domenica 30 gennaio 2022

In giro per il mondo - 30 gennaio 2022

Scrittura al femminile, questa settimana, spaziando in lungo e in largo per le terre emerse. Due buone scrittrici, che vengono dai due estremi, la turca Selek e la brasiliana Torres. E tre che invece sempre estreme, ma che mi hanno convinto di meno: la sudafricana Gordimer, la canadese Humphrys e la saudita Badrya Al-Bishr. Certo che sono comunque scritture interessanti, visto che spaziano per il mappamondo, mentre io aspetto di prendere un nuovo aereo…

Pınar Selek “La casa sul Bosforo” Repubblica Mondo 4 euro 9,90

[A: 15/12/2018 – I: 17/06/2021 – T: 21/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: La maison du Bosphore; ling. or.: francese; pagine: 295; anno 2013]

Anche se con qualche riserva, un libro interessante della collana “La biblioteca del Mondo”, dedicato alla Turchia. Ma non scritto in turco, che Selek è rifugiata in Francia e dal 2017 ne ha preso la cittadinanza. Anzi, spenderei qualche parola in più proprio sull’autrice, che in questo libro, in qualche modo, ripercorre, attraverso alcuni personaggi, anche le sue vicende storiche.

Pınar viene da una famiglia da sempre schierata nella Turchia dell’ultimo secolo. Il nonno, Haki Selek, fu tra i fondatori del “Partito turco dei lavoratori”, una formazione nazionalista di sinistra. Il padre, Alp Selek, avvocato, passò quasi cinque anni in prigione a seguito del colpo di stato militare del 12 settembre 1980.  Laureatasi in sociologia, ha sempre studiato i diritti delle minoranze. In particolare, quelle curde. Motivo per cui, oltre ad essere tenuta in osservazione, viene incolpata di un presunto attentato avvenuto il 9 luglio 1998 al Bazar delle spezie, che provocò 7 morti e centinaia di feriti. Si dimostrò che lo scoppio fu dovuto ad una fuga di gas. Tuttavia, Pınar fu incolpata insieme ad esponenti del Partito Curdo. Passa tre anni in prigione. Dal 2000 al 2008 è un susseguirsi di processi, assoluzioni, false condanne. Tanto che nel 2008 Pınar decide di rifugiarsi in Francia. Malgrado le prove inesistenti nel 2017 viene condannata all’ergastolo in contumacia. Intanto, è riuscita da ottenere la cittadinanza francese, motivo per cui non può essere arrestata o estradata.

Da tutto ciò, si capisce come un libro ambientato ad Istanbul, e che si svolge per più di venti anni dal 1980 a dopo il 2000, non possa non essere anche politico. Ma Pınar vuole anche innalzare un inno d’amore alla sua patria “bella e perduta”. Per cui, alle vicende politiche, intreccia avvenimenti “personali”, di povertà, di quotidianità, d’amore.

Una delle difficoltà (personali) è stata il proliferare di nomi, che a volte mi hanno fatto perdere il filo del discorso. Nomi simili, che fanno cose diverse, e che non ritrovo, e che mi perdo. I personaggi centrali su due coppie di giovani, che incontriamo poco più che quindicenni all’inizio del romanzo. C’è Hasan, che studia musica e desidera diventare musicista di professione, e la sua ragazza Elif, studentessa libertaria tentata dagli aneliti rivoluzionari che serpeggiano nella sinistra turca. Tra l’altro, Elif è figlia di Jemal, farmacista incarcerato per quattro anni dopo il golpe del 1980. Inciso: Jemal ripercorre un po’ i genitori di Pınar, che il padre, come detto, fu realmente in carcere e la madre era farmacista. Poi ci sono Salih, apprendista falegname che non riesce mai a staccarsi dalla sua terra, anche perché mantiene tutte le donne della sua famiglia, e Sema, ragazza inquieta che troverà una sua dimensione prima come commessa nella farmacia che Jemal riapre, poi nel suo girovagare per l’Europa insieme a Elif e Hasan, quando i due si rifugeranno all’estero per motivi politici.

Ma il vero protagonista è il quartiere di Yedikule, dove vivono i quattro, dove Jemal apre la sua farmacia. Che diventa punto di ritrovo delle varie anime del quartiere. Le madri, l’artigiano armeno per il quale lavora Salih, i giovani curdi che passeggiano per via, la prostituta che la madre di Sema aiuterà a cambiare vita, la professoressa in pensione, la signora Zabel, Belguin la donna che legge i fondi del caffè, la signora Nahidé e i suoi gemelli, Kemal che è innamorato segretamente della signora Nahidé.

Yedikule, pur essendo un quartiere storico, è decentrato dal “cuore” di Istanbul, si trova fuori dal Corno d’Oro, lontano da Sultanahmet e da Galata. Ma è turco nell’animo, con la presenza di quel mix di anime che costituisce il fondo della popolazione turca, che non è solo autoctona, ma piena (anche) di greci, armeni, curdi, zingari, ebrei. E la brava Selek riesce a darci una fotografia della convivenza pacifica che le minoranze possono avere in un mondo dove il fondamento dei rapporti umani è il rispetto.

I nostri giovani sono però inquieti. Hasan va in Francia per seguire il suo sogno di musicista. Elif si lancia nella clandestinità per poi uscirne e raggiungere Hasan. Sema studia per entrare all’Università. Salih crea oggetti meravigliosi con il legno. Molta strada dovranno attraversare prima che i loro destini potranno ricongiungersi. In quel 2001, l’anno prima della presa del potere da parte di Erdogan. Ma dopo sarà un’altra storia, un altro libro.

Per ora seguiamo solo le storie minute, anche perché Selek non ci accompagna molto nelle spiegazioni extra-domestiche. Si parla si politica e di altro, ma in maniera un po’ trasversale, quasi a non voler irritare ulteriormente un potere che da decenni l’ha messa nel mirino.

Comunque, un buon libro, che mi riporta in una città che da sempre ha lasciato tracce nel mio cuore.

Nadine Gordimer “Ora o mai più” Repubblica Mondo 7 euro 9,90

[A: 05/01/2019 – I: 18/07/2021 – T: 20/07/2021] - &&

[tit. or.: No time like the present; ling. or.: inglese; pagine: 431; anno 2012]

L’ultimo romanzo pubblicato in vita dal Premio Nobel sudafricano, ma non mi ha convinto moltissimo. Non per i temi e la trama, che possono meritare considerazioni maggiori, ma per la scrittura che ho trovato assai difficile da seguire.

Non so se riesco a riportare le mie sensazioni, ma, almeno nel testo in italiano, sembra sempre di sentire una voce che declama e narra i fatti, con un uso della costruzione delle frasi non intuitivo. Così che con difficoltà sono riuscito ad entrare nella trama. O meglio nei sentimenti che la trama suggerisce. Certo, Nadine Gordimer era di testa eccellente, e le idee che sottendono gli avvenimenti, comunque, arrivano. Non arriva il senso di comunanza con gli attori del romanzo, e questo me lo ha reso un po’ distante.

Il tema, comunque, è forte. Lei, e molti come lei, hanno vissuto capovolgimenti epocali, passando da un regime razzista e autoritario dominato dai bianchi, ad una democrazia fragile, dove si è cercato, e si cerca, di fornire mezzi uguali a tutti, a prescindere dalla razza o dalla religione. Per chi ha visitato il Sudafrica in questi anni ritrova i due elementi forti che lì si vivono: una sorta di razzismo rovesciato (anche se razzismo è una parola forte) dove, per rivalsa, si tende a privilegiare il colore scuro (nero se non fosse politically uncorrect), e dall’altra una chiusura di chi, bianco, avendo tolti privilegi ma non denaro, si arrocca e si chiude in enclave che non lasciano spazio alla convivenza.

La storia, primo colpo forte, segue le vicende della famiglia Reed, composta, all’inizio delle vicende, quando li incontriamo da Steve, anglofono e bianco, di madre ebrea e padre cristiano. E da Jabulile, maestra, poi avvocato, dalla pelle scura, e dalla famiglia in parte ancora tribale. Nonostante il colore della pelle, si sono sposati, dopo essersi conosciuti nello Swaziland, ai tempi della Lotta. Lei per studiare, che non poteva farlo in patria. Lui per fuggire che aveva preso parte a rivolte clandestine. Ora però c’è la “Costituzione”, possono uscire allo scoperto.

E nasce la nuova vita. Nasce una bambina, Sindisiwa. Poi una casa nuova in un quartiere residenziale, dove vivono altri compagni di Steve nella Lotta, spesso di colore. E dove c’è anche allo scoperto una comunità gay. Poi viene anche il maschio, Gary Elias. Steve diventa professore all’Università. Jabu lavora ad un Centro di Assistenza Legale.

La loro vita trascorre in questa famiglia allargata, con i pochi sopravvissuti alla Lotta. E con il grande dibattito di come vivere questa nuova vita. Una speranza? Forse. Ma Steve e Jabu vedono anche la deriva che attraversa il paese. Zuma, sodale di Mandela, è più volte accusato di corruzione. Molti ex della Lotta, ora in posizione di potere, sono più tesi alla posizione ed al denaro, di quanto non fossero al sovvertimento di un sistema ingiusto. Anche l’onesto padre di Jabu è preso tra il rispetto dei capi che hanno lottato e le rivelazioni di quello che avviene.

Steve e Jabu, ognuno per la propria parte, attraversano grossi momenti di crisi. Soprattutto Steve si sente sfiduciato, tanto che vede come unica possibile soluzione l’emigrazione definitiva verso un nuovo paese, l’Australia. Tutta l’ultima parte è incentrata proprio sulla discussione tra i vari attori del romanzo su questa possibilità. È giusto abbandonare tutto se niente va al posto giusto? O bisogna continuare? Ritorna sempre nelle orecchie il motto del padre di Jabu, quello del titolo “Ora o mai più”. Anche se in inglese, il libro si intitola: Non c’è un tempo come quello attuale. Simile, ma con diverse sfumature.

Perché tanti sono i problemi, personali e privati, che la famiglia Reed affronta: Gary aggressivo, Steve infedele ma pentito, il rapporto complicato tra Steve e Sindi. Ma soprattutto la difficoltà di comunicare tra chi, dalla nascita, parla lingue diverse. Lui l’inglese, lei l’isiZulu. I figli entrambi. Intorno, come detto, anche la Storia del paese: la criminalità che aumenta, il commercio delle armi, gli scandali sessuali dei potenti, le accuse di corruzione.

I protagonisti della Lotta, ci dice Nadine, devono fare i conti con una realtà a volte molto diversa dal loro sogno, valutando decisioni che si sarebbe preferito non affrontare: perché affrontarle dimostra che, forse, siamo stati sconfitti. Mi suonano in testa i discorsi di mio padre e dei miei zii, quando parlavano delle loro decisioni dopo la fine della Guerra.

Ripeto, e si capisce da quello che ho detto, i temi sono belli e potenti. La scrittura me ne ha reso difficile riavvolgerli ed applicarli al mio mondo, così come dovrebbe essere per un testo che colpisce nel profondo.

Per chi vuole qualcosa che colpisce come un pugno, consiglio di leggere “La polvere dei sogni” di André Brink.

Fernanda Torres “Fine” Repubblica Mondo 9 euro 9,90

[A: 21/01/2019 – I: 24/07/2021 – T: 25/07/2021] - &&& 

[tit. or.: Fim; ling. or.: portoghese; pagine: 189; anno 2013]

A volte passa tanto tempo senza leggere nulla di scritto in portoghese, ed ecco che dopo il portoghese Peixoto, affronto la brasiliana Torres, che sempre in portoghese scrive. Questa poi, è la sua opera prima, scritta sulla soglia dei cinquant’anni, dato che prima (e anche dopo) prosegue il suo principale mestiere: l’attrice. Ed anche assai nota in patria (e da qualche cinefilo). È infatti figlia di Fernanda Montenegro (prima latino-americana ad essere candidata al Premio Oscar come miglior attrice), e lei stessa vinse nel 1986 il premio per la migliore attrice protagonista al Festival di Cannes con il film “Eu Sei que Vou Te Amar” (“Io sì che ti amerò”, dal titolo della canzone di Ornella Vanoni).

Ma noi ci sbarazziamo presto del contesto, e ci buttiamo a testa bassa in un testo che mi ha personalmente preso molto. Ben scritto, ben orchestrato, forse alla fine con un meccanismo un po’ ripetitivo sulle situazioni descritte. Ma mai ridondante, mai che torni su binari semplici, dato che l’argomento, i sé, non è dei più facile.

È la storia di cinque uomini, Álvaro, Sílvio, Ribeiro, Neto, Ciro, colti negli ultimi istanti delle loro rispettive vite, “mentre muoiono”, parafrasando Faulkner. Ed è forse questo girare intorno alla morte, in noi che, anche non volendo, stiamo crescendo negli anni, che prende, ed a me coinvolge. E già dal titolo, che fa presagire non come accadrà, ma di sicuro quello che accadrà.

Torres costruisce una sorta di walzer schnitzleriano, senza tornare sui propri passi, ma svolgendo la fine di ognuno dei cinque uomini, dal soggettivo ai contorni di persone coinvolte nel giro d’amicizia. Cambiando spesso punto di vista, rivoltando oggettività in soggettività. Passando sempre, ognuno dei cinque, per la “mitica” orgia organizzata alla fine degli anni Ottanta da Sílvio, che ciascuno ricorda in modo diverso, quasi fosse una cartina di tornasole dei rispettivi caratteri.

I cinque sono quasi coetanei, essendo Álvaro e Neto del ‘29, Sílvio e Ribeiro del ‘33, con il solo Ciro del ’40. Ma la loro frequentazione iniziando negli anni ’60, sono tutti tra i venti ed i trent’anni, che si può stare insieme. In quegli anni dove nasce il mito di Copacabana, del Brasile facile di sesso e droga, con uno strascico di soldi facili da spendere e spandere. Il mito di una città edonista, dove esplode la bossanova e la vita trascorre come fosse un’ininterrotta festa in spiaggia.

Ciro è il bello del gruppo, e dopo vari amorazzi, si invaghisce e sposa la bella Ruth. Anche lei presissima da Ciro, senza mai accorgersi dell’amore da lontano che le riserva Ribeiro. Neto è mulatto e riservato, e si sposerà con la quasi mulatta Candy. Mentre Álvaro, indolente e ipocondriaco, si sposerà, senza realmente volerlo, con Irene, l’amica del cuore di Ruth. C’è solo Sílvio che rimane a fare il farfallone, che si riempie di eccitanti ed altro, e che dopo pochi anni lascerà Norma per mettersi con la giovanissima Suzana, che per poco era stata con Ribeiro, ma senza esserne innamorata.

La capacità di Fernanda è di farci scorrere queste vite piene di sesso e di poco o niente altro, con le crisi varie che si susseguono. Con Ciro che dopo dieci anni si satura di Ruth e passa di nuovo “di fiore in fiore”. Fino alla scoperta del tumore ed alla morte a cinquant’anni in solitaria ospedalizzazione. Una morte che poi vedremo raccontata e molto bene dall’infermiera Maria Clara. L’anno dopo, senza segni apparenti, anche Candy muore e Neto ne avrà il cuore spezzato, seguendola ben presto nella tomba.

Seguiamo, nelle parole trasverse, le vicende degli altri. Con Sílvio che finirà i suoi giorni avvicinandosi agli ottanta, in un mix di sesso, alcool e droghe. Ottanta fatali anche a Ribeiro, unico rimasto single, che si consola con donne a pagamento, e perisce per un’overdose di Viagra. Rimane il solo Álvaro, solo anche di fatto, che lascia la poco amata Irene, invecchia ed a ottantacinque anni viene portato via da un infarto.

Una storia piena di gente che lascia o che viene lasciata, che tradisce o viene tradita. Un triste universo maschile, sgradevole ed esilarante. Un ritratto spietato di una generazione che fallisce descritta con le parole di cinque “carioca”, avendo sullo sfondo il sesto protagonista, la città di Rio de Janeiro.

Non so se mi ha coinvolto per il senso di sconfitta, ma credo che sia più corretto pensare che la fine, prima o poi, arriva. E qui, è ben descritta, in alcuni dei suoi aspetti peggiori.

“Quanti anni hai? Ventiquattro. … Passano. Approfittane, che passano in fretta.” (176)

Helen Humphreys “Cani selvaggi” Repubblica Mondo 26 euro 9,90

[A: 21/05/2019 – I: 10/09/2021 – T: 11/09/2021] - &&

[tit. or.: Wild dogs; ling. or.: inglese; pagine: 173; anno 2004]

Facciamo un salto in un panorama letterario non molto presente nelle mie librerie: parliamo di autori canadesi (anche se ci sono Alice Munro e Margaret Atwood, tanto per citare), che spesso sono mescolati ai nordamericani. Poi ce ne sono alcuni che hanno valenze specifiche, e questa è una che appartiene grandemente a questa categoria.

Helen Humphreys, secondo le ricerche fatte, risulta più una poetessa che una scrittrice. Inoltre, e questo è un grosso punto a favore, è nata il 13 giugno, nel giorno in cui mio padre compiva 38 anni. Pur nata in Inghilterra, si trasferisce prestissimo in Ontario, diventa canadese, ed in Ontario vive con la sua cagna, Fig.

Un libro profondamente intriso di una duplice atmosfera: il Grande Nord, cioè i mondi selvaggi e freddi tra Canada e  Nord America, e la desolazione della perdita, sia essa piccola o grande, la perdita di un amore o la perdita di un lavoro. Un libro che si apprezza pienamente dopo aver letto in gioventù “Zanna Bianca” di London e dopo aver visto, quando volete voi, il film di Chloé Zhao “Nomadland”.

La vicenda, infatti, è ambientata nelle sperdute plaghe dell’America del Nord, in una cittadina canadese dove si sente con forza la crisi economica ed il conseguente desolamento, ambientale e personale. In questa lana incontriamo sei personaggi (Alice, Jamie, Lily, Walter, Malcom e Rachel), uniti da un destino parallelo: sono stati tutti abbandonati dai loro cani. Cani che si sono uniti ad un branco di lupi, vagando in modo selvaggio per la zona.

La vicenda la seguiamo dalle parole di Alice, dalla sua ottica. Ci descrive questo “club di proprietari abbandonati”, ci porta con tutti e sei al limitar del bosco, la sera, a richiamare i cani, sperando tornino indietro. Ci fa sentire come il cane sia il centro del loro mondo, anche dal modo in cui si presentano quando si incontrano. Una specie di rituale che prevede in sequenza: “il nostro nome, il nome del cane, la razza, chi ha mandato via il cane”.

Reiterando il rituale serale, poi, entriamo nel mondo di ognuno di loro, attraverso la storia che l’autrice ci fa seguire principalmente con le parole di Alice, ma anche con capitoli visti dall’ottica di ognuno degli abbandonati. Alice ha da poco troncato una tormentata storia d’amore e nella routine serale entra in contatto con Rachel. Lei se ne innamora, ma Rachel sembra sentirsi soffocare dal rapporto con l’altro e cerca di allontanarla. Conosciamo Malcom, dall’enorme fragilità emotiva che cerca di esorcizzare dedicandosi alla pittura e che offre ad Alice una casa temporanea, mentre lei cerca di sanare le sue ferite (del cane e dell’amante). Jamie, il ragazzo randagio che con la sua spavalderia cerca di contrastare l’infelicità che vive nella sua dimora abituale, terrorizzato dal suo violento patrigno. Walter, il cacciatore, che riamane sempre un po’ isolato, ma che sarà un punto di volta forte per la vicenda. Ed infine, l’innocente Lily, una ragazzina con problemi mentali, che non sa come bloccare le infinite trappole che le pone davanti la sua vita, e che deciderà di unirsi al branco di cani e lupi, con esiti disastrosi.

Tutto ruota intorno a queste perdite, che creano legami altrimenti non comprensibili. Ma l’unione porta i sei verso la speranza. Mostrando le proprie fragilità, ognuno spera che l’altro, in qualche modo, trovi la maniera di fargli percorrere una strada nuova, per ritrovare in primis i cani e poi sé stessi.

La crisi economica e personale, fa balzare il primo piano uno dei nodi fondanti della vita moderna, il difficile rapporto tra natura e cultura. Ma, come si capisce, il sotto tema, quello che diventa il “basso continuo” del libro è l’amore: l’amore tra gli umani, l’amore tra gli animali, l’amore tra gli umani e gli animali, l’amore passione, l’amore romantico, l’amore (ma soprattutto la sua mancanza) nel rapporto di coppia e nel rapporto tra genitori e figli.

Dopo tanti giri di parole, in fondo, quindi, questa storia sull’amore, è in realtà la storia della paura dell’abbandono. Anzi, la paura di essere abbandonati da chi si ama, e di conseguenza, la paura di perdere i nostri, quotidiani, placidi, punti di riferimento.

La scrittura dell’autrice è decisamente efficace, anche se, venendo dal suo retroterra poetico, a volte mi sono perso nelle descrizioni, e nei voli verbali. Tanto che alla fine non risulta così efficace come avrebbe potuto essere. Un buon testo, leggibile anche se non sempre godibile.

“E quelle due parole, ti amo, non bisognerebbe mai usarle se uno non è sincero.” (128)

Badriya Al-Bishr “Profumo di caffè e cardamomo” Repubblica Mondo 30 euro 9,90

[A: 23/06/2019 – I: 23/09/2021 – T: 24/09/2021] - &&

[tit. or.: Hind wal-askar; ling. or.: arabo; pagine: 173; anno 2008]

Sinceramente, mi aspettavo di più da questo primo libro della letteratura Saudita che mi capita di leggere. Ho discretamente letto di libri arabi, ma nessuno che provenisse dall’Arabia Saudita e, soprattutto, nessuno scritto da mano femminile. Ma prima di addentrarmi nel libro, la solita domanda agli editor della casa editrice per cui uscì in Italia (“Atmosphere”). Vorrei capire come si passa da un titolo legato alla protagonista (Hind) contrapposta, lei aspra, allo zucchero, ad uno che parla di caffè arabo al cardamomo, sempre degno e gradito. Dove, tuttavia, scompare la protagonista. Soliti misteri editoriali.

Intanto, rendiamo comunque omaggio al coraggio di Badriya, che non rifiuta tutto negando anche la religione, come c’è chi l’ha fatto. Ma cerca quasi di riflettere (e far riflettere) con le sue parole, con la storia che narra, su di un possibile “Rinascimento” del Mondo Arabo. Che è una riflessione che mi sta accompagnando da anni. Il Cattolicesimo, nel passaggio all’Età Moderna, avviò un’opera di riflessione ed aggiornamento della religione, cosa che, per i miei modesti ricordi, non è, ancora, avvenuta per l’Islam. Badriya pone domande e descrive fatti che fanno riflettere in questa direzione. Certo, in Arabia Saudita, alla fine, il suo posto era un po’ stretto, tanto che dal 2006 si è trasferita a Dubai per continuare la sua opera di giornalismo.

Tornando alla pagina scritta, Badriya prende come esempio preclaro della condizione femminile nel mondo arabo la storia della giovane Hind. La bimba vive a Riyadh, con i cinque fratelli ed i genitori. Il padre ha fatto fortuna nell’edilizia durante gli anni d’oro (che localmente vengono chiamati “Anni del Petrolio”) così che la vita di famiglia è agiata. Anche le bambine hanno potuto studiare, cosa che non è scontata. Il grosso scontro però, all’inizio, non è con il padre, che pur rappresenta il mondo maschile, ma con la madre Hila “ignorante e rocciosa”. Hila che ha dovuto subire un matrimonio combinato, che non ha mai amato il marito, e che, per rivincita, si atteggia ad essere più realista del re: Hind non si deve comportare male, che andrà dritta all’inferno; Hind non deve parlare con i maschi; Hind non deve giocare con i maschi. E quando la scopre, la segrega in una stanza a pane e acqua.

Hind, a scuola, scopre però che esistono anche storie buone, come Cenerentola. Leggendo, capisce che la scrittura può diventare un modo di uscire dall’isolamento. Ma deve scrivere con attenzione, poi deve scrivere sotto pseudonimo maschile. Hind vorrebbe avere anche una vita amorosa “normale”, ma sarà sempre Hila che ne blocca tutte le uscite. Così che la nostra ormai giovane pensa di poter fuggire alle grinfie materne, sposando, anche se in un matrimonio combinato, il cugino Mansur.

Hind resiste un po’, fino alla nascita della figlia May. Quindi, in accordo con Mansur, decide per il divorzio. Certo, non è facile la vita di una divorziata nel mondo arabo. Perché l’uomo è l’unico deputato ufficialmente a sostenere la famiglia. Quindi deve cercarsi un lavoro, che trova come assistente sociale in un ospedale.

Qui abbiamo una nuova biforcazione. In ospedale conosce un uomo diverso dai maschi-padroni finora incontrati, il dolce Walid. Tuttavia, non sa decidersi al grande passo, condizionata dal modo di vivere locale. Inoltre, c’è una grande frattura nella famiglia. Il fratello maggiore emigra in Canada per togliersi il peso di un mondo che non sente suo. Il secondo fratello, Ibrahim, invece, si radicalizza diventando, forse, un attentatore suicida. Lascio il forse alla vostra lettura. Hind non vuole fuggire da tutto ciò, ma allontanarsi per aver tempo e modo di ragionare con sé stessa, e decidere della sua strada.

Il buono del romanzo è far vedere, anche a chi poco ne conosce, alcuni aspetti del mondo arabo non sempre noti ai più. Tutti sanno che le donne, in Arabia Saudita, non possono guidare l’auto (ma qualcosa sta cambiando). Ma possono studiare e lavorare. Inoltre, possono divorziare, anche se con procedure leggermente più complesse di quelle maschili. Impariamo anche che nel ondo ristretto wahabita (che è l’ortodossia lì regnante) esiste un organismo terribile di cui capiamo subito l’importanza e la cattiveria dal nome: “Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”.

Questo ci porta ai temi forti del romanzo: la discriminazione di genere, l’oppressione maschile ma anche l’acquiescenza femminile, i matrimoni combinati, l’estremismo religioso. È un interessante manuale sulla condizione femminile in Arabia, raccontata in forma di romanzo. Con quella punta di cattiveria in meno, rispetto alla realtà, che alla fine, se ne fa un buon libro di esempi, non lo rende un efficace romanzo a tutto tondo. Le scelte ed i modi sia dei buoni (Hind, Walid) sia dei cattivi (Hila, Ibrahim) non sono portati sino in fondo, e qualcosa rimane non detto. Compreso ma non detto.

Finisco con un ricordo personal-trasversale. A pagina 63 Hind confessa di aver difficoltà a leggere un libro di Nikos Kazantzakis (nella fattispecie “Cristo di nuovo in croce”). Confessione che viene a poche settimane della mia non agevole lettura di Zorba, per cui mi sono sentito empatico con Hind.

“Forse per le persone intelligenti è sempre così, devono pagare il prezzo della propria intelligenza, mentre gli stupidi trionfano.” (94)

Quarta uscita del mese di gennaio, che come sanno i più anziani, è dedicata al riposo da allegati vari.

Non ci facciamo mancare una citazione ad hoc, proveniente da “La casa grande” di Mohammed Dib : “trovavano strano che un uomo leggesse dei libri”. Immagino una stranezza che nessuno di noi condivide.

Comunque, una buona fine di mese, piena al solito di compleanni, cui i miei amici sono stati già omaggiati, e di iniziative, tra cui un rilassante (per me) fine settimana marino. Andiamo quindi ad affrontare un nuovo mese, che già si preannuncia denso di impegni, ma anche carico di abbracci.

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