figure di donne, quasi fosse un libro di donne per le donne. Peccato che sia scritto, anche in modo sapiente, da un uomo. Fatto salvo questo elemento che crea, a me, delle difficoltà, laddove non riesco ad ipotizzare che si riesca a riprodurre il sentimento di un sesso diverso. E quindi, facendomi pensare che poi, Morton, intenda più che altro usare archetipi, si può passare a percorrere linee di trama e di pensiero. Anche se, forse, poca trama.

La figura centrale è Florence Gordon, settantacinque anni, vive a Manhattan, sola (ha sapientemente lasciato il marito Saul), è stata una figura storica del femminismo, e continua a fare la scrittrice. Morton la dipinge come una persona schietta, talmente coerente con questa sua posizione da risultare tagliente, a tratti antipatica. O forse, semplicemente, molto simpatica, che noi si vorrebbe a volte essere così diretti. Di certo una rompiscatole, che ama mettere gli altri in difficoltà (magari mettendoli di fronte alle proprie incongruenze), che non capisce come la gente possa vivere lontano da New York.

Per catalizzare gli avvenimenti Morton decide di immettere due zeppe nella vita di Florence: un articolo del New York Times che la definisce “patrimonio nazionale” e la convergenza su Manhattan della sua famiglia. Certo, c’era già l’ex-marito, lo scrittore fallito Saul, un donnaiolo di bassa lega, capace solo di chiamarla solo per chiederle favori. E poi arrivano su figlio Daniel, che, schiacciato dal mondo letterario dei genitori, decise di cambiare rotta, e di fare il poliziotto, e da Seattle dove vive viene a New York per seguire la moglie, Janine, psicologa con una borsa di studio di un anno alla Columbia University, dove comincia un flirt con il suo nuovo capo. Ed Emily, anche lei in città per studiare, amante della lettura e della scrittura (in questo sulle orme della nonna), imbarcata in una complicata storia d’amore con un suo ex-compagno di liceo.

Ognuno di loro con i propri problemi: Janine che adora Florence ma ne ha paura e fa finta di esserle indifferente, o Daniel che, fatte le sue scelte quasi per caso, non sembra riuscire a fare né il padre, né il marito e forse neanche il figlio. L’unica è Emily che, giovane e coerente con sé stessa, è l’unica che penetra nella corazza di Florence, senza però cedere alla tenerezza. Bella è la scena della manifestazione femminista cui partecipano nonna e nipote.

La sensazione straniante è che, benché piena di persone e di momenti corali, tutti i protagonisti sembrano vivere monadi isolate. Quasi si abbia paura di parlare, di esternare i propri sentimenti. Un libro che fa riflettere sul fatto che i rapporti con gli altri non seguono regole precise. Che il fatto di avere un’etichetta (genitore, figlio, amante, marito) di per sé non vuole dire nulla. Perché, ad esempio, l’affetto, la confidenza sono sentimenti che devono essere costruiti e coltivati a prescindere. Ti voglio bene perché tu sei tu, non perché hai un ruolo nella mia vita.

E quindi, con una cattiveria alla Florence, non vi dico null’altro sulla trama, sui perché del suo svolgimento, e dei punti vari che affronta (oltre il modo vago cui ne ho accennato). Non si riesce ad immedesimarsi con nessuno dei personaggi, eppure è interessante vedere il microcosmo costruito da Morton e la sua evoluzione. Perché pone domande, cui bisogna riflettere.

Ribadendo la mia personale difficoltà nel vedere immedesimazioni spinte in personaggi al femminile, e sottolineandone a volte una troppa cerebralità, è un libro che consiglio di leggere. Anche per cui passaggi sull’età che sotto riporto. Impagabili.

“Accettava la vecchiaia, ma si sentiva comunque fondamentalmente giovane.” (9)

Gary Shteyngart “Mi chiamavano piccolo fallimento” Repubblica New York 18 euro 9,90

[A: 01/12/2018 – I: 08/06/2021 – T: 11/06/2021] - &&& ---

[tit. or.: Little Failure. A Memoir; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 2014]

Avevo letto il precedente libro di Gary (non mette il cognome, troppo complicato e troppe volte ho sbagliato a scriverlo), trovandolo interessante e con qualche spunto coinvolgente. Ora questo “Memoir” esce quattro anni dopo, e seppur migliorando alcuni modi espressivi che ci riportano all’ironia di fondo del personaggio, il risultato complessivo è tuttavia in minore.

Tra l’altro, venne pubblicato da Repubblica nella collana su New York, e devo dire che, a parte il fatto che i protagonisti vivono nel Queens, e che Gary studia prima a New York (dato che poi si laureerà a Oberlin, su cui torno), non è che la città si presente ovunque.

Quello che è presente è “Igor Semyonovich Shteyngart” il nostro eroe, con questa autobiografia (vera? Inventata? Ma è forse importante?), che ci porta all’infanzia russa alla maturità americana, fino allo sbocciare attraverso la satira e l’ironia. A volte un po’ troppo compiaciuta, quasi autocitantesi. A volte, come dice il libraio di Padova in una recensione su Internet, un po’ troppo alla “Woody Allen” (anche se alla fine chioserei anch’io con questa sequenza da piano americano: “Gary Shteyngart seduto su una panchina ha appena finito di leggere questa recensione. Primo piano. Esclama: «Woody Allen? Chi è costui?».”).

Prima di entrare nel merito, riprendo la citazione sull’Oberlin College, che ha le seguenti particolarità: prima università americana ad avere dormitori misti (1970), stemma composto dai colori rosso cardinale e giallo mikado (cioè la Roma), una delle più forti squadre di Ultimate (sport misconosciuto, frisbee a squadre con porte ed altre amenità, tipicamente americano).

Come candidamente confessa altrove Gary, il libro deriva da una serie di articoli-ricordi già pubblicati (soprattutto sulla rivista “Travel&Leisure”), ed ora da lui presi e sistematizzati. Possiamo così seguire l’autobiografia dello scrittore come fosse un saggio “serio”. Che serio non sarà mai, pervaso dal mix delle culture di Gary: yiddish, straniamento russo, americanismo.

Il via sarà un attacco di panico del venticinquenne Gary mentre sfoglia il libro “San Pietroburgo: l’architettura degli zar” e vede la chiesa di Cesme. Ora il nome completo della chiesa è “Natività di San Giovanni Battista”, è il primo edificio neogotico della città, è orrenda (a righe verticali bianche e rosse), ed è posta vicino alla casa natia di Gary/Igor. Perché da Leningrado viene la famiglia di Gary, che riesce ad emigrare in America nel ’79 inseguito agli scambi tra Carter e Breznev (cotone in cambio di ebrei).

Ma è da lì, da Piazza a Mosca a Leningrado che partono i ricordi di Gary, dove faceva volare piccoli aeroplanini con Papa. L’amore profondo passato con nonna Poljia sul “divano della cultura” a leggere e farsi leggere libri. Dell’infermiera che, alla domanda di Mama di come alleviare l’asma del figlio, le dice di ripetere ad ogni starnuto “Che Dio ti benedica”. Al passaggio per Vienna, dove la famiglia rischia di finire in carcere per maltrattamenti, quando i segni sul corpo di Gary derivano dalla “coppettazione antiasmatica”. Al piccolo soggiorno a Roma, fino all’arrivo a New York, (“siamo sbarcati in un film in tecno-color”), ai parenti che erano già lì, ai difficili rapporti con il mondo americano dei genitori. Uno era ingegnere, l’altra insegnante di piano. E lui? Gary era: piccolo fallimento, moccioso, fetido orso russo, fino a “Scary Gary” al College. Intanto vive tutti i passaggi della presa di coscienza di essere straniero in terra straniera, di subire angherie alla scuola ebraica dell’infanzia, poi all’analogo del nostro liceo, fino al poter nascondersi in mezzo agli altri al College. E deludere Papa e Mama che lo volevano avvocato, mentre lui comincia a scrivere, e con successo (tanto che verrà inserito nei più promettenti “under 40” nel primo decennio di questo secolo).

Il libro finisce con una catarsi che vi lascio leggere, quando, finalmente, dopo trent’anni, riesce a portare di nuovo i genitori a Pietroburgo. Mentre Gary ha un’altra catarsi, dopo aver speso tutto il libro nel cercare di portarsi a letto tutte le ragazze che incontra, fuori dal libro sposerà la coreano-americana Esther Won.

Non è un libro bellissimo, ma mantiene, di fondo, quel tono di voce narrante sincera, con la quale, se entriamo in sintonia, possiamo sentirci dire qualsiasi così. Con empatia. Come a volte succede in queste pagine. Anche se, altrettanto bisogna dire, l’ironia forzata sale troppo sopra le righe. Nel finale, tuttavia, posso dire di condividere di metterlo tra i libri tesi a coltivare la propria autostima, così come dicono i praticamente (quasi) esauriti, miei libri felici.

“Io e la mia aspirante sposa adesso viviamo in un appartamento … ce lo possiamo permettere: il suo acume immobiliare è impareggiabile. … Per abitudine offro tutti i giorni la guancia alla mia ragazza perché la schiaffeggi, e lei non lo fa mai.” (375)

Prima trama di novembre, quindi passiamo ai libri di agosto, dove nonostante la vacanza greca, siamo rimasti su di un alto numero di letture, anche di buon livello. Illuminate da due ottimi saggi di Gabriele Romagnoli e Roberto Calasso. In fondo, tanto che se ne sono perse le tracce fisiche, l’illeggibile libro di Alistair McLean.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Walter Tevis

Lo spaccone

Minimum fax

11

2.5

2

Maurizio de Giovanni

Fiori per i bastardi di Pizzofalcone

Einaudi

s.p.

2,5

3

Luca Bianchini

Io che amo solo te

RCS Media Group

8,90

2

4

Alessia Gazzola

Arabesque

TEA

6,90

2

5

Guillaume Musso

Un appartamento a Parigi

Repubblica Noir

7,90

3,5

6

Gabriele Romagnoli

Senza fine

Feltrinelli

11,50

4

7

Alistair MacLean

Burattino in catene

BUR

s.p.

0,5

8

Victoria Hislop

L’île des oubliés

Livre de poche

13

3

9

Amos Oz

D’un tratto nel folto del bosco

Corriere

8,90

2

10

Roberto Calasso

Allucinazioni americane

Adelphi

14

4

11

Camara Laye

Un bambino nero

Alep Editore

12

2,5

12

Nikos Kazantzakis

Zorba il greco

Crocetti

15

3

13

Valerie Perrin

Les oubliés du dimanche

Livre de poche

14

2,5

14

Emanuele Trevi

Due vite

Neri Pozza

s.p.

3.5

15

Reinaldo Arenas

Prima che sia notte

Repubblica Mondo

9,90

2

16

Amitav Ghosh

Le linee d’ombra

Repubblica Mondo

9,90

3

17

Petros Markaris

Il prezzo dei soldi

Repubblica Noir

7,90

3

18

David Madsen

Amnesie di un viaggiatore involontario

Meridiano Zero

s.p.

1

19

Tew Bunnag

Il viaggio del Naga

Repubblica Mondo

9,90

3

20

Michael Connelly

L’ultimo giro della notte

Pickwick

10,90

2,5

Siamo già a novembre, e continua l’improba fatica di rivedere tante carte passate a volte nel dimenticatoio della ragione, ma ora, indubitatamente, presenti, e con decisione, messe in un luogo acconcio.

Per questo, mi torna in mente (perché ne ho riletto, non perché sappia tutto a memoria), una frase dell’esimia Linda Di Martino, che nel giallo mondadoriano “L’incidente di Via Metastasio”, parla di una bellissima libreria fiorentina. Dice la scrittrice: “La libreria Seeber è come l’antro dei tesori (…). Da Seeber, comodamente disposto, mi sono letto ogni libro che mi interessava almeno fino alla metà: è mia usanza non tirarmi mai in casa un perfetto sconosciuto, che potrebbe deludermi o tradirmi; un libro, una volta entrato, non lo puoi mettere all’uscio come un umano qualsiasi”. Parole sacrosante.

Tuttavia, bisogna fare delle scelte, e noi si fanno, continuamente, anche senza accorgercene. Ci accorgiamo solo dei viaggi che non riusciamo (ancora) a fare e degli amici che comunque restano, uniti in un abbraccio.

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