Che c’entra direte voi? Ma è una vecchia filastrocca che prosegue con “Roma città del mondo”. Pertinente con la scrittura odierna che si occupa, ancora, di mondo. Partiamo da una poco interessante Australia, risalendo ad un leggibile portoghese, poi scendiamo, seppur di poco, passando per il Messico, risaliamo ancora per una particolare letteratura peruviano, finendo con un meno riuscito romanzo americano. Entriamo ora nel vivo, e come in un red carpet, vi preannuncio spieghe ed altro che stanno in arrivo. Vedremo quando.
Tim Winton “Il nido” Repubblica Mondo 10 euro 9,90
[A: 25/01/2019 – I: 05/06/2021 – T: 08/06/2021] - & e ½
[tit. or.: Eyrie; ling. or.: inglese; pagine: 414; anno 2013]
In genere questa collana ha comunque un suo interesse, laddove ci porta a leggere di letterature non usuali. O anche di paesi noti, ma non occidentalmente molto presenti. Come in questo caso l’Australia. Anche se Winton mi è noto, avendo letto, e molto apprezzato il precedente “Cloudstreet”. Questo, al contrario, a parte alcune descrizioni cittadine su cui torneremo, mi ha lasciato alquanto freddo.
Già cominciamo con la difficoltà del titolo, che in inglese si riferisce non ad un nido qualsiasi ma al “Nido dell’Aquila”, come si direbbe in italiano, o comunque ad un nido di un uccello rapace. Lasciando solo il nido si sminuisce leggermente il significato del testo, anche perché si parla molto (anche) di uccelli, una delle passioni del protagonista. E del suo piccolo amico.
Winton è bravo in un suo modo peculiare, anche qui presente, di immergerti nella trama, senza mettersi a spiegare (subito) i come ed i perché. La storia, il filo rosso degli eventi, a poco a poco si palese, così come può succedere nella vita reale. Ed anche bravo, utilizzando un modo tutto suo di narrare, di procedere nella storia, scrivendo in modalità narrativa, senza segni di punteggiatura evidenti, anche quando riporta i dialoghi tra i vari personaggi.
Personaggi che, a parte una serie poco significativa di comprimari, ridotti all’osso sono tre: il protagonista centrale, Tom Keely, la sua amica Gemma Buck, ed il di lei nipote Kai.
Tom è un avvocato ambientalista (o forse dovrei dire ex), che anche a seguito di vicende familiari (la moglie Harriet abortisce senza il suo consenso, e la crisi che ne deriva porterà al divorzio), ed a una qualche incauta presa di posizione pubblica (penso di aver capito che si lancia in un’accusa ad un qualche colosso industriale, non provata), si trova senza lavoro, senza famiglia, senza soldi. Così che si rifugia in un mix di pasticche eccitanti ed alcool.
Tom si ritira così in un suo spazio solitario, al decimo piano di un condominio di Fremantle (importante cittadina portuale dell’Australia Occidentale, con l’aumento dell’urbanizzazione diventata un conglomerato con Perth). Il suo nido, da cui si allontana per una colazione al bar, ed a cui ritorna per stordirsi di eccitanti. Un nido che però viene scalfito dalla scoperta che proprio lì, al decimo piano del Mirador, abita un brandello della sua gioventù: scopre infatti, casualmente, che lì vive Gemma, con un bimbo di sei anni, di nome Kai.
Attraverso i soliti percorsi di detto e non detto, veniamo a sapere che Gemma era una vicina di casa della famiglia di Tom, che la famiglia di Gemma era dominata da un padre violento, motivo per cui Gemma e la sorella si rifugiavano spesso a casa Keely. Una casa in cui Nev e Doris erano accoglienti, protettivi, ed inclini ad aiutare il prossimo. Poi, come spesso accade, le strade si dividono, ed ora Tom (che in fondo aveva una cotta per Gemma da adolescente) la ritrova. Scoprendo anche che Kai non è il figlio, ma il nipote di Gemma. Figlio di una figlia di Gemma da lei avuta assai giovane (Tom e Gemma saranno verso i cinquanta), figlia assai sbandata, tanto che è in carcere per droga.
Ma più che con Gemma, è l’incontro con Kai che destabilizza Tom. Sarà per l’aborto da cui non si è ripreso, sarà per la spontaneità di Kai, Tom si trova a dover uscire dal suo nido protettivo. Non entro in tutte le vicende, ma è intrigante il pezzo di trama in cui Tom riprende il suo gommone, e porta un eccitato Kai ed una recalcitrante Gemma alla ricerca di un … Non è che non ve lo voglia dire, ma qui c’è un po’ della solita problematica di traduzione. Si parla infatti di “osprey” che dovrebbe indicare un “falco pescatore”, ma in Australasia è presente, in forma più massiccia, tal “eastern osprey”, detto falco orientale, leggermente più piccolo. Ovvio che Kai cerchi l’osprey, ovvio che Tom trovi l’orientale.
Limitandomi quindi alla enunciazione dei presupposti, il tentativo (per me non riuscito) di Winton è porci la domanda: è ancora possibile continuare a sperare nel bene? Possiamo uscire dal nido e riaffrontare il mondo, con le armi che avevamo prima di fuggire. Sperando e lottando perché le cose “giuste” accadano? Purtroppo, questa bella domanda è lasciata aleggiare per tutte le quattrocento pagine, non è risolta, ed alla fine, così come siamo entrati nel racconto, ne usciamo, non solo senza soluzioni, ma anche senza indicazioni di quelle che Winton potrebbe pensare siano soluzioni.
Questo, ed il tono di indifferenza che aleggia in tutto il testo, e la poca capacità di presa dei personaggi sul mio stomaco, mi hanno reso difficile, pagina dopo pagina, digerire questo libro. Che alla fine non consiglierei. O, al solito, consiglierei a chi, poi, abbia la volontà di rivelarmene le recondite bellezze.
Come detto, e chiudo, quello che poi mi ha dato un mezzo punto in più è un po’ di australianità delle descrizioni cittadine, di quella vita “down under” che mi incuriosisce tutt’ora, e che magari, prima o poi, tornerò a vedere.
“Le brave persone a volte fanno delle cose stupide. Ma non è che uno sbaglio può condizionarti per tutta la vita.” (186)
“Com’è invecchiare? … Il fatto è che quasi non te ne accorgi. Succede molto lentamente. Ti vedi diverso allo specchio, ma dentro ti senti sempre uguale.” (253)
José Luis Peixoto “Libro” Repubblica Mondo 8 euro 9,90
[A: 14/01/2019 – I: 20/07/2021 – T: 21/07/2021] - &&&
[tit. or.: Livro; ling. or.: portoghese; pagine: 239; anno 2010]
Non sono frequenti gli autori portoghesi che entrano nelle mie letture. Devo quindi porgere un dovuto omaggio alla collana “La biblioteca del Mondo” che nella sua ottava uscita ci propone questo libro. Non recente, ma di un certo interesse. Sia come testo sia per l’autore.
In realtà, non credo sia molto noto Peixoto in Italia, benché abbia avuto onori in patria, tanto da risultare, a 26 anni, il più giovane vincitore del Premio José Saramago. Trattando, in quasi tutti i suoi testi, temi molto legati alla realtà portoghese, forse meno nota. Non disdegna, tuttavia, di intrecciarla con risvolti personali e di rapporti interpersonali.
Come succede anche in questo libro dal titolo omonimo. Dove fanno capo tra le righe tre temi principali: economico, geografico e, appunto, personale.
Il primo è legato ad una specificità della vita portoghese, in particolare dalla Seconda Guerra mondiale fino alla Rivoluzione dei Garofani: l’emigrazione. Ed in particolare, l’emigrazione verso la Francia. E non è un caso che, soprattutto a Parigi, ma anche altrove, ci siano forti presenze lusitane. Ed è per cercar fortuna che, nelle prime pagine, la madre di uno dei protagonisti, Ilidio, lascia la cittadina rurale e sparisce in quel di Francia. Lasciando il figlio all’amico Josué. E sempre in Francia verrà mandata Adelaide, sia per mandare soldi alla vecchia zia, ma vieppiù per allontanarla da Ilidio. Certo, molti scappavano dalla miseria. Ma molti fuggivano dalla repressione politica, e altri, come Cosme, l’amico fraterno di Ilidio, per non essere arruolati. Tutti verso la Francia, che negli anni Cinquanta aveva un grande bisogno di manodopera a basso costo per le nascenti fabbriche. Viaggi clandestini, difficili, come vediamo seguendo le peripezie di Cosme e Ilidio. Altri più organizzati, se, come la zia di Adelaide, ci si poteva permettere un viaggio “accompagnato”. Anche se, spesso, prima di poter raggiungere l’agognata libertà, si passano periodi clandestini e sottopagati in Spagna.
Il secondo tema, si diceva, è geografico. Che, pur non esplicitandolo, capiamo che la regione in cui si svolge la trama è l’Alentejo, regione d’origine anche di Peixoto. Pur essendo la più grande regione portoghese, è la più povera e la meno gettonata dei turisti. Che si fermano a Lisbona o scivolano giù verso l’Algarve. È una zona rurale, con oliveti, boschi da sughero. Un tempo era il granaio della nazione, ma poi il tempo si è fermato, lasciando solo terra e pastorizia a fare da padroni. Che la vita è dura, i giovani fuggono, e la regione invecchia. Nonostante, mi sia consentito un cenno personale, abbia la bellissima cittadina di Evora, con la sua Università che risale al 1559. Una città-museo, patrimonio dell’Unesco, che ho visitato e dove sono anche tornato, per godermi la storia che girava per le sue viuzze.
Infine, la storia, di cui abbiamo visto una parte dell’inizio. La seconda parte è un libro che la madre lascia ad Ilidio. Un libro che, stando ben attenti, sarà appunto uno dei motivi sotterranei della trama. Ilidio, solo anche se con la compagnia di Josué, cresce nella grande famiglia cittadina. Vediamo i salti temporali, la scuola, gli amici. Soprattutto Cosme, che saranno insieme per sempre. Ed è lì che Ilidio incontra Adelaide, una ragazza povera, lasciata in custodia alla zia, non ricca ma con un negozio di generi vari, cosa che consentiva una certa fortuna. I due si incontrano, sboccia un tenero amore. E Ilidio lo suggella regalandole il libro. Ma, come detto, la zia non approva e spedisce Adelaide in Francia.
Ma ora, Ilidio non è più quel bambino abbandonato. E con Cosme parte per la Francia, e per tutta una serie di peripezie che costellano la vicenda. Ritroverà la sua Adelaide, ma tardi, che, sempre per mezzo dei libri, per sfuggire al ruolo di serva, lei ha sposato il comunista duro e puro Costantino. Il bello ed il tragico della vicenda è che Adelaide, per sempre, amerà solo Ilidio, e con uno stratagemma farà un figlio con lui. Anche se poi lo crescerà in Francia con Costantino.
L’ultima parte sono pagine autobiografico del figlio di Adelaide, cui lei è riuscita ad imporre il nome di … Libro. Anche se questa parte, che spiega e raccorda il tutto, devo dire che mi ha coinvolto meno.
Ma rimane un libro interessante, con uno spunto narrativo coinvolgente. Per comunicare, tutti, Ilidio, Adelaide e lo stesso Costantino, usano sottolineare alcune parole di un libro. E se cercate bene, lo stesso Peixoto, sottolinea alcune parole, di modo che a volte il testo e stravolto dal sovra testo sottolineato. Una sfida a che il lettore entri nel gioco del racconto, e ne faccia sua una interpretazione, dando peso al testo o alle sottolineature. Ben fatto, José Luis.
Guillermo Arriaga “Il bufalo della notte” Repubblica Mondo 16 euro 9,90
[A: 10/03/2019 – I: 12/10/2021 – T: 15/10/2021] - && +
[tit. or.: El Búfalo de la noche; ling. or.: spagnolo; pagine: 235; anno 1999]
Continuano le interessanti letture della letteratura in giro per il mondo, che un giorno dovrò attenzionare meglio. Intanto, arriviamo in Messico, e non con Juan Rulfo, considerato il padre di questa letteratura. Ma con uno scrittore che poi è anche sceneggiatore e regista, che ben conosce il mondo violento di cui parla nei suoi libri e nei suoi film.
Arriaga infatti, prima di scrivere, fa mille mestieri, è un ragazzo che vive in strada, dove, a 13 anni, durante una rissa, perde il senso dell’olfatto. Come dirà in un’intervista: “Sono riuscito a lasciare la strada, ma la strada non mi ha mai lasciato”.
Come succederà nei film che scrivere insieme al suo sodale, il regista Alejandro González Iñárritu, la violenza è sempre presente. Anche qui, dove è uno degli elementi del romanzo. Forse non sempre il più importante, ma centrale nel descrivere (e per noi nello scoprire) la psicologia dei personaggi.
Una storia che, in nero e cupo, sembra ricalcare le grandi linee di “Jules e Jim”, vestendone l’allegria con il manto della cupezza sudamericana. C’è un trittico di amicizia ed amore, composto da Gregorio, Manuel e Tania. Ma ben presto capiamo che la triade è sbilanciata.
Qui, il punto debole è proprio la donna, Tania, che sta a lungo con Gregorio, che forse non lo lascia mai, ma che, ad un tratto, si ritrova con Manuel. Che pensa, e penserà per sempre, di essere lui il vero amore di Tania.
I tre si frequentavano dal liceo, ed ora, più o meno ventenni, sono alle prese con dei grossi problemi. Che Gregorio, per motivi che alla fine non si riescono a comprendere sino in fondo, scivola nei disturbi psicologici. Schizofrenia, manie di persecuzione, ma anche capacità di manipolazione, deliri di onnipotenza e dominio. Gregorio entra ed esce da ospedali psichiatrici, con la sua intelligenza capisce come raggirare i medici (ma un bravo psicologo non si dovrebbe far ingannare così facilmente). E per colmo di cattiveria, verso sé e verso i due sodali, si uccide un ventidue febbraio. Ora, il mio ventidue febbraio è fortunatamente legato a momenti molto più allegri, essendo il compleanno del testimone di molta parte della mia vita. Qui, è legato anche alla prima volta che Manuel e Tania fanno l’amore.
La morte di Gregorio scatena una selva di conseguenze nella testa dei nostri. Tania è quella che più difficilmente ne viene a capo. Si isola, fugge da Gregorio morto e da Manuel vivo, per cercare un bandolo altrove, che, probabilmente, non troverà mai.
Noi, invece, seguiamo in soggettiva Manuel. Che ripassa tutti i momenti della vita con Gregorio, il modo di conoscersi, la violenza che subiscono ed infliggono in giro per una Città del Messico che ritroviamo (così come l’abbiamo conosciuta) estesa e tentacolare. Manuel tenta di trovare la fuggente Tania, incontra e si scontra con molte delle sue donne, lasciandole progressivamente, che sempre Tania cerca di trovare.
Vediamo momenti topici, come la stanza 803 del motel teatro degli amori (che anche Gregorio lì si incontrava con Tania). Vediamo lo zoo, dove Tania si rifugiava nei momenti tristi. Vediamo Manuel alle prese con la pistola che gli ricorda Gregorio, con il giaguaro che piaceva a Tania. Vediamo in fondo Manuel per quello che poi gli dirà uno psicologo: è forse lui, con le sue indecisioni, con le sue paure esorcizzate all’interno ma scaraventate sugli altri, ad essere l’anima nera del trio. E di certo fa un po’ incazzare il fatto che Manuel, spesso, si lasci scivolare addosso gli avvenimenti, se ne senta travolto, ma solo perché non sa, non decide di affrontarli in positivo.
Bella, in controluce, è la vendetta postuma di Gregorio, che nella sua follia, riesce a coinvolgere altri personaggi per perseguitare psicologicamente chi rimane dopo di lui, anche lui morto. Meno bella è la fine, è quell’ultimo capitolo con alcune descrizioni delle linee future degli avvenimenti che ci confessa Manuel, dopo tutte le sue traversie. Lui, finalmente, riesce ad abbandonare l’asfissiante nucleo familiare. Ma Arriaga avrebbe potuto fermarsi qui, che quelle pagine le ho trovate un po’ inutili.
Un accenno semifinale al titolo: il bufalo (o meglio il bisonte) è un forte paradigma mitologico per i nativi americani. Rappresenta un qualcosa che serve totalmente alla propria vita. Con un bufalo si può mangiare, vestirsi, ed altro. Cioè vivere. Qui Arriaga lo capovolge, perché nella notte dei nostri giovani sbandati, diventa il rovescio: tutto quello che NON ci fa vivere. Tuttavia, una metafora che, europeanamente, non mi prende.
Il quarantenne Arriaga, quando scrive queste pagine, è ancora imbevuto dell’adrenalina di strada, e della mancanza di futuro dei giovani messicani. Ma non mi convince fino in fondo, non riesce a prendermi tutta questa violenza interiore. Ben descritta, certo, ma che non mi fa crescere il romanzo oltre una onesta e dignitosa scrittura e lettura.
Come dico all’inizio, tuttavia, potrebbe essere un altro punto di partenza per riflessioni in giro per il mondo, sulla scrittura al di là dei viaggi.
“Non era una coincidenza … che avesse scelto proprio il ventidue febbraio.” (15)
Daniel Alarcón “Radio città perduta” Repubblica Mondo 18 euro 9,90
[A: 25/03/2019 – I: 24/10/2021 – T: 26/10/2021] - &&&
[tit. or.: Lost City Radio; ling. or.: inglese; pagine: 297; anno 2007]
Benché giustamente annoverata come scrittura appartenente alla letteratura peruviana, questo libro di Alarcón è scritto in inglese, che Daniel, dall’età di tre anni risiede negli Stati Uniti. Ciò nondimeno, è un libro legato al Perù, alla sua storia, anche se, non tanto curiosamente, potrebbe svolgersi in tanti paesi dell’area latino-americana.
Comunque, per togliere tutti i dubbi sulla vicenda, Daniel dedica il libro a suo zio, Javier Antonio Alarcón Guzman, professore universitario, simpatizzante di sinistra, scomparso nel 1989 mentre si recava ad una riunione sindacale. Erano gli anni bui della guerra tra il governo peruviano guidato da Alan Garcia e l’organizzazione “Sendero Luminoso (SL)”, all’epoca diretta da Manuel Rubén Abimael Guzmán Reynoso.
Ci sarebbe, in realtà, una grossa fetta di discussione da anteporre al testo, per parlare di cosa fosse SL (il cui nome completo era “Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui”), della lotta armata che intraprese dal 1969 in poi, e di tutte le evoluzioni che ebbe, ma non è forse qui il posto per entrare in questa discussione.
Il nostro autore utilizza l’idea “SL” per creare un fittizio presente (una “ucronia” se mi si consente) che gli serve per evidenziare alcuni fatti: una lotta contro un potere repressivo, la repressione del potere verso i suoi antagonisti, lo sgomento dell’uomo comune di fronte a fatti che non capisce e che non sa come interpretare. Facciamo lo stesso sforzo con lui, e caliamoci nella sua finzione.
Il governo “cattivo” ha vinto la sua battaglia, ha nominalmente sconfitto il suo antagonista, una organizzazione che viene chiamata “Legione Illegittima” (LI), ha cancellato i nomi di tutte le città sostituendole con dei numeri. Daniel ci propone in questo scenario cinque elementi che esemplificano varie “anime” di questa possibile terra: Norma, la voce della radio, Ray, suo marito, forse simpatizzante della LI, sicuramente scomparso dieci anni prima, Victor, un bambino di undici anni, Manau, un insegnate di città catapultato nelle scuole della giunga e Zahir, il capovillaggio da dove viene Victor e dove viveva Rey quando era nella giunga.
Non c’è una grande azione presente, ma tutto vive nel pensare ad avvenimenti passati (ed alla loro ripercussione nel presente). Poche istituzioni formalmente libere sussistono, tra cui una radio. Al cui interno Norma tiene una trasmissione, quella del titolo, dove con la sua voce calda e coinvolgente, legge nomi di scomparsi e parla di loro con la gente che li ha conosciuti. È così che, Victor rimane orfano, Zahir, come capo del villaggio, impone a Manau di portarlo da Norma per leggere i nomi degli scomparsi della città della giunga. Ciò dà vita ad una sarabanda di agnizioni, che quello era il villaggio di Rey.
Così che Norma ci porta nel suo passato con Rey, nel suo amore, nella loro tuttavia inconoscibilità. Perché Rey, pur non essendo un membro della LI, accetta di portare messaggi. E quando è nella giungla, come etnobotanico, si trasforma in altro, ha un’altra vita. E non ci sorprendiamo nel capire che Victor è suo figlio.
Nella giungla il governo ha i suoi a volte inconsapevoli emissari, come Zahir, che, per farsi bello, inventa una storia su Rey. Una storia che porta Rey, già da giovane nel mirino del potere, ad essere accusato di cose non commesse, e, come spesso accade in quei posti, giustiziato. Quando anni dopo la LI occuperà il villaggio, Zahir, per la mano inconsapevole di Victor, avrà la sua punizione. Ma intanto seguiamo il rapporto che si instaura tra Victor e Norma, con lei che si domanda giustamente chi fosse realmente il suo Rey. E soprattutto se fosse veramente “suo”. Cosa che cerca di scoprire con Manau, che rappresenta il comune sentire, quello che vede ma è troppo debole per agire, e troppo solitario per capire.
Hanno solo la lista, con il nome di Rey. Ma leggerla alla radio presuppone una ribellione al potere. Piccola ma, come si dice, un piccolo sasso può provocare una valanga. Non sappiamo cosa succederà dopo, forse non è molto utile saperlo. Ci rimarranno appunto soltanto gli epitomi: Norma dalla calda voce che attraversa la storia pensando che sia altra, Manau che non ha le forse, Rey che non fa domande, Victor che guarda tutti con la sua innocenza, e Zahir l’ignorante mano di un potere che forse non sa neanche cosa sia.
Rimane in fondo la domanda che lo stesso Zahir fa ad un certo punto: “Ci dica, signore, … chi aveva ragione?”.
Alarcón in realtà non cade mai nel tentativo di giudicare LI (o SL), ma effettua due grandi operazioni: ci fa vedere la contrapposizione che si crea in quelle zone del mondo tra la giunga e la città e, senza giudicare ma con partecipazione, ci descrive gli orrori che l'incapacità dell'uomo di convivere pacificamente può causare. Un potente romanzo, non sempre bilanciato ma segnatamente indicativo della realtà di cui parla.
Philipp Meyer “Ruggine americana” Repubblica Mondo 20 euro 9,90
[A: 09/04/2019 – I: 29/10/2021 – T: 31/10/2021] - &&+
[tit. or.: American Rust; ling. or.: inglese; pagine: 396; anno 2009]
Ho letto circa quattro anni fa il libro considerato cardine di Meyer, “Il figlio”, che mi lasciò un’impressione ambivalente. Buona scrittura, ma trama e contenuti a volte poco stringenti. Qui siamo ancora prima nella scrittura dell’autore, con tuttavia, il modo di costruire il testo con notevoli similarità. Anche qui, ricerca di un romanzo corale, con passaggi di soggettività e prospettiva tra i vari protagonisti del romanzo. Ma il testo regge un po’ meno, ed il finale lascia tutto in una nebbia interpretativa che poco mi coinvolge.
Appena iniziato a leggere, mi è subito venuto in mente un altro libro, il bellissimo “American Dust” di Richard Brautigan. Ovvia l’assonanza del titolo, ma anche, seppur meno ovvio, una parte d’intreccio inziale, laddove uno dei personaggi principali, per una serie di circostanze fortuite, si macchia di una morte. Poi, e non può essere diversamente, Brautigan sviluppa il tutto in un testo che ricopre di polvere l’America, ma che ha sprazzi di diverso peso rispetto al nostro. Meyer, l’America, la fa arrugginire, e poche sono le vie d’uscita. Forse solo della solidarietà umana, che, si spera, non verrà mai meno, ovunque ci si trovi.
La ruggine di Meyer, inoltre, deriva anche dalla cittadina dove si svolgono i fatti, Buell in Pennsylvania, una volta patria dell’industria siderurgica, ma ora, industrie fuggite altrove, è una cittadina che muore, che si ricopre di ruggine. In questa cittadina si muovono i sei personaggi (non in cerca d’autore, purtroppo) al centro della vicenda. Sei come le parti del libro, che tuttavia servono solo a delle scansioni temporali che permettono di tirare il fiato tra i vari, piccoli, avvenimenti del testo. E come sopra accennato, per sviluppare la coralità che Meyer sceglie come sua cifra espressiva, il testo saltabecca da un personaggio all’altro, passando dalla prima alla terza persona, cercando di rimandarci un senso globale che tuttavia poco esce fuori.
Dicevo dei personaggi e della storia. Al centro ci sono due amici, che con scelte diverse condizionano tutto il romanzo. C’è Isaac, il più intelligente, ma anche il più indeciso. Vorrebbe fuggire, vorrebbe andare al college, ma non ha soldi per farlo, e soprattutto è “costretto” ad accudire il padre Harry, che, in seguito ad un incidente, vive su di una sedia a rotelle. Avrebbe potuto essere aiutato dalla sorella Lee (secondo personaggio), anche lei dotata di pronta intelligenza. Tanto che riesce realmente a fuggire, che va a studiare altrove, per poi sposarsi (forse senza amore) con un discretamente ricco messere. Il risultato è che Lee vivrà sempre lontano da casa, tornando solo a volte, nel caso Isaac si allontani. Ma poi, Lee non resterà mai.
L’alter ego di Isaac è Poe, che invece non è molto intelligente, ma tuttavia è uno sportivo eccellente, tanto che con il football potrebbe avere una borsa di studio ed andare al college. Lui, invece, decide di restare a Buell, per stare vicino alla madre Grace. Lei che scelse di non fuggire, di non lasciare il marito assente cui però è rimasta legata senza nemmeno saperne il motivo. Difficile è sradicarsi dalla facile corrente della vita, difficile andare via senza recidere tutto (come ha fatto Lee).
Da Buell non è fuggito neanche il poliziotto Harris, amante saltuario di Grace, che deve indagare sull’omicidio di cui all’inizio ma che vorrebbe chiudere la porta, e vivere una vita solitaria e senza turbamenti.
Perché il via della vicenda è Isaac che decide di fuggire di notte dall’insopportabile padre Harris, che viene raggiunto da Poe, che si perdono, che si rifugiano in un casolare, dove incontrano tre sbandati. Per salvare Poe che i tre vorrebbero sodomizzare, Isaac ne uccide uno. Poi, per una serie di incredibili coincidenze, è Poe che viene accusato dell’omicidio.
Da qui lo sviluppo dei tormenti dei cittadini di Buell che seguiamo. Isaac non sa se costituirsi per salvare Poe. Harris non sa se arrestare Poe, recando un dolore insormontabile a Grace. Grace capisce e si blocca nell’inazione. Isaac si allontana, costringendo Lee a venire ad accudire Harris, che non fa che brontolare. E via arrugginendo il tutto.
Meyer alla fine trova una soluzione per (forse) sbrogliare la matassa, soluzione che implica la salvezza di tutti, ma anche un sordo dolore perché nessuno potrà fare la cosa giusta.
Il tentativo di fare un “grande romanzo americano” c’è, un romanzo della disillusione più che della disperazione. Ma invece di guardare verso Brautigan, consiglierei a Meyer di leggere “Nomadland” di Jessica Bruder, quello sì uno specchio dell’America lontano dalle grandi città, con la gente alla ricerca di qualcosa, accompagnata dall’unico sentimento che a senso al giorno d’oggi: la solidarietà.
“Dove vai, vai, quando ti svegli e ti guardi allo specchio vedi sempre la stessa faccia.” (14)
Prima trama di marzo, quindi piccola revisione dei file letti in dicembre. Un mese di medie letture, per stanchezza ed impegni altri. Anche un mese di scarsa soddisfazione, non fosse per l’interessante, seppur non eccellentissimo, libro dell’iraniana Shirin Ebadi. In fondo alla lista, il poco coinvolgente giallo psicologico di Kepler ed il libro argentino di Ronsino.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Mitsuyo Kakuta |
La ragazza dell’altra riva |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2,5 |
2 |
Roberto Costantini |
Alle radici del male |
Feltrinelli Marsilio |
12 |
2,5 |
3 |
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad |
Asterix e la figlia di Vercingetorige |
Panini |
s.p. |
3 |
4 |
Shirin Ebadi |
La gabbia d’oro |
Repubblica Mondo |
9,90 |
3,5 |
5 |
Lars Kepler |
L’ipnotista |
Corriere Thriller |
7,90 |
1,5 |
6 |
Marzia Musneci |
Dove abita il diavolo |
Mondadori |
5,90 |
3 |
7 |
In Koli Jean Bofane |
Congo Inc. Il testamento di Bismarck |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2 |
8 |
Friedrich Dürenmatt |
Giustizia |
Corriere Thriller |
7,90 |
2 |
9 |
Maurizio de Giovanni |
Dodici rose a Settembre |
Sellerio |
14 |
3 |
10 |
Maurizio de Giovanni |
Troppo freddo per Settembre |
Einaudi |
s.p. |
2,5 |
11 |
Hernán Ronsino |
Biografia di un albero |
Repubblica Mondo |
9,90 |
1,5 |
12 |
Scholastique Mukasonga |
Nostra Signora del Nilo |
Repubblica Mondo |
9,90 |
2 |
13 |
Carlotto, De Cataldo & de Giovanni |
Sbirre |
Rizzoli |
13 |
3 |
Per il resto, mi veniva una citazione dal passato, dove, in un libro gentile omaggio della mia muhallima, “Libera la Karenina che è in te” di Rosa Matteucci, c’era una descrizione fisica che mi colpì per la precisione, e per la possibilità di appiccicarla a persone e me note: “egli aveva la così detta ‘mano elementare’: tozza, con palmo largo, dita e unghie corte. Poco segnata da linee, con la prima falange del pollice rivolta all’indietro, tipica degli individui di poca fantasia che difficilmente dominano le loro passioni. Soggetti sensibili al dolore e facili allo scoraggiamento, che hanno qualche astuzia istintiva ma difettano di aspirazioni elevate”.
E dopo due anni di pandemia e di chiusure forzate, ecco che siamo ancora costretti all’inazione da una guerra, vera, possibile, non auspicabile. Senza entrare in nessuna polemica tra equilibri mondiali, ho solo da sottolineare il mio poco feeling verso i popoli slavi. Non ne so i motivi, ma ne registro una movimento spontaneo. Tuttavia, la mia anima ecumenica non può dimenticarsi che il rispetto viene prima di tutto. Ovvio che debba essere reciproco, ma da me sempre iniziato. Per questo, con tutti i pensieri bui per la testa, vi saluto e vi abbraccio.
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