domenica 27 marzo 2022

Tornando a viaggiare - 27 marzo 2022

Un gerundio di speranza, visto che ci rimane quella e poco altro, per ora. Ma almeno viaggiamo con la lettura, spaziando da Cuba all’India, dal Cile alla Russia, fermandoci alfine in un sempre amato Egitto. Dove per l’appunto al-Aswani ci dà il meglio per l settimana, seguito da un altro autore che leggo sempre con piacere, l’indiano Ghosh. In fondo al gruppo gli ispanici, che non mi hanno entusiasmato, né Arenas né Ovando. In mezzo un autore che, letto ora, nel mezzo di una guerra insensata, dona senso alla lettura. Vi invito a leggere e riflettere sulla citazione che riporto.

Reinaldo Arenas “Prima che sia notte” Repubblica Mondo 11 euro 9,90

[A: 04/02/2019 – I: 21/08/2021 – T: 23/08/2021] - &&  

[tit. or.: Antes que anochezca (Autobiografia); ling. or.: spagnolo; pagine: 347; anno 1990]

Un libro veramente difficile. Non per la scrittura, ma per la tipologia dei contenuti. Anche se la preponderante parte omosessuale, benché troppo esibita, forse, ci può stare, la parte visceralmente anticomunista e anticastrista (che si può capire) risulta forzosamente inserito. Una bandiera da esibire, senza mai porse una domanda o macerare un dubbio (o almeno così salta fuori dalla pagina).

Ora, io non ritengo di avere nulla da opporre alla presentazione della vita, quale che essa sia. Tuttavia, la vita di Reinaldo mi sembra da lui essere stata troppo semplificata: sesso tanto, amore poco o nulla. Troppo squallido. Io so, e vedo, amori omo, etero e bisessuali che vanno da grandi picchi a profondi abissi. Qui, c’è solo sesso. E anche molto squallido. Anche perché, per Reinaldo, tutti sono gay: i gay, le donne, gli uomini tutti, sposati o meno. Troppo facile, troppo semplicistico. Quasi fosse solo un tentativo, come dicono i francesi, per “èpater les bourgeois”.

Di certo, non può mancare l’empatia con una persona che, malata di AIDS, trova la forza, la volontà, di scrivere, di narrarsi, di mostrarsi nudo e a nudo. Con le due pagine migliori e più forti che sono le ultime due. La descrizione della luna sopra Cuba, lirica, bellissima. E la lettera di addio, di chi, capendo di non farcela più, decide che “per lei lascia la vita”.

Il volo d’uccello che ci impone l’autore, invece, all’inizio sembrava promettere e bene. La descrizione dell’infanzia, povera ma felice. Il rapporto con la nonna, e quello, mai risolto e forse irrisolvibile, con la madre. La campagna, il fiume, gli animali, l’orto. E la scoperta della propria omosessualità. In modo semplice e non traumatico. Anche se poi, il trauma, lo dovrà portare per tutta la vita. O almeno per tutta la sua vita cubana.

Arenas è del ’43, quindi ha tutta l’infanzia e la giovinezza per vivere la sciagurata permanenza al potere del dittatore Fulgencio Batista. Quando Cuba era solo una grande casinò per gli americani danarosi e per i mafiosi di ogni risma. Soggettivamente, il periodo di Batista, porta un aumento della povertà nelle campagne, tanto che la famiglia Arenas vende tutto e prova a reinventarsi una vita possibile nella triste città di Holguin, nel sud di Cuba.

All’inizio, come tutti d’altronde, si unisce alla rivoluzione. Ma dalle sue parole, scritte anni ed anni dopo, traspare solo la delusione. Certo, il castrismo non fu rose e fiori, come tutte le rivoluzioni. Come diceva tal Andreotti, “il potere logora chi non ce l’ha”, ma corrompe che ce l’ha. Non entro, non voglio entrare in polemica con l’autore. Mi sono limitato a leggerne le parole, a capire quanto c’era di vero e quanto di iroso rimpianto. E non è facile.

I regimi dittatoriali (ed anche a Cuba, c’è una dittatura, di sinistra, volendo, ma con tutte le contraddizioni e le difficoltà di un popolo assediato, che resiste, fino all’ultimo goccia di sudore, alle lusinghe americane) hanno sempre mostrato poca propensione all’accettazione dei diversi. E di sicuro, negli anni ’60 e ’70 anche per Cuba era lo stesso. Il machismo dei Caraibi è ben noto. Ma dopo, ora, almeno nella Cuba che ho visto io, il clima mi è sembrato diverso. Tuttavia, non essendo né cubano né omosessuale, forse ho parametri di comprensione diversi.

Comunque, la scrittura che ci riporta a tutte le traversie passate da Reinaldo per cercare di allontanarsi da Cuba è ben partecipata. Si soffre con lui, pur essendo da posizioni diverse. Ed in queste traversie, inizia a scrivere questo testo, ma solo di giorno, perché la notte non c’è luce. Viene imprigionato, condannato, rilasciato. Poi, nella grande confusione del 1980 con l’assalto alle ambasciate, riesce, con uno stratagemma, a fuggire a Miami. Corregge a penna il passaporto, cambiando Arenas in Arinas. E finalmente, dice, respira la libertà.

Anche fuori Cuba, però, avrà non poche delusioni. Quando i suoi scritti venivano trafugati di nascosto, era diventato un simbolo. Ora che parla apertamente, in giro per il mondo, scopre l’ipocrisia di tutta quella frangia radical-chic, che non crede alle sue traversie. Noi ci crediamo? In mancanza di controprove, si. Che comunque, è quello che Reinaldo sente. Quello che ci comunica, quello che per dieci anni lo sostiene. Finché, anche l’AIDS lo stronca.

Alla fine, uno scritto ambivalente. Umanamente, lo seguo. Politicamente, mi sorgono interrogativi. Che sono sempre quelli legati agli sforzi per permettere all’uomo di sviluppare le proprie capacità. Non so quale sia la ricetta giusta. Forse non c’è. Di certo, l’unico parametro che mi sento di portare avanti a tutto è il rispetto. Se c’è, si può cercare di migliorare. Se non c’è, rimane la prevaricazione di chi urla più forte. E non è questo il mio mondo.

“Ho sempre pensato che sia meglio conoscere gli scrittori da lontano, leggerli, piuttosto che conoscerli personalmente, perché c’è il rischio di rimanere terribilmente delusi.” (332)

Amitav Ghosh “Le linee d’ombra” Repubblica Mondo 12 euro 9,90

[A: 24/02/2019 – I: 23/08/2021 – T: 25/08/2021] - &&&--

[tit. or.: The Shadow Lines; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1988]

Torno ancora una volta al sempre gradevole Ghosh ed alle sue storie indiane. Qui, addirittura, siamo risaliti indietro sino al secondo libro da lui scritto, poco più che trentenne. Se ne sente, a volte, un po’ di scrittura acerba. Che nelle prove successive, pur mantenendo immutato un certo modo di porgere la storia, il flusso narrativo risulta più lineare. In questa più che onesta prova, a volte, pare necessario riprendere fila di un discorso non si sa dove interrotto.

Non siamo ancora alle grandi saghe della maturità della scrittura di Ghosh, né ai reportage da tutte le zone asiatiche. Tuttavia, c’è un filo che collega questo agli altri romanzi di Amitav. L’attenzione alla situazione locale, l’attenzione ai rapporti tra hindu e muslim, ma anche tra indiani in genere e gli inglesi. Attraversando nel tempo momenti topici della storia indiana.

Certo, la non linearità della narrazione è uno degli elementi che a me disturbano maggiormente, che alla fine devo ricostruire vicende e rapporti, alla luce di quanto viene detto dopo ma che avviene prima. Ci sono infatti momenti di difficoltà tra i personaggi, che si capiscono solo alla fine. Ma andiamo con ordine.

La storia coinvolge una grande famiglia indiana, originaria, agli inizi del Novecento in quel di Dacca. E vedremo come sia importante. Due fratelli, che litigano, si dividono la casa. Noi seguiamo uno dei due. Soprattutto, vediamo cosa succede alle due figlie. Una, Maya, la più bella, trova presto un buon matrimonio con un funzionario legato alla diplomazia, così che riuscirà a girare il mondo. L’altra, la nonna del narratore, che sposa un ferroviere, che vive a lungo in Birmania, ed alla morte del marito nel ’36, si reinventa insegnante in una scuola a Calcutta.

Ed è Kolkata una delle protagoniste della storia, così come esce dalla narrazione del protagonista. L’altra è Londra, anche lei narrata dal piccoletto. E poi c’è Dacca, che entra solo per narrazioni laterali, anche se ha una sua funzione nella storia.

La famiglia di Maya, nel ’39, per motivi medici, va in Inghilterra. Oltre i genitori c’è Robi, il cugino poco presente, ma soprattutto Tridib, sognatori con i suoi occhiali ovali dalla montatura dorata. Tridib che poi sarà il mentore del narratore, che gli parlerà della storia inglese, di chi ha visto, dove, e soprattutto gli parlerà di May Price, l’amica inglese di tutta la vita.

Il narratore interviene solo negli anni ’50 (sappiamo che nasce nel ’52), affascinato dalle storie del ventenne Tridib, che gira per la città, che beve tè, che ha problemi di stomaco (e lo capisco bene). Ogni spunto è buono per lo sfuggente Tridib, narrazioni archeologiche, tracce di ricordi, e soprattutto una fervida immaginazione che quando non sa, inventa. E negli anni ’50 interviene anche Ila, la terza figlia di Maya, la cuginetta che sconvolgerà gli affetti del narratore, ma che volerà per altri lidi.

Ghosh riesce a dipingerci molto bene la vita a Calcutta di quegli anni. I rapporti, il matriarcato, insomma tutte le tipologie classiche della “mitologia” familiare indiana. Vediamo la nascita degli amori, vediamo la fine degli stessi. Vediamo tante cose. Fino al momento topico, quando la famiglia di Maya per lavoro torna a Dacca, e si porta dietro la nonna che vuole rivedere lo zio, nonché Tridib e May Price in visita agli amici indiani. Siamo nel passaggio tra il ’63 ed il ’64, ed è importante, dal punto di vista storico.

Come sappiamo, nel ’48, con l’indipendenza, il continente indiano venne diviso nella parte hindu (l’India) e nella parte mussulmana (il Pakistan). Questo secondo, però era diviso in due: quello attuale, ed il Pakistan Orientale, con capitale Dacca. Proprio nell’apice della storia, nascono i movimenti indipendentisti, che riescono ad ottenerla a fronte di lotte e morti varie, così che in quell’anno nasce il Bangladesh.

Anche le nostre famiglie saranno coinvolte nei casini, e ne usciranno modificate per sempre.

Ghosh non prende posizione, narra, ma si vede che empatizza molto con tutti: gli indiani, i bengalesi, financo gli inglesi. Che ognuno ha dei punti a favore, ed anche dei momenti no. Come sottilmente ci fa intendere lo stesso autore, richiamando nel titolo quel fondamentale testo di passaggio dall’infanzia alla maturità che fu “La linea d’ombra” di Conrad.

Finisco solo con un piccolo puntiglio filologico. Tutte le sommosse che portano alla parte cruenta e finale del libro iniziano con il furto di una reliquia di Maometto, conservata nel Kashmir, e poi al suo ritrovamento. Ma quella che mi interessa è che Ghosh (ed i suoi traduttori) la indicano come Mu-i-Mubarak mentre nella narrazione che si ritrova cercando del mausoleo della moschea di Hazratbal viene indicato come Moi-e-Muqqadas. Io mi astengo e chiedo a chi ne sa più di me.

Zachar Prilepin “San’kja” Repubblica Mondo 21 euro 9,90

[A: 15/04/2019 – I: 04/11/2021 – T: 06/11/2021] - &&

[tit. or.: San’kja; ling. or.: russo; pagine: 334; anno 2006]

Yevgeny Nikolayevich Prilepin detto Zachar è uno scrittore russo che non avrei mai letto se non inserito in questa panoramica di letteratura di tutto il mondo. Ed anche dopo averlo letto, credo che mi asterrò da altri approfondimenti. Ora, non è che non sia scritto bene, grazie anche all’ottima traduzione di Enzo Striano, e che non abbi potenti modi di esprimere e di coinvolgere il lettore. Tuttavia, l’ideologia che esprime ed il personaggio “Zachar” sono lontani anni luce dal mio modo di essere e di pensare.

Tanto per dire, e qui chiudo la parentesi sull’autore, è stato combattente nelle Forze Speciali russe, e poi volontario nella Guerra di Cecenia nel ’96; è stato a lungo membro del Partito Nazionalista Bolscevico (su cui torneremo), seguace a lungo di Limonov, e, come ultima uscita, ha affermato che il COVID è una punizione divina contro l’Occidente per aver legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Detto ciò, veniamo al libro, che segue le gesta di un personaggio, Sasha Tishin detto San’kja, che in molti tratti rispecchia il giovane Zachar. Sasha è discretamente giovane (direi tra i venti ed i trenta), un po’ come lo scrittore all’epoca della scrittura. E come Zachar, è disgustato dalla situazione in cui si trova la Russia al momento della scrittura.

Facendo una facile traslazione, Sasha è attivista di un movimento denominato “Unione dei creatori” (anche se il nome completo sarebbe “Unione patriottica di sinistra radicale dei creatori”, ed è tutto un programma), seguace del leader Kostenko, incarcerato da Putin. Come non vedere lì dentro Limonov ed il suo Partito Nazionalista Bolscevico, poi diventato “L’Altra Russi”?

Sasha è discretamente sbandato, anche se proviene da una famiglia dotta. Con tutte le contraddizioni del caso: padre professore universitario, morto per una ubriacatura lunga e continuata. Si contorna di amici tra lo strafatto ed il nichilismo. C’è Vanja, sempre fuori di testa per Vodka e marjuana. C’è Rogov, che sembra il più politico, ma sempre poco concludente. C’è Nega, abbreviazione di Negativo, perché parla poco e vede tutto sotto la luce peggiore (anche se ha un fratello chiacchierone detto “Posi”, abbreviazione di Positivo).

I ragazzi partecipano a manifestazioni con l’unico intento di fare casino e sollevare polveroni (dei Black Block russi?). anche se dietro c’è un minimo di “militanza” politica. Nella persona di Jana, donna molto ragionante, quasi una “Femen” anche se non si denuda, che riuscirà nell’azione estrema di gettare un sacchetto di mondezza in faccia al Presidente. E nella persona di Matvey, quello che organizza le azioni più pericolose, l’unico in contatto con il detenuto Kostenko.

Sarà Matvey che spedisce Nega a Riga per un’azione dimostrativa che porterà all’arresto del ragazzo, ed alla sua condanna a 15 anni. Sempre lui spedisce Sasha ad uccidere a Riga il giudice che ha condannato Nega. Ma che morirà non per mano di Sasha.

Ogni tanto c’è qualche barlume di altro, oltre al degrado che Zachar descrive sulla Russia attuale. La parte di ricordi del villaggio dei nonni. Il lungo ed infruttuoso viaggio per seppellire il padre. Le due o tre discussioni “politiche” tra Sasha e Bezletov, ex amico del padre, le uniche che sembrano dare un senso alle azioni (o alle non azioni) descritte.

Dopo l’azione di Jana e di Nega, le forze dell’ordine del Presidente si scatenano contro gli attivisti dell’Unione. Per evitare lo schiacciamento definitivo, Matvey (seguendo gli ordini di Kostenko) ordina di “fare la Rivoluzione”. Ma le forze dell’Unione sono ben poca cosa, e ben presto i personaggi di spicco sono arrestati o uccisi.

Rimane Sasha, con il suo manipolo, che ruba armi alla Polizia, e si asserraglia nel palazzo del comune. Il libro si chiude con la contrapposizione tra Sasha ed i suoi contro lo strapotere delle forze armate. Già sappiamo, anche se Zachar non ce lo dice, come andrà a finire.

Quindi, certo, Prilepin descrive ben un disagio forte del mondo russo attuale. Prendendo le parti di questi “nazionalisti bolscevichi”, di cui ripete a macchinetta gli slogan. Senza però riuscire non dico a convincere, ma neanche ad interessare me lettore “diverso da lui”.

Tanto per finire in bellezza, ad esempio, ricordo per chi fosse meno interessato alla politica russa, che il partito, di Zachar e di Sasha, ha per vessillo una bandiera rossa con un cerchio bianco al centro, dove sono presenti falce e martello. Bandiera che è l’unione del vessillo stalinista con quello nazista. Qui mi fermo, sconsigliando un’inutile (ed anche faticosa) lettura.

“Si può discutere con chi cerca la verità. Con chi vuole restare della propria opinione discutere è inutile.” (179)

Francisco Ovando “Tutta la luce del campo aperto” Repubblica Mondo 34 euro 9,90

[A: 22/07/2019 – I: 20/11/2021 – T: 22/11/2021] - & e ½    

[tit. or.: Casa volada; ling. or.: spagnolo; pagine: 172; anno 2013]

Anche se non sempre riconosciuta come tale, la letteratura cilena è ben presente nella mia biblioteca (e nella mia mente). Certo, anche se la poesia è difficile (per me) rimane la stella luminosa di Neruda. Ma nella scia della sua cometa, ci sono alcuni che ci hanno lasciato (Roberto Bolaño, Luis Sepúlveda) ed altri che ogni tanto ci omaggiano di un bel libro (Antonio Skármeta, Roberto Ampuero, Marcela Serrano). In questo panorama di alto profilo, si inserisce, ambiziosamente, il giovane Ovando (giovane che poco più che trentenne). Purtroppo, questo libro, pur con degli elementi di interesse, non lascia altri grandi segni.

Intanto partiamo dal titolo, che capisco non sia di facile traduzione, in quanto il termine “volada” in spagnolo ha molti significati. Il più semplice (“volata”) ha poco senso. Il più estremo (“esplosa”) mi sembra appunto estremo. Un senso mediano, tipo “sballata”, quasi tendente alla rovina, potrebbe andare. Gli editor italiani hanno invece preso il titolo di un sotto capitolo (a pagina 125) per farne diventare un emblema. Che rimanda alla fine di uno dei personaggi, e, di riflesso, a tutta la schiera, esigua, di persone che avanzano sulle pagine. Io, tuttavia, rimango nel dubbio che l’autore avesse voluto dire altro.

Premetto anche che la scrittura non è facile da seguire, che l’autore, funambolo delle parole, salta registri, cambia prospettive, scrive dentro la scrittura, entrando e uscendo dalla pagina. Certo, un buon esercizio di padronanza della penna (che l’ottima traduttrice Giorgia Esposito riesce mirabilmente a riprodurre), ma che alla fine porta pochi risultati tangibili.

Noi seguiamo, lungo le pagine, lo sprofondare verso l’irrisolutezza del protagonista, David Arqueros. Correttore di bozze, malpagato e per lo più ignorato, ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro su un grande pittore cileno, anch’esso problematico. Da anni raccoglie notizie, libri, manoscritti, e tutto quello che si può su Alfredo Valenzuela Puelma (1856 – 1909), per riscattarne la memoria e restituirgli onori che ebbe poi postumo, ma che fu misconosciuto e trattato veramente male dal mondo delle arti cileno.

Ora, a più di cento anni della morte, Valenzuela è riconosciuto come uno dei quattro grandi maestri della pittura cilena. Ebbe anche il merito di dipingere il primo nudo della pittura cilena, ovviamente suscitando scandalo. Eppur ebbe una mano interessante, visse a lungo a Parigi, assorbendo il clima esuberante di fine Ottocento. Ma aveva una mente fragile, che lo portò alla pazzia e quindi alla morte nel manicomio francese di Villejuif. Solo posteriormente le sue ceneri furono traslate in Cile, dove venne accolto trionfalmente.

Ovando allora prende il povero David e lo inserisce in un turbine di pagine. Che seguiamo lo scritto attraverso diversi modi di esposizione. C’è la vita dei protagonisti, ci sono le fonti storiche della vita del pittore che David intercala alle sue esposizioni, capitoli del libro che David sta scrivendo, soggettive di Valenzuela verso la pazzia, nonché scenari onirici del mondo di David. Un mondo che al fine si riduce nella sua anziana padrona di casa, Justiniana, appassionata di ornitomanzia (antica pratica greca di leggere auspici nel comportamento degli uccelli) e, da metà libro, della di lei nipote Alina, che, arrivando, manda all’aria tutti buoni propositi di David.

Pur se abituati alle scene di “realismo magico” della scrittura sudamericana, qui entrare ed uscire dal sogno, immaginare scene e viverle come più reali del re, non ci dà quel sapore forte e di condivisione di Amado o di Garcia Marquez. Rimaniamo ad aspettare che qualcosa accada, e molto non accade. David prosegue, tra mille impedimenti, la scrittura, Justiniana tristemente muore, Alina prende le redine della casa e della vita di David. Il tutto convergente verso una fine annunciata. Non dico bella, buona, brutta, quel che sia. È come ci si aspettava dalle prime pagine. E così sarà nelle ultime.

Vorrei spendere solo qualche altra parola sull’invenzione della vita di Valenzuela fatta da Ovando e messa sulla penna di David. Che seppur vero quello sopra detto sul nudo in pittura, il quadro di cui tanto si narra nel libro, “La perla del mercader”, venne dipinto nel 1884 a Parigi durante il primo soggiorno europeo, e non, come si estrapola dallo scritto, nell’ultimo periodo che portò Valenzuela alla morte. Non credo si possa trattare di un errore, ma penso di una frecciata ai benpensanti cileni, che nel 1884 inorridirono alla vista del quadro, che espone le rigogliose nudità di una schiava orientale. Quasi a voler significare che da lì iniziò il processo di poca salute mentale del pittore che lo portò, venticinque anni dopo alla morte.

Ma decrittare questo (ed altri momenti) vuol dire avere una conoscenza, certo superiore alla mia, del mondo delle arti in generale, e di quello cileno in particolare. Dalla pagina tutto ciò esce poco coinvolgendo, che magari una nota, una post-fazione avrebbero sistemato meglio quanto si andava leggendo. Al fine, lasciatoci così, poco mi è piaciuto, della storia, dello stile, del risultato finale. Unico merito, lo stimolo a cercare notizie su cose di cui, prima, nulla sapevo.

‘Ala al-Aswani “Sono corso verso il Nilo” Repubblica Mondo 22 euro 9,90

[A: 20/04/2019 – I: 23/11/2021 – T: 26/11/2021] - &&&&

[tit. or.: Jumhūriyya Ka'anna; ling. or.: arabo; pagine: 398; anno 2018]

In memoria di Giulio Regeni e per non dimenticarci di Patrick Zaki.

Questi i maggiori motivi per un così alto giudizio di questa quasi-fiction dello scrittore, dentista, attivista egiziano ‘Ala al-Aswani, per me al secondo libro letto, dopo l’interessante e coinvolgente Palazzo Yacoubian. Anche perché, sul valore intrinseco del libro, ho alcune riserve sulla scrittura, che non mi ha coinvolto così come invece mi ha preso il senso di realtà descrittiva con cui l’autore ci fa partecipe della rivolta egiziana del 2011, quella che portò alla caduta di Hosni Mubarak.

Una scrittura talmente forte che la pubblicazione del libro è stata proibita in tutto il mondo arabo, eccetto che in Libano, Marocco e Tunisia.

Il libro, è ovvio, è un romanzo, quindi i “fatti” sono immaginati dall’autore. Ma noi sappiamo come questa finzione sia altamente possibile. Perché lo dicono i fatti accertati, e lo dicono gli avvenimenti successivi. L’autore, attraverso un racconto corale, ci porta a piazza Tahir nell’ottobre di dieci anni fa. Con tutte le cose accedute che portano al cambio del governo egiziano. Un cambio “alla democristiana”, dove cambia tutto per non cambiare nulla. Dove i veri possessori del potere (militari, faccendieri e imprenditori vari) cambiano cavallo in corsa, ma rimangono a gestire il potere. Non solo, aprendo anche alle frange dell’estremismo religioso, portando l’Egitto in una spirale violenza da cui non si è ancora ripreso. Pensiamo ad al-Sisi e non diciamo altro, che abbiamo tutto ancora negli occhi.

Il racconto, dicevamo, è corale, che seguiamo i vari attori, i buoni ed i cattivi, nell’avanzare delle loro azioni. Un racconto fatto anche di diverso materiale. Racconto in terza persona per narrare fatti, interni ed esterni. Lettere, fisiche o elettroniche, scambiate tra due dei protagonisti. Nonché testimonianze, inventate ma basate su fatti reali, di soprusi subiti da uomini e donne durante la rivolta.

Abbiamo i giovani, ragazzi e trentenni, che si riuniscono per dar vita a quei giorni di manifestazioni che porteranno alla caduta di Mubarak. C’è Dania, studentessa in medicina, che all’Università conosce Khaled, attivista di Kifaya (organizzazione reale, cui anche al-Aswani partecipava). Entrambi si impegnano fino in fondo, lei anche a curare i feriti. Ma Khaled sarà ucciso a sangue freddo da un tenente dell’Esercito. Morte che porterà ad un processo, dove il tenente sarà assolto, cosa che non verrà mai perdonata né accettata da Midani, il padre di Khaled, nonché autista dell’imprenditore Issam Sha’lan.

Quest’ultimo, ex-comunista, ora dirige una fabbrica di cemento che sarà un altro epicentro della rivolta, e dove lavora Mazen, l’autore delle mail. Mazen è un attivista sindacale, anche lui in Kifaya, dove conosce Asma, insegnante d’inglese, timidamente ribelle, l’altra autrice delle mail. Asma, pur religiosa e mussulmana, non accetta il velo, motivo per cui viene ostracizzata dal potere scolastico. I due faranno un lungo percorso, si troveranno, ma saranno separati, lui in carcere, lei in esilio.

Di lato alla storia, c’è anche il vissuto della famiglia di Asma, con il padre contabile in Arabia Saudita, dove fa i soldi per mantenere la famiglia. Cosa che permette all’autore alcune digressioni sul lavoro degli egiziani espatriati, che, per mantenere i parenti, sottostanno alle peggiori angherie da parte degli arabi con i soldi.

Come altra storia, che sembra laterale, ma che porta al cuore del problema è la famiglia di Dania. Il padre, Ahmed ‘Alwani, è il capo della Sicurezza, e vedremo come riuscirà ad organizzare l’uscita di scena di Mubarak, ma anche la ripresa da parte delle forze economiche preponderanti, una volta finita la prima ondata di rivolta. In particolare, organizzando una finta fuga dalle carceri, onde utilizzare i galeotti come forza d’urto contro i manifestanti. Forza d’urto che in particolare si accanisce contro i copti, la minoranza cristiana in Egitto. La strage dei copti imprimerà la svolta decisiva al ritorno al potere dei militari.

Tra i copti, abbiamo invece una delle figure più simpatiche del libro. Il maturo ex-attore Ashraf Wissa, che prenderà coscienza della rivolta, abbandonando spinelli ed alcool, abbandonando la moglie, ed andando a convivere, lui copto, con la mussulmana Ikram, una figura bellissima nel discorso interreligioso di al-Aswani.

Ci rimane solo, di forte, la figura di Nourhan, donna televisiva, che usa le sue bellezze per l’ascesa sociale, nonché per l’ascesa televisiva. Finendo per dirigere la nuova rete televisiva nata per sostenere il regime e spargere falsità su tutto il fronte dell’opposizione.

Ripeto non è una scrittura accogliente, a volte troppo descrittiva, e troppo tesa alla dimostrazione di un assunto, che noi sappiamo vero, ma che non lo sembra localmente. Tant’è che lo scrittore, due anni fa, è stato citato in giudizio da militari che si sono sentiti diffamati da questo scritto. Io non entro nel merito, ma se avete in mente Regeni (e Zaki) non avrete dubbi su come collocare lo scritto.

Un’ultima parola sul titolo, che, in italiano riprende la frase di un manifestante che, intossicato dai gas lacrimogeni della polizia, cerca di salvarsi, appunto, “correndo verso il Nilo”. Ci può stare, ma l’autore ha intitolato lo scritto “La Repubblica com’è”, un titolo che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, e che avrebbe meritato il giusto risalto.

Visto che si parla di viaggi, mi sembra appropriato appigliarsi a due citazione di  Bruce Chatwin, tratti da due suoi libri epigoni, “In Patagonia” e “Ritorno in Patagonia” il secondo scritto con l’amico Paul Theroux. Nel primo libro, ricordando il grande esploratore inglese Henry Hudson (quella della Baia nell’Artico), dice “Hudson … conclude affermando che chi percorre il deserto scopre in sé stesso una calma primitiva” (28). Mentre nel secondo, parlando della mia sempre cara terra patagonica, ci ricorda che “non c’era nulla… solo il paradosso patagonico: minuscoli fiori in uno spazio immenso … non c’era un campo intermedio di studio. O l’enormità del deserto o la vista di un piccolissimo fiore. In Patagonia si deve scegliere fra il minuscolo e l’immenso” (18)

Io, tra il minuscolo e l’immenso non scelgo, li prendo entrambi, dalla piccola stella alpina alle grandi dune del Sahara. Sperando che, per gioia o per amore, le mete continuino ad esserci propizie. Per ora, continuo soltanto ad abbracciarvi ed a mandarvi

un bacio

Giovanni

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