Enrico Luceri “Linea retta” Mondadori euro 5,90
[A: 03/02/2021 – I: 07/05/2021 – T: 08/05/2021] && --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 193; anno: 2021]
Continuo a leggere, quando escono, le storie di Enrico Luceri, aspettando ogni tanto qualche salto in avanti, che, purtroppo, non sempre succede. Qui siamo alla sesta uscita, ed alla quinta con la coppia che, fino ad ora, ha tenuto sollevato il giudizio complessivo delle opere dell’autore.
Una coppia che qui è abbastanza “scoppiata”, nel senso che rimane sempre più in prima linea il commissario Tonio Bonocore, ed è un personaggio che va migliorando, come un vino d’annata. Mentre il suo alter ego, l’ispettore capo Lina Garzya, pur presente, e pur con qualche buon passaggio, rimane in fondo abbastanza defilata, se non fosse per un piccolo scarto nel finale, quando la storia, dalla sua base napoletana, ha un passaggio, non banale, verso Roma.
Come ci ha abituato Luceri, poi, ci sono riferimenti ad altri gialli, anche se non densi come nel precedente. Ricollegandosi al suo primo scritto, c’è un lungo brano dedicato a “La sposa in nero” di Cornell Woolrich, che viene in un certo qual modo, digerito e rielaborato da uno degli scrittori di gialli presenti nella trama. Già, perché, tra un morto e l’altro, molta azione si svolge in una casa editrice, che, tra l’altro, pubblica gialli. E dove convergono, per una serie di motivi, un avvocato che scriveva gialli in gioventù ed ora ha una quota di minoranza nelle edizioni. Una segretaria tuttofare, anch’essa cimentatasi con il genere qualche decennio prima. La figlia di una scrittrice di romanzi rosa, morta suicida anch’essa anni prima. Uno scrittore di un buon libro, molto giallo, ma anche altro, che poi non è più riuscito a ripetere il buon successo iniziale. Nonché l’editore principe, metodico e maniaco, primo morto di una serie di omicidi.
L’altro elemento letterario fortemente citato è “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, uno dei classici del genere. Ma se conosci Poe, e segui la trama, da quando viene citato il grande bostoniano, la trama risulta scoperta, il colpevole chiaramente individuato, aspettando solo che alle stesse conclusioni arrivi Bonocore, con i suoi ragionamenti trasversali, forse un po’ sghembi, anche se non così estremi come quelli del grande Adamsberg di Fred Vargas.
Insomma, per tornare alla trama, c’è l’editore che viene ucciso travolto da una macchina. Da elementi di contorno, Bonocore capisce che è un omicidio. Indagando, trova, come in tutti i buoni gialli, elementi di possibile incriminazione. La giovane moglie, poco sconsolata e molto consolata, prima sembra dall’avvocato di cui sopra, poi si scopre da un attore con cui aveva recitato prima di conoscere il marito. Attore al tempo amico del figlio dell’editore stesso, da sempre in rotta con il padre. poi c’è la segretaria, forse d sempre innamorata, e scornata dalla presenza della giovane moglie. C’è la figlia della scrittrice suicida, morta (anche) per colpa della rigidità dell’editore. Infine, c’è uno scrittore italo-americano, autore di qualche buona prova, emulo di Hemingway anche nella morte (una fucilata in faccia).
Il tutto collegato dalla traduttrice dello straniero, esperta di eteronimi su cui ha scritto un libro. Che viene visitata dall’editore poco prima della morte, e che, dopo essere stata visitata da Bonocore, muore anch’essa. Come muore un responsabile editoriale che aveva pubblicato tanti anni prima l’americano e che (forse) conosceva il di lui misterioso amico, di cui tutti parlano ma che nessuno ha mai visto.
Garzya svolge le indagini a Roma, ed unisce alcuni puntini della trama. Bonocore fa lo stesso con i puntini napoletani. Alla fine, convergono sulla soluzione, che, come dico, era presente da almeno 150 pagine. Con quell’immagine, ottenuta dopo l’unione dei puntini, che la via più breve tra due punti non è la linea retta. Purtroppo, Luceri si scontra con le mie reminiscenze geometriche giovanili, dove ricordo (e vi ricordo) che la distanza più breve tra due punti, è la linea ortodromica, dove, in geometria sferica, è la porzione di circonferenza massima che unisce i due punti. Facile l’estrapolazione poi dalla geometria sferica a quella piana.
Detto quindi delle cose poco meritevoli, passiamo invece ai punti di forza. Di certo Bonocore, la sua resistenza al fumo dopo l’infarto, anche se ci mancano i suoi giri in bicicletta. Il suo tono scanzonato di fondo, anche se qualche pulsione, prima o poi, ce la dovrebbe avere anche lui. E poi, l’uso di sequenze cinematografiche per scandire i capitoli della storia dall’iniziale “primo piano” alla “dissolvenza” finale.
Non banale, infine, l’inserto sugli eteronimi, con l’immancabile accenno a Pessoa, anche se mi avrebbe fatto piacere se qualcuno si ricordasse dell’eteronimo Honorio Bustos Domecq, creato da Borges e Bioy Casares.
Aspetteremo allora il prossimo Luceri, che, comunque, è gradevole e veloce in lettura.
Manuela Costantini “Le scelte imperfette” Mondadori euro 5,90
[A: 28/05/2019 – I: 03/10/2021 – T: 04/10/2021] && --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 209; anno: 2019]
Cosa di meglio di un libro giallo, rilassante e poco impegnativo, da leggere sdraiato al pallido sole di ottobre, davanti al mare di una bella spiaggia di Ibiza? Le premesse ci sono tutte per passare qualche ora in buona compagnia. Peccato che il libro si rilevi un po’ moscio sul lato poliziesco, anche se è consolante e rassicurante nelle parti private.
L’autrice la conosciamo già, ha vinto nel 2014 il premio Tedeschi per il giallo italiano gestito dalla casa editrice Mondadori. L’abbiamo già ricordata nei nostri scritti, in quanto nativa in quella Giulianova della mia memoria. Quindi, niente di sorprendente che la scrittura scorra in modo discreto, anche perché torniamo a frequentare un simpatico personaggio, l’avvocato Filippo Dolci, un tipo che andrebbe di certo d’accordo con il commissario Adamsberg della mia amata Vargas (seconda citazione in poche trame).
Filippo è bassino, ha pensieri aggrovigliati, ma una simpatica moglie ed una figlia teneramente amate. Legatissimo alla nonna, agli amici, al cibo (dove sostiene che Osvaldo fa la più buona pizza al mondo). Anche questa volta si trova invischiato in un’indagine senza mai aver deciso veramente di indagare (o di fare l’investigatore). Ma sfortuna vuole che si trovi spesso coinvolto. Fortuna che vengono sovente in suo aiuto il suo amico, il commissario Pietro Ciccone ed il medico legale Adele Scalzi.
Intorno a Filippo si dipartono poi le diverse trame. Una molto personale dell’avvocato, che si pone sulle tracce di lettere scritte dal nonno partigiano, vicenda gentile ma molto laterale. La seconda riguarda Sandra, che un po’, tangenzialmente, si avvicina al nodo giallo. È infatti lei che scopre il primo morto. Lei che ha un grosso problema: in un incidente d’auto ha perso le gambe, ed ora, avute delle protesi, comincia di nuovo ad affacciarsi alla vita, a camminare.
Sulla sua strada, oltre al morto di cui sopra e su cui si ritorna, trova Filippo e la sua famiglia. Personaggi empatici, che con tutta la dolcezza del mondo, riescono a farla uscire dal guscio.
Sandra stava in macchina al telefono quando ha avuto l’incidente. Per questo non usa più l’auto e va sempre a piedi. La necessità di Lavinia di avere una baby-sitter per Emma, nonché la sollecitudine di Filippo, che le tira fuori ricordi e testimonianze per arrivare a comprendere le vicende gialle, faranno sì che Sandra riprenderà, anche, una vita quasi normale.
Il morto scoperto da Sandra non ha li occhi. Poi vengono altre morti, ognuna con un elemento dei cinque sensi mancante. Il primo era la vista, poi verranno l’udito, l’olfatto e il tatto. Sarà il gusto che fermerà l’improbabile assassino. Perché cercherà di “rubarlo” al nostro Filippo. E Filippo non può morire. Magari avere acciacchi e problemi. Ma quando l’assassino si avvicinerà all’avvocato, anche il commissario Ciccone lo farà, risolvendo il caso.
Un caso di mancanze, più che di scelte. Ed un assassino che sembra volere tutt’altro fuorché uccidere. Ma quando si sceglie di ritrovare ciò che manca, e quando il ragionamento da lineare diventa psicotico, le imperfezioni della vita verranno a galla. Con ciò spero di essere stato abbastanza criptico per aver detto quello che c’è da dire, senza dirlo.
La leggerezza della nostra abruzzese si esplica anche negli altri mille rivoli delle piccole e grandi storie che costellano il romanzo. Da quelle accennate, alle altre, e sono tante, di nuvole di pioggia, di letture trasversali, di persone sbandate, di amicizie che hanno solo bisogno di un tocco per essere rinnovate. Come un fuoco che aspetta sotto la cenere di tornare a scoppiettare. Come la bella “festa della felicità”, in cui in finale tutti quelli che ci sono ancora si ritrovano per esorcizzare tutto ciò che è andato male negli ultimi tempi. Una festa di mestizia, che serve a tornare a guardare il futuro con qualche ottimismo in più. Una festa che mi sa ci servirebbe in questi tempi bui.
Insomma, non mi dispiace il modo un po’ ondivago di andare per le pagine di questa scrittrice, con le parti di Filippo in soggettiva, ed il resto in terza persona. Anche se il giallo è debolino, qualcosa rimane, pur non arrivando ad essere un testo sulle “sorti umane e progressive”.
“Ed è vero che sei insopportabile … così tanto che non posso fare a meno di te.” (96)
Alberto Odone “La meccanica del delitto” Mondadori euro 6,50
[A: 10/08/2018 – I: 17/10/2021 – T: 19/10/2021] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno: 2018]
Pur con il solito congruo ritardo, eccoci ad un nuovo autore italiano, premiato nel 2018 dalla storica rivista Mondadori con il “Premio Tedeschi 2018”. Un premio assegnato ad un giallo italiano inedito con una motivazione che non mi ha convinto. Entra, infatti, nel merito dello scritto, quasi con un trailer, ma non entra, come mi aspetterei per un premio su inediti, nel merito della scrittura.
Con ciò non dico che non meriti premi (non sono io che li distribuisco, quindi taccio) e che non vada letto. Anzi, credo che la lettura di questo libro sia interessante, ed in un certo senso, coinvolgente (in alcuni momenti). Non è purtroppo omogenea, con delle parti che prendono ed altre che si fa fatica a mandar giù. Soprattutto, e purtroppo, non è un libro profondamente giallo, anche se ci sono morti e misteri. È forse una divagazione da thriller storico (cioè inserito nella storia), con un personaggio centrale che (almeno nelle linee teoriche) parrebbe ricalcare il Martin Bora di Ben Pastor.
Odone mi è sembrato un po’ velleitario nel voler costruire una storia all’ombra della Storia. Anche se personaggi e situazioni sono discretamente delineati, le linee guida (che a questo punto sono esterne) le conosciamo e non ci danno (e daranno) sorprese. Siamo a Monaco di Baviera, nel 1920, quando, la Repubblica Consiliare Bavarese (tentativo di una Repubblica socialista) viene spazzata via dai “Corpi Franchi” (freikorps), milizie irregolari di forte matrice di destra. Siamo alle prese con una radicalizzazione degli animi a seguito della fine (per i tedeschi ingloriosa) della Guerra. Così che miliziani, ex-soldati, aristocratici ed altre “brutte persone” si coagulano intorno all’idea di una “Grande Germania” (dal punto di vista storica).
Nascono idee folli, nascono fantocci improbabili (come il mago del racconto, che sosteneva una sua reincarnazione dopo una vita come monaco buddista), nasce la necessità di avere un nemico, di avere qualcuno cui addossare le colpe di una sconfitta che brucia. Ed ecco sorgere il mito dell’ebreo cattivo, arraffone, banchiere, ed altro ancora. Comincia anche ad uscire allo scoperto un ex-pittore viennese, dotato soltanto di una buona (a tratti eccellente) capacità oratoria. Vediamo infatti, anche qui, in qualche cammeo, Adolf Hitler tenere discorsi da birreria e scaldare gli animi. Anche se, fortunatamente, pur se le sue idee pervadono il testo, lui non compare mai come attore principale.
L’attore principale, in realtà, è un esimio poliziotto, Kurt Meingast. Molto noto ed in carriera prima della guerra, poi nella guerra ferito quasi a morte nel corpo e nell’anima. Ora, reintegrato con compiti marginali. Che è sì bravo, ma non allineato con la maggioranza della polizia. Quindi va tenuto d’occhio, ed eventualmente “fatto fuori”, o fisicamente o lavorativamente.
La sfortuna dei cattivi è che Kurt arriva sul luogo di un delitto, che, dalla dinamica che ne ricava analizzando la scena, non può che essere stato commesso da due poliziotti presenti. Certo, il morto, un delinquente di mezza tacca, non mancherà a nessuno. Ma Kurt è integerrimo, e capisce subito che gli assassini sono i poliziotti, e che dietro c’è altro, molto altro.
Da qui partono le indagini, che lo portano ad attraversare i momenti bui che la Germania stessa sta attraversando. Da qui partono svariate digressioni di Odone nel tentativo di mescolare le piccole e le grandi storie. Così che, oltre a nomi e personaggi fittizi, vediamo entrare in scena anche elementi storici, pur con un qualche beneficio d’inventario sulla loro fedele rappresentanza.
Non mancano piccoli colpi di scena, anche se Kurt attraversa tutto il romanzo con la sua enorme dirittura morale. Che vuole il colpevole (o i colpevoli) senza piegarsi a ragioni di partito o di convenienza. Bravo investigatore (tendente all’ottimo) capisce anche ben presto la meccanica e la dinamica, materiale e morale, delle morti. Ma da lì a riuscire ad incriminare colpevoli e mandanti ce ne vuole.
Non è un caso che, a parte il delinquente di cui sopra, ci siano molte morti tra giovani fanciulle, tutte, stranamente, di origine ebraica. Non è un caso che molti personaggi di dubbia fama si muovano all’ombra della nascente industria cinematografica (lunghe e spesso mirate, sono le citazioni del famoso film “Il gabinetto del dottor Caligari”). Non è un caso che per almeno quattro quinti del romanzo Kurt sia manipolato occultamente, cosa che sembra solo il lettore riesca ad accorgersi.
Alla fine, con un colpo d’ala, Kurt trova il modo non tanto di incriminare tutti i colpevoli, quanto di affrettarne la fine di alcuni e di avere una sua vendetta privata. Ma il romanzo non decolla mai. Odone cerca anche di coniugare il mistero con momenti di obnubilazione di Kurt, e con la presenza strana di un assistente di Kurt, poco credibile invero.
Insomma, la fine è nota fin dall’inizio. Aspettiamo solo di vedere come si concatenino i fatti. Ed è questa, la trama, quella premiata dalla giuria. La scrittura a tratti parte per suoi percorsi diagonali, e non si fa seguire a pieno. Così come volutamente Odone lascia ampie zone d’ombra, che la conoscenza storica e sociale può riempire.
Una debole seppur utile lettura autunnale, ma con poca possibilità di nuove uscite.
Marzia Musneci “Dove abita il diavolo” Mondadori euro 5,90
[A: 07/01/2019 – I: 09/12/2021 – T: 10/12/2021] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 250; anno: 2019]
Dopo quanti, credo 5 o 6 anni, si torna a leggere un libro della Musneci, con protagonista l’omocodice Matteo. Non eccelso, ma leggibile. Soprattutto nelle parti di rapporti umani, che il giallo, pur presente e pur complicato, non prende moltissimo.
Intanto, si scioglie il dubbio posto alla fine del romanzo precedente: Matteo e Cristiana fanno un figlio o lei prosegue la sua carriera di profiler e va a Quantico? All’inizio la risposta è semplice, che assistiamo a lunghe telefonate intercontinentali tra i nostri due eroi. Poi Cristiana torna, e scopriamo l’altra faccia della medaglia, che Cri è incinta. Questo complica un po’ il suo lavoro sul campo, anche se le sue intuizione permettono al nostro Matteo di arrivare ad un bandolo della matassa della complessa trama imbastita dalla scrittrice.
Intanto facciamo un passo indietro, che tutto comincia dalla morte di Flavia Sanguera del Poggio, una complessa figura di donna, nonché amica del nostro Montesi. Che anzi era ospite della tenuta dei Sanguera in quanto la donna aveva fatto un’interessante scoperta archeologica. Infatti, Flavia era appassionata dell’antichità, partecipava a giochi gladiatori in cui si esibiva come se si fosse ancora al Colosseo, con le belve e Nerone. Questa passione l’aveva portata a scavare nella sua tenuta, ed a trovare una tomba intonsa, che parrebbe essere appartenuta ad una donna gladiatrice molto famosa ai tempi di Roma. Tale “Amazon”. Vi risparmio le facili battute che si possono fare associando questo nome all’attualità.
Quello che notiamo è che, il giorno dopo la scoperta, Flavia precipita dall’alta rupe del poggio e muore. Matteo Montesi, ospite della tenuta per lo svelamento della tomba, è subito coinvolto nelle indagini, pur in assenza di Cri, ma in presenza del suo amico, il commissario Felice Santarelli. Tutti propendono per una scivolata maldestra dall’alto della rupe. Ma Matteo no.
Comincia quindi la sua indagine, inizialmente, come ovvio, rivolta al mondo delle lotte in costume, laddove la nostra Flavia usava il soprannome di Achillea, la versione femminile di Achille. Marzia ci fa entrare in questo mondo per me sconosciuto e che non vedo perché non debba rimanere tale. Unico divertimento, è seguire i panegirici che vengono fatti per le gladiatrici, che furono poche, ma furono, come dimostrano le iscrizioni trovate ad Alicarnasso.
Dovendo tuttavia seguire l’indagine a tutto tondo, Matteo si trova anche ad affrontare l’altro mondo di Flavia, quello del suo lavoro. Lei fisica sanitaria in un laboratorio supertecnologico, insieme ad altri ricercatori e scienziati degni di Nobel, porta avanti un progetto mirabolante sulla vita di una specie di meduse piccolissime, denominate “Turritopsis nutricula” che hanno l’interessante particolarità di poter invertire il loro ciclo vitale. Una volta sessualmente adulte, possono regredire e trasformarsi in polipi sessualmente immaturi. Questa capacità di invertire il ciclo vitale potrebbe rendere la specie immortale (infatti il soprannome di questa specie è proprio “medusa immortale”).
La nostra Flavia sembrava essere riuscita a riprodurre questo ciclo in laboratorio, generando nel suo gruppo di lavoro l’aspettativa di aver scoperto un potenziale “siero dell’immortalità”.
Questo apre nuovi orizzonti alla trama: una volta dimostrato che non fu incidente, Flavia è morta per la statua di Amazon (bellamente scomparsa) o per le meduse immortali (vittima di qualcuno della sua squadra poco felice dei suoi successi).
Il tutto si complica con la vicenda laterale di una fantomatica scrittrice, amante del padre di Flavia, e forse madre naturale della stessa. Ma è una vicenda collaterale che poco avanti ci porta nel discorso. Discorso che invece viene correttamente interpretato da Matteo, con l’aiuto da profiler di Cri, con il sostegno dell’assistente Yorick e del commissario.
Al solito, il finale prevede che Matteo si cacci nei guai, rischi di morire, e venga salvato in maniera rocambolesca. Così succede anche in questa puntata. Ma una volta risolto il mistero, e non vi dico come, ci rimane da assistere alla figlia di Matteo e Cri e di aspettare una nuova puntata delle avventure dei nostri.
Come sottolineavo all’inizio, lettura gradevole, trama complessa ma gestibile. Forse mi sarei risparmiato i soliti flashback in corsivo, e qualche citazione musicale che questa volta non mi andava di interpretare. Segnalo solo, ma per altri divertimenti, che a pagina 87, quando si deve intrufolare in un laboratorio, Matteo usa un tesserino falso intestato a “Mario Rossi”, ed a chi gli chiede se fosse giù di fantasia risponde: “qualcuno deve pur chiamarsi Mario Rossi”. Confermo, ed io ne ho incontrato uno in uno dei miei viaggi. Mitico.
Roberto Mistretta “La profezia degli incappucciati” Mondadori euro 6,50
[A: 21/07/2019 – I: 06/01/2022 – T: 08/01/2022] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 227; anno: 2019]
Eccoci allora ad un altro vincitore del Premio Tedeschi, sebbene con il consueto ritardo tra la pubblicazione e la mia lettura. L’autore è incontrovertibilmente siciliano, tra l’altro omonimo di un mio carissimo amico palermitano. Questo Mistretta, tuttavia, è nisseno di Mussomeli, anche se usa la sua città come paradigma di una qualsiasi cittadina sicula, nascondendola sotto il nome di Villabosco.
A quanto leggo, tuttavia, non è la prima uscita del protagonista, il simpatico maresciallo sovrappeso Saverio Bonanno, pur se la precedente uscita non credo appartenga ai gialli mondadoriani. Saverio è tornato a vivere con la madre, donna Alfonsina, portandosi appresso la figlia adolescente Vanessa, dopo che la moglie è fuggita con qualche circo che passava di là. Ma la sua vita pare arrivare ad una volta con l’arrivo in paese della simpatica assistente sociale Rosalia, con la quale nasce presto un’intesa, benedetta anche dalla madre.
Tuttavia, la vita della cittadina è ben presto sconvolta dalla morte di Nofrio Falsaperla, governatore della ricchissima confraternita del Purissimo e Preziosissimo Volto di Nostro Signore. Nofrio aveva ingegnato, con un architetto ed un falegname, un meccanismo complesso al fine di poter portare da solo il simbolo della confraternita, il fercolo con la statua della Veronica, colei che asciugò il volto di Gesù durante la via Dolorosa. Inciso, per chi non ha conoscenze di processioni: il fercolo è una macchina che viene utilizzata per portare in processione simulacri di santi. Peccato che il sistema crolli e Nofrio muoia schiacciato. Disgrazia? Così pensa Saverio, ma una lettera anonima lo costringe ad aprire una piccola inchiesta, che presto si ingrandisce, a forza di prove che è stato omicidio ed a cui altri omicidi seguono.
Intanto, Nofrio era un discreto sciupafemmine, con storie e storie delle belle del paese. La moglie del suo vice, Ideale Dolcefiore, la moglie del falegname, nonché, ultima arrivata, Minica, che doveva impersonare Veronica nella processione. Mentre Saverio procede nell’indagine, coinvolgendo il vice, il falegname, nonché padre Bartolomeo, il parroco supervisore della processione e confessore della confraternita, le vicende locali si complicano.
Il superiore di Saverio, capitano Oliva, sta seguendo un’indagine di mafia, quando muore in un agguato, dove risulta gravemente ferito il vice di Saverio, il brigadiere Attilio Steppani. Il nostro maresciallo è costretto a seguire le due vicende, anche se, per una serie di circostanze che troverete ben descritte da Mistretta, Saverio comincia a supporre che ci sia più di un punto in comune nelle due vicende.
Bonanno si muove come un elefante nella cristalleria di Villabosco, ma comincia a mettere puntini su delle “i” che ancora sono misterioso. Che ruolo può aver avuto la giovane Minica, che risulta amante o qualcosa in più di Nené, mafioso da due soldi che sembra implicato nell’agguato al capitano Oliva? Che cosa ha fatto, o scoperto, il falegname che ha restaurato il fercolo? Perché il parroco sembra sfuggire alle domande di Bonanno, talvolta nascondendosi dietro confessioni religiose non rivelabili? Chi è lo strano tizio che parla da solo?
Il nostro troverà la linea che unisce tutti i puntini, e che conduce ad uno scrigno segreto, nascosto nel fercolo, contenente gioielli della confraternita, che di certo hanno scatenato il putiferio. Ovvio che non vi dico chi, come e perché. Anche perché c’è un nuovo pericolo da sventare: la moglie di Saverio torna di nascosto a reclamare la figlia (ma solo perché vuole denaro). Questa volta sarà Rosalia, senza turbare Saverio, a risolvere brillantemente il caso.
Mistretta è gradevole, in particolare nella descrizione dei personaggi, in particolare Saverio, che oltre a quanto sopra citato, vive anche con il cane Ringhio, si sposta su di una Punto, sorbisce una notevole quantità di caffè, fuma e mangia di gusto. Meno riuscita è tutta la costruzione della complessa trama gialla, che si è voluta incasinare con cenni di mafia, che ci stanno sempre bene in Sicilia, mettendoci sopra anche la panna di una lunga scia di morti, la cui dinamica è risolta solo con le descrizioni finali.
Auguro all’autore di trovare presto anche qualche possibili seguito, che i personaggi sembrano ben utilizzabili in romanzi seriali.
Essendo la terza trama di marzo, e non avendo nuovi libri felici da condividere, vi lascio un allegato con florilegio di citazioni. Che non risparmio anche qui, tornando ancora alla toccante Irène Némirovsky, quando in lingua lessi “David Golder”, che mi colpì con un macigno la sua frase: “remontèrent au hasard une rue … la rue Vielle-du-Temple… ici, à côté, dans la rue des Rosiers, il y a un petit restaurant juif». Che ricordi! Lì, quando ci andai negli anni ’70 c’era uno spaccio dei mitici felafel, non a caso chiamato “L’as du felafel”. E poco prima uno dei migliori ristornati ebrei di Parigi, “Chez Goldenberg”. Purtroppo, il ristorante fu vittima di un attacco insensato nel 1982, e non essendosi più ripreso, poi ha definitivamente chiuso.
Quest’aggancio di terrori lontani, ci porta ai terrori attuali, ad una guerra insensata, nei confronti della quale l’unico atteggiamento corretto ce lo mostra Papa Francesco quando invoca “Fermatevi, per pietà”.
Noi poco possiamo, se non stringerci sa coorte, ed abbracciarci. Ma anche non facendoci mancare i miei settimanali
Baci
Giovanni
ADDENDUM: da questa settimana, per inaugurare una festosa primavera, aggiungo una nota finale, nel caso qualcuno dei miei esimi lettori gradisca fare una segnalazione; questa settimana, quindi, vi segnalo “TRE” di Valerie Perrin.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Citazioni di marzo
Per le citazioni di questo mese ci rivolgiamo all’estate del 2009. Un’estate segnata da uno dei più bei viaggi da me organizzati. Quello che seguiva le due rive del fiume Giordano, prima in Giordania e poi in Israele.
Prima del viaggio, intanto, nel mese di luglio, avevo dato una bella mostra ad una delle scrittrici di racconti da me più amate. Vi parlo di Alice Munro e del suo “Nemico, amico, amante …”. Con alcuni fulminanti giudizi sui rapporti umani. Cominciando a pagina 72, “perché dici che ti dispiace dirmelo? Hai mai notato che quando qualcuno dice che gli dispiace dire qualcosa, in realtà non vede l’ora di dirla?”. Un’istantanea che in due righe ci porta un mondo: “quello che ... aveva davvero voglia di fare non era più cercare, ma sedersi a terra … restare seduta per ore … per rimanere in quello spazio dove nessuno la conosceva né pretendeva niente da lei” (198). O meglio ancora: “le era passato per la mente il pensiero che ... la cosa giusta da fare sarebbe stata gettarsi nell’acqua. Così com’era, grondante di felicità. Soddisfatta come di certo non le sarebbe capitato di sentirsi più” (234).
Certo, un mese inusuale, che dopo i racconti, passai a lodare le poesie, bellissime, di Derek Walcott, traendo da “Mappa del Nuovo Mondo” alcuni piccoli gioielli in versi:
“To change your language you must change your life” (72) [per cambiare il tuo linguaggio devi cambiare l tua vita].
“Si potrebbe anche smettere di scrivere / … / e diventare, invece / il loro lettore ideale … che antepone l’amore / per i capolavori al tentativo / di ripeterli … / e diventare il più grande lettore del mondo” (91) [uno dei miei sogni nel cassetto!!]
“certe cose non le scegliamo noi / ma siamo quello che abbiamo fatto / soffriamo, gli anni passano, lasciamo / tante cose per via” (106-107). Che potenza l’immagine di essere ciò che abbiamo fatto nel corso della nostra vita.
Un libro con alcuni momenti epici fu poi l’epopea della comunità Arbëreshë descritta da Carmine Abate in “La moto di Scanderbeg”. Il primo e lungo, era dedicato ai rapporti di coppia. Iniziando con il descrivere il momento in cui ci si lascia: “le grido i bei momenti passati insieme, le accarezzo la mano, cerco di commuoverla con gli occhi umidi, faccio l’isterico alla perfezione; allora lei mi stringe per un attimo sul suo petto caldo, ma non appena mi sono calmato e illuso, mi dice che è tutto finito” (94-95). E lei poco dopo prosegue: “mi hai fregato per anni, hai sempre saputo camuffare il tuo egoismo; invece pensi solo ai fatti tuoi. Te l’avevo detto: l’amore bisogna curarlo, come una pianta, altrimenti si secca, muore. Tu non l’hai saputo curare, il nostro amore. E ora è morto. Perciò ti prego, non cercarmi mai più. Non voglio più vederti, ci faremmo solo del male” (95).
Poi un richiamo per chi, adolescente, forse lo è ancora a quasi settant’anni: “vi state complicando la vita, ma vi amate. Questo è importante. Il dramma è quando non ci si ama più. Ora devi decidere tu. Non puoi continuare all’infinito a fare l’adolescente. Hai trentadue anni [sic!!!]” (177).
Infine, una citazione del grande teologo scolastico Ugo di San Vittore, che ci ricorda un momento di condivisione della vita, tanto forte quanto mai in questi tempi di guerra: “L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è l’uomo per cui l’intero mondo è un paese straniero” (127).
Prima di partire per l’avventura mediorientale, lessi alcuni libretti di Irène Némirovsky. Uno in particolare, “Il calore del sangue”, mi colpì duro con alcune frasi. Sull’amore: “noi siamo morti… perché abbiamo cessato di amare”. Sul rapporto con i figli: “non possiamo vivere al posto dei nostri figli (anche se a volte ci accade di desiderarlo)”. Infine, con una fotografia del mio gruppo viaggiante: “un gruppo di persone in età matura emana un senso di imperturbabilità… sono soddisfatti di sé… tra i quaranta e i sessanta queste persone godono di un’effimera pace”.
Settembre, l’inizio di settembre, non poteva che portare riflessioni sulla vita e su tutte le sue sfaccettature.
In un libro, per altri versi non bello, anche se scritto da una persona ammirevole, “Lettere dalla Kirghisia” di Silvano Agosti, l’autore ci riporta un verso di un poeta kirghiso, che nella sua laconicità riecheggia versi di una vecchi canzone dei Nomadi (e di Guccini); “… con noi o senza di noi /verrà il tramonto / e sarà magnifico … (poeta kirghiso)” (87).
C’era poi il cultore dei non-luoghi, Marc Augé con tanti spunti presi dal breve e bellissimo “Casablanca”.
Ovviamente molti sul cinema: “il miracolo del cinema sta nel fatto che ci impone l’evidenza fisica di eroi che conservano la loro giovinezza, mentre noi invecchiamo” (54). Dove ribadisce che i film vanno visti su grande schermo: “il cinema … [è] l’occasione di un incontro. È un’altra ragione per la quale non amo molto i DVD. Avere un film sottomano … è come uccidere il caso” (61). E dove, partendo dal film del titolo, arrischia una considerazione sulla vita tutta: “è inconcepibile… immaginare un seguito a Casablanca… perché è impossibile, nella vita, ritornare al passato. Non si può risalire il corso della vita” (82).
Poi alcuni toccavano le corde del mio io e del mio privato. Nei rapporti con mio padre: “l’ultima volta che ho ucciso … mio padre è un po’ di anni fa, quando ho raggiunto e poi superato l’età che aveva quando è morto” (55). Nell’amore per mia madre: “mia madre camminava con difficoltà, ma non rinunciava alle sue passeggiate… conosceva come le sue tasche i percorsi degli autobus … ma non ha mai rinunciato a fare la spesa al supermercato di rue Monge o al mercato di place Maubert” (79). Finendo per ricordarmi che, sempre, io sono (anche) un parigino adottivo: “mi piace la Gare Montparnasse… mi piace l’odore delle stazioni” (70).
E si conclude con una consapevolezza: “abbiamo tutti un giorno o l’altro la sensazione che la vita avrebbe potuto essere diversa, ma che comunque continua. … ci possiamo allora sentire o molto liberi o molto soli” (64).
Una sensazione subito dopo ripresa da Jean Marie Gustave Le Clézio ne “L’africano”: “Era troppo tardi, il tempo non torna indietro, neanche nei sogni” (46).
Quindi, noi, sempre, continueremo ad andare avanti.
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