Mikael Niemi “Musica rock da Vittula”
Corriere della Sera Boreali 21 euro 8,90
[A: 01/11/2018 – I: 21/02/2021 – T: 23/02/2021]
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[tit. or.: Popoulärmusik från Vittula;
ling. or.: svedese; pagine: 292; anno 2000]
Un interessante seppur datato libro dalla
duplice valenza: un’interessante prova dell’autore ed una immersione in una
regione del mondo in genere poco noto e molto bistrattata. Che noi, attenti ed
onnivori lettori, già conosciamo in parte per le saghe sami scritte dal
francese Olivier Truc.
La ragione infatti è un territorio, ora
legislativamente svedese, incuneato tra Svezia e Finlandia, con sia una
popolazione stanziale, insediata intorno alla città di Pajala (luogo natio di
Niemi), sia una popolazione nomade di prevalente origine lappone. Ma mentre dei
sami già qualcosa sappiamo, i residenti sono meno presenti in letteratura,
anche perché localmente c’è più che altro una tradizione orale.
In questa tradizione orale, Niemi, dopo
alcune prove poetiche, venti anni fa esce con questo romanzo di formazione di
giovani locali, utilizzando anche le tecniche proprie dell’oralità: un fluire
del narrato, a volte infarcito da iperboli improbabili quanto, soggettivamente,
sentite dal narratore. Ad esempio, quando si immagina bambino in un incredibile
ed increduta fuga tra treni e aerei per raggiungere la mitica e lontana Cina.
Una fantasia che di sicuro Matti, l’alter ego di Mikael, compirà nella vita
(come ci illustra il prologo narrato durante una escursione montana nepalese,
nel complesso dell’Annapurna, percorrendo quello che viene considerato il più
altro valico montano al mondo: il Thorung La a 5416 m, laddove io ho fatto
invece in Ladakh il più alto valico motorizzabile a “solo” 5359 m, cioè 57 di
meno), per poi tornare, con la testa prima che con il corpo, nella terra delle
renne.
E
con la testa, Matti ci racconta della sua infanzia e adolescenza, con i suoi
miti, i personaggi violenti, gli amici, le prime ragazze, e soprattutto quello
che sarà per lui e per pochi altra una chiave d’uscita: la musica.
Siamo
negli anni Sessanta (d’altro canto Mikael è del 1959), e seguiamo Matti in età
prescolare dedito alle fantasie boschive di tutti i ragazzi, ed all’incontro,
che segnerà gran parte della su vita, con il silenzioso Niila. I due giocano e
si immergono in quel paesaggio pieno solo “di zanzare, di imprecazioni in
finlandese e di comunisti”. Perché molti rimasero in zona, dopo la lunga e
forzosa permanenza sotto la Russia, e vedendo, da lontano e dal freddo, la
luminosa, proprio perché lontana, stella di Stalin.
I
nostri due eroi avranno uno shock culturale con l’inizio della scuola, dove,
loro abituato al dialetto locale, vengono costretti ad immergersi nello svedese
standard, e nei libri di testo che venivano dal sud, dalla Scania, pieni di
flora e fauna che lì al Nord mai era stata osservata.
Sarà
l’arrivo fortuito di un disco dalla vicina Inghilterra che salverà loro la
vita. Un disco dei Beatles, con il suo rock ingenuo e potente. Ed ecco che
Matti si mette in testa di suonare, inventandosi fantasiose chitarre. Ben
presto seguito da Niila, che si dedica, con poco successo alla chitarra
ritmica. La svolta nella band verrà prima con l’arrivo di Holgeri, il virtuoso
della chitarra solista, e poi con Erkki, improvvisato batterista arruolato
perché regge bene l’alcool. I quattro, tra rumori impossibili, mancanza di
accordo nell’attacco dei pezzi, ma una voglia sfrenata di suonare quel fracasso
di “popoulärmusik” riusciranno, bene o male, a non farsi travolgere completamente
dal mondo locale.
Un
mondo fatto di fanatici “laestadiani” (una branca luterana fondata dal pastore Lars
Levi Laestadius, morto proprio a Pajala) molto toccati dai problemi della
grazia e del peccato, in cui i nostri si barcamenano tra le prime esperienze
con l’altro sesso, matrimoni (e conseguenti risse) pantagruelici, financo
Campionati di Sbronza. Un mondo dove, di sicuro, il nostro Matti uscirà, non
sappiamo se vincente, ma di sicuro cosciente.
Quindi,
un altro libro di formazione, da collocare tra Salinger e Cameron, ben tradotto
da Katia De Marco che si è di sicuro trovata a barcamenarsi in una lingua che
non era solo svedese. Non sempre riuscito al meglio, ma io ne ritengo il posto,
laddove si parla di culture poco note, e di posti che ho visto, o quasi visto,
o che vedrò (ci rivedremo a Rovaniemi?).
La
stranezza dei luoghi impone di finire ricordando che la zona, il Tornedalen,
non solo ha una sua propria lingua, riconosciuta tra le lingue svedesi di
minoranza, ma fu teatro, verso la prima metà del 1700, di un esperimento
scientifico. Laddove una missione multinazionale, guidata dal francese
Maupertius e comprendente lo svedese Celsius (noto forse per altro) si recò
colà, per misurare la lunghezza di più di 100 km di un meridiano terrestre, e
dimostrando l’esattezza della teoria di Newton sull’appiattimento dei poli.
“Con
il passare degli anni mio nonno diventava sempre più solitario … ma fermare il
tempo non poteva e alla fine si avvicinò il giorno … in cui avrebbe compiuto
settant’anni.” (259) [un pupo]
[A: 31/12/2018
– I: 31/05/2021 – T: 02/06/2021] - &&&
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[tit.
or.: Juloratoriet; ling. or.: svedese; pagine: 362;
anno 1983]
Sono passati venti anni dalla morte di Göran Tunström
e quasi quaranta dalla scrittura di questo romanzo dall’immutato titolo “L’oratorio
di Natale”. Che finalmente Iperborea e l’ottimo Ferrari (nella traduzione e
nella postfazione) lasciano il titolo originale. Anche perché è giustamente
collegato al filo rosso della narrazione, quella cantata che Johann Sebastian
Bach compose intorno al 1734. Göran è stato uno scrittore non tanto prolifico,
la cui opera (secondo i critici visto che io ho letto solo questo libro) è
molto vicina al proprio vissuto.
Siccome non è mio costume entrare (troppo)
nel contesto, rilevo solo che lo scrittore ha sempre vissuto in un ambiente
molto letterario (il padre gli leggeva Thomas Mann di piccolo), ha innalzato la
sua contea natia a eponimo delle sue vicende (si tratta di Sunne nel Värmland),
anche perché aveva come vicina di casa Selma Lagerlöf. Verso la fine degli anni
’50 vive per qualche tempo sull’isola di Idra in Grecia dove diviene amico e
sodale di Leonard Cohen. Infine, a metà degli anni ’60, sposa Lena Birgitta
Cronqvist, artista e pittrice, una delle più alte figure svedesi
dell’espressionismo. Inciso: c’è un cammeo in un personaggio minore che si
chiama Birgitta e che dipinge. Un caso?
Libri, dipinti, musica, che convergono nella
sua opera (infatti, comincia con lo scrivere poesie), per poi diventare un
motivo di fondo, ed irrompere con questo romanzo sia sulla scena svedese (negli
anni ’80) sia in quella internazionale (negli anni ’90, quando ne fu tratto un
film diretto da Kjell-Åke Andersson).
Non è un caso che abbia scritto di musica, di
poesia, di espressionismo. Questo romanzo è un bel concentrato di tutto ciò,
cristallizzato appunto a quel titolo – filo rosso che irrompe già nelle prime
pagine, quando incontriamo il musicista Victor che vuole dirigerlo nella chiesa
principale di Sunne, e che ci segue dal flashback narrativo, che ci riporta
agli anni ’30, a Solveig (che scopriremo essere la nonna di Victor), alla sua
forza di volontà che spinge la comunità di Sunne a studiare per dieci anni
l’oratorio. Senza che si riesca a farlo, che Solveig pochi giorni prima della
prima muore cadendo dalla biciletta. E l’oratorio non si canterà.
Il libro, in fondo, è una grande saga
familiare, che attraversa tre generazioni dei Nordensson: Aron, Sidner e
Victor. Saltando l’introduzione, vediamo la morte di Solveig, e seguiamo gli
anni della disperazione di Aron. Lui e i suoi due figli, Sidner ed Eva-Liisa,
lasciano i campi, si trasferiscono a Sunne, dove Aron trova lavoro presso un
Hotel. Diventa il dispensatore di liquori in quanto astemio, ci sono vicende
collaterali poco significative (anche se attinenti), ma il fatto è che Aron non
riesce ad elaborare il lutto per Solveig, la vede in ogni dove. Casualmente,
diventa amico di penna di una donna non a caso all’altro capo del mondo: Tessa
Schneiderman della Nuova Zelanda. Tessa si innamora di Aron mentre Aron pensa
che Tessa e Solveig siano la stessa persona. Parte senza pensarci verso la Nuova
Zelanda, ma sulla nave ha la rivelazione che Solveig è veramente morta. Allora,
si toglie la vita saltando in mare.
Intanto, in Sunne, Sidner cresce. Ha un
grande amico di nome Splendid (che da grande sposerà la sorella), si
intrattiene spesso (nella vita e nei sogni) con la vicina di casa Selma Lagerlöf.
Ha poi una notte d’amore con una donna più grande di lui di nome Fanny. E da
quella notte nasce un bimbo, il futuro Victor. Ma Fanny, pur amando Sidner, per
una serie di motivi che leggerete, lo tiene a distanza. Tanto che Sidner esce
fuori di testa, e per non impazzire comincia a tenere un diario che farà
leggere a Victor da grande, per farlo entrare nei “misteri” della famiglia. Un
libro dal bellissimo titolo “Sulle carezze”.
Ma Sidner impazzisce, viene ricoverato a
lungo in ospedale psichiatrico, per poi uscirne e decidere di andare anche lui
in Nuova Zelanda, alla ricerca di Tessa. Che alla fine (dopo peripezie ed altro
che vi lascio leggere), la trova, salva anche lei dalla follia, e (sembra)
riusciranno a costruire una vita insieme.
Intanto vediamo crescere Victor sotto le
gonne di Fanny e lontano da Sidner. In un momento letterario molto omerico. Con
Victor nei panni di Telemaco e Fanny in quelle di Penelope. Quando
Sidner-Ulisse torna (seppur per poco), Telemaco riesce a staccarsi da Fanny,
riesce a cercare il suo ruolo nella vita. Che sarà un ritorno alle origini, un
ritorno alla musica.
Così che finalmente potrà chiudere il
cerchio, eseguendo l’Oratorio di Natale come voleva nonna Solveig cinquanta
anni prima.
Questo “romanzo popolare” alla fine è pieno
di citazioni altre. Ad esempio, è diviso in sei parti (se escludiamo le carezze
di Sidner), così come in sei parti è composto l’oratorio di Bach (e magari un
musicista più aduso di me, potrebbe fare un parallelo tra le cantate delle
parti e lo scritto). Ma poi ci sono citazioni di Dante nella prima parte
(l’inizio della Commedia), citazione di Petrarca nel mezzo (quando si cerca
pace lontano dai trambusti cittadini), e Omero in finale durante le attese di Telemaco.
Se poi volessimo cercarne altre, come dimenticare il sorriso di Eva-Liisa che
sbuca tra la siepe come il gatto del Cheshire dall’Alice di Lewis Carroll.
Insomma, c’è tanto nel libro. Ma soprattutto
c’è la ricerca di uscire dal dolore. Come si potrà fare? E si potrà fare,
soprattutto? Göran sembra dirci che solo capendo quali siano i nostri più
profondi interessi, solo abbandonando l’inutile, è possibile non tanto superare
il dolore, ma conviverci. Non si dimentica, non è possibile. Ma tutto, anche il
dolore, anche la morte, è dentro il nostro io. Solo nel suo sfruttamento
globale potremmo essere.
Non mi ha stravolto, in fondo, anche forse
per essere a volte troppo cerebrale, un po’ costruito. Ma l’ho gradevolmente
letto.
Una sola domanda finale: perché a pagina 248
si dice che il 1° luglio del 1939 era domenica, quando invece è facile risalire
al fatto che sia stato un sabato? Mistero!
“Volevi
sapere com’è scrivere un libro. È faticoso, ecco com’è! È come costringersi ad
attraversare un deserto: vaste distese senza una sola goccia d’acqua, senza un
albero sotto cui riposare. Poi però arrivi a un’oasi: lì la parola fluisce … e
la penna vola sulla carta.” (228)
“Una
parte dell’amore consiste nella sincerità. Se vivessimo insieme come potremmo
raccontarci tutto?” (243)
Peter Fröberg Idling “Il sorriso di Pol
Pot” Corriere della Sera Boreali 28 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 30/06/2021 – T: 02/07/2021]
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[tit. or.: Pol Pots leende; ling. or.: svedese; pagine: 286; anno 2006]
In
effetti, sono abbastanza perplesso sulla collocazione di questo libro. Che non
è un saggio, ma non è neanche un romanzo. Gli inglesi lo etichettano come
“literary non fiction” (che si potrebbe tradurre come “saggistica letteraria”).
Dato che contiene tutta una serie di considerazioni, descrizioni e rimandi da
saggio sulla Cambogia (e su molto altro, poi vediamo). Ma contiene anche
passaggi letterari, incursioni in possibili scenari, ricordi personali.
Insomma, è un po’ un crogiolo di diverse forme e stili. Che tuttavia alla fine
risulta interessante, ben scritto, decisamente documentato, e pervaso da un
sincero amore verso la Cambogia.
Una
nazione che, personalmente, ho visitato già quattro volte, anche se per la
maggior parte transitando solo per il bellissimo sito di Angkor Wat. Solo
l’ultima visita, quattro anni fa, mi ha portato anche nella capitale e
nell’isola di Koh Rong di fronte a Sihanoukville. Con dei ricordi bellissimi,
sia dei bei posti, sia dei siti che cita anche l’autore. Non entro qui nel
merito della discussione, se ne parlerà più avanti, ma ho dei carissimi amici a
Siem Reap che spero di andare a ritrovare, prima o poi.
Tutto
comincia, nelle parole di Peter (mi consento di chiamarlo per nome che il
cognome è assai complicato), nell’agosto del 1978. Quattro osservatori dell’Associazione
di Amicizia Svezia-Kampuchea compiono un viaggio in Cambogia per sostenere la
rivoluzione iniziata da un personaggio poco noto all’epoca (e solo tristemente
famoso poi): Pol Pot. Misterioso anche nel nome, che il vero nome è Saloth Sậr,
e questo mascheramento pare venga dall’abbreviazione del francese “Politique
Potential”, che Saloth a lungo visse in Francia, entrando in quel tempo in
contatto con il comunismo e con Sartre. Gli svedesi alla fine scriveranno un
libro, produrranno un film, ma da nessuna testimonianza viene alla ribalta
quali siano, realmente, le condizioni di vita della gente sotto il regime
instaurato dai khmer rossi.
Peter
cerca di comprendere la genesi e la realizzazione di tale inganno attraverso
una ricostruzione che si svolge su tanti piani: ovviamente la descrizione di
cosa fecero gli svedesi allora, e di quali siano ora, trenta anni dopo, le loro
sensazioni; ma anche un ripercorrere la vita di Pol Pot, di ricostruire la
storia della Cambogia dal dopoguerra in poi, non mancando, ovvio, accenni e
rimandi al contemporaneo sviluppo della storia in Europa ed in Svezia.
Peter
sembra quasi uno scrittore di un giallo: crea ad arte misteri sulla delegazione
svedese, sui suoi componenti, sul marito cambogiano di una di loro, semina
indizi a sorpresa, intervista tutto l’intervistabile. Che ad esempio, il capo
delegazione, Jan Myrdal, si rifiuta di riceverlo. Ma si reca anche in Cambogia,
ci vive a lungo, ne impara la lingua per comunicare meglio e senza
intermediari. Ripercorre le tappe della delegazione, incontra le persone che
loro incontrarono, e che sono ancora in vita.
Giustamente,
dal mio punto di vista, non risparmia critiche a nessuno. Si scaglia contro i
feroci bombardamenti americani in Indocina, ed ai loro meschini tentativi di
destabilizzare l’area, stigmatizza il vanitoso ed egocentrico principe Sihanouk,
traccia un breve schizzo del crudele dittatore Lon Nol (quello di cui Kissinger
disse che l’unica cosa che sapeva di lui è che fosse un palindromo), punta
anche il dito al periodo di invasione vietnamita, che non può giustificare o
salvare. Ed ovviamente, sempre al centro, ma mai personaggio centrale, lo
sfuggente Pol Pot, con quell’unico sorriso che gli viene dalle poco foto
rimaste, inflessibile nel portare avanti una politica totalmente corretta dal
punto di vista teorica, totalmente sbagliata e fallimentare nella sua
realizzazione pratica.
Il
risultato, senza che io abbia voglia di entrare nei meandri della storia, e
spingendovi a leggerne, se non conoscete quel periodo, è un’opera policroma,
che ci rappresenta uno spaccato forte degli anni ’75-’80. Non risponde alla
domanda iniziale se la delegazione non ha voluto vedere o se Pol Pot è stato
abile, come lo sono spesso i dittatori (leggi Ceausescu, ad esempio) nel
mascherare la realtà. È un inganno frequente, senza vinti né vincitori, ma che
ci consegna un’unica direttiva fondamentale: ribellarsi, sempre e comunque, a
qualsiasi dittatura.
Neanche
io entrerò in questa diatriba, se non per la parte appena detta
anti-dittatoriale. E nell’invito a visitare, ora, appena possibile, quei
luoghi. Penso che chi li ha visti con me sia d’accordo.
Kjell Westö “Miraggio
1938” Corriere della Sera Boreali 26 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)
[A: 31/12/2018 – I: 10/07/2021 – T: 13/07/2021]
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[tit. or.: Hägring 38; ling. or.: svedese; pagine: 331; anno 2013]
E con
questo siamo alla fine. Ultima lettura del ciclo di letterature scandinave,
ultima ma di certo in forte risalita rispetto ad alcune uscite oserei dire
puramente dignitose. Intanto, il primo elemento che fa colpo è l’identità
sociale dello scrittore. Perché Westö è finlandese, ma di origini svedesi.
Forse non a molti è nota la storica vicissitudine della Scandinavia, che per
secoli è stata divisa in modi diversi tra loro e diversi dall’attuale. Fatto
sta che ora, nel nostro presente storico, dobbiamo rilevare che, all’interno
della Finlandia c’è una nutrita comunità di origini svedesi, che tuttora parla
svedese. Tant’è che Westö in svedese scrive.
Il romanzo, il miraggio che lo pervade, è
l’illusione che nel 1938 tutto possa ancora essere fatto, tutto possa svolgersi
in modo normale, nella vita “normale” di una comunità minoritaria all’interno
di una nazione ancora non completamente solida. Certo, noi poco si sa delle
vicende storiche finlandesi, ma questo è un libro che, parlando di fatti
minuti, ci invoglia a studiare la grande Storia. Dove verremmo a sapere che la
Finlandia diventa indipendente solo nel 1917, a seguito della Rivoluzione
Russa, che fino ad allora era una parte della Russia zarista. Subito dopo,
nasce una feroce guerra civile tra i Rossi, che volevano una socialdemocrazia
filosovietica, ed i Bianchi che, temendo la fine dell’indipendenza, avevano un
atteggiamento filotedesco. Vincono i Bianchi, ma la sconfitta della Germania fa
sì che debbano cambiare bandiera rivolgendosi ai vincitori della Guerra. Ma le
ferite di quella guerra civile, a lungo durano nel tessuto sociale. Anche
perché, appunto, una forte minoranza di lingua svedese (pari a circa il 10%
della popolazione del tempo) rimane ingabbiata nel territorio alieno.
Questo è il quadro sociale in cui si svolge
la narrazione. Dove Westö usa un fuori testo per esemplificarlo.
Nel 1940 si sarebbero dovute svolgere le Olimpiadi ad Helsinki (poi cancellate
per la guerra). Nel ’38 si cominciava a fare le selezioni, ed in una gara per i
cento metri, vediamo (in foto) la netta vittoria del finnico-svedese Abraham
Tokazier, che però, nel reperto di gara viene classificato quarto. Perché
Abraham è anche ebreo, e la presenza di giudici tedeschi fa sì che i finlandesi
snaturano la gara. Solo nel 2013 verrà ripristinata la verità. Ma l’episodio
serve a Westö per immergerci nel clima lacerante di quegli anni.
La
vicenda, poi, ha due protagonisti, voci narranti alternate. L'avvocato
Claes Thune e la sua segretaria Matilda Wiik. Thune, in profonda crisi personale,
lasciato dalla moglie Gabi di cui è ancora innamorato, trascorre un po’
apaticamente la propria vita. Ha solo momenti di socializzazione incontrando i
suoi vecchi amici il primo mercoledì di ogni mese. Gli amici in realtà sono lì
per bere (e molto) ma anche per discutere i problemi sociali che stanno
vivendo. E come i momenti politici si fanno acuti, anche gli amici si schiarano
su orientamenti diversi: il medico Arelius, amante del potere, e l'imprenditore
opportunista Grönroos, si orientano verso l'estrema destra. Mentre Thune e lo
psichiatra Lindemark, ora fidanzato con Gabi, sono l’anima liberal del gruppo.
In mezzo, variante incontrollata, l’attore ebreo Joachim Jary, zio del
velocista di cui all’inizio.
Gli amici erano scampati alla guerra civile.
Ora sono ricchi borghesi, medici, avvocati, in poche parole benestanti, e
sebbene divisi dalla politica, sembrano aver dimenticato le cicatrici della
guerra. Finché si inserisce nel quadro Matilda la segretaria di Thune,
efficiente, assidua, ma con qualche punto oscuro alle spalle. Punto che viene
allo scoperto quando lei casualmente senta i sei amici parlare, e riconosce la
voce di uno di loro, come il suo tormentatore (e forse anche di più) durante la
guerra. Si innesta così, sul filone sociale, anche una punta di noir, sebbene a
noi attenti lettori sia ben chiaro chi sia il “Capitano”.
L’interesse del racconto, tuttavia, è proprio
nell’analisi del mutare delle relazioni tra le persone quando il contorno in
cui fino ad allora si muovevano viene a mutare. Una descrizione valida ovunque
nel tempo. Anche qui ed ora.
Quindi, leggiamolo questo libro, con un
occhio al passato ed un orecchio al presente.
“Intuiva
di non essere né focoso né resistente. La sua unica possibilità di far colpo
sulle donne era riposta nell’intelletto e nel fatto di saper ascoltare.” (84)
Terza trama di novembre, dove non avendo
libri che portano direttamente la felicità, vi dovrete accontentare della
felicità che portano i miei ricordi citanti.
Come dicevo il mese scorso, anni fa abbiamo cominciato un viaggio facendo il primo passo. Ora di passi ne abbiamo fatti tanti, e molti tratti sono stati difficili. Ed altri lo saranno in futuro. Amici ci lasciano, ed amici vengono, e ritornano. Tutti accomunati dai miei abbracci.
Citazioni dagli appunti di
Giovanni
Citazioni di novembre
Siamo
a novembre, ci si attendeva pioggia e freddo, ed invece siamo ancora qui a cogliere
i prodotti dell’orto. Godendo del nostro buen retiro ciminese. Così che si può
riflettere sulle letture di tredici anni fa, un anno molto intenso. Dico solo
che è cominciato con la morte di mio padre, un lutto che non è stato facile
assorbire.
Allora,
eccoci a ripassare i suggerimenti che mi ha lasciato l’ultimo trimestre di
quell’anno.
Il primo che
incontro è Sandro Veronesi che, in un corto del Corriere della sera, “Il ventre
della macchina” mi ammoniva sui rischi di essere “troppo” buono: “perché ora so di essere un uomo buono e l’uomo buono,
ho scoperto, non paga i propri conti con la moneta della fedeltà”.
A fine ottobre, poi, affrontai una lunga lettura di un
autrice che mi ha dato sempre buone sensazioni, la giapponese Banana Yoshimoto. Nel
primo libro, “Il coperchio del
mare”, da un lato mi forniva un
suggerimento ecologico: “se non siamo in grado di conservare le cose
belle del nostro paese, come facciamo a percepire la continuità?”. Dall’altro,
invece, al solito, mi faceva riflettere su delle cose la cui verità avrei
ritrovato da lì a qualche anno. Il primo sui sogni, che non debbono mai
lasciarci: “quando si insegue un sogno tutto sembra bello e carico di energia,
proprio come quando si è innamorati”. Il secondo sul rispetto verso gli altri,
tutti gli altri: “le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel
terrore, desiderano solo essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti
rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno devi modificarlo”.
Il terzo è un ammonimento che, ora, posso dire è vero fino in fondo: “le cose
avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più
niente da fare”. L’ultimo ve lo lascio così, per riflettere anche voi: “a volte
il semplice fatto di stare con una persona ti aiuta a crescere”.
Il
secondo libro, ottenuto da un gradito regalo, si intitola “Chie-chan e io”. È veramente
un breve compendio di due fatti, a volte in conflitto, ma presenti nelle nostre
esistenze. L’amore, ovviamente. Ma anche la morte come lascito, e come un
qualcosa che dovremmo affrontare, non dico con gioia, che non ci si potrà mai
riuscire, ma con il massimo della serenità. Ecco cosa diceva sul rapporto tra
due persone, anche sul momento in cui nasce un rapporto: “nei momenti
più impensati si trovano le risposte più impensate”; “le era estranea
l’abitudine di parlare con disinvoltura a persone che non conosceva”; “certe
cose si percepiscono anche senza parlare”; “si può aiutare qualcuno nelle cose
quotidiane, si può pregare, si può vigilare. Ma non si può cambiare il corso
della sua vita. In verità, non si può fare niente neanche con la propria”; “il
silenzio a volte ci svela qualcosa che esiste fra due persone”. E se qualcuno
ci lascia, pensiamo che “anche nei giorni in cui arriva una cattiva notizia può
accadere qualcosa di buono”. Oppure pensiamo con dolcezza all’incontro “avevo
paura di aver bisogno di qualcuno al punto di non poter vivere se quella
persona fosse venuta a mancare”. Banana mi pungolava anche sulla mia scarsa (al
tempo) voglia di crescere: “decidere è una cosa che fanno gli adulti … e per
questo non volevo mai prendere nessuna decisione”.
Finendo poi con un’esortazione che ora grido ad alta
voce: “Guarda che se starai a lungo con me ti divertirai!”.
Ad inizio novembre, passai a trame più leggere. Come uno
strano giallo del compianto Gianni Mura.
Ambientato durante un tour de
France, dal ricorrente titolo
“Giallo su giallo”. Ma a me
ricordava la mia giovinezza parigina: “ci ho dormito un mese a Tours,
una mansarda al quarto piano senza ascensore … Ho lavato i piatti … sono
entrato vestito in una fontana … mi avevano detto che il miglior francese si
parla in Touraine e mi ero iscritto ad un corso estivo… a quei tempi scrivevo
cazzate per dimostrare la padronanza della lingua … ‘un tour autour des tours des
Tours’, cui rispondeva inquietante il professor Certin ‘Constant ta tante
t’attend dans ta tente’".
Un altro libro di una leggerezza inquietante fu “Amore, bugie & calcetto” dell’a me sempre poco noto Fabio Bonifacci. Anche qui si parlava di sport (e amore), ma
io mi ritrovavo nella figura di Piero che “come i grandi filosofi e i
matti, pensava meglio camminando”.
Una diversa lettura che comunque consiglio, che l’autore
raramente mi ha deluso, è “Una visita
guidata” di Alan Bennett. Che parlando d’altro mi ha dato la chiave di tutte queste mie citazioni: “a
volte, leggendo … ci imbattiamo in un pensiero o in un sentimento che abbiamo
provato anche noi: però non ne avevamo mai parlato con nessuno, credendo che si
trattasse di un fatto personale. Poi lo troviamo lì nero su bianco, ed è come
se l’autore ci avesse teso la mano”.
La fine di novembre consegnò alle mie carte tre autori
ed i loro pensieri sulla (mia) vita. C’era Corrado
Augias che in “Quel treno da Vienna” diceva due cose: “perché ti penti così
spesso di ciò che fai?” e “non sono… in grado di mettere a frutto i miei
difetti, e le mie virtù … mi servono soltanto per continuare a vivere”.
Poi c’era Luciano
De Crescenzo che in un racconto sul
Corriere, “Monnezza e libertà”, suggeriva in dialetto: “guaglio’,
colle femmene ce vole ‘o tiempo”. E c’era il medico Andrea Vitali in uno dei
tanti libri della saga di Bellano,
“La figlia del podestà”, suggellava
così l’esistenza: “è l’amore che fa la differenza”,
Ad inizio dicembre, passai del tempo con autori
italiani poco letti, che pensano e mi rimandano pensieri sulle storie, come la
mia amica Rosa, e sulla vita.
Iniziando da “Il
circo capovolto” di Milena Magnani: “quando si ascolta una favola,
non ci si deve chiedere mai se la vicenda di cui si parla è vera o falsa. Una
favola, l’unica cosa che chiede, è di poter rimanere nel cuore di chi ascolta”
e proseguendo con “Il resto di niente” di Enzo Striano: “Quando una persona non ha scopo per vivere, spegne
lentamente la fiamma dell’animo”.
Mentre quel Natale, laddove stavo preparando un
viaggio per non ricordo dove, passai ad una serie di autori arabi e turchi. Per
i primi estrapolai una frase di Sélim
Nassib da “L’amante palestinese”: “ciò che hai
dentro è più forte di te … È ora che tu decida cosa vuoi fare della tua vita”. E
due da “La prova del miele” di Salwa Al-Neimi: “le risposte, come le storie, arrivano da sole, con
i loro tempi” e “lo scandalo sta nel fare qualcosa o nel rendere pubblico ciò
che si fa?”.
Passando ai turchi, seppur con difficoltà, lessi un
libro di Orhan Pamuk, “Il mio nome è
rosso”, ma vi trovai due frasi d’amore:
“se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata,
il mondo è ancora la tua casa” e “l’amore è la capacità di rendere visibile
l’invisibile”.
Quindi terminai l’anno con “La bastarda di Istanbul” di
Elif Shafak che sconsolatamente mi fece arrivare al
Capodanno: “la stragrande maggioranza delle persone non pensa e quelli
che pensano non diventeranno mai la stragrande maggioranza (dal Manifesto
Nichilista di Asya Kazanci)”.
Io, lo so, non diventerò mai la stragrande
maggioranza, per cui continuo a pensare, e a scrivere.
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