domenica 21 novembre 2021

Svedesi, al fine - 21 novembre 2021

Con queste trame esaurisco la lettura iniziata tre anni or sono di proposte di letteratura scandinava. Terminando con quattro autori di scrittura svedese e di livello più che buono. Con due “inversioni” territoriali, laddove Niemi abita e narra di un territorio lappone in Svezia e Westö parla di un’enclave linguistica svedese in Finlandia. Ma sono tutti da leggere, il mondo rock di Niemi, la saga familiar-musicale di Tunström, la Cambogia di Fröberg Idling e gli svedesi di Finlandia di Westö. Un buon finale.

Mikael Niemi “Musica rock da Vittula” Corriere della Sera Boreali 21 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 21/02/2021 – T: 23/02/2021] - &&& 

[tit. or.: Popoulärmusik från Vittula; ling. or.: svedese; pagine: 292; anno 2000]

Un interessante seppur datato libro dalla duplice valenza: un’interessante prova dell’autore ed una immersione in una regione del mondo in genere poco noto e molto bistrattata. Che noi, attenti ed onnivori lettori, già conosciamo in parte per le saghe sami scritte dal francese Olivier Truc.

La ragione infatti è un territorio, ora legislativamente svedese, incuneato tra Svezia e Finlandia, con sia una popolazione stanziale, insediata intorno alla città di Pajala (luogo natio di Niemi), sia una popolazione nomade di prevalente origine lappone. Ma mentre dei sami già qualcosa sappiamo, i residenti sono meno presenti in letteratura, anche perché localmente c’è più che altro una tradizione orale.

In questa tradizione orale, Niemi, dopo alcune prove poetiche, venti anni fa esce con questo romanzo di formazione di giovani locali, utilizzando anche le tecniche proprie dell’oralità: un fluire del narrato, a volte infarcito da iperboli improbabili quanto, soggettivamente, sentite dal narratore. Ad esempio, quando si immagina bambino in un incredibile ed increduta fuga tra treni e aerei per raggiungere la mitica e lontana Cina. Una fantasia che di sicuro Matti, l’alter ego di Mikael, compirà nella vita (come ci illustra il prologo narrato durante una escursione montana nepalese, nel complesso dell’Annapurna, percorrendo quello che viene considerato il più altro valico montano al mondo: il Thorung La a 5416 m, laddove io ho fatto invece in Ladakh il più alto valico motorizzabile a “solo” 5359 m, cioè 57 di meno), per poi tornare, con la testa prima che con il corpo, nella terra delle renne.

E con la testa, Matti ci racconta della sua infanzia e adolescenza, con i suoi miti, i personaggi violenti, gli amici, le prime ragazze, e soprattutto quello che sarà per lui e per pochi altra una chiave d’uscita: la musica.

Siamo negli anni Sessanta (d’altro canto Mikael è del 1959), e seguiamo Matti in età prescolare dedito alle fantasie boschive di tutti i ragazzi, ed all’incontro, che segnerà gran parte della su vita, con il silenzioso Niila. I due giocano e si immergono in quel paesaggio pieno solo “di zanzare, di imprecazioni in finlandese e di comunisti”. Perché molti rimasero in zona, dopo la lunga e forzosa permanenza sotto la Russia, e vedendo, da lontano e dal freddo, la luminosa, proprio perché lontana, stella di Stalin.

I nostri due eroi avranno uno shock culturale con l’inizio della scuola, dove, loro abituato al dialetto locale, vengono costretti ad immergersi nello svedese standard, e nei libri di testo che venivano dal sud, dalla Scania, pieni di flora e fauna che lì al Nord mai era stata osservata.

Sarà l’arrivo fortuito di un disco dalla vicina Inghilterra che salverà loro la vita. Un disco dei Beatles, con il suo rock ingenuo e potente. Ed ecco che Matti si mette in testa di suonare, inventandosi fantasiose chitarre. Ben presto seguito da Niila, che si dedica, con poco successo alla chitarra ritmica. La svolta nella band verrà prima con l’arrivo di Holgeri, il virtuoso della chitarra solista, e poi con Erkki, improvvisato batterista arruolato perché regge bene l’alcool. I quattro, tra rumori impossibili, mancanza di accordo nell’attacco dei pezzi, ma una voglia sfrenata di suonare quel fracasso di “popoulärmusik” riusciranno, bene o male, a non farsi travolgere completamente dal mondo locale.

Un mondo fatto di fanatici “laestadiani” (una branca luterana fondata dal pastore Lars Levi Laestadius, morto proprio a Pajala) molto toccati dai problemi della grazia e del peccato, in cui i nostri si barcamenano tra le prime esperienze con l’altro sesso, matrimoni (e conseguenti risse) pantagruelici, financo Campionati di Sbronza. Un mondo dove, di sicuro, il nostro Matti uscirà, non sappiamo se vincente, ma di sicuro cosciente.

Quindi, un altro libro di formazione, da collocare tra Salinger e Cameron, ben tradotto da Katia De Marco che si è di sicuro trovata a barcamenarsi in una lingua che non era solo svedese. Non sempre riuscito al meglio, ma io ne ritengo il posto, laddove si parla di culture poco note, e di posti che ho visto, o quasi visto, o che vedrò (ci rivedremo a Rovaniemi?).

La stranezza dei luoghi impone di finire ricordando che la zona, il Tornedalen, non solo ha una sua propria lingua, riconosciuta tra le lingue svedesi di minoranza, ma fu teatro, verso la prima metà del 1700, di un esperimento scientifico. Laddove una missione multinazionale, guidata dal francese Maupertius e comprendente lo svedese Celsius (noto forse per altro) si recò colà, per misurare la lunghezza di più di 100 km di un meridiano terrestre, e dimostrando l’esattezza della teoria di Newton sull’appiattimento dei poli.

“Con il passare degli anni mio nonno diventava sempre più solitario … ma fermare il tempo non poteva e alla fine si avvicinò il giorno … in cui avrebbe compiuto settant’anni.” (259) [un pupo]

Göran Tunström “L’oratorio di Natale” Corriere della Sera Boreali 34 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 31/05/2021 – T: 02/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Juloratoriet; ling. or.: svedese; pagine: 362; anno 1983]

Sono passati venti anni dalla morte di Göran Tunström e quasi quaranta dalla scrittura di questo romanzo dall’immutato titolo “L’oratorio di Natale”. Che finalmente Iperborea e l’ottimo Ferrari (nella traduzione e nella postfazione) lasciano il titolo originale. Anche perché è giustamente collegato al filo rosso della narrazione, quella cantata che Johann Sebastian Bach compose intorno al 1734. Göran è stato uno scrittore non tanto prolifico, la cui opera (secondo i critici visto che io ho letto solo questo libro) è molto vicina al proprio vissuto.

Siccome non è mio costume entrare (troppo) nel contesto, rilevo solo che lo scrittore ha sempre vissuto in un ambiente molto letterario (il padre gli leggeva Thomas Mann di piccolo), ha innalzato la sua contea natia a eponimo delle sue vicende (si tratta di Sunne nel Värmland), anche perché aveva come vicina di casa Selma Lagerlöf. Verso la fine degli anni ’50 vive per qualche tempo sull’isola di Idra in Grecia dove diviene amico e sodale di Leonard Cohen. Infine, a metà degli anni ’60, sposa Lena Birgitta Cronqvist, artista e pittrice, una delle più alte figure svedesi dell’espressionismo. Inciso: c’è un cammeo in un personaggio minore che si chiama Birgitta e che dipinge. Un caso?

Libri, dipinti, musica, che convergono nella sua opera (infatti, comincia con lo scrivere poesie), per poi diventare un motivo di fondo, ed irrompere con questo romanzo sia sulla scena svedese (negli anni ’80) sia in quella internazionale (negli anni ’90, quando ne fu tratto un film diretto da Kjell-Åke Andersson).

Non è un caso che abbia scritto di musica, di poesia, di espressionismo. Questo romanzo è un bel concentrato di tutto ciò, cristallizzato appunto a quel titolo – filo rosso che irrompe già nelle prime pagine, quando incontriamo il musicista Victor che vuole dirigerlo nella chiesa principale di Sunne, e che ci segue dal flashback narrativo, che ci riporta agli anni ’30, a Solveig (che scopriremo essere la nonna di Victor), alla sua forza di volontà che spinge la comunità di Sunne a studiare per dieci anni l’oratorio. Senza che si riesca a farlo, che Solveig pochi giorni prima della prima muore cadendo dalla biciletta. E l’oratorio non si canterà.

Il libro, in fondo, è una grande saga familiare, che attraversa tre generazioni dei Nordensson: Aron, Sidner e Victor. Saltando l’introduzione, vediamo la morte di Solveig, e seguiamo gli anni della disperazione di Aron. Lui e i suoi due figli, Sidner ed Eva-Liisa, lasciano i campi, si trasferiscono a Sunne, dove Aron trova lavoro presso un Hotel. Diventa il dispensatore di liquori in quanto astemio, ci sono vicende collaterali poco significative (anche se attinenti), ma il fatto è che Aron non riesce ad elaborare il lutto per Solveig, la vede in ogni dove. Casualmente, diventa amico di penna di una donna non a caso all’altro capo del mondo: Tessa Schneiderman della Nuova Zelanda. Tessa si innamora di Aron mentre Aron pensa che Tessa e Solveig siano la stessa persona. Parte senza pensarci verso la Nuova Zelanda, ma sulla nave ha la rivelazione che Solveig è veramente morta. Allora, si toglie la vita saltando in mare.

Intanto, in Sunne, Sidner cresce. Ha un grande amico di nome Splendid (che da grande sposerà la sorella), si intrattiene spesso (nella vita e nei sogni) con la vicina di casa Selma Lagerlöf. Ha poi una notte d’amore con una donna più grande di lui di nome Fanny. E da quella notte nasce un bimbo, il futuro Victor. Ma Fanny, pur amando Sidner, per una serie di motivi che leggerete, lo tiene a distanza. Tanto che Sidner esce fuori di testa, e per non impazzire comincia a tenere un diario che farà leggere a Victor da grande, per farlo entrare nei “misteri” della famiglia. Un libro dal bellissimo titolo “Sulle carezze”.

Ma Sidner impazzisce, viene ricoverato a lungo in ospedale psichiatrico, per poi uscirne e decidere di andare anche lui in Nuova Zelanda, alla ricerca di Tessa. Che alla fine (dopo peripezie ed altro che vi lascio leggere), la trova, salva anche lei dalla follia, e (sembra) riusciranno a costruire una vita insieme.

Intanto vediamo crescere Victor sotto le gonne di Fanny e lontano da Sidner. In un momento letterario molto omerico. Con Victor nei panni di Telemaco e Fanny in quelle di Penelope. Quando Sidner-Ulisse torna (seppur per poco), Telemaco riesce a staccarsi da Fanny, riesce a cercare il suo ruolo nella vita. Che sarà un ritorno alle origini, un ritorno alla musica.

Così che finalmente potrà chiudere il cerchio, eseguendo l’Oratorio di Natale come voleva nonna Solveig cinquanta anni prima.

Questo “romanzo popolare” alla fine è pieno di citazioni altre. Ad esempio, è diviso in sei parti (se escludiamo le carezze di Sidner), così come in sei parti è composto l’oratorio di Bach (e magari un musicista più aduso di me, potrebbe fare un parallelo tra le cantate delle parti e lo scritto). Ma poi ci sono citazioni di Dante nella prima parte (l’inizio della Commedia), citazione di Petrarca nel mezzo (quando si cerca pace lontano dai trambusti cittadini), e Omero in finale durante le attese di Telemaco. Se poi volessimo cercarne altre, come dimenticare il sorriso di Eva-Liisa che sbuca tra la siepe come il gatto del Cheshire dall’Alice di Lewis Carroll.

Insomma, c’è tanto nel libro. Ma soprattutto c’è la ricerca di uscire dal dolore. Come si potrà fare? E si potrà fare, soprattutto? Göran sembra dirci che solo capendo quali siano i nostri più profondi interessi, solo abbandonando l’inutile, è possibile non tanto superare il dolore, ma conviverci. Non si dimentica, non è possibile. Ma tutto, anche il dolore, anche la morte, è dentro il nostro io. Solo nel suo sfruttamento globale potremmo essere.

Non mi ha stravolto, in fondo, anche forse per essere a volte troppo cerebrale, un po’ costruito. Ma l’ho gradevolmente letto.

Una sola domanda finale: perché a pagina 248 si dice che il 1° luglio del 1939 era domenica, quando invece è facile risalire al fatto che sia stato un sabato? Mistero!

“Volevi sapere com’è scrivere un libro. È faticoso, ecco com’è! È come costringersi ad attraversare un deserto: vaste distese senza una sola goccia d’acqua, senza un albero sotto cui riposare. Poi però arrivi a un’oasi: lì la parola fluisce … e la penna vola sulla carta.” (228)

“Una parte dell’amore consiste nella sincerità. Se vivessimo insieme come potremmo raccontarci tutto?” (243)

Peter Fröberg Idling “Il sorriso di Pol Pot” Corriere della Sera Boreali 28 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 30/06/2021 – T: 02/07/2021] - &&& + 

[tit. or.: Pol Pots leende; ling. or.: svedese; pagine: 286; anno 2006]

In effetti, sono abbastanza perplesso sulla collocazione di questo libro. Che non è un saggio, ma non è neanche un romanzo. Gli inglesi lo etichettano come “literary non fiction” (che si potrebbe tradurre come “saggistica letteraria”). Dato che contiene tutta una serie di considerazioni, descrizioni e rimandi da saggio sulla Cambogia (e su molto altro, poi vediamo). Ma contiene anche passaggi letterari, incursioni in possibili scenari, ricordi personali. Insomma, è un po’ un crogiolo di diverse forme e stili. Che tuttavia alla fine risulta interessante, ben scritto, decisamente documentato, e pervaso da un sincero amore verso la Cambogia.

Una nazione che, personalmente, ho visitato già quattro volte, anche se per la maggior parte transitando solo per il bellissimo sito di Angkor Wat. Solo l’ultima visita, quattro anni fa, mi ha portato anche nella capitale e nell’isola di Koh Rong di fronte a Sihanoukville. Con dei ricordi bellissimi, sia dei bei posti, sia dei siti che cita anche l’autore. Non entro qui nel merito della discussione, se ne parlerà più avanti, ma ho dei carissimi amici a Siem Reap che spero di andare a ritrovare, prima o poi.

Tutto comincia, nelle parole di Peter (mi consento di chiamarlo per nome che il cognome è assai complicato), nell’agosto del 1978. Quattro osservatori dell’Associazione di Amicizia Svezia-Kampuchea compiono un viaggio in Cambogia per sostenere la rivoluzione iniziata da un personaggio poco noto all’epoca (e solo tristemente famoso poi): Pol Pot. Misterioso anche nel nome, che il vero nome è Saloth Sậr, e questo mascheramento pare venga dall’abbreviazione del francese “Politique Potential”, che Saloth a lungo visse in Francia, entrando in quel tempo in contatto con il comunismo e con Sartre. Gli svedesi alla fine scriveranno un libro, produrranno un film, ma da nessuna testimonianza viene alla ribalta quali siano, realmente, le condizioni di vita della gente sotto il regime instaurato dai khmer rossi.

Peter cerca di comprendere la genesi e la realizzazione di tale inganno attraverso una ricostruzione che si svolge su tanti piani: ovviamente la descrizione di cosa fecero gli svedesi allora, e di quali siano ora, trenta anni dopo, le loro sensazioni; ma anche un ripercorrere la vita di Pol Pot, di ricostruire la storia della Cambogia dal dopoguerra in poi, non mancando, ovvio, accenni e rimandi al contemporaneo sviluppo della storia in Europa ed in Svezia.

Peter sembra quasi uno scrittore di un giallo: crea ad arte misteri sulla delegazione svedese, sui suoi componenti, sul marito cambogiano di una di loro, semina indizi a sorpresa, intervista tutto l’intervistabile. Che ad esempio, il capo delegazione, Jan Myrdal, si rifiuta di riceverlo. Ma si reca anche in Cambogia, ci vive a lungo, ne impara la lingua per comunicare meglio e senza intermediari. Ripercorre le tappe della delegazione, incontra le persone che loro incontrarono, e che sono ancora in vita.

Giustamente, dal mio punto di vista, non risparmia critiche a nessuno. Si scaglia contro i feroci bombardamenti americani in Indocina, ed ai loro meschini tentativi di destabilizzare l’area, stigmatizza il vanitoso ed egocentrico principe Sihanouk, traccia un breve schizzo del crudele dittatore Lon Nol (quello di cui Kissinger disse che l’unica cosa che sapeva di lui è che fosse un palindromo), punta anche il dito al periodo di invasione vietnamita, che non può giustificare o salvare. Ed ovviamente, sempre al centro, ma mai personaggio centrale, lo sfuggente Pol Pot, con quell’unico sorriso che gli viene dalle poco foto rimaste, inflessibile nel portare avanti una politica totalmente corretta dal punto di vista teorica, totalmente sbagliata e fallimentare nella sua realizzazione pratica.

Il risultato, senza che io abbia voglia di entrare nei meandri della storia, e spingendovi a leggerne, se non conoscete quel periodo, è un’opera policroma, che ci rappresenta uno spaccato forte degli anni ’75-’80. Non risponde alla domanda iniziale se la delegazione non ha voluto vedere o se Pol Pot è stato abile, come lo sono spesso i dittatori (leggi Ceausescu, ad esempio) nel mascherare la realtà. È un inganno frequente, senza vinti né vincitori, ma che ci consegna un’unica direttiva fondamentale: ribellarsi, sempre e comunque, a qualsiasi dittatura.

Neanche io entrerò in questa diatriba, se non per la parte appena detta anti-dittatoriale. E nell’invito a visitare, ora, appena possibile, quei luoghi. Penso che chi li ha visti con me sia d’accordo.

Kjell Westö “Miraggio 1938” Corriere della Sera Boreali 26 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 10/07/2021 – T: 13/07/2021] - &&& e ½   

[tit. or.: Hägring 38; ling. or.: svedese; pagine: 331; anno 2013]

E con questo siamo alla fine. Ultima lettura del ciclo di letterature scandinave, ultima ma di certo in forte risalita rispetto ad alcune uscite oserei dire puramente dignitose. Intanto, il primo elemento che fa colpo è l’identità sociale dello scrittore. Perché Westö è finlandese, ma di origini svedesi. Forse non a molti è nota la storica vicissitudine della Scandinavia, che per secoli è stata divisa in modi diversi tra loro e diversi dall’attuale. Fatto sta che ora, nel nostro presente storico, dobbiamo rilevare che, all’interno della Finlandia c’è una nutrita comunità di origini svedesi, che tuttora parla svedese. Tant’è che Westö in svedese scrive.

Il romanzo, il miraggio che lo pervade, è l’illusione che nel 1938 tutto possa ancora essere fatto, tutto possa svolgersi in modo normale, nella vita “normale” di una comunità minoritaria all’interno di una nazione ancora non completamente solida. Certo, noi poco si sa delle vicende storiche finlandesi, ma questo è un libro che, parlando di fatti minuti, ci invoglia a studiare la grande Storia. Dove verremmo a sapere che la Finlandia diventa indipendente solo nel 1917, a seguito della Rivoluzione Russa, che fino ad allora era una parte della Russia zarista. Subito dopo, nasce una feroce guerra civile tra i Rossi, che volevano una socialdemocrazia filosovietica, ed i Bianchi che, temendo la fine dell’indipendenza, avevano un atteggiamento filotedesco. Vincono i Bianchi, ma la sconfitta della Germania fa sì che debbano cambiare bandiera rivolgendosi ai vincitori della Guerra. Ma le ferite di quella guerra civile, a lungo durano nel tessuto sociale. Anche perché, appunto, una forte minoranza di lingua svedese (pari a circa il 10% della popolazione del tempo) rimane ingabbiata nel territorio alieno.

Questo è il quadro sociale in cui si svolge la narrazione. Dove Westö usa un fuori testo per esemplificarlo. Nel 1940 si sarebbero dovute svolgere le Olimpiadi ad Helsinki (poi cancellate per la guerra). Nel ’38 si cominciava a fare le selezioni, ed in una gara per i cento metri, vediamo (in foto) la netta vittoria del finnico-svedese Abraham Tokazier, che però, nel reperto di gara viene classificato quarto. Perché Abraham è anche ebreo, e la presenza di giudici tedeschi fa sì che i finlandesi snaturano la gara. Solo nel 2013 verrà ripristinata la verità. Ma l’episodio serve a Westö per immergerci nel clima lacerante di quegli anni.

La vicenda, poi, ha due protagonisti, voci narranti alternate. L'avvocato Claes Thune e la sua segretaria Matilda Wiik. Thune, in profonda crisi personale, lasciato dalla moglie Gabi di cui è ancora innamorato, trascorre un po’ apaticamente la propria vita. Ha solo momenti di socializzazione incontrando i suoi vecchi amici il primo mercoledì di ogni mese. Gli amici in realtà sono lì per bere (e molto) ma anche per discutere i problemi sociali che stanno vivendo. E come i momenti politici si fanno acuti, anche gli amici si schiarano su orientamenti diversi: il medico Arelius, amante del potere, e l'imprenditore opportunista Grönroos, si orientano verso l'estrema destra. Mentre Thune e lo psichiatra Lindemark, ora fidanzato con Gabi, sono l’anima liberal del gruppo. In mezzo, variante incontrollata, l’attore ebreo Joachim Jary, zio del velocista di cui all’inizio.

Gli amici erano scampati alla guerra civile. Ora sono ricchi borghesi, medici, avvocati, in poche parole benestanti, e sebbene divisi dalla politica, sembrano aver dimenticato le cicatrici della guerra. Finché si inserisce nel quadro Matilda la segretaria di Thune, efficiente, assidua, ma con qualche punto oscuro alle spalle. Punto che viene allo scoperto quando lei casualmente senta i sei amici parlare, e riconosce la voce di uno di loro, come il suo tormentatore (e forse anche di più) durante la guerra. Si innesta così, sul filone sociale, anche una punta di noir, sebbene a noi attenti lettori sia ben chiaro chi sia il “Capitano”.

L’interesse del racconto, tuttavia, è proprio nell’analisi del mutare delle relazioni tra le persone quando il contorno in cui fino ad allora si muovevano viene a mutare. Una descrizione valida ovunque nel tempo. Anche qui ed ora.

Quindi, leggiamolo questo libro, con un occhio al passato ed un orecchio al presente.

“Intuiva di non essere né focoso né resistente. La sua unica possibilità di far colpo sulle donne era riposta nell’intelletto e nel fatto di saper ascoltare.” (84)

Terza trama di novembre, dove non avendo libri che portano direttamente la felicità, vi dovrete accontentare della felicità che portano i miei ricordi citanti.

Come dicevo il mese scorso, anni fa abbiamo cominciato un viaggio facendo il primo passo. Ora di passi ne abbiamo fatti tanti, e molti tratti sono stati difficili. Ed altri lo saranno in futuro. Amici ci lasciano, ed amici vengono, e ritornano. Tutti accomunati dai miei abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di novembre

Siamo a novembre, ci si attendeva pioggia e freddo, ed invece siamo ancora qui a cogliere i prodotti dell’orto. Godendo del nostro buen retiro ciminese. Così che si può riflettere sulle letture di tredici anni fa, un anno molto intenso. Dico solo che è cominciato con la morte di mio padre, un lutto che non è stato facile assorbire.

Allora, eccoci a ripassare i suggerimenti che mi ha lasciato l’ultimo trimestre di quell’anno.

Il primo che incontro è Sandro Veronesi che, in un corto del Corriere della sera, “Il ventre della macchina” mi ammoniva sui rischi di essere “troppo” buono: “perché ora so di essere un uomo buono e l’uomo buono, ho scoperto, non paga i propri conti con la moneta della fedeltà”.

A fine ottobre, poi, affrontai una lunga lettura di un autrice che mi ha dato sempre buone sensazioni, la giapponese Banana Yoshimoto.  Nel primo libro, “Il coperchio del mare”, da un lato mi forniva un suggerimento ecologico: “se non siamo in grado di conservare le cose belle del nostro paese, come facciamo a percepire la continuità?”. Dall’altro, invece, al solito, mi faceva riflettere su delle cose la cui verità avrei ritrovato da lì a qualche anno. Il primo sui sogni, che non debbono mai lasciarci: “quando si insegue un sogno tutto sembra bello e carico di energia, proprio come quando si è innamorati”. Il secondo sul rispetto verso gli altri, tutti gli altri: “le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel terrore, desiderano solo essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno devi modificarlo”. Il terzo è un ammonimento che, ora, posso dire è vero fino in fondo: “le cose avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più niente da fare”. L’ultimo ve lo lascio così, per riflettere anche voi: “a volte il semplice fatto di stare con una persona ti aiuta a crescere”.

Il secondo libro, ottenuto da un gradito regalo, si intitola “Chie-chan e io”. È veramente un breve compendio di due fatti, a volte in conflitto, ma presenti nelle nostre esistenze. L’amore, ovviamente. Ma anche la morte come lascito, e come un qualcosa che dovremmo affrontare, non dico con gioia, che non ci si potrà mai riuscire, ma con il massimo della serenità. Ecco cosa diceva sul rapporto tra due persone, anche sul momento in cui nasce un rapporto: “nei momenti più impensati si trovano le risposte più impensate”; “le era estranea l’abitudine di parlare con disinvoltura a persone che non conosceva”; “certe cose si percepiscono anche senza parlare”; “si può aiutare qualcuno nelle cose quotidiane, si può pregare, si può vigilare. Ma non si può cambiare il corso della sua vita. In verità, non si può fare niente neanche con la propria”; “il silenzio a volte ci svela qualcosa che esiste fra due persone”. E se qualcuno ci lascia, pensiamo che “anche nei giorni in cui arriva una cattiva notizia può accadere qualcosa di buono”. Oppure pensiamo con dolcezza all’incontro “avevo paura di aver bisogno di qualcuno al punto di non poter vivere se quella persona fosse venuta a mancare”. Banana mi pungolava anche sulla mia scarsa (al tempo) voglia di crescere: “decidere è una cosa che fanno gli adulti … e per questo non volevo mai prendere nessuna decisione”.

Finendo poi con un’esortazione che ora grido ad alta voce: “Guarda che se starai a lungo con me ti divertirai!”.

Ad inizio novembre, passai a trame più leggere. Come uno strano giallo del compianto Gianni Mura. Ambientato durante un tour de France, dal ricorrente titolo “Giallo su giallo”. Ma a me ricordava la mia giovinezza parigina: “ci ho dormito un mese a Tours, una mansarda al quarto piano senza ascensore … Ho lavato i piatti … sono entrato vestito in una fontana … mi avevano detto che il miglior francese si parla in Touraine e mi ero iscritto ad un corso estivo… a quei tempi scrivevo cazzate per dimostrare la padronanza della lingua … ‘un tour autour des tours des Tours’, cui rispondeva inquietante il professor Certin ‘Constant ta tante t’attend dans ta tente’".

Un altro libro di una leggerezza inquietante fu “Amore, bugie & calcetto” dell’a me sempre poco noto Fabio Bonifacci. Anche qui si parlava di sport (e amore), ma io mi ritrovavo nella figura di Piero che “come i grandi filosofi e i matti, pensava meglio camminando”.

Una diversa lettura che comunque consiglio, che l’autore raramente mi ha deluso, è “Una visita guidata” di Alan Bennett. Che parlando d’altro mi ha dato la chiave di tutte queste mie citazioni: “a volte, leggendo … ci imbattiamo in un pensiero o in un sentimento che abbiamo provato anche noi: però non ne avevamo mai parlato con nessuno, credendo che si trattasse di un fatto personale. Poi lo troviamo lì nero su bianco, ed è come se l’autore ci avesse teso la mano”.

La fine di novembre consegnò alle mie carte tre autori ed i loro pensieri sulla (mia) vita. C’era Corrado Augias che in “Quel treno da Vienna” diceva due cose: “perché ti penti così spesso di ciò che fai?” e “non sono… in grado di mettere a frutto i miei difetti, e le mie virtù … mi servono soltanto per continuare a vivere”.

Poi c’era Luciano De Crescenzo che in un racconto sul Corriere, “Monnezza e libertà”, suggeriva in dialetto: “guaglio’, colle femmene ce vole ‘o tiempo”. E c’era il medico Andrea Vitali in uno dei tanti libri della saga di Bellano, “La figlia del podestà”, suggellava così l’esistenza: “è l’amore che fa la differenza”,

Ad inizio dicembre, passai del tempo con autori italiani poco letti, che pensano e mi rimandano pensieri sulle storie, come la mia amica Rosa, e sulla vita.

Iniziando da “Il circo capovolto” di Milena Magnani: “quando si ascolta una favola, non ci si deve chiedere mai se la vicenda di cui si parla è vera o falsa. Una favola, l’unica cosa che chiede, è di poter rimanere nel cuore di chi ascolta” e proseguendo con “Il resto di niente” di Enzo Striano: “Quando una persona non ha scopo per vivere, spegne lentamente la fiamma dell’animo”.

Mentre quel Natale, laddove stavo preparando un viaggio per non ricordo dove, passai ad una serie di autori arabi e turchi. Per i primi estrapolai una frase di Sélim Nassib da “L’amante palestinese”: “ciò che hai dentro è più forte di te … È ora che tu decida cosa vuoi fare della tua vita”. E due da “La prova del miele” di Salwa Al-Neimi: “le risposte, come le storie, arrivano da sole, con i loro tempi” e “lo scandalo sta nel fare qualcosa o nel rendere pubblico ciò che si fa?”.

Passando ai turchi, seppur con difficoltà, lessi un libro di Orhan Pamuk, “Il mio nome è rosso”, ma vi trovai due frasi d’amore: “se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata, il mondo è ancora la tua casa” e “l’amore è la capacità di rendere visibile l’invisibile”.

Quindi terminai l’anno con “La bastarda di Istanbul” di Elif Shafak che sconsolatamente mi fece arrivare al Capodanno: “la stragrande maggioranza delle persone non pensa e quelli che pensano non diventeranno mai la stragrande maggioranza (dal Manifesto Nichilista di Asya Kazanci)”.

Io, lo so, non diventerò mai la stragrande maggioranza, per cui continuo a pensare, e a scrivere.

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