domenica 17 aprile 2022

Dei viaggi in giallo - 17 aprile 2022

Non perché si parli di viaggi in senso stretto, ma perché, tramite la “Passione Noir” di Repubblica, incontriamo scrittori in giro per l’Europa. Si comincia con una buona prova del greco Markaris, seguito da una caduta di interesse dello svizzero Suter, si risale un po’ sia con la spagnola Ribas che con il tedesco Buchholz. Terminando ancora un po’ in discesa con lo scozzese McCall Smith (che tuttavia scrive di una agenzia investigativa nel Botswana). Con tutti i limiti che cito, comunque, il greco rimane nella mia testa (soprattutto per la simpatia verso il commissario Kostas Charitos).

In finale, vi consiglio un’attenta lettura del mio ritratto come esce dalla penna di Martin Suter.

Petros Markaris “Il prezzo dei soldi” Repubblica Passione Noir 4 euro 7,90

[A: 17/07/2018 – I: 25/08/2021 – T: 27/08/2021] - &&& 

[tit. or.: Offshore; ling. or.: greco; pagine: 302; anno 2016]

Undicesimo titolo della serie legata al commissario Kostas Charitos, opera dell’ottimo scrittore armeno Bedros Markarian, poi naturalizzato greco con il nome di Πέτρος Μάρκαρης (Petros Màrkaris). L’ho seguito fino ad ora, e penso che continuerò a seguirlo, anche in questa parte della sua opera dove il noir, il poliziesco è un di cui per parlare del mondo attuale, in particolare della Grecia, ed ovviamente di riflesso, dell’Europa.

Dopo aver completato la tetralogia della crisi, ora, come immaginavo dal titolo precedente, che recava in finale la postilla “Epilogo”, qui si parla non di altro, ma di cosa avviene dopo aver toccato il fondo. Ed è un romanzo eminentemente politico, anche se l’autore deve mascherare i suoi strali con qualche camuffamento, velato ma facilmente scopribile.

Non entro nell’analisi delle vicende greche reali, facendo solo un piccolo parallelo con la realtà. Il libro è scritto nel 2015-2016, a cavallo delle elezioni greche del settembre 2015, che vedono il mantenimento della quasi maggioranza del movimento Syriza guidato da Alexīs Tsipras. Era stato proprio Tsipras che nell’ultimo anno, con un mix di austerità ed aperture. Una politica che riesce, in breve tempo, a scardinare le secche in cui si stava impantanando la vita economica dei greci. Ora, noi sappiamo, che alle successive elezioni del 2019, la maggioranza passa da Syriza alla destra di Nuova Democrazia di Kyriakos Mītsotakīs. Ma questa è storia, mentre Markaris parla di romanzo.

Nel romanzo, si respira il clima di ripresa, guidata da una formazione nata improvvisamente sull’onda della crisi, una formazione prima inesistente, che Markaris indica con il nome K.E.AN. (Komma Ethnikis Anatropìs, cioè Partito Nazionale del Cambiamento) e su cui torneremo con una domanda nel finale. Un partito che promette di risollevare l’economia greca in tre mesi, se gli viene data carta bianca. Cosa che succede alle elezioni, e dove i cambiamenti si vedono subito, che si cominciano ad aumentare gli stipendi, e gli investitori iniziano a tornare in Grecia.

Certo che Kostas, sollecitato dalla moglie Adriana, e dal suo amico Lambros, si domanda da dove vengono i soldi che stanno risollevando il paese. Domanda che si collega al titolo e sulla quale torneremo sempre in finale.

Nelle more, ci si deve innestare il filone poliziesco. Così viene assassinato un piccolo gestore di porti e posti barca. Indagando, Kostas scopre ben presto che era legato a commerci in nero, anche di stupefacenti. Ma due sbandati si fanno arrestare accusandosi dell’omicidio, ed il nuovo capo di Kostas gli impone la fine delle indagini.

Poco dopo, viene ucciso anche un armatore, ben più importante, con una grande flotta ex-greca, ma ora di stanza a Londra. Dopo la morte, la flotta, ed altre a lei vicina, annunciano il ritorno in Grecia. Kostas scopre situazioni poco chiare nelle vicende precedenti alla morte, ma due georgiani si fanno arrestare accusandosi dell’omicidio, ed anche qui Kostas viene bloccato.

Non si blocca il suo amico giornalista, che però anche lui viene ucciso poco dopo. Stessi meccanismi, misteri possibili, ma un iraniano si fa arrestare, e tutto si insabbia (come ben legge Kostas nel suo impagabile dizionario greco, il Dimitrakis, analogo del nostro Devoto-Oli).

Kostas rischia di suo nel continuare le indagini, e, avendone trovato il bandolo, viene ad un colloquio di difficile gestione con un personaggio probabilmente (ma non viene detto esplicitamente) legato alle forze di governo. Che gli fa capire che queste morti sono “effetti collaterali” dello sforzo della politica di riportare a galla la Grecia. Markaris, comunista di fondo, fa capire che potrebbero esserci dietro mafie di tutti i tipi, nonché fondi neri provenienti da paradisi fiscali. Ma il tutto viene sospeso, perché a volte è meglio sapere molto ma fare poco, per il bene di molti. Chi siano questi molti, il nostro lo dice. Anche se non ci fa capire fino in fondo quali saranno le future decisioni di Kostas, che io rimando alle prossime puntate.

Intanto vengo a sciogliere le due domande sopra espresse. Una sul titolo, che ovvio tutto il romanzo si basa su quello scelto per la versione italiana, cioè sul potere dei soldi. Mentre il titolo originale era non in greco, ma come vedete sopra, in inglese, cioè “Offshore”. Che, come dice il dizionario italiano, si riferisce “ad un’operazione che si svolge al di fuori del sistema economico di un paese allo scopo di usufruire di condizioni di maggior convenienza sul piano fiscale e legale”. Sia dentro che fuori la legge.

L’altro riguarda il partito, che esiste in Grecia come KEAN (Kinima Ethnikis Antistasis, cioè “Movimento di resistenza nazionale), che nelle elezioni del 2015 prende 619 voti, pari allo 0,01%. Vorrei sapere da Markaris il motivo di questa scelta.

Per finire, un dubbio che mi era sorto quando all’inizio si parlava della Pasqua all’inizio di maggio, cosa impossibile che al massimo si può arrivare al 25 aprile. Poi mi sono ricordato che si tratta della Pasqua ortodossa, che viene celebrata seguendo il calendario giuliano, e quindi può arrivare sino all’8 maggio. Chiarito l’errore, non ci sono ulteriori punti di domanda.

Martin Suter “Allmen e le libellule” Repubblica Passione Noir 25 euro 7,90

[A: 01/11/2018 – I: 25/09/2021 – T: 26/09/2021] - &&--

[tit. or.: Allmen und die Libellen; ling. or.: tedesco; pagine: 187; anno 2011]

Martin Suter è uno dei pochi a me noti scrittori svizzeri di lingua tedesca. Laddove, come ricordavo in altri scritti, mi rimanevano in testa solo Max Firsch e Friedrich Dürrenmatt. Tra i viventi, non ne rammento nessuno. Il quasi settantacinquenne zurighese ha di certo un buon successo, tanto che ormai vive quasi stabilmente a Ibiza, sia per la produzione direi “normale” sia per la serie dedicata ad Allmen, che è stata anche portata sullo schermo. Anche se non con grande successo, visto che in Italia è stata trasmessa in agosto dello scorso anno.

Per trani destini delle letture, ho già incrociato l’autore ed il suo personaggio in un libro della collana di scritti per l’arte e sull’arte del Corriere. Senza averne avuto una grande impressione. Però quello era il terzo titolo della serie, in base alla quale sappiamo che, ad un certo punto della sua vita, Allmen fonda un’agenzia per il recupero delle opere d’arte rubate, la "Allmen International Inquiries", che avrà il capzioso motto "The art of tracing Art".

Qui, invece, siamo alle prese con la nascita del personaggio, cosa che da un certo punto di vista è risultata più interessante. Anche perché, nel complesso, il libro non mi è sembrato particolarmente attraente, con una trama di certo un po’ ingarbugliata, ma anche lineare e scontata nel suo progredire verso una fine note.

Comunque, iniziamo a conoscere il protagonista: Johann Friedrich von Allmen. Intorno ai quarant’anni, erede di un cospicuo patrimonio paterno, ha il solo pregio di non voler far nulla nella vita, riuscendo in breve tempo a dilapidare tutti i soldi. Non solo, ma a vendere la villa avita ad una banca, ottenendo in cambio di poter vivere nella dépendance, insieme al fido ex-maggiordomo, ora tuttofare, Carlos. Non guida, e gira con una Cadillac guidata da un autista, viaggia con valigie di Louis Vuitton, distribuisce mance sostanziose, ha un palco all’Opera, parla cinque lingue, ma non disdegna di parlare lo “svizzero-tedesco” quando gira in città.

Avendo avuto una buona educazione, come si evince dalla citazione sotto riportata, si sa muovere nel suo mondo, conosce l’arte, ama l’opera. Insomma, è un dandy che vive al di sopra dei propri mezzi. Per mantenersi, quindi, scopre che la migliore risorsa sia dedicarsi a piccoli furti, generalmente di oggetti d’arte, che rivende ad un fido mercante d’arte. Furti che distanzia sul territorio in modo da non esserne mai (o quasi) coinvolto.

All’opera conosce Jojo, una ricca ereditiera con cui finisce a letto. Nella concitata fuga notturna per non essere scoperto dai genitori di lei, scopre una stanza dei tesori, dove sono custodite, tra l’altro, 5 coppe uscite dalla mano di un abile vetraio, Emile Gallé. Ovvio che ne ruba una e l’offre al suo mercante. Ma i soldi non bastano mai, quindi, pressato da un minaccioso usuraio, decide di fare un secondo furto presso la bella. Qui avvengono due fatti: la collezione è ancora completa (da dove viene la quinta coppa rubata?), e, cercando di risalire alla radice del problema, scopre che il suo mercante è stato assassinato.

Allmen allora dovrà impegnarsi, per non essere accusato né del furto né dell’omicidio, a risolvere un complicato caso di frodi assicurative che coinvolge finanzieri e collezionisti di alto bordo, disposti a tutto per salvaguardare i loro interessi. Sarà il fido Carlos ad aiutarlo ad uscire indenne dall’intrigo in cui si stava cacciando.

Ed una volta risolto, i due avranno modo di volgere al meglio quest’esperienza, facendo nascere quella società, di cui sopra, e che sarà il nodo centrale delle successive avventure di Allmen.

Come nell’altro libro letto, l’intreccio è abbastanza risibile, non c’è un vero pathos. C’è di certo una piacevolezza nel leggere i modi in cui Allmen truffa la gente (almeno qui) e nei modi con cui metterà a frutto la sua esperienza, nei successivi libri. Siamo nell’area di un intelligente divertissement, che però rimane solo un divertissement.

Un ultimo accenno: l’idea di base è venuta a Suter da un furto, realmente avvenuto in Svizzera, nel 2004, di cinque coppe firmate Gallé. Che, ricordo, fu un vetraio di valore, i cui oggetti d’arte sono esposti in molti musei. Ma fu anche molto impegnato politicamente, tanto da battersi, con Zola e gli altri, per l’assoluzione del capitano Dreyfuss.

“Era un lettore avido. Lo era sempre stato, sin da bambino. … leggeva qualunque cosa gli capitasse a tiro. Opere straniere, classici, novità, biografie, cronache di viaggio, opuscoli, istruzioni per l'uso. Era cliente abituale di diverse librerie che vendevano volumi a prezzi ridotti, in più era già capitato che facesse fermare un taxi davanti a una casa per recuperare un paio di libri buttati insieme ai rifiuti ingombranti. Una volta cominciato un libro doveva per forza arrivare alla fine. Anche se si trattava di una pessima lettura. Non era questione di rispetto verso l’autore ma di curiosità. Era convinto che ogni libro contenesse un segreto, magari semplicemente il motivo per cui era stato scritto. E scoprire questo segreto era praticamente un obbligo. In effetti, più che di letture era avido di segreti.” (37) [praticamente un ritratto…]

Rosa Ribas “La detective miope” Repubblica Passione Noir 14 euro 7,90

[A: 05/09/2018 – I: 28/09/2021 – T: 30/09/2021] - && e ½   

[tit. or.: La detective miope; ling. or.: spagnolo; pagine: 217; anno 2010]

Un libro iniziato con una serie di fraintendimenti, che alla fine si riscatta, anche se rimane poco sotto la media di gradimento degli scritti del genere nero. L’avevo preso in mano pensando fosse una scrittrice sarda, visto anche il titolo italiano. Poi scopro che in italiano e spagnolo “detective miope” si scrive uguale. Tra l’altro, poi, scopro che Rosa Ribas non solo è spagnola di Barcellona, ma si occupa di filologia, in particolare tedesca, e vive a Francoforte dove insegna all’Istituto Goethe. Iniziando a leggerlo, inoltre, penso sia il solito giallo-umoristico, che il personaggio principale ed alcuni attori comprimari suscitano alcuni sollevamenti di labbra. Ma non è così, e pur mantenendo un andamento tra l’ironico ed il triste, si rivela meno allegro di quanto pensassi. Ed io che l’avevo portato in viaggio di nozze per divertirmi un po’.

L’idea di fondo che fa partire il treno della trama deriva da molto lontano. Esattamente, da un racconto dello scrittore e psicologo ungherese Frigyes Karinthy che nel 1929 scrisse un breve racconto (di cinque-sei pagine) intitolato “Catene” dove lanciava l’idea che tutte le persone fossero tra loro collegate da un numero finito di conoscenze. Nasceva allora la teoria dei “sei gradi di separazione”. Non entro nella teoria, ma vediamo l’idea che Rosa Ribas ne ricava.

Irene Ricart ha subito un grave lutto: Victor il marito poliziotto e la loro figlia Alicia vengono assassinati. Irene cade in una grave depressione, viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove le diagnosticano una progressiva (ed irreversibile) miopia. Tra le stanze dell’ospedale e la panchina n.8 del giardino, Irene elabora la sua teoria. È possibile che esitano sei gradi di separazione anche tra i crimini che vengono commessi. Quindi indagando su cinque casi criminali, dovrebbe riuscire a trovare chi ha ucciso marito e figlia.

Così, uscita dalla clinica, si fa assumere dall’agenzia investigativa “Detectives Marin” gestita da Miguel Marin, uno che sembra sapere più di quello che sa, ma che diventa un nume tutelare per Irene. Interessante anche la descrizione dei colleghi di Irene nell’agenzia: Rodrigo Carrasco, il veterano, quello che vede ma non compare, cui Marin si affida nei casi complessi; Felix Marin, nipote di Miguel, l’esperto informatico dalla faccia da putto del Rinascimento; l’argentina Flavia Irigoyen, giovane, forzuta, con cui inizialmente non ha un buon rapporto, ma che migliora nel tempo; per finire con Sarita Picó, la segretaria, che sarà da subito solidale con lei.

Vediamo così che Marin le affida diversi casi, ognuno dei quali, analizzato da Irene, sembra che la porti vicino alla soluzione. Quindi, uno dopo l’altro, assistiamo ad Irene che risolve i cinque casi. Quello di Jaume Peyrò jr., lei essendo ingaggiata dal padre visto che Jaume sbaglia i conti della ditta, ma lo fa per sostenere la sua compagna, un’attrice porno affetta da alopecia. Quello di Marius Rovira che vuole sapere le sue ascendenze e scopre di essere di sangue mulatto senza averlo mai saputo. Quello di Jordi Gasull, un fabbricante di occhi finti, che le chiede di ritrovare un suo cliente, per cui aveva costruito un occhio color nocciola e che poi è scomparso. Quello di Kono Berger indagato per le troppe assenze, che Irene scopre essere dovuto al fatto di travestirsi di notte nel personaggio della regina hawaiana Lilì Uokolani. Infine, quello di Alina Vlasceanu con una strana storia di ragni e di amanti.

Irene trova un senso a tutto ciò, e risolve anche il suo caso. Ora, però, mentre andando per via, durante il percorso, risulta gradevole, la fine la trovo un po’ appiccicata, un po’ forzata. Anche per questo, credo, che pur sembrando un personaggio che poteva far nascere una serie, la scrittrice scriverà di neri seriali, ma con altre protagoniste. E vedremo se entreranno qui.

Quello per cui ringrazio però Rosa Ribas è più che altro avermi fatto ritornare per le strade di Barcellona, laddove non giravo più dai tempi di Pepe Carvalho. Così, con Irene, sono tornato al quartiere di Poble Sec, mi sono aggirato per i derelitti del Montjuic, e poi siamo saliti sino alla parte elegante, al Tibidabo. Già solo per questo è tato gradevole. Ed anche per altri personaggi minori, su cui non ha molto senso nell’economia della trama tornare su, ma che denotano una felice mano legata ad un occhio che osserva realmente.

Una lettura nata trasversa, che si è aggiustata per via, anche se non si è chiusa come mi aspettavo. Cioè con spiegazioni convincenti e solidi. Ma va bene anche così.

“I bravi bugiardi sono quelli che mescolano una dose sufficiente di verità con la menzogna, di modo che non devono inventare tutto ed evitano di commettere errori.” (66)

Simone Buchholz “Revolver” Repubblica Passione Noir 22 euro 7,90

[A: 19/11/2018 – I: 22/01/2022 – T: 24/01/2022] - && e ½

[tit. or.: Revolverherz. Ein Hamburg-Krimi; ling. or.: tedesco; pagine: 237; anno 2008]

Non dispiace, ogni tanto, incontrare un nuovo personaggio nel vasto panorama della letteratura gialla (o poliziesca o “krimi” come si dice verso il Nord). Quindi anche un nuovo autore, o meglio autrice, essendo Simone una scrittrice (discretamente) prolifica in questo genere di espressione, avendo dal 2008 ad oggi pubblicato dieci romanzi con protagonista Chastity Riley.

Intanto alcune note, positive e negative, per entrare in argomento. L’originale recita, a parte il titolo su cui torniamo, il sottotitolo: “Un giallo di Amburgo”. Ora in italiano, questa edizione dei Noir di Repubblica fa sparire sottotitoli dalla copertina, relegandolo all’interno e modificandolo in “Le ragazze del porto di Amburgo”. Dove “ragazze” e “porto” sono una aggiunta immaginifica, e se volessimo proprio cercare il pelo nell’uovo, magari avremmo dovuto inserire nel titolo il teatro dell’azione, cioè St. Pauli, il quartiere a luci rosse di Amburgo.

Poi, il titolo tedesco oltre a revolver, contiene il suffisso “herz” che, pur con le mie scarse conoscenze del tedesco, credo si riferisca a “cuore”. Concludo quindi che una pistola del cuore che viene declassata a semplice pistola, merita una reprimenda da parte del traduttore. O della casa editrice che l’ha portata in Italia, la Emons Edizioni.

Sul versante positivo è l’ambientazione ed i personaggi che ruotano intorno alla protagonista. Perché siamo ad Amburgo, una città che conosco poco, ma che merita forse qualche approfondimento. Non solo, ma come detto siamo a St. Pauli, anche qui con necessari approfondimenti in loco (quando si tornerà a viaggiare?). Inoltre, la protagonista è anche tifosa della squadra locale, il St. Pauli, che, al tempo della scrittura, era reduce da una splendida Coppa di Germania (semifinalista) e dalla promozione in Bundesliga. Ora è in Seconda Divisione, ma lotta per la promozione. E noi faremo il tifo per la squadra, sia per Chastity, che per la squadra stessa.

Venendo ora al contendere, cioè al testo, facciamo la conoscenza di Chastity Riley detta Chas, procuratore proprio a St. Pauli. Figlia di un americano e di una tedesca, viene abbandonata piccolissima dalla madre, che fugge in America con un altro. Cresce con il padre americano che decide di vivere in Germania, anche se depresso. Tanto che quando lei ha vent’anni, si spara un colpo in testa, con un revolver che rimarrà “in regalo” a Chas (quello del titolo, I suppose). Contrariamente poi al suo nome, è tutto fuorché casta. Beve a tutto tondo, spesso con Carla la sua amica del cuore, concupisce (giustamente) l’altro sesso, ed ha una storia intermittente (almeno in questo libro), con il suo vicino di casa. Il cui nomignolo viene tradotto con “Sberla”, quando il tedesco recitava “Klatsche”, che (aiutami cugino) credo si riferisca a “gossip”. Tanto per sottolineare poi il lato trasgressivo di Chas, il vicino è un ex-scassinatore, ora dedito alle serrature di sicurezza, ma con buone entrature nel mondo criminale.

Il quarto elemento che sembra fondamentale per il racconto è Faller, il commissario capo, che lavora molto bene in coppia con Chas, ma che ha (credo) problemi di salute, tanto che mi aspetto scompaia nelle puntate successive.

Il giallo gira intorno al ritrovamento, in giorni successivi, di belle signorine uccise per strangolamento e poi private dello scalpo e lasciate in varie parti del porto, nude. Chas e la sua squadra scoprono ben presto che tutte fanno parte del corpo di ballo di lap dance di un locale a luci rosse di St. Pauli, l’Acapulco. Si fanno ricerche, si incrociano dati, ed alla fine si trova il bandolo della matassa. Purtroppo, senza troppa partecipazione di noi lettori, che ipotizziamo la soluzione fin dalle prime battute, ed aspettiamo solo di vederne lo svelamento finale. Che è concitato, che coinvolge la pistola del titolo, ma che non riserva sorprese.

Il bello, e per questo il libro ha una buona gradevolezza di lettura, è il contorno. L’ambiente, come detto. I vari personaggi del mondo di mezzo che circolano per Amburgo. La squadra di Chas, i pedinatori, il medico legale (antipatico) e la sua assistente (molto simpatica). L’amica Carla e le sue storie che sembrano finire male sino a che non trova uno scozzese “tutto sesso e simpatia”. Le partite del St. Pauli. Il rapporto tra Chas e “Sberla”.

Quello che è invece veramente poco azzeccato nell’edizione italiana, è la presentazione dei personaggi, stile “Gialli Mondadori” che, per la poca accuratezza, ci fa capire molto di quello che succederà. Un vero peccato.

Alexander McCall Smith “Salone di bellezza per piccoli ritocchi” Repubblica Passione Noir 9 euro 7,90

[A: 03/09/2018 – I: 10/02/2022 – T: 12/02/2022] - && +

[tit. or.: The Minor Adjustment Beauty Saloon; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2013]

Ecco che dopo circa tre anni, torno a leggere del simpatico scozzese e delle sue storie. In realtà, McCall Smith è originario della Rhodesia (ora Zimbabwe) pur se da genitori scozzesi, ma alla recrudescenza del razzismo nella regione, nei primi anni ’80, il poco più che trentenne Alexander torna in Scozia, dove da allora vive a Edimburgo (in una zona dove ha, per vicini di casa, J. K. Rowling e Ian Rankin, che chi sa di scrittura ben conosce).

Metto questa introduzione, che, forse, molti miei attuali lettori si sono persi le prime scritture del nostro. Che incomincia a leggere perché la mia amica Chiara, di ritorno dalla Scozia, mi disse che erano scritte in un “simply english” gradevole da leggere. Poiché io sono capoccione, ovviamente, ne cominciai a leggere in italiano, seppur qualche puntata in originale l’ho fatta, confermandone il sopra citato giudizio.

McCall Smith, giurista ed esperto di bioetica, ha scritto sino ad ora un numero impressionante di libri, molti anche per l’infanzia. Io seguo, con alterno interesse, le sue tre serie principali, il “Club dei filosofi dilettanti” (dove tratta di temi etici), il “44 Scotland Street” (dove si parla di rapporti interpersonali, ed è una strada esistente, che ho visitato, anche se termina al numero 43) e le storie di Precious Ramotswe, la prima donna detective del Botswana, cui fa parte questo scritto. Nelle tre serie ha scritto, in totale, 52 romanzi, di cui io ne ho circa un terzo.

In questa serie, questo salone di bellezza è il quattordicesimo titolo, avendo poi la particolarità vincolante, che le storie procedono in ordine, così che i personaggi e le situazioni si legano, evolvono, ne possiamo vedere i nuovi aspetti. Per questo, fermiamoci un attimo rammentando i personaggi principali.

Ovviamente, c’è Precious Ramotswe, abbastanza robusta (40 anni e taglia 54, ma lei dice “di taglia tradizionale”). Dopo un fallimentare matrimonio, con i soldi lasciategli dal padre, apre la prima agenzia investigativa femminile a Gaborone in Botswana. Dal quinto romanzo sposa J.L.B. Matekoni, valente meccanico, proprietario di un’officina vicino all’agenzia. Uomo timido, ha una passione sconfinata per Precious, cercando di aiutarla in tutti i modi. Il terzo personaggio è Grace Makutsi, inizialmente segretaria dell’agenzia, poi, per il suo acume e la capacità di fare da spalla a Precious, farà carriera fino a diventare partner dell’agenzia.

Come spesso accade nei suoi testi, McCall Smith segue diversi filoni durante un romanzo. Così in questo in realtà abbiamo tre storie che si intrecciano, di cui due legate alle investigazioni delle nostre detective. Dove, infatti, per la maggior parte trattano casi di violenza domestica, infedeltà coniugale e riappacificazioni varie.

La storia spuria narra la nascita del figlio di Mma Makutsi, dove apprezziamo alcune considerazioni sulle relazioni sociali nella società africana tradizionale.

La prima inchiesta riguarda un caso di eredità. Alla sua morte, un possidente lascia tutta la sua fattoria ed il suo bestiame al nipote. L’avvocato incaricato dell’esecuzione testamentaria non è però convinta che il nipote sia realmente tale ed incarica Mma Ramotswe di risolvere il caso. Tra una tazza di tè (poi ci torniamo) ed una torta, la nostra scopre che in realtà il nipote è il figlio segreto del morto, con alcune complicazioni tra morti e riconoscimenti vari. Ma alla fine il giovane avrà quanto gli spetta.

La seconda è quella che dà il titolo al romanzo. La proprietaria del Salone del titolo viene a lungo calunniata e rischia di andare in rovina. Qui sarà Mma Makutsi che, scoprendo le modalità d’uso di una fotocopiatrice, risolverà il caso e permetterà al salone di avere il suo giusto spazio e riconoscimento.

Come si capisce, sono temi etici anche qui che interessano l’autore. Le difficoltà delle donne africane di avere lavori non tradizionali. La società rurale africana contrapposta alla pretesa modernità. La medicina tradizionale rispetto a quella occidentale. Il tutto trattato con molta leggerezza, ma anche con una profonda conoscenza del mondo locale. Senza entrare nel merito delle questioni (si avrà spazio altrove, forse), ad esempio, apprendiamo che la popolazione locale sono i tswana, che il prefisso “Bo” significa nazione (da cui Botswana). Che la lingua locale è indicata dal prefisso “Se” (da cui Setswana come lingua ufficiale). Che le donne sposate, da noi indicate come signore, vengono chiamate Mma, ed i loro mariti Rra. Ed altre geografiche amenità.

Non ultima quella della bevanda preferita da Precious, indicata nel testo come tè rosso. In realtà, è una tisana di “rooibos”, una pianta che cresce in Sud Africa, simile al tè, che si beve in infusione. Il nome corretto sarebbe “tè rosso africano”, essendo quello solo “rosso” una varietà del tè nero cinese. Non dovendo inoltre essere neanche chiamato tè, che non deriva dalla Camellia, ma da una leguminosa, e quindi non contiene caffeina.

Una lettura etnica, quindi, con alcuni risvolti etici. Non eccelsa come pathos nello svolgimento, ma certamente di curiosità intellettuale.

“Anche se ormai erano sposati da qualche anno, ancora non riusciva a capacitarsi della fortuna che aveva avuto a trovare una donna come lei.” (166)

“Dobbiamo tutti conoscere la nostra storia, ma ha davvero importanza che questa storia sia vera o inventata?” (255) 

Siamo nella terza settimana di aprile, ed in mancanza di altri spunti, vi omaggio di alcune belle frasi lette nel novembre di tredici anni fa.

Ma oltre ad essere la terza domenica, è anche Pasqua, che si sperava di resurrezione e di pace, ma che ancora non lo è. Allora, mi viene ancora in mente, come in questi momenti in cui non si sa cosa succederà, quello che diceva Jean-Patrick Manchette quando si finisce un libro e si lasciano i personaggi vagare nella propria mente. In “Morgue pleine” diceva “J’ai pris un livre… et l’auteur nous laissait là-dessus, ce qui m’a paru assez déloyal. Ce que j’aurais aimé savoir, c’est ce qui se passait ensuite. Ce qui arrivait au père. Sans doute l’auteur était-il incapable de l’imaginer”. Io rimango sempre su quel punto: sarei felice di sapere cosa succedeva dopo ai miei personaggi. Cosa succederà, dopo, di questa guerra e di questi interpreti del mondo, quando si chiuderà questa pagina.

Io, nel mio piccolo e modesto progredire, non posso che continuare nella mia sfida: viaggiare, se possibile, volervi bene tutti.

P.S.: nell’ambito dei vostri consigli, questa settimana cito Ian McEwan ed il suo “Chesil Beach”.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di aprile

Le citazioni di queste mese mi riportano agli ultimi mesi del 2009 ed alle letture di quel periodo.

La prima frase che mi viene sulla punta delle dita risale ad uno scrittore brasiliano non molto noto in Italia, pur essendo considerato dieci anni fa uno dei migliori scrittori under 40 della sua generazione. Lessi di João Paolo Cuenca uno strano libro intitolato “Una giornata Mastroianni” dove il protagonista, seguendo un po’ le mie orme di allora, ripeteva “il mio problema è che non riesco a interessarmi a niente che non sia me stesso” (83).

Alla fine del mese di ottobre di quell’anno, lessi di fiato tutta la trilogia Millennium del bravissimo e compianto Stieg Larsson. Nel fondamentale, perché ha aperto un filone ormai quasi inesauribile, “Uomini che odiano le donne” affronta il tema dell’amicizia con due frasi che ho fatto subito mie: “l’amicizia si fonda su due cose… rispetto e fiducia. Entrambi i fattori devono essere presenti. E deve esserci reciprocità. Si può avere rispetto per qualcuno, ma se non c’è la fiducia, la confidenza, l’amicizia si guasta” e poi dicendo “non discuto di una persona amica alle sue spalle perché allora tradirei la sua fiducia”. Passando a cose più leggere, poi, se ne uscì con un’altra pietra miliare, sull’amore quasi per amicizia: “– è la tua ragazza? – Non proprio. È sposata. Io sono più che altro un amico e occasional lover… – anch’io avrei bisogno di un occasional lover”.

Un altro autore poco presente nella mia biblioteca fu letto in quel novembre, senza tuttavia lasciare grandi segni. Anche se ho preso in prestito una riflessione sul comportamento sociale. Parlo di Ugo Cornia che ne “Le pratiche del disgusto” dice: “è strano come uno, a fare esattamente la stessa cosa in casa sua e a farla in casa di un altro, delle volte quello che a casa tua ti sembra insopportabile, soltanto perché sei a casa di un altro diventa immediatamente non soltanto sopportabile, ma addirittura gradevole”.

Sempre in quel novembre, accogliendo un suggerimento del mio amico Luciano, lessi il primo libro di Maurizio de Giovanni e da allora non l’ho più lasciato, anche se non sempre mi sono piaciuti i suoi romanzi. In quel triste mese, Maurizio inserì alcune riflessioni nel libro: “Il posto di ognuno”. Una riguardava il senso del crescere, ponendo una fondante domanda ai suoi genitori: “Quand’è, mamma, che uno non è più un bambino? Quando è grande e forte e può decidere da solo? … Secondo me, sai, mamma, uno è adulto quando vede. E se vede, allora deve intervenire.” (207) Poi c’erano delle frasi che, in vario senso, mi riportavano a mio padre, scomparso allora da quasi due anni. “Un uomo muore quando non significa più niente per nessuno” (219) Ma soprattutto, per papà, era questa la frase che avrei voluto condividere con lui, e lui avrebbe capito: “Ricordate che non esiste solo il rimorso; esiste il rimpianto, che è peggio ancora … Se è necessario prendere un’iniziativa, una volta nella vita, lo si faccia. Per non passare poi tutti gli anni che restano a chiedersi che cosa sarebbe successo se si avesse avuto un poco di coraggio” (360)

A ruota, lessi anche “Il mio volto è uno specchio” di Enrico Luceri con un ricordo che ora sento ancora vibrare nel mondo: “Bisogna essere egoisti per sopravvivere in questo mondo.” (81)

Poi ci fu un colpo al cuore, quando lessi, io allora non ancora sessantenne, questa frase di Edgar Wallace nel suo altrimenti poco interessante libro “L’uomo dai due corpi”: “Ho più di cinquant’anni; sono brutto; sono vecchio; guardate queste mani da vecchio. … Ebbene, io vi amo! … Voi siete bellissima… la donna più bella che io abbia mai visto.” (99) E so ben io a chi dedicai e dedico quella riflessione.

Inoltre, dopo molti anni finalmente ero riuscito a finalizzare le letture che mi aveva suggerito la mia amica Chiara. In special modo “La strategia dell’orso” di Lothar Seiwert, forse a volte un po’ semplificatorio, ma con alcune frasi che condivido ancora: “chi è consapevole di ciò che vuole dalla propria esistenza ha già compiuto il primo passo verso una vita felice” (31); “non perderti in questioni marginali” (43); “il tempo è il bene più prezioso che possediamo” (44); “chi riconosce i propri errori è sulla buona strada per evitarli in futuro” (46). Per finire con il decimo e più importante consiglio dell’orso: “Realizza i tuoi sogni!” (105).

L’altra passione cominciata allora, fu quella per il grande pensatore Zygmunt Bauman che da non molto ci ha purtroppo lasciato. Ma ci ha lasciato tutte le considerazioni sul mondo liquido. Anzi, come lessi in quel novembre, su “Amore liquido”. Bauman è al solito pieno di pensieri che mi hanno forzato alla meditazione.

Molti sull’amore e sul rapporto tra due persone: “Amore e morte non hanno una storia propria: sono eventi che accadono nella storia di un uomo” (6); “Essere connessi è meno costoso che essere sentimentalmente impegnati, ma anche considerevolmente meno produttivo” (87); “ciò che amiamo è lo stato … di essere oggetti degni di essere amati. [E se siamo amati] … deve esserci in me qualcosa che solo io posso offrire… Qualunque cosa ci sia nel mondo che mi circonda, quel mondo sarebbe più povero, meno interessante … qualora io dovessi improvvisamente cessare di esistere” (110-111).

Ma anche sulla vita civile e sul rapporto tra noi e l’Altro. Un concetto che ora ci farà riflettere come settanta anni fa: “[Il grande fratello] è la narrazione pubblica della smaltibilità dell’essere umano: se mi servi sei con me, ma per vincere devo liquidare tutti” (122). Come, quest’altra riflessione, sulla difficoltà di convivere: “La verità appena pronunciata si trasforma in un’opinione. Il fatto che altri sono in disaccordo con noi … non è un ostacolo sulla strada della comunità umana. Ma la nostra convinzione che le nostre opinioni siano … l’UNICA verità esistente e che le verità altrui, se diverse dalle nostre, non sono altro che semplici opinioni, questo è un ostacolo alla convivenza.” (208)

Per passare dall’amore ai viaggi, intanto mi ricordo dei film da lui interpretati, ma anche dei suoi racconti di viaggio. Come ne “Il grande viaggio” dove Giuseppe Cederna fa una riflessione che condividerei con la mia amica Rosa “le storie sono come i fiumi. Nascono in alto, scendono fra gli uomini, raccolgono altre storie, si dividono e si confondono di nuovo” (195).

Infine, non posso non ricordare, a due anni dalla morte, un giornalista che ho anche avuto l’onore di conoscere. Ma soprattutto di apprezzare in alcuni suoi scritti. Ripenso quindi a “Il cammello battriano” di Stefano Malatesta.

Anch’io ho visto i cammelli battriani nel Ladakh, e non solo quelli in quel posto sperduto eppur bellissimo. E con Stefano (e Nina) condividevo alcune considerazioni: “Detto per inciso e una volta per tutte, la parola Assassino non viene da hashishiyun, fumatore di hashish, come in genere viene ricordato dai proibizionisti, nella speranza di bollare d’infamia l’uso delle droghe leggere, ma da assass, i fondamenti della fede” (58); “[Chatwin] in uno di questi [appunti] ricordava che nomos in greco significa pascolo, e il nomade è un capo che presiede alla distribuzione dei pascoli” (87); “Nabokov non è mai stato più ad oriente di Odessa. Ma le trenta o quaranta pagine [del Dono] in cui immagina di seguire il padre esploratore sono di una bellezza struggente, le più belle che qualcuno abbia mai scritto sull’Asia Centrale” (123).

Ma soprattutto, non posso dimenticare quando, sedicenne e speranzoso, mi aggiravo per la prima volta solo a Parigi. E lì scoprii la libreria di cui poi trovai traccia in questo ed altri scritti. “Chi può mai descrivere la felicità delle ore passate da Ulysse, rue Saint Louis en l'Ile, dove la proprietaria, Catherine Domain, considerata bisbetica nell’ambiente, mi accoglieva con la gentilezza riservata a chi aveva conosciuto Ella Maillart, l’intrepida viaggiatrice svizzera? E i pomeriggi da Orient, da Samuelian, e, tornando a Roma, nella Libreria del Viaggiatore?” (15-16)

Purtroppo, Malatesta è morto, come il proprietario della Libreria del Viaggiatore. Noi, si spera che dopo la pandemia ed in vista di una speranza di pace, si riesca a portare novità anche ad Ulysse.

 


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