Pınar Selek “La casa sul Bosforo” Repubblica
Mondo 4 euro 9,90
[A: 15/12/2018 – I: 17/06/2021 – T: 21/06/2021] - &&& e ½
[tit. or.: La
maison du Bosphore; ling. or.: francese; pagine: 295; anno 2013]
Anche se con qualche
riserva, un libro interessante della collana “La biblioteca del Mondo”, dedicato
alla Turchia. Ma non scritto in turco, che Selek è rifugiata in Francia e dal
2017 ne ha preso la cittadinanza. Anzi, spenderei qualche parola in più proprio
sull’autrice, che in questo libro, in qualche modo, ripercorre, attraverso
alcuni personaggi, anche le sue vicende storiche.
Pınar
viene da una famiglia da sempre schierata nella Turchia dell’ultimo secolo. Il
nonno, Haki Selek, fu tra i fondatori del “Partito turco dei lavoratori”, una
formazione nazionalista di sinistra. Il padre, Alp Selek, avvocato, passò quasi
cinque anni in prigione a seguito del colpo di stato militare del 12 settembre
1980. Laureatasi in sociologia, ha
sempre studiato i diritti delle minoranze. In particolare, quelle curde. Motivo
per cui, oltre ad essere tenuta in osservazione, viene incolpata di un presunto
attentato avvenuto il 9 luglio 1998 al Bazar delle spezie, che provocò 7 morti
e centinaia di feriti. Si dimostrò che lo scoppio fu dovuto ad una fuga di gas.
Tuttavia, Pınar fu incolpata insieme ad esponenti del Partito Curdo. Passa tre
anni in prigione. Dal 2000 al 2008 è un susseguirsi di processi, assoluzioni,
false condanne. Tanto che nel 2008 Pınar decide di
rifugiarsi in Francia. Malgrado le prove inesistenti nel 2017 viene condannata
all’ergastolo in contumacia. Intanto, è riuscita da ottenere la cittadinanza
francese, motivo per cui non può essere arrestata o estradata.
Da
tutto ciò, si capisce come un libro ambientato ad Istanbul, e che si svolge per
più di venti anni dal 1980 a dopo il 2000, non possa non essere anche politico.
Ma Pınar vuole anche innalzare un inno d’amore alla sua patria “bella e
perduta”. Per cui, alle vicende politiche, intreccia avvenimenti “personali”,
di povertà, di quotidianità, d’amore.
Una
delle difficoltà (personali) è stata il proliferare di nomi, che a volte mi
hanno fatto perdere il filo del discorso. Nomi simili, che fanno cose diverse,
e che non ritrovo, e che mi perdo. I personaggi centrali su due coppie di
giovani, che incontriamo poco più che quindicenni all’inizio del romanzo. C’è
Hasan, che studia musica e desidera diventare musicista di professione, e la
sua ragazza Elif, studentessa libertaria tentata dagli aneliti rivoluzionari
che serpeggiano nella sinistra turca. Tra l’altro, Elif è figlia di Jemal,
farmacista incarcerato per quattro anni dopo il golpe del 1980. Inciso: Jemal
ripercorre un po’ i genitori di Pınar, che il padre, come detto, fu realmente
in carcere e la madre era farmacista. Poi ci sono Salih, apprendista falegname
che non riesce mai a staccarsi dalla sua terra, anche perché mantiene tutte le
donne della sua famiglia, e Sema, ragazza inquieta che troverà una sua
dimensione prima come commessa nella farmacia che Jemal riapre, poi nel suo
girovagare per l’Europa insieme a Elif e Hasan, quando i due si rifugeranno
all’estero per motivi politici.
Ma il
vero protagonista è il quartiere di Yedikule, dove vivono i quattro, dove Jemal
apre la sua farmacia. Che diventa punto di ritrovo delle varie anime del
quartiere. Le madri, l’artigiano armeno per il quale lavora Salih, i giovani
curdi che passeggiano per via, la prostituta che la madre di Sema aiuterà a
cambiare vita, la professoressa in pensione, la signora Zabel, Belguin la donna
che legge i fondi del caffè, la signora Nahidé e i suoi gemelli, Kemal che è
innamorato segretamente della signora Nahidé.
Yedikule,
pur essendo un quartiere storico, è decentrato dal “cuore” di Istanbul, si
trova fuori dal Corno d’Oro, lontano da Sultanahmet e da Galata. Ma è turco
nell’animo, con la presenza di quel mix di anime che costituisce il fondo della
popolazione turca, che non è solo autoctona, ma piena (anche) di greci, armeni,
curdi, zingari, ebrei. E la brava Selek riesce a darci una fotografia della
convivenza pacifica che le minoranze possono avere in un mondo dove il
fondamento dei rapporti umani è il rispetto.
I
nostri giovani sono però inquieti. Hasan va in Francia per seguire il suo sogno
di musicista. Elif si lancia nella clandestinità per poi uscirne e raggiungere
Hasan. Sema studia per entrare all’Università. Salih crea oggetti meravigliosi
con il legno. Molta strada dovranno attraversare prima che i loro destini
potranno ricongiungersi. In quel 2001, l’anno prima della presa del potere da
parte di Erdogan. Ma dopo sarà un’altra storia, un altro libro.
Per
ora seguiamo solo le storie minute, anche perché Selek non ci accompagna molto
nelle spiegazioni extra-domestiche. Si parla si politica e di altro, ma in
maniera un po’ trasversale, quasi a non voler irritare ulteriormente un potere
che da decenni l’ha messa nel mirino.
Comunque,
un buon libro, che mi riporta in una città che da sempre ha lasciato tracce nel
mio cuore.
Nadine Gordimer “Ora o mai più” Repubblica
Mondo 7 euro 9,90
[A: 05/01/2019 – I: 18/07/2021 – T: 20/07/2021] - &&
[tit. or.: No time like the present; ling. or.: inglese; pagine: 431; anno 2012]
L’ultimo
romanzo pubblicato in vita dal Premio Nobel sudafricano, ma non mi ha convinto
moltissimo. Non per i temi e la trama, che possono meritare considerazioni
maggiori, ma per la scrittura che ho trovato assai difficile da seguire.
Non
so se riesco a riportare le mie sensazioni, ma, almeno nel testo in italiano,
sembra sempre di sentire una voce che declama e narra i fatti, con un uso della
costruzione delle frasi non intuitivo. Così che con difficoltà sono riuscito ad
entrare nella trama. O meglio nei sentimenti che la trama suggerisce. Certo,
Nadine Gordimer era di testa eccellente, e le idee che sottendono gli
avvenimenti, comunque, arrivano. Non arriva il senso di comunanza con gli
attori del romanzo, e questo me lo ha reso un po’ distante.
Il
tema, comunque, è forte. Lei, e molti come lei, hanno vissuto capovolgimenti
epocali, passando da un regime razzista e autoritario dominato dai bianchi, ad
una democrazia fragile, dove si è cercato, e si cerca, di fornire mezzi uguali
a tutti, a prescindere dalla razza o dalla religione. Per chi ha visitato il
Sudafrica in questi anni ritrova i due elementi forti che lì si vivono: una
sorta di razzismo rovesciato (anche se razzismo è una parola forte) dove, per
rivalsa, si tende a privilegiare il colore scuro (nero se non fosse politically
uncorrect), e dall’altra una chiusura di chi, bianco, avendo tolti privilegi ma
non denaro, si arrocca e si chiude in enclave che non lasciano spazio alla
convivenza.
La
storia, primo colpo forte, segue le vicende della famiglia Reed, composta,
all’inizio delle vicende, quando li incontriamo da Steve, anglofono e bianco,
di madre ebrea e padre cristiano. E da Jabulile, maestra, poi avvocato, dalla
pelle scura, e dalla famiglia in parte ancora tribale. Nonostante il colore
della pelle, si sono sposati, dopo essersi conosciuti nello Swaziland, ai tempi
della Lotta. Lei per studiare, che non poteva farlo in patria. Lui per fuggire
che aveva preso parte a rivolte clandestine. Ora però c’è la “Costituzione”,
possono uscire allo scoperto.
E
nasce la nuova vita. Nasce una bambina, Sindisiwa. Poi una casa nuova in un
quartiere residenziale, dove vivono altri compagni di Steve nella Lotta, spesso
di colore. E dove c’è anche allo scoperto una comunità gay. Poi viene anche il
maschio, Gary Elias. Steve diventa professore all’Università. Jabu lavora ad un
Centro di Assistenza Legale.
La
loro vita trascorre in questa famiglia allargata, con i pochi sopravvissuti
alla Lotta. E con il grande dibattito di come vivere questa nuova vita. Una
speranza? Forse. Ma Steve e Jabu vedono anche la deriva che attraversa il
paese. Zuma, sodale di Mandela, è più volte accusato di corruzione. Molti ex
della Lotta, ora in posizione di potere, sono più tesi alla posizione ed al
denaro, di quanto non fossero al sovvertimento di un sistema ingiusto. Anche
l’onesto padre di Jabu è preso tra il rispetto dei capi che hanno lottato e le
rivelazioni di quello che avviene.
Steve
e Jabu, ognuno per la propria parte, attraversano grossi momenti di crisi.
Soprattutto Steve si sente sfiduciato, tanto che vede come unica possibile
soluzione l’emigrazione definitiva verso un nuovo paese, l’Australia. Tutta
l’ultima parte è incentrata proprio sulla discussione tra i vari attori del
romanzo su questa possibilità. È giusto abbandonare tutto se niente va al posto
giusto? O bisogna continuare? Ritorna sempre nelle orecchie il motto del padre
di Jabu, quello del titolo “Ora o mai più”. Anche se in inglese, il libro si
intitola: Non c’è un tempo come quello attuale. Simile, ma con diverse
sfumature.
Perché
tanti sono i problemi, personali e privati, che la famiglia Reed affronta: Gary
aggressivo, Steve infedele ma pentito, il rapporto complicato tra Steve e
Sindi. Ma soprattutto la difficoltà di comunicare tra chi, dalla nascita, parla
lingue diverse. Lui l’inglese, lei l’isiZulu. I figli entrambi. Intorno, come
detto, anche la Storia del paese: la criminalità che aumenta, il commercio
delle armi, gli scandali sessuali dei potenti, le accuse di corruzione.
I
protagonisti della Lotta, ci dice Nadine, devono fare i conti con una realtà a
volte molto diversa dal loro sogno, valutando decisioni che si sarebbe
preferito non affrontare: perché affrontarle dimostra che, forse, siamo stati
sconfitti. Mi suonano in testa i discorsi di mio padre e dei miei zii, quando
parlavano delle loro decisioni dopo la fine della Guerra.
Ripeto,
e si capisce da quello che ho detto, i temi sono belli e potenti. La scrittura
me ne ha reso difficile riavvolgerli ed applicarli al mio mondo, così come
dovrebbe essere per un testo che colpisce nel profondo.
Per
chi vuole qualcosa che colpisce come un pugno, consiglio di leggere “La polvere
dei sogni” di André Brink.
Fernanda Torres “Fine” Repubblica Mondo 9 euro
9,90
[A: 21/01/2019 – I: 24/07/2021 – T: 25/07/2021] - &&&
[tit. or.: Fim; ling. or.: portoghese; pagine: 189; anno 2013]
A volte passa tanto tempo senza leggere nulla
di scritto in portoghese, ed ecco che dopo il portoghese Peixoto, affronto la
brasiliana Torres, che sempre in portoghese scrive. Questa poi, è la sua opera
prima, scritta sulla soglia dei cinquant’anni, dato che prima (e anche dopo)
prosegue il suo principale mestiere: l’attrice. Ed anche assai nota in patria
(e da qualche cinefilo). È infatti figlia di Fernanda Montenegro (prima
latino-americana ad essere candidata al Premio Oscar come miglior attrice), e
lei stessa vinse nel 1986 il premio per la migliore attrice protagonista al
Festival di Cannes con il film “Eu Sei que Vou Te Amar” (“Io sì che ti amerò”,
dal titolo della canzone di Ornella Vanoni).
Ma noi ci sbarazziamo presto del contesto, e
ci buttiamo a testa bassa in un testo che mi ha personalmente preso molto. Ben
scritto, ben orchestrato, forse alla fine con un meccanismo un po’ ripetitivo
sulle situazioni descritte. Ma mai ridondante, mai che torni su binari
semplici, dato che l’argomento, i sé, non è dei più facile.
È la storia di cinque uomini, Álvaro, Sílvio,
Ribeiro, Neto, Ciro, colti negli ultimi istanti delle loro rispettive vite,
“mentre muoiono”, parafrasando Faulkner. Ed è forse questo girare intorno alla
morte, in noi che, anche non volendo, stiamo crescendo negli anni, che prende,
ed a me coinvolge. E già dal titolo, che fa presagire non come accadrà, ma di
sicuro quello che accadrà.
Torres
costruisce una sorta di walzer schnitzleriano, senza tornare sui propri passi,
ma svolgendo la fine di ognuno dei cinque uomini, dal soggettivo ai contorni di
persone coinvolte nel giro d’amicizia. Cambiando spesso punto di vista,
rivoltando oggettività in soggettività. Passando sempre, ognuno dei cinque, per
la “mitica” orgia organizzata alla fine degli anni Ottanta da Sílvio, che
ciascuno ricorda in modo diverso, quasi fosse una cartina di tornasole dei
rispettivi caratteri.
I
cinque sono quasi coetanei, essendo Álvaro e Neto del ‘29, Sílvio e Ribeiro del
‘33, con il solo Ciro del ’40. Ma la loro frequentazione iniziando negli anni
’60, sono tutti tra i venti ed i trent’anni, che si può stare insieme. In
quegli anni dove nasce il mito di Copacabana, del Brasile facile di sesso e
droga, con uno strascico di soldi facili da spendere e spandere. Il mito di una
città edonista, dove esplode la bossanova e la vita trascorre come fosse
un’ininterrotta festa in spiaggia.
Ciro
è il bello del gruppo, e dopo vari amorazzi, si invaghisce e sposa la bella
Ruth. Anche lei presissima da Ciro, senza mai accorgersi dell’amore da lontano
che le riserva Ribeiro. Neto è mulatto e riservato, e si sposerà con la quasi
mulatta Candy. Mentre Álvaro, indolente e ipocondriaco, si sposerà, senza
realmente volerlo, con Irene, l’amica del cuore di Ruth. C’è solo Sílvio che
rimane a fare il farfallone, che si riempie di eccitanti ed altro, e che dopo
pochi anni lascerà Norma per mettersi con la giovanissima Suzana, che per poco
era stata con Ribeiro, ma senza esserne innamorata.
La
capacità di Fernanda è di farci scorrere queste vite piene di sesso e di poco o
niente altro, con le crisi varie che si susseguono. Con Ciro che dopo dieci
anni si satura di Ruth e passa di nuovo “di fiore in fiore”. Fino alla scoperta
del tumore ed alla morte a cinquant’anni in solitaria ospedalizzazione. Una
morte che poi vedremo raccontata e molto bene dall’infermiera Maria Clara.
L’anno dopo, senza segni apparenti, anche Candy muore e Neto ne avrà il cuore
spezzato, seguendola ben presto nella tomba.
Seguiamo,
nelle parole trasverse, le vicende degli altri. Con Sílvio che finirà i suoi
giorni avvicinandosi agli ottanta, in un mix di sesso, alcool e droghe. Ottanta
fatali anche a Ribeiro, unico rimasto single, che si consola con donne a
pagamento, e perisce per un’overdose di Viagra. Rimane il solo Álvaro, solo
anche di fatto, che lascia la poco amata Irene, invecchia ed a ottantacinque
anni viene portato via da un infarto.
Una
storia piena di gente che lascia o che viene lasciata, che tradisce o viene
tradita. Un triste universo maschile, sgradevole ed esilarante. Un ritratto
spietato di una generazione che fallisce descritta con le parole di cinque
“carioca”, avendo sullo sfondo il sesto protagonista, la città di Rio de
Janeiro.
Non
so se mi ha coinvolto per il senso di sconfitta, ma credo che sia più corretto
pensare che la fine, prima o poi, arriva. E qui, è ben descritta, in alcuni dei
suoi aspetti peggiori.
“Quanti
anni hai? Ventiquattro. … Passano. Approfittane, che passano in fretta.” (176)
Helen Humphreys “Cani selvaggi” Repubblica
Mondo 26 euro 9,90
[A: 21/05/2019 – I: 10/09/2021 – T:
11/09/2021] - &&
[tit. or.: Wild dogs; ling. or.: inglese; pagine: 173; anno 2004]
Facciamo un salto in un panorama letterario
non molto presente nelle mie librerie: parliamo di autori canadesi (anche se ci
sono Alice Munro e Margaret Atwood, tanto per citare), che spesso sono
mescolati ai nordamericani. Poi ce ne sono alcuni che hanno valenze specifiche,
e questa è una che appartiene grandemente a questa categoria.
Helen Humphreys, secondo le ricerche fatte,
risulta più una poetessa che una scrittrice. Inoltre, e questo è un grosso
punto a favore, è nata il 13 giugno, nel giorno in cui mio padre compiva 38
anni. Pur nata in Inghilterra, si trasferisce prestissimo in Ontario, diventa
canadese, ed in Ontario vive con la sua cagna, Fig.
Un libro profondamente intriso di una duplice
atmosfera: il Grande Nord, cioè i mondi selvaggi e freddi tra Canada e Nord America, e la desolazione della perdita,
sia essa piccola o grande, la perdita di un amore o la perdita di un lavoro. Un
libro che si apprezza pienamente dopo aver letto in gioventù “Zanna Bianca” di
London e dopo aver visto, quando volete voi, il film di Chloé Zhao “Nomadland”.
La vicenda, infatti, è ambientata nelle
sperdute plaghe dell’America del Nord, in una cittadina canadese dove si sente
con forza la crisi economica ed il conseguente desolamento, ambientale e
personale. In questa lana incontriamo sei personaggi (Alice, Jamie, Lily,
Walter, Malcom e Rachel), uniti da un destino parallelo: sono stati tutti
abbandonati dai loro cani. Cani che si sono uniti ad un branco di lupi, vagando
in modo selvaggio per la zona.
La vicenda la seguiamo dalle parole di Alice,
dalla sua ottica. Ci descrive questo “club di proprietari abbandonati”, ci
porta con tutti e sei al limitar del bosco, la sera, a richiamare i cani,
sperando tornino indietro. Ci fa sentire come il cane sia il centro del loro mondo,
anche dal modo in cui si presentano quando si incontrano. Una specie di rituale
che prevede in sequenza: “il nostro nome, il nome del cane, la razza, chi ha
mandato via il cane”.
Reiterando il rituale serale, poi, entriamo
nel mondo di ognuno di loro, attraverso la storia che l’autrice ci fa seguire
principalmente con le parole di Alice, ma anche con capitoli visti dall’ottica
di ognuno degli abbandonati. Alice ha da poco troncato una tormentata storia
d’amore e nella routine serale entra in contatto con Rachel. Lei se ne
innamora, ma Rachel sembra sentirsi soffocare dal rapporto con l’altro e cerca
di allontanarla. Conosciamo Malcom, dall’enorme fragilità emotiva che cerca di
esorcizzare dedicandosi alla pittura e che offre ad Alice una casa temporanea, mentre
lei cerca di sanare le sue ferite (del cane e dell’amante). Jamie, il ragazzo
randagio che con la sua spavalderia cerca di contrastare l’infelicità che vive
nella sua dimora abituale, terrorizzato dal suo violento patrigno. Walter, il
cacciatore, che riamane sempre un po’ isolato, ma che sarà un punto di volta
forte per la vicenda. Ed infine, l’innocente Lily, una ragazzina con problemi
mentali, che non sa come bloccare le infinite trappole che le pone davanti la
sua vita, e che deciderà di unirsi al branco di cani e lupi, con esiti
disastrosi.
Tutto ruota intorno a queste perdite, che
creano legami altrimenti non comprensibili. Ma l’unione porta i sei verso la
speranza. Mostrando le proprie fragilità, ognuno spera che l’altro, in qualche
modo, trovi la maniera di fargli percorrere una strada nuova, per ritrovare in
primis i cani e poi sé stessi.
La crisi economica e personale, fa balzare il
primo piano uno dei nodi fondanti della vita moderna, il difficile rapporto tra
natura e cultura. Ma, come si capisce, il sotto tema, quello che diventa il
“basso continuo” del libro è l’amore: l’amore tra gli umani, l’amore tra gli
animali, l’amore tra gli umani e gli animali, l’amore passione, l’amore
romantico, l’amore (ma soprattutto la sua mancanza) nel rapporto di coppia e
nel rapporto tra genitori e figli.
Dopo tanti giri di parole, in fondo, quindi,
questa storia sull’amore, è in realtà la storia della paura dell’abbandono.
Anzi, la paura di essere abbandonati da chi si ama, e di conseguenza, la paura
di perdere i nostri, quotidiani, placidi, punti di riferimento.
La scrittura dell’autrice è decisamente
efficace, anche se, venendo dal suo retroterra poetico, a volte mi sono perso
nelle descrizioni, e nei voli verbali. Tanto che alla fine non risulta così
efficace come avrebbe potuto essere. Un buon testo, leggibile anche se non
sempre godibile.
“E quelle due parole, ti amo, non
bisognerebbe mai usarle se uno non è sincero.” (128)
Badriya Al-Bishr “Profumo di caffè e
cardamomo” Repubblica Mondo 30 euro 9,90
[A: 23/06/2019 – I: 23/09/2021 – T: 24/09/2021] - &&
[tit. or.: Hind wal-askar; ling. or.: arabo; pagine: 173; anno 2008]
Sinceramente, mi aspettavo di più da questo
primo libro della letteratura Saudita che mi capita di leggere. Ho
discretamente letto di libri arabi, ma nessuno che provenisse dall’Arabia
Saudita e, soprattutto, nessuno scritto da mano femminile. Ma prima di
addentrarmi nel libro, la solita domanda agli editor della casa editrice per
cui uscì in Italia (“Atmosphere”). Vorrei capire come si passa da un titolo
legato alla protagonista (Hind) contrapposta, lei aspra, allo zucchero, ad uno
che parla di caffè arabo al cardamomo, sempre degno e gradito. Dove, tuttavia,
scompare la protagonista. Soliti misteri editoriali.
Intanto, rendiamo comunque omaggio al
coraggio di Badriya, che non rifiuta tutto negando anche la religione, come c’è
chi l’ha fatto. Ma cerca quasi di riflettere (e far riflettere) con le sue
parole, con la storia che narra, su di un possibile “Rinascimento” del Mondo
Arabo. Che è una riflessione che mi sta accompagnando da anni. Il
Cattolicesimo, nel passaggio all’Età Moderna, avviò un’opera di riflessione ed
aggiornamento della religione, cosa che, per i miei modesti ricordi, non è,
ancora, avvenuta per l’Islam. Badriya pone domande e descrive fatti che fanno
riflettere in questa direzione. Certo, in Arabia Saudita, alla fine, il suo
posto era un po’ stretto, tanto che dal 2006 si è trasferita a Dubai per
continuare la sua opera di giornalismo.
Tornando alla pagina scritta, Badriya prende
come esempio preclaro della condizione femminile nel mondo arabo la storia
della giovane Hind. La bimba vive a Riyadh, con i cinque fratelli ed i
genitori. Il padre ha fatto fortuna nell’edilizia durante gli anni d’oro (che
localmente vengono chiamati “Anni del Petrolio”) così che la vita di famiglia è
agiata. Anche le bambine hanno potuto studiare, cosa che non è scontata. Il
grosso scontro però, all’inizio, non è con il padre, che pur rappresenta il
mondo maschile, ma con la madre Hila “ignorante e rocciosa”. Hila che ha dovuto
subire un matrimonio combinato, che non ha mai amato il marito, e che, per
rivincita, si atteggia ad essere più realista del re: Hind non si deve
comportare male, che andrà dritta all’inferno; Hind non deve parlare con i maschi;
Hind non deve giocare con i maschi. E quando la scopre, la segrega in una
stanza a pane e acqua.
Hind, a scuola, scopre però che esistono
anche storie buone, come Cenerentola. Leggendo, capisce che la scrittura può
diventare un modo di uscire dall’isolamento. Ma deve scrivere con attenzione,
poi deve scrivere sotto pseudonimo maschile. Hind vorrebbe avere anche una vita
amorosa “normale”, ma sarà sempre Hila che ne blocca tutte le uscite. Così che
la nostra ormai giovane pensa di poter fuggire alle grinfie materne, sposando,
anche se in un matrimonio combinato, il cugino Mansur.
Hind resiste un po’, fino alla nascita della
figlia May. Quindi, in accordo con Mansur, decide per il divorzio. Certo, non è
facile la vita di una divorziata nel mondo arabo. Perché l’uomo è l’unico
deputato ufficialmente a sostenere la famiglia. Quindi deve cercarsi un lavoro,
che trova come assistente sociale in un ospedale.
Qui abbiamo una nuova biforcazione. In
ospedale conosce un uomo diverso dai maschi-padroni finora incontrati, il dolce
Walid. Tuttavia, non sa decidersi al grande passo, condizionata dal modo di
vivere locale. Inoltre, c’è una grande frattura nella famiglia. Il fratello
maggiore emigra in Canada per togliersi il peso di un mondo che non sente suo.
Il secondo fratello, Ibrahim, invece, si radicalizza diventando, forse, un
attentatore suicida. Lascio il forse alla vostra lettura. Hind non vuole
fuggire da tutto ciò, ma allontanarsi per aver tempo e modo di ragionare con sé
stessa, e decidere della sua strada.
Il buono del romanzo è far vedere, anche a
chi poco ne conosce, alcuni aspetti del mondo arabo non sempre noti ai più.
Tutti sanno che le donne, in Arabia Saudita, non possono guidare l’auto (ma
qualcosa sta cambiando). Ma possono studiare e lavorare. Inoltre, possono
divorziare, anche se con procedure leggermente più complesse di quelle
maschili. Impariamo anche che nel ondo ristretto wahabita (che è l’ortodossia
lì regnante) esiste un organismo terribile di cui capiamo subito l’importanza e
la cattiveria dal nome: “Commissione per la promozione della virtù e la
prevenzione del vizio”.
Questo ci porta ai temi forti del romanzo: la
discriminazione di genere, l’oppressione maschile ma anche l’acquiescenza
femminile, i matrimoni combinati, l’estremismo religioso. È un interessante
manuale sulla condizione femminile in Arabia, raccontata in forma di romanzo.
Con quella punta di cattiveria in meno, rispetto alla realtà, che alla fine, se
ne fa un buon libro di esempi, non lo rende un efficace romanzo a tutto tondo.
Le scelte ed i modi sia dei buoni (Hind, Walid) sia dei cattivi (Hila, Ibrahim)
non sono portati sino in fondo, e qualcosa rimane non detto. Compreso ma non
detto.
Finisco con un ricordo personal-trasversale.
A pagina 63 Hind confessa di aver difficoltà a leggere un libro di Nikos Kazantzakis
(nella fattispecie “Cristo di nuovo in croce”). Confessione che viene a poche
settimane della mia non agevole lettura di Zorba, per cui mi sono sentito
empatico con Hind.
“Forse per le persone intelligenti è sempre
così, devono pagare il prezzo della propria intelligenza, mentre gli stupidi
trionfano.” (94)
Quarta
uscita del mese di gennaio, che come sanno i più anziani, è dedicata al riposo
da allegati vari.
Non
ci facciamo mancare una citazione ad hoc, proveniente da “La casa grande” di Mohammed Dib : “trovavano strano che
un uomo leggesse dei libri”. Immagino una stranezza che nessuno di noi
condivide.
Comunque, una buona fine di mese, piena al solito di compleanni, cui i miei amici sono stati già omaggiati, e di iniziative, tra cui un rilassante (per me) fine settimana marino. Andiamo quindi ad affrontare un nuovo mese, che già si preannuncia denso di impegni, ma anche carico di abbracci.
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