domenica 16 gennaio 2022

Libri da rappresentare - 16 gennaio 2022

Una puntata dedicata all’immagine con un bel testo teatrale di Tom Stoppard e tre testi poi portati sul grande schermo: ottimo Walter Tevis (spero che Alessandro apprezzi), leggibili ma niente di più Waller e Bianchini. Per chiudere, uno volo storico di Molesini che ci porta ad un Veneto del 1500 ma con tanti agganci anche al mondo attuale (e che potrebbe anche diventare un bel soggetto cinematografico).

Tom Stoppard “L’invenzione dell’amore” Sellerio euro 14 (consigliato da Robinson)

[A: 25/02/2021 – I: 21/04/2021 – T: 22/04/2021] - &&& e ½   

[tit. or.: The Invention of Love; ling. or.: inglese; pagine: 182; anno 1997]

Un testo interessante, cerebrale, tipico della drammaturgia di Tom Stoppard. Ebbene sì, eccoci alle prese con un testo teatrale, uno dei non molti presenti nella mia biblioteca. Dove preferisco, quando e se possibile, vedere teatro, piuttosto che leggerne. Ringraziando in questo tutti i suggerimenti, nonché le messe in scena della mia amica Rosa.

Stoppard lo conoscevo come autore del bellissimo testo “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”, eponimo della sua poetica. Utilizzo di personaggi “marginali” della storia per parlare di altro, ed in modo sempre interessante. Lì prende due personaggi minori dell’Amleto e ne costruisce una storia che ragiona sulle sorti umane, sul destino, la morte e la pazzia.

Come ben sottolinea Rita Cirio nella sua introduzione, Stoppard “propone immagini e prospettive diverse, applicate spesso a personaggi famosi ma retrocessi a comprimari di altri secondari”. Così, in questo testo, il “finto” protagonista è il poeta e filologo realmente esistito Alfred Edward Housman (AEH). Ma il testo è costellato di tanti altri personaggi, ben più illustri, che parlano, rivoltano la trama, per discutere intorno al tema dell’amore. In modo, ovviamente, poco convenzionale.

La trama “lineare” vede AEH appena morto arrivare nell’Ade dove Caronte lo deve traghettare; durante la navigazione sullo Stige, la barca incrocia un’altra barca proveniente dal Tamigi, dove, oltre a Housman giovane ci sono i suoi amici Alfred William Postgate (futuro bibliografo e grande studioso di Shakespeare) e Moses John Jackson (il lato scientifico del trio). Housman è omosessuale, sebbene non dichiarato, ed è innamorato, non ricambiato, dell’amico Moses. Tanto che per frequentarlo, anche nell’ombra, fallirà i primi esami di ammissione all’Università. Seguirà Moses nella sua avventura all’Ufficio Brevetti, dove incontriamo l’unico personaggio inventato del testo, l’impiegato Chamberlain che fa riflettere Housman, dandogli la spinta di tornare a studiare, e di pubblicare i suoi commenti sui latini. Nel 1885, Moses rompe definitivamente con AEH, si trasferisce in India, poi torna, si sposa, e va a vivere in Canada, dove morirà. Mentre Housman prosegue a scrivere, tanto che nel 1892 a 33 anni gli viene offerta la cattedra di Latino all’University College of London. Cattedra che mutò nel 1911 passando a Cambridge dove rimase tutta la vita.

Ma quello che ci mostra Stoppard, andando su e giù nel tempo, è l’introduzione dei personaggi reali, la maggior parte gravitanti ad Oxford ed a Londra. Dove li sentiamo discettare di latino, ma anche di politica, di pittura, d’amore e d’omosessualità.

Compaiono così, in una sfilata tra l’ironia ed il dramma, John Ruskin, il grande critico d’arte, Jerome K. Jerome, il grande scrittore, l’altro latinista John Percival Postgate, i giornalisti Frank Harris e William Thomas Stead, il politico Henry Du Pré Labouchère, il saggista Walter Pater che fu il primo amore di quello che alla fine compare e fa risaltare tutta la storia in controluce, cioè Oscar Wilde. Perché Wilde, con la sua vita e le sue opere, affermava provocatoriamente il suo amore, il suo modo di vivere la vita come una forma d’arte, il discreto Housman vivrà tutto il suo amore solo sublimandolo nell’arte.

Abbiamo detto come uno dei lati distintivi di Stoppard è prendere un personaggio minore e fargli dire e recitare dialoghi ordinari, fargli scorrere momenti inconsapevolmente banali dell’esistenza, mentre gli altri, i ben più rinomati attori, sanno quale sia la tragedia che deve succedere. L’altro lato della drammaturgia di Stoppard è l’ironia continua, doppi sensi, allusioni, giochi linguistici, mescola di alto e basso. L’effetto è interessante, anche se talvolta di un livello cerebrale troppo alto per i miei due neuroni. Il testo è pieno anche di passaggi latini (comprensibili) e greci (per me totalmente ignoti). Anche i personaggi non sono presi a caso. La gita sul Tamigi di AEH, Alfred e Moses non può che rimandare al testo di Jerome K. Jerome “Tre uomini in barca”. La presenza ed il parlato di Labouchére servono ad introdurre la legge contro l’omosessualità da lui presentata, e che servì a condannare Wilde al carcere.

Ma i due livelli servono all’autore proprio per arrivare a quel momento tragico che noi aspettiamo sin dall’inizio (e che si cristallizzerà nella fuga di Moses da AEH), dove così “mascherata” la tragedia diventa anch’essa casuale, senza senso. Tanto che Stoppard fa dire a Wilde “Nulla di ciò che materialmente accade ha la benché minima importanza.”

Non posso non dire che ho apprezzato tutto il gioco intellettuale, anche non sempre compreso immediatamente (ed aiutato poi dalle note finali). Ma ho gradito, incongruamente, del rimando interno tra la vita oxfordiana reale dell’Ottocento che ci riporta Stoppard, con la vita fittizia descritta da Colin Dexter nei suoi gialli oxfordiani degli anni ’70 del Novecento. Con il gioco, questa volta di Dexter, di descriverci come l’ispettore Morse non passò gli esami a Oxford, ma per colpa dell’amore di una donna. Inoltre, di godere quindi delle citazioni in esergo di poesie di Housman. Quindi, una buona lettura, che conferma la facilità di Stoppard ad essere letto, oltre che rappresentato.

Robert James Waller “I ponti di Madison County” RCS Media Group euro 8,90

[A: 25/03/2019 – I: 25/05/2021 – T: 26/05/2021] - &&  

[tit. or.: The Bridges of Madison County; ling. or.: inglese; pagine: 172; anno 1992]

Con questo agile e poco impegnativo (mentalmente) libro, inauguriamo la breve collana di libri intitolata “Amori da Film”. Ed in effetti, questo è molto noto per il film che ne fu tratto con Clint Eastwood e Meryl Streep. Ma qui non parliamo del film (che confesso non aver visto), ma del libro scritto tre anni prima da Robert James Waller, scrittore e professore (ma anche fotografo) basato proprio nell’Iowa dove si svolge il libro.

Waller, pare, sia autore di best seller (dopo l’avvio con questo scritto a 53 anni), ma della sua carriera non credo se ne sappia molto dalle nostre parti. Così come della sua vita, e della sua dipartita, quattro anni fa, per un mieloma multiplo.

Vedremo più avanti, negli altri titoli della collana, se ci sia qualche sussulto. Ora posso solo dire che, di certo, il libro è scritto “ad effetto”, ed è capace di suscitare emozioni. Pur non essendo un gran libro, anzi direi quasi che è uno scritto “basic”, magari con qualche costruzione interessante, e, forse, una sola idea di base: il conflitto tra amore e realtà. Che detto così sembra anche più grande di quello che è.

Intanto, non posso che fare un riverito omaggio alla scelta dell’ambientazione: Madison County è la località che ha questa particolare struttura architettonica di ponti fluviali, coperti da tettoie. Ma anche, ed è qui il mio affetto mentale, è il posto dove (nella cittadina di Winterset, al centro della contea) il 26 maggio 1907 (esattamente 114 anni dal momento in cui scrivo) nacque Marion Robert Morrison, meglio noto in arte con lo pseudonimo di John Wayne.

La storia di per sé sembra assai banalotta. C’è Richard, fotografo free lance, inviato da National Geographic per fare un servizio sui ponti coperti della contea. Non riuscendo a trovare l’ultimo, si reca in una fattoria nelle vicinanze, dove viene accolto da Francesca. Lei è una “war bride” italiana, sposatasi con il marine Robert quando questi passa con l’esercito per Napoli. Vive una vita pacifica nell’Iowa, senza troppi sussulti, e con Robert ha fatto due figli. La vicenda si svolge nel 1965, e Carolyn ha diciassette anni e Michael quattordici. È sola al momento, che marito e figli sono ad una fiera di bestiame per la settimana.

Ovvio che Francesca sa dei ponti. Ovvio che tra i due scatti una scintilla inestinguibile.

Francesca per Richard è bellissima. Richard per Francesca incarna i sogni della giovinezza, la voglia di “essere come siamo”, la capacità di cogliere la magia nelle cose, dalla poesia all’alba al canto al tramonto. E Richard coglie la capacità di Francesca di rispondere ai suoi stimoli, alle sue provocazioni intellettuali, la capacità di capire il senso delle sue foto, della sua vita “senza fissa dimora”.

Ovvio, infine, che dopo schermaglie varie, i due si concedano alcuni giorni di passione coinvolgente e totalizzante. Tutto per arrivare alla resa dei conti: che fare quando tornerà la famiglia? Qui, il dilemma tra la propria vita e quella delle persone che ti sono care. Francesca sceglie di restare, anche se per tutta la vita non farà che pensare a Richard, avendolo sempre vicino. Conserverà gelosamente la foto all’alba, il numero della rivista con i ponti, ed altre minuzie. Solo alla morte di Robert, proverà a cercarlo, ma una volta sola. E dopo tre anni riceverà una lunga lettera post-mortem di Richard. Le cui ceneri verranno sparse sul famoso ponte. Cosa che chiederà anche Francesca.

La costruzione di Waller passa per una finzione nella finzione, laddove finge, appunto, che siano i figli di Francesca a chiedergli di scrivere questa storia. Con un cammeo finale di un jazzista di Seattle, amico degli ultimi anni di Richard.

Waller sa di scrittura, e sa come toccare tasti che fanno commuovere. Anche se, dal mio punto di vista (e qui si apre un dibattito perenne) avrei fatto altre scelte. Che i figli avrebbero capito, se le volevano bene. Cioè, quanto si deve soffrire per essere felici? E via discutendo.

A me è oltremodo piaciuto il passaggio (o i passaggi, forse) “on the road” di Richard. Il giro per il Nord degli States, da Seattle all’Iowa, passando anche per Duluth, dove, ad esempio, non può che non citare il figlio più celebre del posto (che, per gli smemorati, è tal Robert Zimmerman, poi ribattezzatosi Bob Dylan). Ma anche i passaggi tra Africa e Asia, immancabilmente con il deserto del Rajasthan (e Agra), e magari … il Ladakh.

Vedremo gli altri capitoli di questa collana, anche se sono perplesso.

“Credo … che siamo entrambi dentro un altro essere che abbiamo creato, e che si chiama ‘noi’. … No, non siamo … dentro questo essere, lo siamo. … Ci amiamo.” (121)

Walter Tevis “Lo spaccone” Minimum fax euro 11 (consigliato da Robinson)

[A: 10/04/2021 – I: 31/07/2021 – T: 01/08/2021] - &&& --

[tit. or.: The Hustler; ling. or.: inglese; pagine: 256; anno 1959]

Walter Tevis non è certo una stella di prima grandezza della costellazione di Orione, nel panorama della troppo ricca, a volte, letteratura americana. Ringrazio quindi Robinson che mi suggerisce di prenderlo in mano, di leggerlo dimenticando il film con Paul Newman (diretto da quel poco noto ma molto impegnato regista che fu Robert Rossen, qui al primo film di ritorno in America dopo la fuga cui fu costretto dal maccartismo degli anni Cinquanta) e di immergerci nella sottocultura americana.

Inciso, Tevis non fu di certo prolifico, dato che è autore di soli sei libri. Ma oltre a questo, c’è “L’uomo che cadde sulla terra”, ottimo libro e mirabile interpretazione di David Bowie sullo schermo, e c’è “La regina degli scacchi”, assurta or ora agli onori dello schermo grazie alla serie televisiva prodotta da Netflix. Sottolineo solo che degli altri tre titoli, uno è “Il colore dei soldi”, sequel di questo, e sempre portato sullo schermo con Paul Newman (e Tom Cruise) cui arrivò l’Oscar. Gli altri due sono degni seppur non eccelsi libri di fantascienza.

Riprendendo il paragone iniziale, allora, direi che Tevis è una specie di buco nero galattico, che assorbe tutta una serie di esperienze, anche negative, della sua infanzia e giovinezza, per poi trovare il modo di riproporcele in maniera convincete. Per mantenersi, dopo la guerra, lavoro di notte nelle sale biliardo, ed accumula informazioni. Sui giocatori, sul loro modo di vivere, sui guadagni legali e su quelli illegali. Ma anche sul mondo che vi gira intorno: scommettitori di vario genere, giocatori di poker, ubriaconi all’ultimo stadio, donne senza futuro. Una bella shakerata, ed eccoci a questo truffatore. Che “Hustler” è un po’ più sul versante borderline dell’illegalità, piuttosto che su quello di chi si vanta delle proprie imprese, a proposito o spesso a sproposito. Questo sarebbe il significato italiano proprio del termine (“Borioso millantatore d'imprese poco credibili” dalla Treccani).

Eddie “Fast” Felson non millanta di saper fare cose incredibili, ma è convinto di essere il miglior giocatore di biliardo sulla piazza. Come gli farà capire il baro Bert, tuttavia, essere il migliore è fatto di due metà che lavorano all’unisono: il corpo per realizzare i colpi sul panno verde e la testa per gestire il tutto. Eddie, come vediamo fin dall’inizio, è carente sulla parte di testa.

Ma intanto Tevis ci fa immergere nelle sale da biliardo. Mirabile il modo lento con cui ci conduce all’apertura della Sala Ballington a Chicago. A farci scorgere i primi “tipi”: il lavoratore che pulisce la sala, il giocatore che ripete compulsivamente le stesse steccate, il fannullone che aspetta briciole per magari tirar su una striscia di coca, il gestore che arriva solo nel tardo pomeriggio, gli “addicted” che verso sera cominciano ad affollare i tavoli.

Tevis non fa grandi voli, non ti fa sussultare con colpi di scena, ma ti avvince alla pagina. Con Eddie che arriva dalla California a Chicago, guidato da Charlie, mentore della prima fase. Sa di essere forte, sa di poter vivere giocando a biliardo, sa che deve battere Minnesota Fats, ritenuto il migliore con la stecca in mano. L’abilità di Tevis è mostrarci questa che dovrebbe essere il culmine della storia nei primi sei capitoli. Perché poi capiamo che il romanzo è un “romanzo di formazione”. Nonostante i consigli di Charlie, Eddie alla fine non può che perdere con Minnesota. Perché non ha la vittoria in testa.

Così lascia Charlie, e cerca di ricostruirsi dal basso. Incontra Sarah, e tra i due nasce un sodalizio sbilenco (Eddie nel libro non ha particolari qualità, ma se pensiamo a Paul capiamo perché Sarah si prende di lui). Tenta di racimolare soldi per poter di nuovo incontrare Fats, ma ogni volta ca incontro a disastri (e ne potete leggere). Finché non incontra il suo secondo mentore, Bert (un meraviglioso George C. Scott sullo schermo) che cerca di insegnarli ad usare la testa, quello che manca ad Eddie. Ma Bert è anche esigente, un poco truffaldino, non capisce il rapporto tra Eddie e Sarah, e forse ha anche altre truffe in mente.

Quello che vediamo, nella scarsa luce delle notti di Chicago, è la crescita interiore di Eddie, la consapevolezza della forza, più che la forza bruta. Avanti, fino alla vittoria. A che prezzo, lo scoprirete leggendone.

Tevis ci porta con facilità a tutto ciò, mantenendo una sua modestia interna, tanto che andrà dopo l’uscita del libro, a lezione di scrittura come alunno. Purtroppo, i soldi del successo lo portano sempre più vicino alla bottiglia (come molti personaggi del libro), e sarà uno dei motivi della sua scarsa produzione letteraria, e della morte a 56 anni per un cancro al fegato.

Però, per ora, lasciate perdere il film, e se potete, venite con noi a Chicago a vedere Eddie.

“Ti è mai capitato di essere così maledettamente sveglio da pensare che non riuscirai mai più a dormire?” (99)

Luca Bianchini “Io che amo solo te” RCS Media Group euro 8,90

[A: 25/03/2019 – I: 02/08/2021 – T: 04/08/2021] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 263; anno: 2019]

Un paio d’anni fa, in epoca pre-Covid, uscirono in edicola alcuni volumetti da cui trassero film di successo vario (come il sopra tramato della serie “Amori da film”). Che acquistai senza un particolare slancio e che leggo qua e là, quasi a riempire vuoti di impegno mentale. Capitò così per Madison County (da cui però ci fu un bellissimo film con Clint Eastwood). Ed eccoci ad uno che alla sua uscita, otto anni fa, decretò un buon successo di vendite, e due anni dopo, un successo al botteghino, con Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti nei due ruoli principali.

Ma qui si parla di scrittura, e, sebbene Bianchini abbia una lingua scorrevole, una capacità di non perdersi mentre narra (si lanciano tanti fili, e si raccolgono tutti), il risultato globale è un libro leggero, che si legge con una discreta velocità, e che, anche se sembra voler mettere qualche zeppa prima di finire, arriva alla sua conclusione senza nessun particolare intoppo.

Siamo a Polignano a Mare, dove in piazza incombe la statua di Modugno, e lì si intrecciano la vita e le sorti di due famiglie: i ricchi e potenti Scagliusi e i normali Conversano. I primi sono sulla breccia, hanno in mano il mercato delle patate. C’è il patriarca, don Mimì, 54 anni, quello che “non versa lacrime, ma assegni”, c’è la moglie, Matilde, la “First Lady”, la cui unica occupazione pare essere una collezione di oggetti “Thun”, e ci sono i figli: Damiano, un po’ cinico, un po’ da maturare, e Orlando, un po’ gay. I secondi vivono senza scosse, anche se arrivare alla fine del mese non è sempre facile. C’è Ninella, la sarta del paese, vedova, e le sue due figlie: Chiara, studi finiti, nessuna voglia di andare avanti, in via di matrimonio con Damiano, e Annunziata detta Nancy, diciassettenne ormonali, in cerca di perdere la verginità.

La vicenda si spande per soli tre giorni, dal venerdì alla domenica delle nozze. Ma c’è abbastanza tempo per scoprire altari ed altarini. Intanto, il più pesante. Che Mimì e Ninella erano fidanzati in gioventù, ma l’arresto per contrabbando del fratello di lei ha convinto la famiglia Scagliusi a chiudere porte e porticine, mandando all’aria un possibile futuro d’amore. Piegati alle volontà altrui, i due si faranno le loro rispettive vite, ma non cesseranno mai di amarsi, seppur alla lontana, seppur senza fare mai un gesto che possa essere mal interpretato.

Ora però le due famiglie devono frequentarsi, dato il matrimonio dei due primogeniti. E non potranno che nascere situazioni al limite. Che torna Franco, il fratello “sbandato”, e Ninella lo impone come accompagnatore della sposa all’altare, cosa che fa rabbrividire la First Lady. Ma Mimì acconsente, e si capisce che da lì nascerà una china pericolosa.

In margine, vediamo Nancy cercare di andare a letto con Tony senza mai riuscirci, ma ci godiamo i suoi volteggi tra ortaggi e bilance, che a dieta bisogna essere per valorizzare il proprio corpo. Meno a margine, anche se è pur sempre un coprotagonista, seppur di lusso, vediamo Orlando. Che non ha il coraggio di fare coming out, che porta al matrimonio una sua amica lesbica per tacitare le malelingue. Ma lì incontra il suo grande amore, l’Innominato, che trova comunque sposato. Avrà comunque alla fine di dirlo a Damiano, di farsi scoprire da Mimì, ma quello che non sa è che tutti lo sanno, e poco se ne importano.

Al fine, ci sono i promessi sposi, con tutte le titubanze di chi non ha veramente deciso se si sta sposando per amore o per dovere. Attraverseranno, ognuno per la sua parte, momenti di crisi e di crescita, che li porteranno a comprendere se sia il caso di continuare la strada comune.

Nelle more, Ninella confessa il suo amore a Chiara, e così fa Mimì con Damiano. Tanto che si arriverà al momento culmine della festa di nozze, quando, sulle note della canzone del titolo, i nostri due cinquantenni daranno vita ad un intenso ballo.

Vi risparmio conclusioni, modi, giochetti verbali, atteggiamenti da provincia (ma non provinciali). Sono tutte le macchiette che fanno sì che il libro si regga. E si regge poi per la descrizione, che attraversa tutti e tre i giorni, della preparazione delle nozze nel profondo Sud. Book fotografici prima e dopo, trucco e parrucco di spose e damigelle, la scelta dei luoghi (con un orrendo lampadario Swarovski), le bomboniere, il rito delle buste don i regali in moneta sonante (tanto che alla fine i due faranno più di centomila euro!!). mi ricorda qualcosa o mi ci fa pensare, anche se il menu della First Lady andrebbe bene per una decina di sponsali.

E poi c’è Sergio Endrigo, uno dei top della mia gioventù. Un istriano trapiantato (idealmente) a Genova, dove costruì la base della canzone d’autore italiana, con De André, Paoli, Tenco e tanti altri. Uno di cui sapevo a memoria tutto (questa del libro, Teresa, Te lo leggo negli occhi, Lontano dagli occhi). Mi ha fatto piacere tornare a risentirlo.

Andrea Molesini “Il rogo della Repubblica” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,55 euro)

[A: 07/06/2021 – I: 01/09/2021 – T: 03/09/2021] - && +

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 334; anno 2021]

Un suggerimento interessante dell’inserto “Robinson” di Repubblica, anche se alla fine meno riuscito del previsto. Mi aspettavo meglio, avendo letto il libro di Molesini sulla Resistenza, ed avendo letto le critiche (tutte positive) al suo libro più famoso (che però non ho né letto, né comperato; vi dico solo che si intitola “Non tutti i bastardi sono di Vienna” e fu super premiato dieci anni fa).

Torniamo quindi alla scrittura di Molesini, veneziano doc, di cui mi piace il rimandare a momenti diversi, e da questi tessere storie “tra cielo e terra” (cioè tra realtà e finzione). Per arrivare a degli assunti, magari non coevi alla storia, ma di certo presenti in tutti noi. Il rapporto tra potere e giustizia, ad esempio. Quanto della verità debba essere piegata al volere dei vincitori, e fin a dove si possa spingere una menzogna non credibile per far sì, appunto, che il potere trionfi strangolando la giustizia. Certo non sarò io a dirvi quanto tutto ciò sia incredibilmente attuale.

Il fatto storico, accertato, è il processo intentato ad alcuni ebrei nella cittadina di Portobuffolè nel 1480. Processo che si innesta con altre vicende storiche di cui andremo narrando. Processo che viene però visto e narrato dal personaggio inventato ad arte, Boris di Candia, agente segreto e sicario al soldo dei doge veneziani.

Appunto dalle parole di Boris seguiamo da un lato la parabola della sorte degli ebrei, dall’altra la vicenda personale di Boris stesso, che, avvicinatosi agli ebrei per conto di Venezia, e per comprendere quanta verità e quanta menzogna siano presenti, comprenderà meglio l’umanità degli ebrei locali, le loro decisioni, i loro rapporti pubblici e privati. Non potrà tradire il suo essere, ma farà un buon passo verso una consapevolezza diversa, chiosata dall’orazione che riporto in calce.

Ma veniamo alla storia “reale” (che la trasposizione fittizia potete leggerla da voi). Nel 1480 un mendicante di sette anni si aggira per Portobuffolè e sparisce. Ha forse proseguito la sua strada, ma la popolazione locale l’associa all’omicidio avvenuto cinque anni prima del piccolo Simone (Simonino nella tradizione popolare). Del presunto omicidio vengono accusati ed incarcerati il prestatore di denaro Servadio, il titolare del banco dei pegni Mosè ed il tedesco Giacobbe. Altri accusati, ma latitanti, furono indicai in Lazzaro, fratello di Mosè, Cervo, cognato di Mosè, Elia francese e Giacobbe Barbato. Gli accusati, sotto tortura, confessano e sono condannati a morte. Poi ritrattano, costringendo il podestà locale a spostare il processo a Venezia.

Nella città lagunare, oltre ad essere di nuovo torturati e quindi a confessare falsamente il delitto, vengono arrestati tre dei quattro latitanti. Il punto culminante viene dalla ritrattazione di Giacobbe Barbato, ma prima che la sua dichiarazione venga messa agli atti, muore. Omicidio per impedire la confessione o suicidio per la vergogna? Non sappiamo, fatto sta che senza questo elemento, non si può che condannare gli ebrei. Ai rei confessi dietro tortura fu comminato il rogo, agli altri due anni di carcere duro.

Fin qui la vicenda storica, su cui Molesini sapientemente innesta anche la presenza in veneto del predicatore Fra’ Bernardino da Feltre, che infiammava le genti con le sue parole antigiudaiche. Ma che viene propriamente ricordato come creatore dell’istituzione dei Monti di Pietà, sorti al fine di contrastare i banchi usurai gestiti dagli ebrei. Facile capire quindi come la vicenda del povero Servadio sia servita soltanto a permettere, con falsa giustizia, di riprendere il potere (ed il denaro) da parte della casta borghese e cattolica.

Tanto per ribadirne la follia giudiziaria, riprendiamo il caso di Simonino. Quindici ebrei furono condannati nel 1475 a Trento per la sua morte, nonché nel 1588 Simonino fu anche beatificato. Solo nel 1965 la Chiesa deciderà di cancellare il culto del beato Simonino da tutte le pratiche religiose.

Ripeto la mia ammirazione per l’opera di ricostruzione storica di Molesini, non solo del rapporto tra ebrei e cristiani, ma anche di tutto il clima tardo quattrocentesco presente nel Veneto. Tuttavia, la forzata soggettività della scrittura, tendente a riprodurre, anche con difficoltà di lettura, l’aria del tempo, lascia un po’ di fatica nel lettore. Ma Molesini mi è piaciuto, pur con tutti i limiti esposti.

In finale, riporto anche il punto conclusivo del testo, tratto da Orazio “Carmina” Libro I, Ode XI, che in latino esprime:

“Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint … Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.”

E che indegnamente tradurrei:

“Tu non chiedere, è vietato sapere, quale fine a me, quale a te gli dèi abbiano assegnato …  Mentre parliamo il tempo sarà fuggito, inesorabile: cogli il momento, avendo meno fiducia possibile nel futuro.”

Un monito ed un suggerimento.

“Sei un poeta? No, solo un insaziabile lettore” (130)

La seconda uscita del mese era in genere dedicata ad un confronto tra le mie trame e quelle del bellissimo libro “Curarsi con i libri”. Purtroppo, sono arrivato lo scorso dicembre a Xenofobia, e quindi ho esaurito quel filone. Ho però ancora qualche libro letto dopo averne commentato altri, per cui dedicherò qualche uscita al recupero di trame passate con nuovi libri.

Per il resto, ho qui una bella citazione della scrittrice di gialli Elizabeth George che nel suo libro: “La miglior vendetta”, mi ammoniva: “le case rivelano sempre qualcosa sui loro proprietari”. Adatto alla costruzione dei miei spazi nella nuova casa.

Poco altro c’è, se non la speranza che qualche numero pandemico migliori le nostre situazioni di vita, facendoci riprendere viaggi ed incontri. Non disperiamo, e ci salutiamo con un abbraccio.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GENNAIO 2022

Avendo esaurito l’alfabeto fino all’ultima lettera, utilizzo alcuni mei di questo nuovo anno per recuperare libri e giudizi di romanzi letti tardi per essere inseriti in ordine.

Questo mese parleremo di esaurimento e di mal d’amore.

ESAURIMENTO

Nikos Kazantzakis                  “Zorba il greco”

La stanchezza può essere una sensazione fantastica, se arriva dopo un duro esercizio fisico – nuotare in un lago, scalare una montagna, galoppare lungo una spiaggia. Quando invece si è rimasti in piedi per dieci ore a spennare polli o si è scavato un fosso sotto la pioggia, la sensazione è assai meno piacevole. La stanchezza mentale può condurre ancora di più all’esaurimento, causando stress (v. Stress) e problemi cognitivi (v. Memoria, perdita della). La stanchezza che deriva dalla mancanza di sonno, infine, è una sensazione particolarmente infelice, che può essere compensata solo restando a letto otto ore filate. A dire il vero, il sonno è una buona cura per ogni genere di stanchezza, ma se siete davvero esauriti e volete trovare il modo per andare avanti, continuate a leggere.

Zorba è un uomo dalle mille risorse e che ne ha passate parecchie, con due occhi brillanti e lo sguardo penetrante, il volto segnato dalle intemperie e il dono di esprimere sé stesso attraverso la danza. Zorba usa la danza per raccontare le sue storie, per definire la propria identità, per spiegare il mondo e per tirarsi su di morale quando è abbacchiato. Il narratore di questo romanzo, invece, è un giovane intellettuale greco interessato al buddismo e ai libri. Quando incontra Zorba, però, e la sua irrefrenabile voglia di vivere, capisce di avere incontrato un uomo con un segreto nell’anima. Quando quel vagabondo lesto di gamba accetta la sua offerta di lavoro come supervisore alla miniera di lignite che ha acquistato di recente sull’isola di Creta, 1 uomo ne e felice e i due cominciano a bere vino fino a tarda sera, discutendo di filosofia e accompagnandosi spesso col santuri di Zorba. Durante queste sedute Zorba si lamenta spesso del fatto che, se solo riuscisse a esprimere gli enigmi filosofici dell’amico con la danza, forse potrebbe avvicinarsi alla loro soluzione.

Un giorno, Zorba insegna davvero al suo giovane amico ballare - in maniera impetuosa, provocatoria, estatica. Ben presto riescono entrambi a raccontare storie con i uro corpi che sembrano sfidare la gravità. Il lettore si accorge che Zorba è un uomo di grande saggezza e naturale comprensione, in grado di arrivare «con un solo balzo» a vette spirituali che altri impiegano anni a raggiungere. Quello che amiamo di più in questo archetipo di energia è la sua capacità apparentemente senza limiti di lanciarsi con tutto sé stesso in progetti sempre nuovi, spesso rialzandosi da terra (quando invece avrebbe bisogno di dormire almeno una settimana) e tornare alla vita danzando.

Diventate anche voi allievi di Zorba. Quando vi sentite esauriti, non lasciatevi andare. Alzatevi in piedi, fate un po’ di musica, trovate una danza dentro di voi. Tra qualche anno, non vorreste poter dire, con Zorba: «Ho fatto un sacco di cose nella mia vita, ma non ancora abbastanza. Un uomo come me dovrebbe vivere mille anni!»?

MAL D’AMORE

Beppe Fenoglio                      “Una questione privata”

Patricia Highsmith                  “Carol”

Ci sono poi momenti in cui il mal d’amore diventa un’ossessione triste. Un affanno. Un movimento. Un paesaggio. Soprattutto se si è un partigiano e si sa di avere un appuntamento con la morte. Può capitare, allora, di tornare nei luoghi dove si è stati felici per cercare un riparo alla brutalità delle cose, per ritrovare le visioni della giovinezza, le sue promesse, i suoi sussulti e farsene un ultimo scudo e una corazza. Come accade a Milton, nel mese di novembre del 1944, mentre attraversa il centro di una guerra civile. Ma se la vecchia custode della villa dove abitava la sua Fulvia gli insinua il sospetto di una relazione tra la sua ragazza e il suo migliore amico, allora nulla resta intatto, nemmeno il ricordo. La verità diventa un’urgenza disperata ma inafferrabile, il mal d’amore una crepa esistenziale e senza rimedio. In gioco non è la gelosia o il desiderio o il tradimento, ma qualcosa di molto più esteso, il motivo stesso per continuare a battagliare. Milton è un ippopotamo magro di ventidue anni, curvo di spalle, con due forti pieghe amare ai lati della bocca, macerato e brutto. Fulvia spensierata e piena di allegria. Milton conosce il segreto delle parole, Fulvia quello della vita stessa. Così Milton inizia il suo viaggio per sapere. Vuole ritrovare il suo amico Giorgio e chiedergli come sono andate realmente le cose, a costo di ucciderlo. La sua sarà una furia necessaria ma senza risposte, un inseguimento destinato a moltiplicarsi. Perché la guerra non ridà mai quello che toglie.

Nel Medioevo, gli eroi e le eroine della letteratura venivano regolarmente consumati dal mal d’amore. Pale-mone, ne II racconto del Cavaliere di Chaucer, è un ottimo esempio, perché vede passare la bella Emilia dalla finestra della torre dove è imprigionato, e poi quasi si perde perché non può averla. E solo nella nostra epoca, assai meno romantica, che ci si rivolge a uno psichiatra per farsi prescrivere i farmaci adatti. Il mal d’amore è causato dall’assenza della persona amata, da una separazione forzata, da un rifiuto (v. Amore non corrisposto) o da una morte. I sintomi possono essere assai concreti, come svenimento continuo, deperimento, isolamento e dipendenza da cioccolato. Tutto ciò può rivelarsi pesantissimo per amici e parenti (li rimandiamo a Famiglia, gestire la propria). La nostra cura non comprende alcun farmaco, ma solo una robusta dose di amore corrisposto[1].58

Il secondo romanzo di Patricia Highsmith fu ispirato da un episodio della vita dell’autrice, al tempo in cui lavorava in un grande magazzino e vendeva bambole, proprio come Therese in Carni. Rimase così ammaliata da una cliente che sembrava «splendere di luce propria» e la faceva sentire come se avesse avuto una visione, che una volta tornata a casa buttò giù le linee essenziali della storia in due ore. Carni racconta dell’inattesa passione tra due donne: Carol, appunto, sulla trentina, con una figlia e un marito che sta per lasciare, e Therese, diciannove anni, che passa da un lavoro all’altro ma ha la passione della scenografia. È Therese, la commessa, a iniziare la relazione.

All’inizio Therese è palesemente innamorata, Carol invece mantiene giocosamente le distanze. Il fidanzato di Therese è sconcertato; lei non ha nemmeno tentato di nascondergli quello che prova. «E peggio che essere malati d’amore» le dice «perché è del tutto irragionevole», non riuscendo a credere alla possibilità di un amore omosessuale. Ma cos’è il vero amore se non il trionfo delle emozioni sulla ragione? Quando Carol e Therese partono per un viaggio attraverso l’America, Carol si apre a Therese e le due ragazze si legano per sempre. La loro sensuale storia è descritta in modo squisito: «Therese sentì ancora l’odore scuro e leggermente dolce del profumo di lei, un odore che le ricordava una seta color verde intenso che era soltanto sua... Voleva spingere da parte il tavolo e lanciarsi tra le sue braccia, affondare il naso nella sciarpa verde e oro legata stretta intorno al suo collo». Durante un periodo di lontananza (che immaginano definitivo), Teresa soffre di una gravissima forma di mal d’amore che la riempie di disperazione e spossatezza, in perfetto stile medievale.

«Che cosa era rimasto della vita del mondo? Che cosa era rimasto del suo sapore?» Solo Carol può salvarla. E lo fa.

Qualunque sia il vostro orientamento sessuale, la tenacia con cui Therese sopporta il suo malessere darà forza anche a voi. Se avete una Carol nella vostra vita, fatele la corte, e sentirete di nuovo il sapore del mondo.

Bugiardino

Quando si recupera è difficile tornare con la testa ai tempi della scrittura; quindi, ricordo solo che il greco l’ho letto quest’estate, mentre il mal d’amore risale a svariati anni fa.

Nikos Kazantzakis “Zorba il greco” Crocetti euro 15

[scritto il 17 agosto 2021]

Che fai stai a Creta e non leggi di Zorba?

Ma andiamo con ordine. Intanto, era uno dei libri consigliati dalle ormai endemiche libropeute, che cercavo di trovare a prezzi giusti, senza riuscirci. Poi, nella bellissima città di Rethymno trovo una libreria favolosa, con scaffali densi di libri, in tutte le lingue “turistiche” di Creta. E tra queste, ecco spuntare una versione italiana direttamente dal greco, e non, come Mondadori, dall’inglese. Ovviamente, subito preso, e, disteso in spiaggia, pronto alla lettura.

Secondo elemento, collegato alla bella traduzione di Nicola Crocetti, è la scoperta che il titolo originale è “Vita e imprese di Alexis Zorba”. Ma, a partire dal film di Cacoyannis, tutti lo individuano come “Zorba il greco”, e questo sarà il titolo che si porterà scritto fino alla fine dei giorni. Inciso: a Matala, ma non solo, ci sono fior di ristoranti che si chiamano “Alexis Zorba”.

Ma veniamo al testo ed al contesto. Devo dire che il film con Anthony Quinn e Alan Bates (nonché Irene Papas), rimane molto indietro nelle nebbie della memoria, riaffiorando solo per qualche musica (ovvio), la faccia di Irene, e l’espressione “giusta” di Quinn per tutto il film.

Poco, invece, veniva alla memoria, della storia in sé. Certo Zorba è un affabulatore, che gode e si gode la vita, che pensa all’oggi (tutt’al più), che non si perita di mettere il mondo in difficoltà, se questo può andare a suo vantaggio ora. Poi, dopo, si vedrà. Per il resto, era buio pesto.

Dal testo, allora, prima di tutto, emerge la figura di Basil, l’io narrante, scrittore in crisi, in cerca di uno sbocco per la propria arte e per la propria vita. Da cenni della vita ante-Creta, si intuisce un rapporto quasi omosessuale con Stefanos, velato da una patina d’amicizia, e non riscattato dalla breve notte d’amore con la vedova. Basil per tutto il libro cerca di finire il suo scritto (inopinatamente intitolato “Buddha”) dove prova a riscattare un testo verso la mancanza di desideri (“nirvana”?), e dove (spesso) la sua etereità si scontra, perdendo, con la carnalità di Zorba.

Siamo negli anni ’30 (così si evince da cenni storici) ed i nostri due eroi si erano incontrati ad Atene. Schermaglia dopo schermaglia, Alexis si impone alla vita di Basil. Perché Alexis, macedone sessantenne, è innamorato della vita e dell’oggi. Canta, balla (sirtaki?), ma soprattutto suona, quando gli viene l’estro, il salterio (la cetra greca, in pratica). Tra l’esuberante Alexis ed il tormentato Basil nasce alla fine un sodalizio per la miniera. Dove, organizzando l’estrazione della lignite per Basil, Alexis trova il modo di corteggiare la vedova Hortensia. Ma anche di prendere i soldi destinati ad altro, e sperperarli con una donna in una settimana di follie a Megalo Kastro (il nome originario di Iráklion).

Tutta una parte del libro, forse un po’ pesa, è dedicata ai monaci eremiti cui i nostri due devono sottrarre la concessione per il legname. Qui, c’è molto dell’iconoclastia di Nikos (che poi è un suo modo di vedere la religione, che sarebbe interessante ripercorrere magari leggendo il suo “L’ultima tentazione di Cristo”). Si trattano male i frati (di cui si evidenziano sia i tratti gay che la possessione diabolica), in una sezione del libro che ho trovato un po’ pesante.

La narrazione alterna spesso i momenti duali tra Alexis e Basil, con quelli corali, del villaggio e dei frati. Ma anche momenti di vita e di morte. C’è la vita tra Hortensia e Alexis, c’è un accenno di vita tra Basil e la vedova. E c’è la morte. Di un giovane innamorato non ricambiato dalla vedova. Della vedova, uccisa dal padre del giovane. Di un frate indemoniato che aveva tentato di dar fuoco al monastero. Insomma, luci ed ombre. Ah, alla fine muore anche Hortensia, dopo aver fintamente sposto Zorba. Quando poi il progetto strampalato di Zorba della costruzione di una teleferica fallisce, i due non possono far altro che dire addio ai sogni di gloria nell’isola. Di lasciarsela alle spalle, con il viso rivolto a nuove avventure.

Attraverso lettere che arrivano negli anni e nei posti più disparati, Basil segue le vicende della vita di Zorba, e ce le comunica tutte. Io ve le lascio leggere, pensando sempre a quei rapporti che Alexis ha con le donne. Come un marinaio d’altri tempi, anche nei posti più sperduti, riesce a vivere storie d’amore con le donne. Ce ne comunica anche la filosofia di vita che attraversa questo sentimento. Anche se, sinceramente, il ruolo della donna risulta un po’ bistrattato.

D’altronde, siamo poco dopo la fine della Guerra, in quegli anni tra il ’45 ed il ’55 che sembravano forieri di grandi promesse, non sempre mantenute. Anche Kazantzakis se ne fa interprete, a suo modo. Ed alla fine, ne esce un libro interessante, con spunti da approfondire, ma con qualcosa meno di quello che mi aspettavo dal clamore che ne risuona nella memoria.

Beppe Fenoglio “Una questione privata” Einaudi s.p. (nella biblioteca di mamma)

[tramato il 19 luglio 2015]

Analoga la sorte di questo libro, rispetto al simile di origine di Uhlman. Certo questo l’ho letto in India e non in Vietnam, ma sempre derivandolo dalla biblioteca avita. Ne ero anche curioso, avendo letto una quindicina d’anni fa altri due suoi libri (“La paga del sabato” e “Il partigiano Johnny”) che ricordo mi avevano lasciato perplesso.

Ottima la scrittura (non sono certo io a doverne parlare bene, ma parla da sola), senza che la trama mi lasciasse addosso grandi voglie. Cosa che, al contrario, ha fato questo agile libro. Con tutte gli “accidenti” che porta con sé. Ultimo libro scritto dall’autore, terminato poco prima di morire. Pubblicato “così com’è”, lasciando nel lettore e nei critici il dubbio: era proprio finito? o mancavano ancora rifiniture ed aggiunte?

Noi, fedeli a quanto se ne scrive in giro, lo prendiamo per quello che è. Per uno dei migliori libri sulla Resistenza scritti in Italia, come ci sottolineava a lungo nei suoi scritti Italo Calvino. E come un lungo atto d’amore, con i due temi che si intrecciano e si completano a vicenda. Con l’ottica di una Resistenza vista dalle file di uno che comunista non era, ma che si pone dalla parte dei giusti. Con tutte le problematiche che si ebbero allora (e che non si sono mai sopite) tra le formazioni garibaldine (legate alla sinistra) e quelle badogliane (formate da ex-soldati del re, di provenienza spesso monarchiche e liberali).

Il protagonista è per l’appunto un badogliano, di cui sappiamo solo il nome di battaglia, Milton. Prima del fatidico settembre del ’43, l’allora ufficiale Milton era di stanza ad Alba, dove frequentava la bella Fulvia, di cui si innamora. Tanto che, durante la guerra partigiana, capitato nei pressi di Alba, va alla ricerca della casa della bella, girando (e qui Fenoglio ha belle descrizioni di un amore forse inespresso ma presente) per luoghi così pieni di ricordi. Accolto dalla vecchia governante, che gli instilla il tarlo di una possibile relazione tra Fulvia ed il suo amico Giorgio, ora anche lui nella resistenza.

Alla ricerca di una verità che comunque lo vedrebbe soffrire, si mette sulle tracce di Giorgio, ma viene a sapere che questi è stato catturato dai fascisti ed è in attesa di essere giustiziato. Benché macerato da opposti sentimenti, si pone sulle tracce di un possibile scambio di prigionieri, anche se le formazioni partigiane al momento non ne hanno. Trova tuttavia le tracce di un ufficiale fascista che frequenta una ragazza del luogo, fuori dagli schemi.

Con uno stratagemma lo cattura, ma l’ufficiale tenta la fuga, e Milton è costretto ad ucciderlo. Ormai non ha più mezzi per salvare Giorgio, e per sapere in ogni caso la verità, torna alla villa dalla governante. Ma mentre sta per farsi rivelare “la verità” (che né lui né noi sapremmo mai) viene sorpreso dai fascisti. Fugge, inseguito e mitragliato dalle bande repubblichine. Milton, probabilmente ferito e spossato, giungerà dopo una folle corsa nei pressi di un bosco e crollerà a terra. Qui il libro finisce (o secondo alcuni si interrompe).

Fenoglio non ci dice se Milton è colpito dai proiettili, né se muore, una volta caduto a terra. Ho detto probabilmente ferito, ma Fenoglio non parla di sangue. Pensiamo solo, intravedendolo tra i ragionamenti di Milton che corre, che abbia raggiunto una sua consapevolezza sul comportamento di Giorgio e di Fulvia. Ed il tradimento dei due alla sua amicizia ed al suo indichiarato amore, forse sono più dolorose delle eventuali ferite.

Ripeto, e mi ripeto, un bel libro sull’amore e sulla Resistenza. Apprezzandone l’intreccio nei tormentati pensieri di Milton. Che vanno dal trasporto verso Fulvia, all’incredulità sul comportamento di Giorgio, alla rabbia, ed infine, all’accettazione. E la guerra, con tutti i suoi dolori, con i non facili rapporti tra badogliani e garibaldini, lotte aspre, con morti da tutte le parti. Con la rabbia di non riuscire, sovente, ad avere una unità di lavoro se non di intenti. Unità che già si portava tutto appresso dalle dolorose pagine spagnole di dieci anni prima. E, mutando scene e tempi, ancora oggi continua a fare guasti su tutta la scena politica. Chissà se riuscirò a vederne una pace, prima di…

Patricia Highsmith “Carol” Bompiani euro 10

[tramato il 23 settembre 2018]

Assolutamente da leggere, sia che si sia visto il film con Cate Blanchett, sia che lo si ignori completamenti. Anche se uno conosce la saga di mr. Ripley (soprattutto nella splendida trasposizione che ne fece Wim Wenders, e che vidi con il mio allora cognato al cinema Arlecchino vicino Piazzale Flaminio, ora scomparso[2]) e conosce o meno Patricia, va letto. Anche se uno sa soltanto l’esistenza della splendida idea di “Sconosciuti in treno” che Hitchcock fece diventare il meraviglioso “Delitto per delitto”, va letto.

Il secondo libro della scrittrice americana, dopo il precedente degli sconosciuti, invero ebbe difficoltà ad essere pubblicato, per la sua tematica “forte” per gli anni Cinquanta americani. Tanto che la scrittrice preferì utilizzare lo pseudonimo di Claire Morgan, al fine di non essere etichettata come spesso il mondo delle lettere americane fa. Perché dopo gli sconosciuti, era diventata una scrittrice di “gialli”; dopo Carol, sarebbe diventata una paladina LGBT; dopo la saga di Ripley, una scrittrice di “noir psicologici”. Insomma, nessuno avrebbe visto lei come una scrittrice e basta.

Pesante, la cappa americana di censura sessuale, che costrinse, moralmente Patricia ad emigrare in Svizzera nel 1982, ed a riconoscersi autrice di questo libro solo nel 1989. Un libro, che come lei stessa dice nella breve post-fazione, riflette l’inizio di una sua personale vicenda: aver visto una splendida donna fare acquisti, mentre lei, Patricia, per guadagnarsi da vivere, faceva la commessa da Bloomingdale nel periodo natalizio in un reparto per bambini. A contatto con i “piccoli mostri”, Patricia prese la varicella, si mise a letto per un mese, e rielaborò la vicenda in questo libro.

Che non ha una grande storia, non ha dei grandi passaggi, ma è pieno di amore, di descrizioni delle sensazioni che si provano durante il rapporto tra due persone (vicinanza, lontananza, attrazione, repulsione, ed anche un totale miscuglio di tutto ciò).

Therese commessa, vicina a Richard “perché è buono”, ma senza esserne innamorata, viene folgorata da Carol. Che acquista una bambola per la figlia. Therese, essendo vicino il Natale, le manda un biglietto di auguri, e da lì comincia la storia. Da un lato c’è Therese con il mondo maschile: commessa per avere qualche dollaro, ma scenografa, anche con talento, di professione. Non riesce a trovare incarichi, si accompagna con Richard, un amico del quale gli procura un piccolo ingaggio. È abbastanza vicina, con la testa, a Dennie. Ma non è quello il “suo” universo.

Certo, è una giovane anche colta, ha letto James Joyce e Gertrude Stein, cita Picasso e Mondrian e Cezanne. Insomma, non è lì per caso. Ma è il caso che le mette Carol davanti. Una donna sposata “per convenzione”, con una figlia che adora ed un ex-marito che vuole il divorzio perché Carol è un po’ “deviante”. Fin da bambina ha avuto, ha una storia con Abby, anche se è più nel ricordo infantile di loro due bambine sui dodici-quattordici anni, che sulla loro vita attuale di trentenni. Ma Abby, pur ormai ex, è sempre presente, la aiuta, la consiglia. Fa anche un esame, suo, alla giovane Therese, che ha 19 anni, è immigrata (quindi straniera), ha vissuto in un orfanotrofio perché abbandonata dalla madre. Ma Therese una volta vista Carol, non ha più altro in mente.

Riesce a mandare a quel paese l’inutile Richard. Entra ed esce dagli appuntamenti con Carol, con tutta la leggerezza di una persona innamorata. Finché le due decidono di fare una scorribanda in macchina per le strade americane. Momenti di piena felicità, ma anche di angoscia. Che il marito cattivo le fa pedinare da un investigatore, al fine di usare la sessualità di Carol per toglierle la figlia. Non solo ma per arrivare ad una ordinanza di “completo allontanamento”. Assistiamo all’alternanza, sempre comunque con gli occhi di Therese, tra i suoi momenti soggettivi d’amore, e l’analisi del comportamento degli altri, ed in particolare di Carol. Che, colpita quasi a morte, torna a New York per la causa, lasciando Therese a girellare tra la Iowa ed il Missouri, prima di tornare anche lei A New York, via Illinois e Pennsylvania. Le ultime 40 pagine sono le più intense.

Patricia scopre le carte sino in fondo: una lettera di Carol illuminante, i pensieri di Therese che sta maturando, la delusione che prova vedendo Carol “costretta” a scegliere tra lei e la figlia. Fino ad un finale che finalmente non vi svelo. Avete visto il film? Lo conoscete. Non lo conoscete? Leggete il libro. Una maestria di parole, a volte acerbe (l’autrice è anche lei under 30). Ma che svelano, e con il suo cuore in mano, tutta la vita di Patricia. Quella prima e quella futura fino alla morte più che settantenne in una Svizzera più tollerante dell’intollerante, ingiusta, impossibile America.

“Cosa fa di una commedia un classico? … Un classico è qualcosa che ha alla base una situazione umana.” [per Rosa] (157)

Conclusioni

Non ho particolare propensione per le scelte fatte dalle curatrici. Di certo avrei inserito Zorba in altre cure, e forse, sul mal d’amore si poteva svariare di più (pensando anche che Fenoglio scriveva per tutt’altro). Quindi un giudizio complessivamente poco soddisfacente nelle scelte.



[1] Scusateci se vi diciamo subito come va a finire, ma questo romanzo resta bellissimo anche sapendo che le due ragazze si metteranno insieme.

[2] Il cinema, non il mio ex-cognato


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