domenica 3 aprile 2022

Tra sorrisi e riflessioni - 03 aprile 2022

Devo dire, una settimana decisamente sopra media. Con i sorrisi di Asterix, e con due saggi da leggere: la meraviglia dell’ultimo amore di Romagnoli e le ultime note sul cinema di Calasso. Il meno riuscito dei cinque di questa settimana è il buon Scalfari, che forse farebbe bene a strigliare la deriva del suo giornale. Ma queste sono altre storie. Godetevi soprattutto le frasi della memoria, e date un occhiata alle mie ricerche su Asterix.

Gabriele Romagnoli “Senza fine” Feltrinelli euro 11,50 (in realtà, scontato a 9,20 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 08/08/2021 – T: 09/08/2021] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 94; anno: 2018]

Seppur continuo a seguire i suoi scritti giornalistici, e che sia giornalista lo si vede in ogni cosa che scrive, ogni tanto è bello ritrovare l’ottimo Gabriele Romagnoli. Come in questo testo che mi sono regalato per il mio ultimo compleanno. Regalato soprattutto per quel sottotitolo che sembrava ben riassumere una parte consistente della mia vita. Sottotitolo che riporta: “La meraviglia dell’ultimo amore”.

Non torno sulla scrittura, che Romagnoli si legge facile, e passo subito al testo, ai suoi contenuti, iniziando, cosa che in genere non faccio mai in queste trame, con una citazione: “Non è il primo amore che conta, è l’ultimo. Sul primo si è già scritto tutto, a cominciare dalla sciocchezza secondo cui non si scorderebbe mai. … A essere indimenticabile, invece, è l’ultimo amore, perché è lì, ancora”.

Ecco, una frase talmente significante che potrei chiudere qui, dicendo andatelo a leggere, magari meditando anche sulle citazioni che riporto in finale. Oppure ragionando su cosa sia “Amore”. Amore inteso come il sentimento che una persona prova per un’altra. Senza vincoli. Cioè non è che si deve stare insieme per amare, ma si deve di certo amare per stare insieme.

Libro da giornalista, pieno di esempi, di citazioni, di storie. Di amori lineari, di amori circolari. Di storie che sono sbocciate ai supplementari. O addirittura ai rigori. Tutte incentrate su quel concetto: ultimo. Che può essere lineare, cioè coincidente con il primo. Circolare, ci siamo lasciati per poi incontrarci dopo i nostri percorsi. Tangente, che dopo l’incontro, benché ci siano stati altri incontri, quello rimane, nella testa e nel corpo, l’ultimo amore.

C’è un altro concetto per pensare all’ultimo amore: il luogo dove non vorrò andarmene al risveglio. Perché l’ultimo amore è quello consapevole di aver trovato nell’altro quello che si è. Perché è la fine dell’attesa (vedi ultima citazione).

Ma Romagnoli, appunto, non è un saggista. È un giornalista, ed allora si appoggia a Barnes quando questi dice “L’amore non può essere racchiuso in una definizione, può esserlo forse soltanto in una storia”. Quindi ecco di nuovo le storie. Di Carlo e Lena che si ritrovano dopo 40 anni. Di Fioravante Palestini, quello della pubblicità dell’Uomo Plasmon, che dopo vent’anni di prigione in Egitto, incontra una dottoressa che si era innamorata di lui tanti e tanti anni prima. Di John Schley e di Marie Colvin, due reporter, lei uccisa in Siria nel 2012. Di Alvin e Gertrud, convolati a nozze verso i 100 anni. Dei genitori di Romagnoli, toccante ed irriportabile, va solo letta.

In realtà, sono anche convinto che sia un libro da leggere due volte. La prima pagina dopo pagina. La seconda aprendo un capitolo a caso, ed immergendosi nella storia che lì si dipana. Perché, ed è questo uno dei sensi della mia lettura, non ci si stanca mai di cercare l’amore, non ci si stanca mai di arrivare, sfiniti e felici, di fronte all’ultimo amore.

Romagnoli ha scritto il libro in un tempo che ora consideriamo normale. Io l’ho letto in questo mondo pandemico, e mi domando, in chiusura, quanto anche questo tempo ha rivoluzionato il modo di stare insieme. Quanti sguardi che potevano esserci sono mancati. La mia risposta la porto con me, ed è gioiosamente positiva.

“Aveva sempre bisogno di una missione lontana per sentirsi vivo … stava con una donna che trovava intollerabili le sue continue partenze.” (54)

“Essere vivi è un privilegio a cui non si può abdicare” (72)

“Una persona non è un appartamento, non si può ristrutturare … Se è uno chalet di campagna non diventerà mai un attico in centro.” (74)

“Accettare è il primo modo di amare.” (74)

“Si è imparato che un’unione … è la congiunzione di due cerchi … che acquisiscono una parte comune e ne mantengono una separata, e così facendo risultano vincenti.” (84)

“Sapere che cosa non vuoi è molto più importante che sapere cosa vuoi.” (89)

“L’ultimo amore è la fine dell’attesa … smetti di aspettare non quando perdi la speranza, ma quando l’hai trovata.” (93)

Roberto Calasso “Allucinazioni americane” Adelphi euro 14

[A: 29/06/2021 – I: 13/08/2021 – T: 14/08/2021] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 133; anno: 2021]

Una delle ultime fatiche prodotte da Calasso prima della scomparsa, che leggo con il rimpianto di non avere più questi dotti rompicapi da seguire, rigo dopo rigo, perché, comunque, ci portano in un mondo altro, diverso, ma sempre magnifico.

Qui, ci sarebbe bene la compagnia di mio cugino Alessandro, che lo spunto ed il filo rosso che collega i diversi appunti che compongono una collazione di testi e immagini, è il cinema sommo di Alfred Hitchcock. In particolare, i pensieri sparsi di Calasso, si appuntano in gran parte sul film Vertigo (del 1958, ribattezzato in Italia “La donna che visse due volte”), con una appendice che si porta appresso Rear Window (del 1954, per noi “La finestra sul cortile”).

Film legati ed opposti. Con James Stewart come interprete, e donne bionde di contorno. Due film opposti, nell’analisi del nostro. Ma legati, oltre che da James, da una serie di costrizioni, quelle che bloccano l’attore: vertigini in un caso, una gamba rotta nell’altro. E questa costruzione antitetica non può che portare a conclusioni opposte: lieto film in un caso, e non nell’altro. E sapete bene quale dei due sia.

Com’è ovvio, per chi conosce Calasso, poi, non si fa un’analisi lineare, ma si procede per frasi che illuminano momenti, situazioni. Come quando, sempre per parlare dei due film, ci svela: “I primi oggetti di cui si parla in Rear Window e Vertigo sono un’ingessatura e un busto. Si tratta di liberarsi di qualcosa che blocca la vita normale, in conseguenza di un incidente grave. E in entrambi i casi la situazione si aggraverà ancora…”

È bello veder scorrere le allucinazioni di Calasso, mentre narra dei film, ne svela i meccanismi, i retroscena, rimandando poi, come è ovvio, al libro cardine di Truffaut su tutta la filmografia hitchcockiana. Ed è anche interessante, coinvolgente, seguirne il sotteso testo che rimanda al libro incompiuto di Kafka, “Amerika”. Dove il teatro dell’Oklahoma non può che rimandarci al cinema. Il cinema che, creando atmosfere fuori dal mondo, fa sì che queste atmosfere ci rapiscono, ci portano in una sospensione tra la vita, personale, concreta, e la vita effimera raccontata dalla pellicola.

Ed ovvio che, se c’è un regista che coglie e ci offre la dimensione metafisica del cinema, sia proprio ad Hitchcock che ci rivolgiamo. Qui tornando, ma non noi che non ne siamo capaci, all’analisi dei due film, alle riproposizioni di scene ed immagini che forse conosciamo a memoria, ma che così riproposte ci risultano sempre nuove. Come ribadisce la prima fase che riporto in fondo.

Come elemento di passaggio, il secondo capitolo delle allucinazioni, battezzato “Il ballo dei fosfeni”, ci presenta, in una scrittura acuta e coinvolgente, nonostante la difficile comprensione di alcune parole, uno sguardo veramente interessante sulla percezione visiva e sul cinema stesso. Si entra in un cinema, ci si siede e si sospende la visione della realtà, entrando in uno stato di allucinazione dove le immagini in movimento sul grande schermo, danno forma alla nostra modernità. Sia per il modo in cui ce la raccontano, sia per il modo (torniamo ai lampi visivi ai margini del nostro sguardo) di farcela apparire sulla retina.

Per questo, ad esempio, concordando in pieno con lui, riesco difficilmente ad essere soddisfatto di una visione cinematografica che non avvenga in una sala buia e vasta. Difficile venire a capo del rompicapo di Calasso. Tornando sui fosfeni, che danzano al limitare del nostro campo visivo, Calasso ribadisce che “il cinema è l'unico luogo accogliente senza confini percepibili, indifferente, dove i fosfeni si dispongono su una stessa tela di fondo”.

È questa la bellezza e l’enormità del cinema, che invade lo spettatore, lo trasforma, fino ad impedirgli di essere di nuovo ciò che era prima di entrare in contatto col cinema.

Un libro che alla fine lascia il grosso rimpianto di non avere altra possibilità che tornare indietro e leggere quanto Calasso ha scritto negli anni. E rimanerne di nuovo fascinati.

“I film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono.” (83)

“Non è sempre stata una vocazione peculiarmente occidentale quella di viaggiare molto, di cercare altri mondi, di conquistarli, ma anche di studiarli? E perché si studia se non per capire qualcosa che si può anche usare?” (97)

“Il cinema di pomeriggio … era un piacere confinante con il vizio. Nelle sale ancora si fumava … Mi sedevo sempre nelle prime file.” (111) [dedicato a mio cugino Paolo]

Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e il Grifone” Panini s.p. (regalo di Nozze di Raul e Viviana)

[A: 02/11/2021 – I: 05/11/2021 – T: 05/11/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Astérix et le Griffon; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2021]

Ovvio che quando c’è un Asterix in libreria, si legge subito. Perché è breve, perché mi diverte, perché “ce l’ho tutti”. In più questo deriva dal regalo di nozze che hanno fatto i miei amici bolognesi, cui quindi dedico questa e tutte le trame dei libri acquistati con il loro contributo.

È anche il quinto volume della grande saga (iniziata ormai sessanta anni fa) che si avvale della sceneggiatura di Ferri e dei disegni di Conrad. Ma in più, questo è il primo libro pubblicato dopo la morte del grande disegnatore che ne aveva iniziato la storia. Infatti, mentre Goscinny ci aveva lasciato già dal ’77, Uderzo muore nel marzo dello scorso anno. A tener alto il nome del francese ribelle, rimane solo la figlia di Uderzo, Sylvie, che ne cura l’immagine, non avendo interesse nel testo o nel disegno.

Ora, su Conrad, come disegnatore, c’è poco da dire. Il tratto dei personaggi principali è talmente consolidato che un buon disegnatore ha poco di nuovo da inventare. Ci sono allora i personaggi “nuovi”. Qui, se dal lato caricaturale la struttura è sempre buona (vi rimando ai commenti finali), su alcune nuove figure non si riesce a trovare molto di nuovo. Così come qui, l’eroina, pur non facendo nulla, ricorda troppo, seppur alla lontana, la bella Falbalà. Insomma, poche novità, e qualche copiatura di troppo.

Sul fronte del testo, Ferri, purtroppo, anche se con molta buona volontà, è ben lontano dalle fiammeggianti invenzioni di Goscinny, così come Vania Vitali ed Alberto Toscani non possono certo competere con il grande Marcello Marchesi. Tuttavia, qualche buona idea c’è, e qualche gioco di parole pure (con qualche interessante rimando ad altre storie).

Al solito, i nostri infaticabili Galli sono alle prese con trasferte ed avventure anche lontano dalla patria, laddove li porta il loro “universalismo anti-potenti” o, al minimo, qualsiasi storia contro i romani.

Questa volta, al fine di aiutare lo sciamano Kikucina, sodale del nostro Panoramix, si recano nella terra dei Sarmati. Dove Cesare aveva mandato un suo manipolo, costituito dal geografo Terrincognitus, dal centurione Nelsuobrodus e dal cacciatore Ermejus, al fine di catturare il mitico grifone. Animale di cui parlano le storie del viaggiatore greco Styratos da Collagene, ed a cui dovrebbe condurli la loro prigioniera, l'amazzone sarmata Kalachnikovna, nipote dello sciamano. I Sarmati sono un popolo che abitano un’estesa terra russa, dall’Ucraina al Caucaso, con un’inversione dei ruoli sociali. A casa restano gli uomini, mentre in guerra (ed a caccia) vanno le donne, guidata da Uonderuovna, la moglie di Kikucina.

Ci sono le solite scaramucce, lotte, agnizioni, ribaltamenti veloci che vi lascerò gustare per una lettura agevole e spensierata. Il mistero non è tanto il Grifone, che ovviamente non esiste e che costituirà l’ennesimo scacco matto di Cesare (sotto le acque gelate, infatti, c’è un triceratopo), ma quello che il greco aveva scritto nei suoi papiri, cioè la presenza di oro. Oro che il geografo trova, ma ben presto perde.

Tutto finisce in gloria, con lo scorno dei romani, e la grande cena nel villaggio, con due piccoli rimpianti: Idefix, il cane di Obelix, rimpiange i suoi amici lupi della steppa, ed Obelix stesso ripensa alle parole della guerriera Krakatovna, verso cui cominciava ad avere un debole.

Al solito, oltre alla storia in sé, quello che ci piace nelle gesta di Asterix sono le ironie ed i rimandi. Qui, ad esempio, abbiamo la pozione che si gela, per cui Asterix può poco, nelle lotte, se non aiutato da Obelix e dalle amazzoni. C’è Panoramix che è fuori causa, che non riesce a fare una nuova pozione, per cui si dedica ad un palliativo. Ne uscirà una minestra che sarà l’antenata del bortsch russo (così come quell’acqua calda trasformata in tè in “Asterix e i Britanni”). Poi ci sono le caricature, dove io ne ho viste due palesi: Terrincognitus ha le sembianze di Michel Houellebecq, mentre i pirati, che non saranno affondati questa volta, bordeggiano in una sola vignetta, laddove un sosia di Aznavour canta. In originale si tratta dei versi "viens voir les Phéniciens / voir les Égyptiens" derivanti dalla canzone "Les comédiens". Nella versione italiana, il grande franco-armeno canta "ed io tra di voi".

Infine, ci sono le invenzioni verbali e fonetiche. Prima di tutto, i Sarmati comparivano anche nel penultimo libro, dove c’erano due aurighi, uno dei quali si chiamava Olyunidislov (dalla canzone dei Beatles). Ma soprattutto, parlavano invertendo allo specchio le E, le F e le R, quasi a rimandare al cirillico. Purtroppo, qui rimangono solo le E rovesciate. Però si aggiungono i nomi maschili in “ina” (lo sciamano Kikucina, il formaggiaio Kaseina o il falegname Kokkoina), di facile decodifica. Con la facile ironia gallica, che i nomi in “ina” in patria sono per le donne del villaggio. Mentre qui le donne si chiamano in “vna”, come la moglie o la nipote di Kikucina.

Abbiamo anche apprezzato lo sforzo dei traduttori, per trasformare i nomi e renderli egualmente ironici. Come ad esempio (facilmente) trasformare “Terrinconus” in “Terrincognitus”. Oppure, con più difficoltà chiamare Kikucina quello che in francese si chiama “Cékankondine” (cioè “è qui che si cena”).

Non mancano anche come detto riferimenti trasversali. Come il cane lupo sarmata che si chiama “Uolverine”, il bianco neve dell’arrivo in Sarmatia, o l’accenno alle lotte con i tedeschi (e la battuta “i germani erano più franchi”).

Ma Ferri non si perita, oltre all’ironia ed alla comicità, si scaglia sopra miti e difficoltà del mondo attuale: le “fake news”, la condizione femminile, i polveroni mediatici, i complottismi di tutte le risme. Ed è questo, tra l’altro, che mi ha fatto e mi fa amare questa serie.

Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e la figlia di Vercingetorige” Panini s.p. (regalo di Nozze di Raul e Viviana)

[A: 01/12/2021 – I: 05/12/2021 – T: 05/12/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: La fille de Vercingétorix; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2019]

Grazie quindi ai regali dei miei amici bolognesi, ho avuto voglia di completare la collezione del mitico Asterix, con questo 38° volume, letto dopo il precedente dopo il 39°. Ora, però, li abbiamo tutti, anche alcuni in originale.

In particolare, questo è l’ultimo libro con vivo Uderzo (morto sei mesi dopo l’uscita dell’album). Forse per questo ha due caratteristiche opposte: mantiene vivo un certo spirito della serie ma è meno incisivo, a volte preoccupato di uscire troppo dalle righe. Laddove, sappiamo, che per andare avanti bisogna rinnovarsi nel segno della continuità.

La storia in sé si basa su un falso storico inventato da Ferri: il non verosimile ritrovamento, al largo della Bretagna, di un collier (torc in celtico) portante l’iscrizione “Rigos Duxtir” (in celtico “figlia del re”). Nasce quindi l’idea di tirar fuori dal cappello una non documentata figlia di Vercingetorige.

Salvata da resistenti arverni, questi vorrebbero portarla a Londra, dove organizzare la resistenza ai romani. Mentre cercano una nave, i due lasciano la giovane, Adrenalina, al villaggio gallico. Qui si scopre la natura ribelle di Adrenalina, che fa comunella con i giovani del villaggio, ma che soprattutto non ha nessun interesse nel continuare la guerra. Vuole solo fuggire dalla tutela degli anziani, ed intraprendere nuove vie di protesta pacifica e libertaria.

In tutto questo, viene ostacolata da un traditore della guardia di Vercingetorige, che invece la vorrebbe portare a Roma e farla educare alla romana da Giulio Cesare. Poiché si cerca una nave, facile quindi che ritroviamo i nostri sfortunati fenici, sulla cui barca si svolge un’epica battaglia tra il traditore e Adrenalina, anche se quest’ultima è aiutata da Obelix. Mentre la nave affonda, il traditore fugge, arriva la nave trovata dagli arverni, guidata da uno skipper inglese, Letitbix. Tra lui e Adrenalina scoppia l’amore, anche perché il collier è finito in mare, e quindi non ha più il potere attrattiva per una rivolta.

Quindi, i galli tornano al villaggio per la solita festa finale, Adrenalina e Letitbix partono per lidi ameni, ed il collier giace in fondo al mare, chiudendo il cerchio con l’invenzione di Ferri narrata all’inizio.

Come al solito, l’album è pieno di allusioni e di rimandi, nonché di ironie, grandi e piccole. Intanto, Adrenalina, pur involontariamente secondo Conrad, è molto somigliante a Greta Thunberg, assumendone alcuni tratti pacifisti. Inoltre, è completamente “addicted” alla moda “gotica” (veste sempre di nero, e mai in gonna), anche qui con accenni critici alla moda imperante. Infine, fa comunella con i giovani, creando quel dissidio tra adulti e adolescenti che è uno degli elementi portanti del libro. Giovani che sono poi i figli degli anziani del villaggio: Selfix, figlio del fabbro Automatix, e Sushix e Sashimix, figli del pescivendolo Ordinalfabetix. I nomi sono auto esplicativi, anche se in originale, Sushix viene chiamato Blinix.

Questo apre una piccola parentesi sulla capacità e la bravura dei traduttori (Vania Vitali e Andrea Toscani) nel mantenere il senso delle ironie francesi, mutandole in comprensibili comiche italiche. E ne vedremo anche molti altri esempi.

Vediamo ad esempio i due capi arverni, Monolitix e Ipocalorix, che si presentano come appartenenti al FARC (in originale “Front arverne de résistanche checrète”, in italiano “Fronte Arverno di Resistenscia Clandestina”, che rimanda immediatamente al gruppo rivoluzionario sudamericano “Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia”), e nelle fattezze assomigliano a Winston Churchill e Charles de Gaulle. Inoltre, i nomi sono storpiati, essendo gli arverni molto adusi alla parlata con la “S” moscia.

Poi c’è il cattivo traditore, Nerdflix, nome che in italiano vorrebbe rimandare a Netflix come dedito alle serie TV, dato che in originale si chiama Adictosérix. Inoltre, forse involontariamente, ha anche fattezze molto somiglianti a Gérard Depardieu.

A parte l’autoreferenza verso uno dei primi album, riguardante l’incontro con una nave fenicia (qui indicata come “Grandimaïs” ed in originale come “Epidemaïs”), c’è una solita grande allusività verso la musica. Lo skipper di cui si innamora Adrenalina si chiama Letitbix, facilmente riconducibile ai Beatles, anche perché ad un certo punto dice agli arverni “direte che sono un sognatore, ma non sono il solo”, facile rimando a “you can say I’m a dreamer, but I’m not the only one” tratto da “Imagine” di John Lennon.

Inoltre, sulla galera romana, c’è un giovane Goto, figlio adottivo di un legionario, che impone la cadenza alla barca ritmando un tamburo. Ora, primo, il giovane si chiama Ludwikamadéus, facile allusione a Beethoven e Mozart, e secondo, sul tamburo suona il pezzo “Boing Boom Tschak” del gruppo tedesco Kraftwerk, uscito nel 1986 nell’album “Electric Café”.

Infine, ci sono molti rimandi, questi sì difficili, alla musica pop. Dal sito originale apprendo che, sulla nave dei pirati, quando questi sono ubriachi del vino fenicio, si canta “Car il était gai comme un Phénicien”, allusione a “Tu étais gai comme un Italien” parole della canzone “Une femme avec toi” di Nicole Croisille. Un secondo intona “Phénicie aussi” allusione alla canzone “Félicie aussi” interpretata nel 1939 da Fernandel. L’ultimo, attaccandosi ad un otre di vino canta “Et ça continue amphore et amphore” allusione a “Et ça continue encore et encore” parole della canzone “Encore et encore” di Francis Cabrel. Essendo tutto ciò assai poco comprensibile, i traduttori hanno un po’ tagliato, lasciando “Io sono uno straniero” di Georges Moustaki, e “Anfora, anfora, perché io da quella sera” da “Ancora” di Edoardo De Crescenzo.

Finiamo con il dire che tra i pirati c’è sempre un Charles Aznavour. E che la guardia che fa scappare Adrenalina in originale si chiama Simplebasix, e porta un casco con visiera all’indietro che rimanda al rapper francese Orelsan. Per mantenere il senso, la guardia in italiano viene chiamata Geiax, che penso non abbia bisogno di commenti.

In conclusione, un buon prodotto, forse molto “francese” per il nostro mercato, ma che ha molte frecce al suo arco, e che io continuo ad amare, per le critiche varie che continua a tenere, e per l’ironia che tiene in moto la mente. Ricordo infatti che me ne innamorai quando, nel terzo volume, “Asterix e i Goti”, tradotti da Marcello Marchesi, vedendo visigoti e ostrogoti che se le davano di santa ragione, Asterix se ne esce con “I goti che picchiano i goti, che goturia”. Inarrivabile.

Eugenio Scalfari “Racconto autobiografico” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 09/10/2021 – I: 12/01/2022 – T: 13/01/2022] &&& -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 117; anno: 2012]

Come in altre letture ho affermato, leggere è nutrirsi di pettegolezzi. Quando si legge poi di vita vissuta, questi assurgono a trama del pensare. Per questo mi è sembrato interessante entrare nel mondo di Scalfari, non dalle porte dei suoi scritti, ma dalla parte (forse) del suo cuore, laddove nascono i sentimenti, laddove nasce l’uomo. poiché inoltre scrivere è l’anelito che Scalfari ha sempre avuto, magari non riconoscendolo, scrivere della propria vita (auto-biografia) salda intensamente il vissuto di un uomo.

Non devo certo riconoscere a Scalfari le sue doti, di uomo, di giornalista, di scrittore. Mi è sempre interessato, anche quando non condividevo le sue posizioni. Tant’è, che prima di diventare un affezionato lettore di Repubblica, a vent’anni comprai e lessi quella pietra miliari di giornalismo ed economia che fu il libro da lui scritto con Turani, dal titolo “Razza padrona”.

In questo lungo viaggio intorno a sé stesso, la parte realmente biografica, sia personale, sia delle tante persone incontrate lungo la via (alcuni tratti privati dei potenti dell’economia e della politica italiana sono migliori di lunghe analisi), è di sicuro interesse. Quando salta sulla locomotiva delle analisi politiche e sociali, non sempre risulta così coinvolgente.

Comunque, e purtroppo, Eugenio nasce ariete d’aprile, per la precisione il 6 aprile del 1924, a metà strada (circa) tra mio padre del ’23 e mia madre della fine del ’24. Vi chiederete cosa c’entra. Qui devo riprendere proprio le idee di Scalfari, che inizia il suo viaggio parlando delle sue radici. Dei nonni e bisnonni, materni e paterni, giù giù fino alla dolce madre ed al padre inconcludente, girellone e forse farfallone. Uno dei punti salienti è stato per me la rievocazione del nonno paterno Eugenio, massone e socialista, che in occasione del 1° maggio guidava una marcia di tutta la famiglia e dei vicini attorno al loro palazzo al canto dell’Internazionale.

Così che ripenso alle mie radici, quelle che mio cugino ha ben descritto da parte di mamma, il nonno avvocato, politico, amico di Sturzo, la nonna ribelle, marchesa ligure in cerca di nuovi orizzonti. Poi quelle paterne, nonna Adelma rammendatrice e donna di casa, nonno Arturo vetraio fino ad un incidente che lo priva del pollice e poi per anni tassista. Ma non si parla di me, quindi torniamo a Scalfari.

Di cui seguiamo la giovinezza sanremese, con quel banco del liceo condiviso con Italo Calvino, la voglia di scrivere, il fascismo e la monarchia, la cacciata dal GUF, fino ai ventidue anni del referendum, dove, con Croce, vota per il re, e, sempre con Croce, si piega alla volontà del voto e diventerà, non a caso, un sostenitore della Repubblica (battuta…).

Divertente la descrizione del suo primo lavoro come croupier in una casa da gioco. Coinvolgente l’inizio lavorativo presso banche ed affini dopo la laurea in legge, ma solo per seguire sempre e comunque il lato economico della vita. Dove per una serie di eventi, tra fortuiti e cercati, riesce a trovare la sua via. Sono gli anni ’50, gli anni de “Il Mondo” di Panunzio e de “L’Europeo” di Arrigo Benedetti. Poi nel ’55, con altri, fonda “L’Espresso”. Da lì la sua vicenda pubblica è ben nota, tra impegni vari, sia sul fronte giornalistico che su quello politico. La vicenda SIFAR negli anni ’60 o l’analisi delle iniziative di Cefis agli inizi del ’70. Fino 14 gennaio 1976 quando esce in edicola il primo numero de “La Repubblica”.

Da qui in poi, il testo diventa troppo attuale per essere ripercorso. Le sue scelte pubbliche sono di dominio pubblico. E se per anni ne ho sostenuto la liceità, ora, nella sua vecchiaia e nella mia maturità, leggo solo con interessi dei suoi incontri con Papa Francesco e di alcune riflessioni sull’umanesimo. Per il resto, non avendone più il controllo, non entro nelle scelte giornalistiche dei “suoi” giornali.

Meglio tornare al privato, con uno sguardo alle sue donne: la prima moglie Simonetta, sposata nel ’50 (come i miei genitori), le figlie Enrica e Donata, la compagna ed ora seconda moglie Serena. Forse, unica critica, un accenno al suo sentire intorno a lor quattro era doveroso. Ma va bene anche così, nel pudore di cose troppo private per parlarne in vita.

Personalmente, ritengo Scalfari, con tutti i distinguo, i se ed i ma, una personalità imprescindibile nell’Italia attuale. Con quella scrittura giornalistica che si fa leggere e non stanca mai. Un buon percorso intorno a ottanta anni d’Italia e di privato.

“Mio padre ha vissuto con me e dentro di me molto di più di quando era vivo, e questo è il solo modo che io conosca per difendersi dalla morte.” (81)

Prima trama d’aprile, che ci consente di tornare ai libri di quest’anno, iniziando dal mese di gennaio. Un buon numero di libri, ma di scarsi risultati. Qualche gradimento appena passabile, come il sopra commentato Scalfari, il classico De Angelis o la cara Agnello Hornby. Ed altrettanti risultati quasi da fondo classifica: l’indonesiano Kurniawan, l’inutile libro della Littizzetto ed un Roberto Costantini che ancora non riesco a capire.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Lyonel Trouillot

I figli degli eroi

Repubblica Mondo

9,90

2

2

Augusto De Angelis

Sei donne e un libro

Mondadori

6,50

3

3

Eka Kurniawan

L’uomo tigre

Repubblica Emozione Noir

7,90

1,5

4

Roberto Mistretta

La profezia degli incappucciati

Mondadori

6,50

2

5

Samar Yazbek

Passaggi in Siria

Repubblica Mondo

9,90

2,5

6

Eugenio Scalfari

Racconto autobiografico

Einaudi

s.p.

3

7

Simonetta Agnello Hornby

La zia marchesa

Corriere Oggi

8,90

3

8

Roberto Costantini

Il male non dimentica

Feltrinelli Marsilio

12

2

9

Luciana Littizzetto

La bella addormentata in quel posto

Mondadori

s.p.

1,5

10

Antonio Manzini

Le ossa parlano

Sellerio

s.p.

2

11

Simone Buchholz

Revolver

Repubblica Noir

7,90

2,5

12

Valeria Luiselli

La storia dei miei denti

Repubblica Latinoamericana

9,90

2,5

13

Georges Simenon

Il passeggero del "Polarlys"

Repubblica

9,90

2,5

14

Roberto Costantini

Ballando nel buio

Repubblica Noir

7,90

1,5

 

Anche se non parliamo di viaggi ma di saggi, cosa di meglio se non ricordare un vecchio regalo, collage di diversi autori, dal titolo “Dovevo andarci”. Lì troviamo due belle frasi. La prima è per collocarsi al giusto posto nella propria vita: “non ha importanza, in fondo, dove tu ti trovi, fin tanto che con te sono la memoria del primo amore, o la presenza improvvisa di una fragranza condivisa, la melodia di una vecchia canzone, il gusto della prima zuppa di cipolle. Trovati un posto vero e viviti la vita” (63). La seconda, invece, rimanda ad un poeta a me caro per questa sua splendida poesia. Si tratta di Costantino Kavafis, della sua Itaca, ed al suo inizio: “Se per Itaca volgi il tuo viaggio / fa voti che ti sia lunga la via” (170).

Abbiamo davanti mesi complicati, di organizzazione, di spostamenti, di uscite, soprattutto monetarie. Ma il sorriso ci torna sul viso, la voglia di fare vincerà anche la guerra, ed io non smetto di pensare a tutti noi e ad abbracciarvi contento.

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