Ci sono momenti di lettura che non sempre sono felici. Questo, complice forse un clima generale e personale poco pimpante, si adagia su di una serie di letture che mi hanno convinto poco. Forse il solo Oz, anche se non felicissimo, mi ha dato qualche spunto. Poco il pluripremiato Veronesi, e quasi verso il nulla il dottore di Bellano, che invece era generalmente più gradevole.
Amos Oz “D’un tratto nel folto del bosco” Corriere Amos Oz 14 euro 8,90
[A: 06/05/2020 – I: 12/08/2021 – T: 13/08/2021] - && +
[titolo: פתאום בעומק היער: אגדה (Suddenly in the depths of the forest: a legend); lingua: ebraico; pagine: 114; anno: 2005]
Nell’anno pandemico, il Corriere fece un’iniziativa interessante di pubblicazione di una serie di libri di Amos Oz, in celebrazione della scomparsa dell’autore. Li avevo quasi tutti, questo è uno dei tre che mi mancava.
Non è forse il mio genere preferito, tra gli scritti di Oz. Dove mi trovo più a mio agio con i romanzi pieni di problemi di vita quotidiana, e di rapporti interpersonali. Ed anche nei saggi, dove ha sempre espresso questa sua posizione di rispetto e di mediazione per la situazione locale. Purtroppo, non ne sentiremo più la voce che ci ha lasciato or son quasi tre anni.
Questo, come altri che ho letto, tipo “Una pantera in cantina”, si inseriscono, infatti, nel filone favolistico, o meglio forse, didattico. Attraverso le favole (o come sembra dal titolo inglese, una leggenda), spesso per un pubblico giovane, Oz cerca comunque di inviare un messaggio universale, un messaggio per grandi e per piccini. Scontando il fatto che quindi utilizza una lingua più semplice, immagini più immediate, e di conseguenza, senza aver bisogno di nascondersi tanto dietro le parole. Come in questo caso: vuol dire una cosa (siamo nel 2005), e la comunica senza mezzi termini.
Il messaggio è che la diversità crea esclusione. Sembra facile e banale, ma, partendo da una favola, fa senza dubbio riflettere i ragazzi. E se la gente è aperta di mente e di cuore, rifletterà anch’essa.
La leggenda ruota intorno ad un tristo villaggio, dove sono spariti tutti gli animali. Ne rimangono solo nei ricordi della vecchia maestra Emanuela, che cerca di comunicarlo ai giovani, con ovvie difficoltà. Solo due, l’intraprendente Maya ed il suo amico del cuore Mati sembrano recepire il messaggio. Anche perché, nel fiume, sembra che abbiano visto un pesce.
Nel villaggio, oltre la stramba maestra, altri sono che hanno comportamenti al limite. La mamma di Maya, ad esempio, che va in giro al crepuscolo con pane secco, cercando uccellini da nutrire (ma senza trovarli). Almon il pescatore che parla con lo spaventapasseri, Nimi il bambino puledrino ammalato di nitrillo (invece di parlare nitrisce), Solina e suo marito Ghinom che crede di essere diventato un agnellino e continua a belare. Tutti diversi, tutti chiacchierati, tutti, in qualche modo, vittime di un atteggiamento bifronte: o emarginati o derisi.
Anche altri misteri pullulano nelle notti e nei giorni del paese: un misterioso “nono” albero che si affianca agli otto sempre presenti; ma solo di notte, che di giorno non c’è più. Poi c’è il divieto assoluto per i ragazzi di uscire di casa dopo il tramonto, e di inoltrarsi nel bosco, pena l’essere rapiti da un altrettanto misterioso demone.
Saranno appunto Maya e Mati a sfidare tutto ciò, andando nel bosco alla ricerca della verità (o di una verità). I due rappresentano le due anime di chi cerca di uscire dal buio: l’incoscienza di Maya e la tremebonda andatura morale di Mati. Ma i due riusciranno ad entrare nella foresta, insieme pericolosa e salvatrice. Noi, insieme a loro, impareremo quanto sia importante il ricordo. E quanto si importante, in seguito, dire la verità ad alta voce, per tutti quelli che non la vogliono sentire. Sapremo così il perché della scomparsa degli animali (motivi che intuite ma non vi svelo). Così che, tirano le fila nel fondo del libro (e non del bosco), noi, Oz ed i due bimbi impareremo qualcosa, non di nuovo ma di sicuro utile: l’altruismo, ad esempio, il valore della memoria, le diverse prospettive da cui si guardano le cose.
Due cose mi sono alla fine rimaste. L’abilità, come spesso anche in altri suoi romanzi, di Oz di raccontare, di farci partecipe del silenzio. Che è uno stato in cui molte cose si comprendono, molto va al proprio posto nel mondo. L’altra è una costante che ho visto emergere in ogni suo scritto: il pericolo che andando nel mondo, l’uomo possa smarrire mi verrebbe da dire la tolleranza. Ma in effetti, forse lo chiamerei rispetto: rispetto per il diverso, rispetto non solo nella decisione di non conformarsi ai voleri, al vivere di una maggioranza, ma anche la capacità di vedere, in quella diversità, la ricchezza che ne può scaturire.
E rispettando le scelte di Maya, di Mati, e di tutti gli animali, voltiamo l’ultima pagina, rimpiangendo la sorte che ci priva, anno dopo anno, di tante belle voci.
Sandro Veronesi “Il colibrì” La Nave di Teseo s.p. (Prestito della biblioteca di Porto Ercole)
[A: 03/08/2021 – I: 05/09/2021 – T: 07/09/2021] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 366; anno: 2019]
Il premio Strega della 74^ edizione, dopo aver letto il Trevi vincitore quest’anno, entra in modo che i buoni parlatori definirebbero surrettizio all’interno delle mie letture. Non perché Veronesi non sia degno di essere letto, e tra l’altro, a livello scrittura, è stata una gradevole lettura.
Ma non pensavo di leggerne, non entrava nelle mie elucubrazioni leggistiche. Tuttavia, la circostanza imprevista della richiesta di usufruire della villa matronea per alcune riprese del film che ne verrà tratto, ha incuriosito tutta la famiglia. Così ha cominciato mamma Laura, cui mi si dice non sia piaciuto, poi donna Alessandra, cui invece è piaciuto. Io, buon terzo, mi colloco a metà strada. Anche se una metà tendente al basso.
Gradevole leggerne, anche se i soliti passaggi temporali su e giù per luoghi e spazi non sempre mi danno piacere. Ed altrettanto gradevole l’impianto generale. La storia di quest’uomo, Marco, cui succedono molte vicissitudini, e non molte piacevoli. E lui, come dice ad un certo punto la sua amica (amica?) Laura è per l’appunto come il colibrì (quello del titolo) tanta fatica, tanto movimento per restare fermo. Con il risultato, sempre secondo Laura, che gli altri, utilizzando anche solo parte del movimento del colibrì, si muovono, eccome, e se ne vanno. Lasciando il colibrì solo e, forse, affaticato. Ma felice?
Ho trovato invece, seppur reale, molto pesante tutta l’ultima parte, dove, proiettandosi nel futuro, Veronesi tira le fila di tutta una serie di ami lanciati per le prime trecento pagine. E sono fila che ho trovato grevi da leggere, con il risultato che mettevano, mettono addosso, un’angoscia che non ho la forza di reggere adesso. Confesso che, probabilmente, in altri tempi, in altri luoghi spaziotemporali, avrebbero sortito effetti diversi. Ma noi siamo qui, qui ed ora, e qui ed ora le ultime sessanta pagine me le sono trascinate con evidente pesantezza (anche se forse, la pesantezza comincia addirittura verso pagina 230, leggetene quando ci siete arrivati).
Dal punto di vista della scrittura, pur rimanendo nell’ambito “cartaceo”, Veronesi fa un piccolo sforzo cercando di adeguarsi inserendo lettere, cartoline, ed anche SMS. Ci sono anche tentativi di riprodurre conversazioni telefoniche, cosa che però richiederebbe lo sviluppo di un libro multimediale, cosa ancora di là da venire. Alla fine, però, queste sortite nelle nuove tecnologie non riescono a scardinare la staticità del testo. Soprattutto, ripeto, nel finale.
La storia, con questi avanti ed indietro, segue la parabola di vita di Marco Carrera, un uomo alla fin fine mediocre, posto in situazioni spesso più grandi di lui, da cui cerca la fuga, pur sempre nella sua veste di colibrì. Viene da una famiglia normale, anche se padre e madre non pare siano proprio in pieno accordo. Ha avuto un ritardo nello sviluppo, rimanendo sotto la media sino ai quindici anni, per poi (vedrete voi come) svilupparsi verso morfologie nella norma.
Ha una sorella più grande, abbastanza fuori di testa, che esce di scena intorno ai suoi vent’anni (suoi di Marco). Ha un fratello più piccolo che perderà di vista per la di lui (del fratello) gelosia. Ha un grande amore, Luisa, che non porterà mai a compimento. Perché, ogni volta che si tratta di fare un passo anche grande, o lui o lei, fuggono.
Così che si ritrova mal sposato con Marina, con una figlia Adele con delle problematiche psicologiche non banali. Si separa con Marina, vive con la figlia Adele, riprende paturnie giovanili su cui non indaghiamo. Ha un incontro con un “amico” di adolescenza (leggendo capirete perché le virgolette). Ma soprattutto inizia il libro incontrando uno psicologo che gli cambia la vita, ma che diventerà, da quel momento in poi, probabilmente, il suo migliore (o unico?) amico.
Ci saranno tanti momenti negativi che pervadono il libro, e di fronte ai quali, ora, con l’aiuto dello psicologo (anche se questi decide di lasciare la professione e mettersi a lavorare per le situazioni di aiuto con delle ONG in giro per il mondo) le affronta senza fuggire.
Veronesi ci fa vedere la speranza di un futuro migliore, senza colibrì, nella figlia di Adele. Ed anche se affronta punti dolenti del vivere civile, personalmente, ora, li sento trattati in modo che non mi hanno coinvolto. Anzi respinto. E non per moralismo bieco.
Rimane un libro “alla Veronesi”, così come fu “Caos calmo” (che però apprezzai di più). Rimane un libro che ha di certo un futuro cinematografico, dove aspetto di vedere Nanni Moretti nella parte dello psicologo, e la nostra casa nelle parti dello sfondo di scena.
Andrea Vitali “Le belle Cece” Corriere della Sera – Vitali 3 euro 7,90
[A: 25/03/2019 – I: 19/10/2021 – T: 20/10/2021] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 223; anno: 2015]
Approfittando di una iniziativa editoriale del Corriere della Sera mi sono procurato alcuni volumi mancanti dell’enorme bibliografia del medico di Bellano, Andrea Vitali. Non torno sopra la genesi e lo sviluppo delle sue storie che tanta parte di letture mie hanno occupato. Ricordo solo ai meno informati che, nella maggior parte, Vitali descrive e racconta fatti minuti della sua cittadina, spaziando nel tempo, se non nello spazio.
Proprio per questo, e per una certa ironia di fondo, i risultati migliori appaiono, generalmente, quando descrive scene del periodo tra le due guerre. Mentre, quando ci si avventura in epoche più moderne, a volte il filo non è così forte, e le storie si spezzano e si squagliano come se l’autore avesse una difficoltà maggiore nella descrizione, nell’intreccio e spesso nell’ironia.
Ovvio, che queste frasi sono governate da quel generalmente, perché ogni affermazione ammette eccezioni. Così che questo agile romanzo, pur ambientato nel 1936, non riesce a raggiungere i soliti punti di interesse. In particolare, perché comincia in una direzione, poi si ingarbuglia, prima di trovare la sua strada definitiva.
Fortunatamente, tuttavia, abbiamo il filo conduttore di molte delle ultime storie, rappresentato dal maresciallo Maccadò, che assurge quasi ad un filo rosso tra i diversi romanzi (tanto che ad un certo punto, Vitali ne fa una narrazione seriale, con il sottotitolo de “I casi del maresciallo Ernesto Maccadò”).
Comunque, torniamo a Bellano ed immergiamoci nel momento storico, che tutta la storia si svolge intorno al 9 maggio 1936, data della proclamazione dell’Impero italiano, grande fasto iconografico (seppur in realtà solo di facciata) del ventennio fascista.
Per festeggiarlo, Semola, il gerarca locale organizza un concerto di campane tra tutte le chiesette della zona, con conseguente grande festa (c’è sempre modo di sbevazzare sui bordi del lago di Como). Mentre ci aspettiamo che questo dia il via alla storia, risulta soli un pretesto per innescarne una diversa. Infatti, è quella l’occasione per dare una sonora battuta a tal Malversati, personaggio poco simpatico, quasi una sorta di controllore del lavoro dei cotonifici locali, inviso praticamente a tutti.
A fronte di queste “misfatto”, il Malversati trova sparse per tasche e cassette postali, le mutande della moglie, Verzetta Cece in Malversati. Riconoscibili, le suddette che la signora, per vezzo, le aveva appuntate con il ricamo delle sue iniziali.
Da qui comincia il solito balletto che organizza Vitali intorno ai suoi personaggi. Intanto, vengono coinvolti i locali carabinieri, maresciallo in testa, per venir a capo della matassa. Mentre il Malversati coinvolge il Semola, ritenendo corresponsabili in quanto l’aggressione è avvenuta a valle del concerto di campane.
Il Semola pensa bene di coinvolgere nella bagarre un tale soprannominato Dulcineo (dalle spiccate tendenze gay), che, tornato dalla campagna d’Africa, si era portato appresso un bel negrone (di cui non sapremo mai il nome, avendolo ognuno del paese chiamato con un nome diverso). Semola, senza rendersene conto, ha in parte colto nel segno, che il negrone è al centro di una bella tresca, dato che si sa (cioè si narra nell’iconografia del tempo) che la gente di colore ha una sessualità esuberante. Infatti, il negrone, oltre a convivere con Dulcineo, pensa bene di spendere alcune notti nell’alcova di Orbella Cece, la madre di Verzetta.
Orbella, una specie di vedova bianca, ancora piacente, approfitta del fatto che il marito viva altrove, per dedicarsi a ritemprare il corpo e lo spirito. Peccato che, essendo il Malversati spesso assente anche lui, ed avendo Verzetta scoperto le tresche materne, anche la giovane comincia ad approfittare di questi momenti che potremmo ben definire ludici.
Alla fine, sarà Maccadò che riuscirà a tirare le fila di tutta la vicenda, trovando chi si volesse vendicare di un po’ tutto il paese, riuscendo, come sottoprodotto, a mettere anche il Semola alla berlina, oltre al Malversati e a Verzetta ed Orbella Cece (le belle del titolo).
Purtroppo, nonostante l’epoca della narrazione, non riesce ad essere ironica come suo solito. Alcuni sorrisetti, un piccolo sberleffo ai gerarchi dell’epoca ed all’uso del “voi”, ma poco altro. Certo, non possiamo non notare sempre lo stile personale di Vitali, con quei capitoli brevi, e quelle frasi corte, l’uso spregiudicato del discorso diretto. Anche se, come ho rilevato altrove, il troppo “non detto” a volte serve solo ad ingarbugliare le storie, che, altrimenti, si risolverebbero in due battute e mezzo.
Devo rilevare, infine, che queste edizioni da “allegato editoriale”, pur encomiabili, hanno la pecca di non riportare, come le normali edizioni brossurate, un elenco dei personaggi della storia. Lista che diverte come lettura degli strampalati nomi ed epiteti presenti nelle piccole cittadine italiche e che è in ogni caso utile per non perdersi nella messe dei personaggi che Vitali mette in campo.
Andrea Vitali “La verità della suora storta” Corriere della Sera – Vitali 1 euro 7,90
[A: 25/03/2019 – I: 20/10/2021 – T: 21/10/2021] & e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 231; anno: 2015]
Altro libro della collezione da edicola, uscito come primo della serie. Continuando a coprire i buchi di cui ho scritto nella precedente trama. Ma qui siamo nel 1970, nella parte “moderna” delle storie di Bellano. Nella parte in cui non c’è più il maresciallo Maccadò. Insomma, in quella che per me è la produzione minore. Che qui centra in pieno uno dei bersagli più bassi.
Non che sia sgradevole, tutt’altro. Ma manca di mordente, e soprattutto, ha un andamento in cui, bene o male, non c’è un finale deciso. Fatto che rende un po’ monca la storia. Certo, vediamo i veri brani di racconto convergere verso spiegazioni plausibili. Ma ci si aspetta, come nelle storie del Ventennio, che venga un punto di raccolta delle storie stesse. Che questa volta, invece, non arriva, e lascia un po’ di amaro in bocca.
Al centro dei ragionamenti abbiamo sempre un maresciallo, non più Maccadò ma Riversi. A fargli da spalla il prevosto, Don Cantoni. Ma il personaggio centrale sembra essere Sisto Santo, un giovanotto ora dedito alla difficile (siamo nel ’70) professione di tassista. Inciso: leggendone ho fatto un salto indietro nella memoria, nei racconti di papà, quando mi diceva di nonno Arturo, un bravo lavorante di vetri artistici che, a fronte di un incidente che gli recise i tendini del pollice, passò gli ultimi venti anni della sua vita a fare … il tassista. E, coincidenza, Sisto è privo del dito mignolo.
Dicevo di Sisto. A capitoli alterni, Vitali ce ne racconta la storia, dalla giovinezza in orfanotrofio (sempre difficili i personaggi del nostro), ai mille mestieri presi un po’ a casaccio, fino alla lunga gavetta presso un meccanico. Da cui apprende tutto sui motori, da cui apprende l’umanità silenziosa dei rapporti, da cui, alla di lui morte, avrà un ritorno economico che, per l’appunto, gli consente di comperare una licenza da tassista, ed una Millenove Fiat. Inciso: la Millenove era una evoluzione della Millequattro, in produzione dalla metà degli Anni Cinquanta; quindi, quel 26 aprile 1970 era assai vecchiotta. Sotto inciso: quel giorno si disputava l’ultima giornata del campionato ’69-’70, vinto dal Cagliari di Gigi Riva.
Ma prima che il meccanico muoia, Sisto lo visita in ospedale, dove incontra una strana suora, con una scoliosi devastante, tanto da essere chiamata “la suora storta”. Altro elemento fondamentale della storia, come tassista, quel giorno d’aprile prende su un’anziana signora per portarla al cimitero, a visitare chissà chi. Però la signora muore, e da lì si innesta tutta la seconda storia.
Chi è la morta? Indagini a tappeto di Riversi, fino a trovarne il nome, Vera, ma poco altro. Una casa signorile a Monza (ma qui siamo sul Lago), un abbonamento a “La provincia di Como”. Sarà il cassamortaro a trovare un nuovo elemento, una foto nel vestito della morta. Dove ci sono due donne ed un uomo. L’uomo si scopre presto essere l’Agliati, un gran signore del luogo, morto, guarda caso esattamente un anno prima. Una delle due donne è senz’altro la signora morta. Ma l’altra?
A fronte di altre coincidenze, Riversi scopre che la terza è proprio la suora storta. Poi la perpetua di Don Cantoni rivela che per avere notizie sul trio bisognerebbe parlare con la cameriera di casa Agliati di quel periodo. E chi altro non è se non la sorella del meccanico mentore di Sisto? Sorella che riconosce la foto, riconosce Agliati senior, e riconosce in Vera colei che la soppiantò in casa Agliati. O almeno così dice.
Allora, l’unico modo di venirne fuori, Riversi deve rintracciare la suora storta. Venendogli qui in aiuto Don Cantoni. I due la vanno a trovare nell’ospizio per anziane ecclesiastiche, accompagnati, com’è ovvio, da Sisto in quanto unico tassista della zona. La suora, allora, racconta. Di quando non era suora. Di quando non era storta. Di quando conosceva la sua amica Vera. Di quando frequentavano l’Agliati. Di quando …
Beh, non si può mica raccontare proprio tutto, anche se, al solito, racconto anche troppo.
Ma una volta saputa la verità di suor Teresa, una volta ricostruita la storia di Vera, anche con l’aiuto, certo non voluto, del racconto di Agliati junior, la storia si arena senza portare tutta l’acqua che il mulino, forse, avrebbe avuto necessità per macinare ancora.
Come detto, quando narra di tempi più vicini, la prosa di Vitali si fa meno telegrafica del solito, e spesso, come in questo caso, meno avvincente. Abbiamo un nuovo bozzetto di vita, abbiamo nuovi personaggi della vita cittadina di Bellano. Manca tuttavia l’ironia, i doppi sensi paesani, e tutto quanto, in genere, ha fatto di questo autore e della sua scrittura una piacevole lettura. Rimane un discreto passatempo, ma non dei più avvincenti.
Andrea Vitali “Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti” Corriere della Sera – Vitali 1 euro 7,90
[A: 25/03/2019 – I: 23/10/2021 – T: 25/10/2021] &
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 446; anno: 2014]
Con questo finiamo gli arretrati di Vitali, e credo che per un po’ rimarrò lontano da questo pur bravo scrittore. È bravo nell’inventare storie, è divertente nel reperire nomi che non si usano più, ma sta diventando ripetitivo (primo peccato) e purtroppo anche meno ironico (secondo e più grave peccato).
Ribadisco che le storie del Ventennio sono una spanna sopra le altre, e questa non mi smentisce. Anche se, invece dei tempi presenti, si colloca ancora più indietro, e precisamente nell’anno di grazia 1915. Questa collocazione avrebbe potuto generare riflessioni, anche solo accennate, sul momento storico, su come le piccole cittadine di provincia hanno vissuto un momento che, per le grandi città, è stato epocale. Purtroppo, concentrato sui piccoli problemi della piccola gente, poco filtra (un po’ certo, che, comunque, siamo in Italia) e quel poco senza neanche un pizzico di ironia, come il maresciallo Maccadò ci aveva abituato.
Forse, nuoce anche al romanzo, una mole eccessiva, che fino alle trecento pagine, la scrittura di Vitali riesce a sostenersi. Qui si allunga, si ingarbuglia, i personaggi cambiano anche timbro espressivo. Insomma, un risultato poco felice. Che almeno, nelle più riuscite saghe di Bellano, si riusciva ad entrare in sintonia con un personaggio, mentre qui non solo sono tutti algidi, ma le caratterizzazioni simpatiche, alla fine volgono all’antipatico spinto, così che nessuno, in fin dei conti, riesce a salvarsi.
L’inizio sembrava promettente: due sorelle, Giovenca e Zemia, la prima bellissima, la seconda bruttissima, aprono una merceria a Bellano. Possono scatenarsi odi (tra gli altri commercianti), amori (verso Giovenca) ed altri sentimenti viscerali. Per un po’ sembra così: Geremia, dal cervello un po’ lento, si invaghisce di Giovenca, la madre lo vuole dissuadere, convince il parroco a mettersi in mezzo. Ecco che ci si aspetta una pochade di paese.
Ma questa volta l’estro di Vitali si arena nei rivoli. Le sorelle sono sorellastre. Giovenca è da poco vedova di un giovane morto al primo assalto del fronte. Non solo, ma la bella si prende di Novenio, uno sfaccendato, buono solo a storpiare D’Annunzio, e per di più monorchide. Zemia la ricatta un po’, ambendo ad un matrimonio che nessuno mai le proporrà. Non solo, anche il suocero di Giovenca muore, lasciandole la suocera rimbambita di brutto. Così che salta fuori anche il notaro Giovio, esecutore testamentare dei morti e truffaldino della più bella specie.
Novenio è succube del padre, che lo convince a tentare l’eliminazione fisica dell’ingombrante suocera. La madre di Geremia ed il parroco si mettono in mezzo per dissuadere il giovane dal passo insano. Giovenca briga perché Geremia sposi Zemia, togliendosi così due piccioni con una fava. Il maresciallo, che non è ancora il nostro Maccadò, si mette in mezzo per capirne qualcosa, riuscendo solo, ma per caso, ad evitare per 400 pagine disastri maggiori.
Capite bene che da una pochade di paese, si sta passando ad un grand guignol senza esclusione di colpi. Certo, le piccole macchiette sono al solito ben disegnate. Il grasso notaro, il dannunziano illetterato, l’ingenuo di paese, le perpetue. Ma rimangono lì, come elementi di un quadro di cui non si percepisce la struttura globale. Ad esempio, si fa interessante la digressione sul patrigno delle sorelle, la sua evoluzione, il suo amore per i bottoni artigianali. Sono tuttavia capitoli che sembrano essere a sé stanti, senza partecipare all’azione corale.
Ci si avvia così stancamente verso la fine. Con una serie di improbabili quanto poco spiegati colpi di scena. Nessuno ne esce contento, nessuno ne esce vittorioso.
Rimangono, appunto, i bozzetti paesani in cui Vitali è maestro. Ma nelle altre sue opere andavano a comporre un quadro generale, che aveva un suo senso. Qui sono isolati, slegati, ed il quadro che Vitali tenta di proporci rimane bellamente incompiuto.
Come detto poi sopra, l’incompiutezza fa sì che nessun personaggio susciti la nostra simpatia o empatia, così che alla fine si rimane assai delusi. Vitali, per un po’, sarà in secondo piano nelle mie letture.
Questo mese ci occupiamo un po’ di fantasia, che ne serve molta.
Nell’albo delle grandi citazioni, questa settimana vi meritate un esimio e toccante pensiero di Irène Némirovsky che nel suo “Come mosche d’autunno” sottolinea qualcosa di molto bello “come l’aveva amata… Ma almeno stavano invecchiando insieme… Già questa era una bella cosa” (76).
Vogliamo parlare di guerra? Forse no. Vogliamo continuare a parlare i pandemia? Forse i numeri attuali ci dicono che non è mai del tutto passata. Io vorrei di nuovo parlare di amicizia e di rispetto, come sanno i miei amici. Ma lo spazio è poco, quindi rimandiamo a momenti più lucidi. Per ora accontentatevi di un abbraccio.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO 2022
Come detto il mese scorso andiamo al recupero di cure passate. Questo mese parleremo della sensazione di oppressione che ci cagiona un mondo poco fantastico.
PROSAICITÀ DEL MONDO, SENTIRSI OPPRESSI DALLA
Quando il mondo sembra terribilmente banale, e l’unica magia nella vostra vita è quella promessa dall’etichetta di un nuovo prodotto per la pulizia della casa, lasciatevi trasportare altrove dalla narrativa fantasy. E non stiamo parlando (non solo) di Harry Potter (piace anche a noi, ma la narrativa fantasy esisteva anche prima di Hogwarts e del Quidditch). Aprite le vostre ali con questo elenco di libri. Vi porteranno nel regno del miracoloso e del meraviglioso.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI FANTASY
Peter S. Beagle “L‘ultimo unicorno”
Angela Carter “Notti al circo”
Eric Rucker Eddison “Il serpente Ouroboros”
Michael Ende “La storia infinita”
George R. R. Martin “Il trono di spade”
J. K. Rowling “Harry Potter e la pietra filosofale”
Salman Rushdie “Haroun e il mar delle storie”
Mary Shelley “Frankenstein”
Bram Stoker “Dracula”
J. R. R. Tolkien “Il signore degli anelli”
Bugiardino
Non sono un grande estimatore dei libri fantasy, o simili. Pur avendone letti in gioventù. Ricordo di aver comunque messo gli occhi negli anni Novanta su Angela Carter, su Michael Ende, su Mary Shelley e su Bram Stoker. E più recentemente, non mi sono fatto mancare i primi volumi di Harry Potter. Sorvolo sul resto e mi concentro su quanto letto assai di recente, dopo aver anche seguito, e con gran gusto, tutta la serie televisiva.
George R.R. Martin “Il trono di Spade” Mondadori euro 12
[pubblicato il 27 gennaio 2019]
Ci sono voluti più di 20 anni per arrivare a leggere in maniera critica ed analitica il primo libro de “Il Gioco dei Troni”, così come appunto nel 1996 l’immaginifico George Raymond Richard Martin decideva di chiamare l’inizio di una delle saghe più lette, più viste e più amate. Purtroppo, oltre a scontrarci con i titoli italiani (ma ormai “Il trono di spade” è diventato un marchio), ci si imbatte anche nella pervicacia delle edizioni, dove i cinque romanzi di Martin dedicati alle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” vengono spezzettati in circa una dozzina di volumi. Per cui questo, in realtà, è metà del primo libro della serie, dove appunto “A Game of Thrones” viene diviso in questo e nel successivo “Il grande inverno”.
Comunque, dopo averne letto qualcosa quando fantasy e fantascienza erano più presenti nel mio orizzonte letterario, e dopo averne parlato con gli appassionati, e dopo aver visto almeno la Croazia e la Scozia, due dei luoghi must dove è stata girata la serie TV (manca la Nuova Zelanda, un po’ lontana forse), non potevo esimermi di includere anche questo esempio, ormai classico, di letteratura. Sicuramente la scrittura è di buon livello (anche se qualcuno si è lamentato delle traduzioni mondadoriane non sempre accurate), ed accompagna una saga che ha il sapore di un classico, pur essendo farcita di elementi nuovi ed interessanti.
Martin ambienta la sua epopea in un mondo altro, forse futuro, ma di sicuro regredito ad un Medioevo europeo di stampo classico. Tornei di cavalieri, strutture feudali ed altro ne sono un chiaro esempio. Su questo si innestano tre elementi “diversi”: il lato fantasy, rappresentato da animali fantastici (i meta-lupi), uova di drago dormienti per millenni, e zombie (o simili creature) che vengono a minare i fragili equilibri del mondo conosciuto; il lato “guerresco”, con una struttura che sembra ricalcare la Guerra dei Cento Anni di britannica memoria, con alleanze, tradimenti ed altre tipologie ben presenti in Europa negli anni bui; il lato “osé”, che c’è sesso, normale e straordinario, etero ed omo, incestuoso perfino, tanto per solleticare il lettore di quando in quando a non distrarsi dalle vicende.
Che sono poi vicende corali, che si svolgono in un mondo diviso tra due grandi continenti: Westeros (riportato in italiano come “Il grande Nord”), luogo freddo e dove è difficile vivere, dove arrivano stagioni senza cadenze e durate predeterminate, diviso in Sette Regni, che rispondono ad un unico re, ed Essos (“Il libero Sud”), dove scorrazzano popoli nomadi e sorgono e prosperano città libere.
Tra l’altro, all’estremo Nord c’è una Barriera, un gigantesco muro di ghiaccio, mutuato dal Vallo d’Adriano in Inghilterra, controllato dalla confraternita dei Guardiani della Notte, per tener fuori dal mondo civile i Bruti e gli Esterni. Non ho molta intenzione di addentrarmi nei meandri del primo volume, che, pur tipicizzanti, andrebbero corredati da tutti i restanti altri 11 tomi italici, cosa che per il momento non è nelle mie intenzioni. Per chi si incuriosisce, vorrei invece delineare quanto succede prima dell’inizio della saga.
Infatti, quindici anni prima del primo romanzo, i Sette Regni sono sconvolti da una prima Guerra Civile. Il figlio del Re Folle, Aerys II Targaryen, Rhaegar, rapisce Lyanna Stark, a scopi sessualmente comprensibili, suscitando, com’è ovvio, le ire del promesso sposo di Lyanna, Robert Baratheon. Ma quando la famiglia Stark ne chiede la liberazione, il Re Folle uccide i capi della famiglia. Eddard Stark, capo del più grande regno del Nord, “Grande Inverno”, si unisce a Robert e Jon Arryn, dichiarando guerra ai Targaryen. Nel gioco delle alleanze, Eddard e Jon sposano le sorelle Tully, Catelyn e Lysa, rinsaldando i legami tra loro. Il culmine della contesa si avrà nella famosa “Battaglia del tridente”, dove Robert uccide Rhaegar (che aveva già fatto fuori Lyanna), e Jaime Lannister, di una casata un tempo fedele ai Targaryen, li tradisce, uccide a tradimento il Re Folle, concedendo a Robert di farsi nominare Re dei Sette Regni, suggellando l’accordo tra le famiglie con il matrimonio tra lo stesso Robert e Cersei Lannister, la sorella gemella di Jaime. Pur essendo sconfitti, i due ultimi Targaryen, il giovane Viserys e la neonata Daenerys si salvano fuggendo al di là del Mare Stretto, verso i regni del Sud.
Avete già capito quanto e come si possa sviluppare la trama. L’ultima invenzione di Martin, molto efficace dal punto di vista narrativo, è permettere ad ogni personaggio di narrare in prima persona una sequenza di avvenimenti, così che ogni capitolo è esposto dal Punto di Vista di uno di questi. In questo inizio, ne parlano Eddard Stark e la moglie Catelyn Tully, il primo perché il re Robert lo vuole come suo secondo, essendo improvvisamente morto il terzo sodale, Jon Arryn, la seconda perché cerca di capire chi ha attentato la vita del suo secondogenito, Bran. Poi abbiamo tre dei figli Stark: Bran, dalla cui voce capiamo come siano stati Jaime e Cersei a cercare di ucciderlo, avendone lui scoperto le tresche amorose, Sansa, la quattordicenne figlia maggiore degli Stark, promessa sposa al figlio di Robert, e Arya, la minore degli Stark, dodicenne irrequieta, più dedita a cercare di imparare la scherma che a giocare alle bambole. C’è poi Jon Snow, il figlio bastardo di Eddard, di cui non si consce la madre, e che entra, per sfuggire alle ire della famiglia, nei Guardiani della Notte.
Altre due voci sono poi importanti: Daenerys, ormai anche lei quindicenne, che va in sposa con il re dei Dothraki, Drogo, cercando di portarlo sul sentiero di guerra contro i Sette Regni, e Tyrion Lannister, il cadetto della famiglia, chiamato il Folletto (in inglese “Imp” che propriamente sarebbe “Diavoletto”), per le capacità verbali, le intemperie sessuali, nonché il fatto che è affatto da nanismo (inoltre ha gli occhi di due colori diversi!).
Non so esattamente come si è andata sviluppando l’intera saga in scrittura, ma da questo primo assaggio, direi che 4 sono i personaggi che più mi vengono in mente ed in simpatia: Bran e Arya Stark, Jon Snow e Tyrion il Folletto. Concludo ribadendo la poca voglia, attuale, di seguirne le vicende letterarie, ma l’idea, quando se ne ha tempo, di vederne gli episodi della Serie TV-
“Le storie … non sono mie. … Le storie esistono prima di me e dopo di me.” (252)
Conclusioni
Non commento l fantasia, ma ribadisco, se non li avete visti, gli episodi televisivi meritano tutti.
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