domenica 9 gennaio 2022

Chi legge è un viaggiatore - 09 gennaio 2022

Con un po’ di ritardo rispetto all’usuale prima domenica dell’anno, dovuta proprio ad una parte del titolo, saluto i miei vecchi lettori, e quelli nuovi, cui spero non dispiaccia questa irruzione nelle vite altrui.

Vista l’introduzione, non possiamo quindi che modificare anche altre piccole cose, anche questa introduzione annuale. Non vi tedio sui libri letti, sulle pagine compulsate, ed altre numericità buone solo a far statistiche (poi a chi fosse curioso, basta visitare il sito online che riporta tutte le mie paturnie degli ultimi quindici anni (http://www.anobii.com/gio53/books).

Ci immergiamo invece in due elenchi che, al solito, rimarranno invece nelle introduzioni, sia mensili che annuali.

La prima è un classico, il mio “TOP OF THE YEAR 2021”, che in genere si ferma ai 30 titoli, ma considerando i pari merito, quest’anno ci allarghiamo sino a … 32 menzioni. Ricordo che lo “smile” è un mio voto che va dal 5 (imperdibile) all’1 (si può evitare di leggerlo). Dove, a parte l’ottimo libretto sul ghetto di Roma, ci sono altri titoli di autori ben noti ed alcune letture che segnalo: la guerra nel Kossovo di Elvira Dones, alcuni scandinavi di buona lettura (Nooteboom, Tunström, Hansen, Hotakainen e Henriksen), nonché la segnalazione del mio amico Raul della coreana Han Kang, e quella per i miei amici cinefili del libro su Orson Wells.

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Giacomo Debenedetti

16 ottobre 1943

Einaudi

9,50

5

2

Fabio Stassi

La lettrice scomparsa

Sellerio

14

4

3

Elvira Dones

Piccola guerra perfetta

Repubblica Mondo

9,90

4

4

Umberto Eco

La bellezza

Repubblica

s.p.

4

5

Umberto Eco

Perché i libri allungano la vita

Repubblica

s.p.

4

6

Cees Nooteboom

Addio

Iperborea

11

4

7

Friedrich Dürrenmatt

Minotauro

Adelphi

10

4

8

Colin Dexter

L’ispettore Morse. Volume II

Sellerio

22

4

9

Fernando Aramburu

Patria

Repubblica Mondo

9,90

4

10

Leonardo Sciascia

“Questo non è un racconto”

Adelphi

13

4

11

Georges Simenon

La testimonianza del chierichetto

Repubblica Investigatori

s.p.

4

12

Paul Auster

Follie di Brooklyn

Repubblica New York

9,90

4

13

Luca Crovi

Storia del giallo italiano

Marsilio

19

4

14

Gabriele Romagnoli

Senza fine

Feltrinelli

11,50

4

15

Roberto Calasso

Allucinazioni americane

Adelphi

14

4

16

‘Ala al-Aswani

Sono corso verso il Nilo

Repubblica Mondo

9,90

4

17

Göran Tunström

L’oratorio di Natale

Corriere Boreali

9,90

3,5

18

Thorkild Hansen

Arabia Felix

Corriere Boreali

9,90

3,5

19

Peter Biskind

A pranzo con Orson

Adelphi

13

3,5

20

Colum McCann

Questo bacio vada al mondo intero

Repubblica NewYork

9,90

3,5

21

Kari Hotakainen

Via della Trincea

Corriere Boreali

8,90

3,5

22

Eskhol Nevo

La simmetria dei desideri

Neri Pozza

s.p.

3,5

23

Han Kang

La vegetariana

Repubblica Mondo

9,90

3,5

24

Pınar Selek

La casa sul Bosforo

Repubblica Mondo

9,90

3,5

25

Aharon Appelfeld

L’immortale Bartfuss

Guanda

16

3,5

26

Emanuele Trevi

Due vite

Neri Pozza

s.p.

3,5

27

Levi Henriksen

Norwegian Blues

Corriere Boreali

9,90

3,5

28

Paco Nadal

Il viaggio perfetto

Newton Compton

s.p.

3,5

29

Guillaume Musso

Un appartamento a Parigi

Repubblica Noir

7,90

3,5

30

Massimo Bontempelli

Gente nel tempo

Utopia

16

3,5

31

Shirin Ebadi

La gabbia d’oro

Repubblica Mondo

9,90

3,5

32

Jean-Yves Ferri & Didier Conrad

Asterix e il Grifone

Panini

s.p.

3,5

Il secondo elenco riguarda invece le letture del mese di ottobre, che sono state discrete in numero, ma poco significative in buoni suggerimenti. Molti voti bassi, nessun voto alto o più, tanto che il migliore è stato il libro comprato in Andalusia di Rosa Montero.  

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Edward St Aubyn

Senza parole

Repubblica Mondo

9,90

2,5

2

Fulvio Ervas

Pericolo giallo

Repubblica Noir

7,90

3

3

Manuela Costantini

Le scelte imperfette

Mondadori

5,90

2

4

Rosa Montero

La ridícula idea de no volver a verte

Planeta

7,95

3

5

Roberto Costantini

Tu sei il male

Feltrinelli

13

2,5

6

Clive Cussler & Boyd Morrison

La vendetta dell’imperatore

TEA

9,90

2

7

Guillermo Arriaga

Il bufalo della notte

Repubblica Mondo

9,90

2,5

8

Cecelia Ahern

P.S. I love you

RCS Media Group

8,90

2

9

Alberto Odone

La meccanica del delitto

Mondadori

6,50

1,5

10

Andrea Vitali

Le belle Cece

Corriere della Sera

7,90

2

11

Andrea Vitali

La verità della suora storta

Corriere della Sera

7,90

1,5

12

Thomas Tryon

L’altro

Fazi

16,50

1,5

13

Andrea Vitali

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti

Corriere della Sera

7,90

1

14

Daniel Alarcon

Radio città perduta

Repubblica Mondo

9,90

3

15

Timur Vermes

Lui è tornato

Repubblica Mondo

9,90

2,5

16

Francesco Recami

La cassa refrigerata – commedia nera n. 4

Sellerio

13

1

17

Philipp Meyer

Ruggine americana

Repubblica Mondo

9,90

2

 

Ma quest’anno devo recuperare anche molte letture accumulate in commenti e riassunti più o meno articolati. Per cui, non solo ne riporto anche in questa prima scrittura, ma passo dalle usuale quattro trame, alle cinque attuali, magari fino a ristabilire un buon rapporto nella mia lettura-scrittura.

La cinquina di questa settimana è tutta al femminile, ma anche qui senza troppa gloria, se non per due scrittrici collaudate come Djuna Barnes e Yasmina Reza.

Djuna Barnes “I racconti di Lydia Steptoe” Adelphi euro 5 (in realtà, scontato a 4,75 euro)

[A: 09/06/2021 – I: 10/06/2021 – T: 10/06/2021] - &&& +  

[tit. or.: The Lydia Steptoe Stories; ling. or.: inglese; pagine: 45; anno 1922-2019]

Djuna Barnes non è che sia tra le scrittrici più conosciute nel vasto panorama letteraria anglofono. Ringrazio quindi Robinson di aver segnalato questo agilissimo libricino Adelphi che riunisce tre cortissime storie scritte negli anni Venti dello scorso secolo (una per anno dal ’22 al ’24), pubblicate su riviste come Vanity Fair e solo nel 2019 riunite in un unico volume.

Inoltre, tanto per far confusione, edite con lo pseudonimo di Lydia Steptoe (non sono anglofilo, ma sembra che “steptoe” sia usato nello slang americano per indicare una montagna isolata circondata da lava vulcanica; e di certo Djuna isolata si è sempre sentita).

Djuna ha avuto una vita intensa, soprattutto nei suoi primi quarant’anni. Tra l’altro è vissuta palindromicamente (nata 1892, morta 1982). Prima dei trent’anni si trasferisce a Parigi, dove, tra le due guerre, vive un’intensa vita mondana e letteraria. Diventa amica dei maggiori personaggi del tempo, da James Joyce a Peggy Guggenheim, di T.S. Elliott e di Gertrude Stein. Ha una lunga e tormentata storia d’amore con Thelma Wood, una scultrice americana con cui condivise otto anni di passione. Intesa sia come passione amorosa, sia passione dolorosa, che Thelma la tradisce spesso e volentieri, mentre insieme poi abusano di alcool e droghe. Tanto che Djuna dipingerà la loro storia nel suo capolavoro “La foresta della notte”. Ma Thelma la presa male, passarono gli anni Trenta in litigi. Poi ognuno per la sua strada, ma Djuna allo scoppiare della Seconda Guerra mondiale, torna in America e fa vita ritirata.

In questi scritti per i suoi trent’anni, si cimenta in tre brevi, insofferenti diari che usano uno stile simile, con le storie che iniziano tra agosto e settembre, storie che durano al massimo un paio di mesi, storie che usano da sei a dodici voci di diario per concludersi. La terza di colpo, le prime due con una penultima voce leggermente più lunga, al fine di dare un senso alla storia.

Di certo sembrano tre proiezioni di Djuna in differenti stati d’animo, anche se tutti e tre portano appresso lo sforzo, la necessità di conoscersi, la voglia di vedere un segno di felicità nel mondo cattivo e crudele, in fondo, sempre, una volontà forte di essere amati.

Nel primo, “Diario di una bambina pericolosa”, una quattordicenne vuole crescere, vuole circuire l’amante della sorella, dice a sé stessa frasi del tipo: ““Sto discutendo con me stessa se mi metterò nelle mani di qualche brav'uomo e diventerò madre, o se diventerò lasciva”. La storia finisce male per lei, che al posto dell’amante, trova ad aspettarla la madre, da cui fugge sospirando: “Ho abbastanza cambiato idea. Scapperò e diventerò un ragazzo".

Nella seconda, “Diario di un fanciullo”, che assiste al disgregarsi del suo mondo familiare, che ammira incondizionatamente la madre, e che viene attirato nel bosco, con profferte lussuriose da una pretesa cugina, che in realtà è l’amante del padre. Come spesso laddove si mescolano i ruoli di scrittura e di sesso, risulta forse il più debole.

Dove invece nel terzo si inserisce in una piaga dolorosa della mentalità femminile. Fin dal titolo: “La signora sta invecchiando. Diario di un’età pericolosa”. Dove si torna a sentire la mano femminile della scrittura, attraverso la storia di una vedova quarantenne che si innamora di un uomo più giovane, si sente travolgere da una nuova giovinezza, che pensava di volere. Ma ne è spaventata, e non sa se rimanere o andare. Se ne senta il grido di dolore, quando afferma: "Una donna ha l'età che dimostra, un uomo quella che si sente". Se ne sente l’impossibilità di un’uscita positiva nel finale.

Non è una scrittrice che piaccia molto, anche perché i suoi scritti, relegati a quasi ottanta anni fa, non hanno più avuto una grande diffusione. Di certo, pur nella brevità di un genere che non amo, riesce a suscitare alcuni sentimenti che a volte non escono in opere più lunghe. Certo anche che sono scritti datati, che rasentano il secolo d’anzianità. Ma tra le pieghe dell’età e la polvere di mobili e giardini decrepiti, si sente ancora la voglia di vivere di questa forte personalità della prima metà del secolo scorso.

Comunque, interessante (e da leggere in quindici minuiti).

Yasmina Reza “Il dio del massacro” Adelphi euro 10

[A: 29/06/2021 – I: 29/06/2021 – T: 29/06/2021] &&&

[tit. or.: Le Dieu du Carnage; ling. or.: francese; anno 2007]

Non capita spesso di avere una seconda lettura, ma qui siamo caduti in un “buco nero”. Stavo aspettando che il principe finisse i controlli oculari, che si pensava durassero un paio d’ore. Alla terza, e senza notizie, cerco una libreria in zona Porta Pia, e da una ben fornita Mondadori, ripesco questo testo, che mi incuriosì dieci anni fa, e che mi è venuto l’uzzolo di rileggere.

E di confrontare le mie sensazioni. Non ho più grandi voglie di fare l’originale e di leggere in lingua, né mi interessa Polanski e la sua filmografia. Ma alcune cose vanno riprese e salvate.

Yasmina Reza (ovviamente un toro!) figlia di un iraniano ed un’ungherese entrambi rifugiati a Parigi, è un bell’esempio (e se hanno anche qui) di attrice, poi autrice, poi anche regista ed altro (forse quasi tutto, ma non docente). E che tanti premi ha ottenuto in patria e altrove.

Ma veniamo al testo (ed al contesto). È un pezzo di teatro, di quelli che si svolgono in un solo ambiente, anche scarnamente sceneggiato (una casa, forse dei divani). Lì sono riunite due coppie di genitori. Riunite dall’occasione di una lite forte che hanno avuto i loro rispettivi figli maschi sugli undici - dodici anni finita con Ferdinand, figlio degli ospitati, che ha dato una bastonata in bocca al figlio degli ospitanti.

Questi, Michel e Veronique, sono una coppia che si avvia al raggiungimento di una prima quasi agiata borghesia. Lui è un rivenditore di articoli casalinghi, un po’ rozzo e rude. Lei si definisce scrittrice (ha collaborato ad un libro sul Darfur) e si occupa di arte, volontariato, eclettica e inconcludente. Gli altri, Alain e Annette, sono invece pienamente borghesi e “puzzette”. Lui è avvocato e difende una grande industria farmaceutica in una “class action” per dei medicinali per anziani con innegabili effetti collaterali, e vive praticamente in simbiosi con il cellulare, cui si attacca anche per tutta la discussione tra le coppie. Lei si occupa di gestione patrimoniale, ma soprattutto del patrimonio del marito, e deve fare la moglie – mamma 24 ore al giorno.

La trama, se si vuole, è linearmente banale. Una specie di versione anni 2000 di “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Albee. Qui ora ci sono i figli che li mancavano. E non ci sono tradimenti “palesi”. Ma come non riconoscere l’escalation che da una pacifica (almeno all’apparenza) discussione sulle malefatte (anche gravi, se vogliamo) dei figli, mette tutto in discussione. Il rapporto interno tra le coppie. Le diverse personalità. Le meschinità. Il razzismo. E chi più ne ha più ne metta.

Michael ha l’ansia del parvenu e le tipiche incapacità di capire le situazioni (continuando a volte a raccontare barzellette che nessuno capisce, di berlusconiana memoria). Veronique un po’ si sente in colpa per un tal marito non “culturalmente” all’altezza, e di conseguenza vorrebbe volare alto, in una casa dove appunto la cultura non sembra essere compresa. Alain e Annette fanno specularmente lo stesso. Lui è insopportabile con la sua presupponenza ed il suo cellulare (tanto che ci si aspetta un applauso a scena aperta, quando Annette glielo butta nel vaso pieno d’acqua). Lei è insicura, succube del marito, e di un ménage familiare tutto sulle sue spalle.

E questa spirale monta, mostrando anche la completa incapacità di tutti nel rapportarsi con i figli, nel cercare di capirli, ne fanno solo un esempio in minore della vita che loro vivono, giustificandone tutto, anche gli eccessi. Alla fine, come non trovare un collegamento sul filo della musica. Lì, nella Virginia Woolf, si cantava dei porcellini e del lupo cattivo (“Who’s afraid of the Big Bad Wolf?”). Qui siamo a Parigi, ed allora si cita Paolo Conte e la sua “Vieni via con me” (Alain chiama Chips la moglie, dal refrain “chips, chips, dudududu chi bum chi bum”). E per tenere il passo, Michel chiama Darji la sua Veronique, abbreviazione di Darjiling, regione indiana che ha visto il loro viaggio di nozze.

Certo la Reza è ben abile nel passare tra i vari registri, nel salire e scendere, sempre usando un linguaggio molto piano, molto accattivante. E ci fa vedere velocemente banalità e ipocrisie, che ben rappresentano questi anni privi di etica (sia quelli della scrittura, nel 2007, sia quelli di questi rilettura post-pandemica).

Un testo che andrebbe recitato alternandolo ad un saggio di Baumann sulla moderna vita liquida. Che i nostri eroi ne sono i campioni e gli epigoni. Si adattano al mondo moderno, senza criticarlo, senza capirlo, cercando solo di rimanere a galla. Conclusione senza speranza, che non un moto di ribellione si porta a compimento, ma tutto rientra, tutto svanisce nel nulla della falsità. Rimane solo questo Dio del Massacro (o della Carneficina, come sarebbe la traduzione più aderente all’originale) che, contrastando solidarietà ed etica, rimane l’unico attore della vita dei protagonisti.

Una bella foto ma un po’ deludente. Mi aspettavo di meglio, anche se questa rilettura decennale ci fa vedere come ancora siano immutate le storture della vita moderna. Che neanche questi mesi di coprifuoco sono riusciti a raddrizzare.

“I figli ci portano alla rovina … Ho …  [un amico] che sta per avere un figlio da una nuova ragazza. Gli ho detto, un figlio alla nostra età, che follia! I dieci, quindici anni decenti che ci restano prima del cancro o dell’infarto vuoi romperti le palle con un marmocchio?” (67)

“Non si confondono vittime e carnefici.” (85)

Imma Vitelli “La guerra di Nina” Longanesi euro 16,90 (in realtà, scontato a 16,05 euro)

[A: 01/05/2021 – I: 02/07/2021 – T: 04/07/2021] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 304; anno: 2021]

Altra entrata estemporanea, dovuta ad una pressante richiesta amicale, che poi troverò riportata nei ringraziamenti e nelle virgole. Si legge velocemente, essendo scritta da una giornalista che sa di sicuro usar bene la penna e la testa. Purtroppo, tuttavia, non è riuscita ad entrare nel mio io profondo. Non mi ha scosso come poteva essere dato l’argomento. C’è di certo orrore ed altro, ma mi ha ferito di più la “Piccola guerra perfetta” di Elvira Dones (e vi rimando a cosa ne ho scritto). Pur se è un teatro di guerra che ben conosco e che mi ha ferito leggere.

Imma Vitelli, giornalista dalla bella penna (leggete i suoi reportage e concorderete con me), parte proprio dalle sue personali esperienze di corrispondente di guerra, e ne scrive e ne traspone, portandoci al centro di una guerra assurda e reale, nel pieno di quel 2013 in cui bande di idee opposte cercano di coalizzarsi per provocare la caduta di Bashar al Assad, dittatore siriano, seguendo le vicissitudini di Nina, reporter italiana non ancora trentenne.

Nina faceva tirocinio presso giornali senza avere uno sbocco reale alla propria vita. Decide di mollare tutto, e di trasferirsi a Beirut, vicino alle zone più turbolenti del momento. Lì conosce ed imbastisce una potente storia d’amore con Omar, un fotografo di guerra siriano, con alcune luci ma anche tante ombre sulle spalle. L’amore è forte, coinvolgente, totale, tanto che Nina, contro tutte le ragioni, convince Omar a tornare in Siria, nella Aleppo della sua infanzia.

Omar usa la sua macchina fotografica come un’arma per immortalare il dramma di un popolo alla ricerca della propria libertà. Ma sarà anche coinvolto dalle vicende private che vengono da lontano, e che non si sono ancora sanate, e probabilmente non si saneranno mai.

Nina, da parte sua, usa il suo tempo per incontrare persone dalla vita intensa e dalla personalità potente. Incontra Khaled, lottatore per la libertà e per i diritti civili, in guerra anche personale con le forze governative che gli uccisero il fratello. Era una manifestazione pacifica, ma l’esercito sparò ad altezza uomo. Incontra Amal, donna laica ed indipendente, di sicuro non in linea con l’immagine che di una donna vogliono dare le rigide direttive islamiche. Incontra Walid, che sogna di diventare kamikaze, lui bambino di tredici anni, per vendicare l’assurda morte del padre. ma soprattutto, il 16 agosto, tre giorni dopo essere entrata in Siria, incontra una banda di cosiddetta guerriglieri, che rapiscono “l’italiana”.

Si entra a questo punto anche in una diversa dimensione di guerra, da un lato scoprendo le sofferenze del rapimento in zona di guerra, dall’altra le contraddizioni di chi, pur non condividendone la possibilità, deve assoggettarsi a veder pagato un riscatto dal governo italiano per riacquistare la propria libertà. E sarà proprio nella prigionia (ben descritta, tanto che ci si sente prigionieri con Nina) che scoprirà come dietro agli ideali di cui si era parlato quando non c’erano costrizioni, i proclami di tutti, del governo, degli oppositori, dell’Isis, ci sono anche altre cose. Ci sono faide che vengono da lontano, ci sono vendette personali durissime.

Ci sarà una soluzione ad alcune situazioni, ma la vicenda non potrà che imporre un prezzo molto alto a Nina, e soprattutto al suo rapporto con Omar. Non vi dico altro, che ci saranno scoperte da fare, e non tutte piacevoli.

La capacità della scrittrice è stata di far convergere sul simbolo Nina molte donne, o meglio molte facce di una donna. Il lavoro di reporter, la donna nella vita di ogni giorno, i ricordi d’infanzia, l’amante appassionata, la moglie in potenza. Nina ha una forte empatia (la stessa immagino di Imma), e noi con lei. Le bombe, gli spari, tutta la guerra presente c’è ma non ha l’impatto che potrebbe, dovrebbe avere. E molti elementi vengono risolti più emozionalmente che politicamente. Confezionando il tutto in un prodotto interessante, ma con dei limiti. Anche se ne consiglio comunque la lettura.

Un solo ultimo punto mi rimane oscuro. A pagina 219 Nina parla dello Stock 84, definendolo “un liquore al cioccolato molto buono”. Sarò anziano, ma per me lo Stock 84 è un brandy italiano, con una gradazione non elevata, la cui unica nota di cioccolato è un profumo complesso mescolato ad altri (le solite note di vaniglia, ad esempio). Ma forse Imma pensava ad altri liquori. O era una licenza poetica?

Stefania Auci “L’inverno dei leoni” Nord euro 20 (in realtà, scontato a 17 euro)

[A: 22/05/2021 – I: 07/07/2021 – T: 11/07/2021] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 679; anno: 2021]

Immaginavo che l’autrice avesse steso un panorama completo della dinastia Florio, e, puntualmente, diviso in due volumi, ecco che si completa l’opera. Che avrebbe potuto essere pubblicata (anche se con evidenti problemi di marketing) come un unico volume in due tomi. Dal titolo, magari, di “I leoni di Sicilia: dall’estate all’inverno” (come dire, ascesa e caduta di una dinastia siciliana). Considerato come un tutto unico, possiamo dire che seguiamo la famiglia Florio per circa due secoli, dal 1799 al 1950. Dalla fuga dalla Calabria verso Palermo alla morte dell’ultimo Florio.

Questa seconda parte si raccorda alla prima attraverso il cardine costituito dalla morte di Vincenzo Florio nel 1868. Dove prende le redini della famiglia il figlio Ignazio e nasce il piccolo Ignazieddu, il secondogenito di Ignazio. Ci vorrà bel tempo prima che Ignazio jr entri compiutamente in azione. Ora è ancora il momento di Ignazio sr, è ancora il momento dell’ascesa della casata, in termini economici e sociali. Anche se molto si cresce sul vuoto, che Ignazio sr non sempre fonda le sue scelte su di un retroterra economico solidale, come i suoi predecessori.

Intanto aumentano le attività: la flotta navale, l’industria tessile, la produzione enologica del mitico Marsala Florio, l’incremento della produzione del tonno nella bellissima Favignana. Un’ascesa anche in campo nobiliare, che Ignazio sposa Giovanna D'Ondes Trigona, baronessa palermitana. Con questo, Ignazio entra nei salotti del potere, tanto che nel 1883 verrà anche nominato senatore del Regno.

Ma come dice il proverbio, “chi troppo in alto sale cade sovente…”. Infatti, cominciano a comparire crepe, debiti non pagati, scelte sbagliate. Uno dei problemi, poi, presente ma sottaciuto, è che sarebbe stato meglio affidare alcuni rami delle attività di casa Florio alle donne. Che invece vengono relegate sempre in secondo piano, pur avendo capacità migliori dei maschi.

Concludendo il proverbio con la sua giusta rima (che spero vi ricordiate senza che ve la rammenti io), la parabola dei Florio acquista una grande velocità in discesa alla morte di Ignazio sr nel 1891, e con la “presa del potere” di Ignazio jr. Che però non è ben preparato, ed inoltre ha solo 23 anni.

La sua è la generazione che passa dall’economia solida, al fascino del mito, alla bella époque, una generazione che entrerà con tutte le scarpe nel vortice della bella vita. Cominciando dal famoso matrimonio del rampollo con Francesca Jacona della Motta di San Giuliano, la donna più bella d’Europa, come testimonia anche il bellissimo ritratto che ne fece Giovanni Boldini, quello con la collana di 365 perle, una per ogni giorno dell’anno. O una per ogni tradimento del marito, come dicevano le malelingue. Francesca diventerà presto “donna Franca”, un’icona di fascino e di stile, amica di Guglielmo II di Prussia, ammirata da Gabriele D’Annunzio.

È anche il tempo in cui Vincenzo, il fratello di Ignazio, fa nascere, per celebrare il trionfo della modernità, la mitica “Targa Florio”, una corsa automobilistica che andò in auge del 1906 agli Anni Venti. Poi incidenti ed altro la porteranno in secondo piano, sino alla sua definitiva soppressione negli anni Settanta. Ma il piccolo Ignazio non ha la tempra del padre e del nonno. Benché non fosse un incapace, tanto che fondò giornali, aprì teatri ed altro, non seppe mai circondarsi da buoni consiglieri. Comica così l’ultima fase dell’Impero. I debiti avanzano, e la bancarotta segnerà la fine definitiva.

Purtroppo, benché ben organizzata, e sicuramente ben scritta, la saga dei Florio che ci racconta Stefania Auci alla fine risulta nebulosa sui motivi del declino. Certo, vediamo le scelte, spesso sbagliate, dell’ultimo dei Florio. Vediamo, anche se non sempre in chiaro, la politica che si muove sulla Sicilia, con tutte le commistioni che ancora ne inquinano l’aria. Ma non si affrontano i drammi finali, le scelte, queste sì politiche, che nell’Italia degli Anni Venti portano non solo al fascismo, ma anche al definitivo crollo dei Florio.

Quello che viene dopo è solo una fotografia degli avvenimenti. Ma le foto senza didascalie non spiegano molto. L’autrice ha cercato, con il suo talento letterario, di riempire i vuoti delle date senza commento con la forza di essere riuscita a trasformare delle persone anche in personaggi letterari, pur con tratti umani reali. Poteva riuscire meglio, peccato. Tutto ciò abbassa leggermente il giudizio complessivo. Anche se rimane un lavoro ben degno di essere letto. (E pare che se ne farà anche una serie TV…).

“È destino degli uomini essere felici e non rendersi conto di esserlo.” (612)

Alina Adams “La scelta di Nataša” Nord euro 18 (consigliato da Robinson)

[A: 06/04/2021 – I: 25/07/2021 – T: 27/07/2021] - &&  

[tit. or.: Nesting Dolls; ling. or.: inglese; pagine: 426; anno 2020]

Altro consiglio di Robinson, decente ma non travolgente. Un giorno forse capirò i criteri delle scelte dei suggeritori di Repubblica. Per ora, constato solo che vanno su e giù. A volte trovano titoli interessanti. Altri, come questo, passabile e non molto di più.

Intanto, comincerei dagli editor delle Edizioni Nord, che cambiano il titolo, da uno che fa riferimento alle “matrioske”, utilizzando il termine inglese di “bambole nidificate”, ad uno che fa eco ad altri libri, ad altre situazioni, come a volerne fare un collegamento mentale. Penso, ad esempio, a “La scelta di Sophie” di William Styron.

Poi abbiamo l’autrice, Alina, ucraina immigrata negli States a sette anni, dove impara l’inglese seguendo la televisione. TV dove inizia a lavorare come producer e writer (la più nota fu “Così va il mondo”), per poi, ora più che quarantenne, dedicarsi alla scrittura nel tentativo, anche, di ripercorrere, direttamente o meno, passi della propria storia personale.

Che il libro, in effetti, ripercorre la storia di alcune donne russe, in tre tappe fondamentali (anche se poi le donne in realtà sono cinque). Tutte legate alla città di Odessa, sia la città della famosa scalinata Potemkin, sia la moderna “Little Odessa”, quella di Brighton Beach a New York, nel quartier di Brooklyn, confinante con la mitica “Coney Island” di Lou Reed.

La storia inizia a Odessa in Ucraina, nel 1931. Dove seguiamo la diciassettenne Dvora Kaganovitch, detta Daria, brigare per migliorare la sua posizione sociale, riuscendo, dopo uno strano corteggiamento, a farsi sposare dal pianista, bello, ricco e famoso, Edward Gordon. Siamo negli anni ’30, siamo nel clima del terrore staliniano, all’epoca delle purghe. Il pianista è troppo in vista per non suscitare gelosie, così basta una delazione e la famiglia Gordon, comprese le due figlie (una è Alina, che poi ritroveremo), si ritrova in Siberia.

Questa forse è la parte migliore del libro. Il viaggio in Siberia in treno (e non sulla Transiberiana, purtroppo, che ancora ci aspetta), il freddo, gli stenti. Laggiù dove i deportati devono lavorare per costruire la nuova Unione Sovietica. Il crollo di Edward, la morte della sorella di Alina, ed infine, la scelta di Daria, che, per sopravvivere, si unisce al caporione locale. Uomo brutale, ma con un cuore nel fondo, che riuscirà a portarle in salvo. Una scelta, la prima, come molte altre che dovrà fare la famiglia, sia Daria, che le altre discendenti.

La seconda parte è invece incentrata su Nataša Crystal, quella del titolo italiano. Siamo tornati a Odessa, ma ora è il 1970. Nataša ha un’ottima mente scientifica, che le consentirebbe di seguire con successo la facoltà di matematica cui vorrebbe iscriversi. Ma ai test di ammissione le vengono poste domande cui non può rispondere, risultando irrimediabilmente bocciata. Tutto ciò in quanto ebrea. La rabbia la porta alla dissidenza aperta, rischiando di mettere in pericolo sé stessa e tutta la sua famiglia.

Potrà salvarsi solo facendo anche lei una scelta, quella di sposare Boris, cui non lo lega un briciolo d’affetto, ma che, nel fondo, è una persona buona. Una persona che riuscirà, con tempo e sotterfugi, a portare tutta la famiglia, nonne comprese, in America. Una persona, come il caporione di Daria ed altri uomini che, per amore, accettano anche di allevare figli che la donna che amano ha fatto con altri.

Il trittico si chiude a Brighton Beach, nella “Little Odessa”, dove seguiamo la prima “american born” di questa famiglia russa. Lei è Zoe, in inglese, ma in famiglia viene chiamata con il nome russo, Zoya. Lei dovrà fare scelte di vita che non potranno che sganciarsi dallo stereotipo che nel corso di novanta anni hanno seguito le donne della famiglia. Dalla trisavola Daria, morta e sepolta in Ucraina, alla bisnonna Alisa, quella sopravvissuta alla Siberia, di cui narrerò un punto cruciale, alla nonna Nataša, la matematica, per finire con la madre Julia.

Dicevo di Alisa. È proprio lei che inizia il libro pronunciando la mitica frase: “L’amore non è una patata” (evitiamo stupidi doppi sensi). Poi Alisa ci spiega: “Perché quando l’amore va a male non puoi buttarlo dalla finestra” - e la parola russa per finestra (okoška) fa rima con kartoška che significa ‘patata’. Sembra un gioco di parole senza senso, ma arrivate alla fine ed il senso verrà svelato.

Certo, il lavoro in televisione ha insegnato ad Alina di non dimenticarsi dei personaggi, e così è in questo libro, dove tutti, alla fine, hanno un ruolo, una storia, una possibile conclusione. Ma il risvolto americano della storia stessa è fin troppo noto per non darci il sospetto di un racconto un po’ sterile, un po’ a sé. Certo, con elementi che non seguono sempre l’happy end che si vuole oltreoceano. Tuttavia, seppur leggibile, alla fine è un po’ troppo alla ricerca di uno sdoganamento che non c’è né, per ora, ci sarà. Una discreta lettura, un buon suggerimento di Robinson, ma non certo una lettura al top.

“Le cose che vuoi non sempre arrivano nel modo in cui tu le vuoi.” (291)

Poiché ho usato poco i numeri, prima di lasciarvi, mi delizio con qualche equilibrismo su questo anno. Siamo infatti nel 2022, che, diviso per la somma dei suoi numeri (cioè 6) ci dà il bel 337. Che ha alcune particolarità: è un numero primo, ma anche “omirp”  (cioè è primo il suo inverso 733), si scompone con una somma divertente (cioè 34 + 44). Inoltre, il 337 è, nel calendario cinese, il 3033, che, diviso per 9, dà … 337.

Infine, l’anno 337 cominciò di sabato, come quest’anno.

Chiudo questa prima annuale con una citazione “personale” tratta dalle “Follie di Brooklyn” di Paul Auster: “- Stai diventando un vero scrittore … - No, sono soltanto un [uomo] … in pensione che non ha meglio da fare … Nessuno diventa scrittore a sessant’anni.”.

Sperando di avervi sollevato il morale in questi giorni pandemici.

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