Una settimana “pasquale” poco impegnativa, sospesa tra i libri che gentilmente mi presta il mio amico riciclatore e la collana di spionaggio di Repubblica. Con un record, il primo libro che non riesce a raggiungere neanche un libro di gradimento. Anche la collana di Repubblica non è che sia esaltante, riscattandosi solo con un libro di un autore classico in questo genere, Eric Ambler, anche se non con le sue migliori opere (tra cui ricordiamo “Topkapı”, un punto di riferimento dello spionaggio, soprattutto nella sua versione cinematografica).
Alistair
MacLean “Burattino in catene” BUR s.p. (Prestito di Fako)
[A: 24/07/2021
– I: 09/08/2021 – T: 10/08/2020] ½
[titolo:
Puppet on a chain; lingua: inglese; pagine: 380;
anno: 1969]
Un
libro talmente brutto ed inutile che, dopo averlo letto, è stato diligentemente
lasciato nell’albergo di Matala, come a ricordare la bella isola del mio
fornitore di libri letti.
Ora,
Alistair MacLean risulterebbe uno scrittore scozzese di medio-alta notorietà,
più che altro noto come autore del libro e poi sceneggiatore del film “I
cannoni di Navarrone”. Non conosco il libro, ma il film con Gregory Peck, David
Niven e Anthony Quinn è senz’altro un film di guerra avvincente. Ma qui si
parla di “thriller” e non di guerra. Un thriller che venne in mente ad Alistair
mentre era in giro per Amsterdam, e notando i canali, le strade strette,
ipotizza un thriller pieno di fughe e nascondigli vari.
Nasce
così la storia di Paul
Sherman, un esperto agente della Narcotici dell’Interpol, tanto esperto che
normalmente lavora in solitario. Ora, gli è stato affidato il compito di
debellare una rete di spaccio il cui centro sembra sia Amsterdam, e per
l’occasione il solitario Paul viene affiancato da due agenti di sesso femminile.
Una è un poliziotto esperto, che ha già lavorato con Paul, mentre la seconda è
una recluta al primo incarico.
L’incarico gli è stato assegnato (ma questo
lo scopriremo strada facendo) dopo che tre spacciatori hippie vengono uccisi in
una casa di Los Angeles. Non solo, ma Sherman (che non sembra sia il suo nome)
è olandese, e conosce, anche se non a fondo, l’ispettore Van Gelder, la cui
nipote Trudi, soffre di gravi danni cerebrali causati da un'overdose di eroina.
Tuttavia, ciò non fa in modo che ci sia un buon rapporto con il colonnello De
Graaf, capo della polizia locale, che non vede di buon occhio l’interferenza
americana.
Il gancio di Sherman è Jimmy, un tempo
all’interno del business, ma che sembra ne voglia uscire. Anche perché i
banditi della droga sono sempre più violenti e non esitano di ricorrere
all’assassinio, se qualcuno mette loro i bastoni tra le ruote.
Ma già dalle prime pagine si capisce
l’andamento della trama, dove il tutto pare rivolto ad una violenza tipo il
peggior hard-boiled americano (o ancora peggio, i più brutti polar francesi).
Infatti, prima che Sherman lasci l’aeroporto di Schiphol, viene assalito,
tramortito e Jimmy viene ucciso.
A questo punto Paul si imbufalisce, comincia
a toccare tutti i tasti delle sue conoscenze, mette in mezzo le sue assistenti,
trattandole anche male (è un rude, quindi le donne zitte ed obbedire). Questo
modo di fare indispettisce la polizia locale, che non risulta allearsi con lui,
anzi sembra quasi remare contro.
Tra l’altro, è certo che ci sia una talpa, da
qualche parte, perché Paul, per quanto faccia passi in avanti, sembra sempre
essere un passo indietro rispetto ai suoi avversari. Questo non può portare che
ad una spirale di violenza. Che non sarebbe male in assoluto (leggete il mio
amico Bissa), ma che qui è gratuita e neanche tanto ben scritta. Alistair vuole
mantenere un tono ironico, ma sarà che sono passati cinquant’anni, che il tono
risulta veramente inefficace.
Per trovare un bandolo, Sherman incontra la
ragazza di Jimmy, Astrid ed il di lei fratello George, tossico. Potrebbe essere
un nuovo gancio contro il crimine, ma George muore di overdose (provocata) e
Astrid prima scompare, poi viene trovata morta. Sherman, con l’aiuto di Van
Gelder, arriva ad individuare una rete di spaccio legata ad una setta che
promuoverebbe l’emancipazione di donne traviate. La rete usa bambole che
vengono fabbricate in un’isola vicino la capitale, e poi convogliate nel
magazzino di due loschi figuri.
Una delle assistenti prova ad infiltrarsi
nella setta, ma viene scoperta ed uccisa infilzata con dei forconi. Fine
veramente trucida. Ma risalendo dall’isola alla terraferma, Paul arriva di
nuovo al magazzino, dove scopre che è proprio Van Gelder la talpa, e che Trudi
non è reduce da overdose, ma è una brava attrice.
Siamo alle scene finali, agnizioni, fughe,
controfughe, sparatorie, Trudi che muore, Paul che viene ferito, e Van Gelder
che finisce infilzato su di un gancio, di quelli che spesso sono presenti nelle
case olandesi, per portare oggetti in casa, laddove scale strette ed altro
impediscono un agevole accesso interno.
L’unico punto positivo è la punizione che
alla fine toccherà ai cattivi. Ma risulta troppo macchinoso il modo in cui i
contrabbandieri fanno circolare la droga. Non solo, ma Sherman è spesso alle
strette, tuttavia i cattivi non si risolvono mai a finirlo, anzi sembra che
siano alla finestra per vedere i modi che il buono escogita per metterli in
difficoltà. C’è poi un fondo di misoginia nel trattare le assistenti di
Sherman, che svolazzano in baby-doll nel mezzo delle azioni più complicate.
Sembra una brutta copia di un bel film di James Bond. Quindi, non ho rimpianti
nel cercare di dimenticare in fretta il libro, e nel consigliare di evitarlo.
William
Le Queux “Il mistero del raggio verde” Repubblica Spy 19 euro 7,90
[A: 22/05/2019 – I: 19/09/2021 – T:
22/09/2021] - &
[tit. or.: The Mystery of the Green Ray; ling. or.: inglese; pagine: 205; anno 1915]
Questa
lettura inaugura la collana di Repubblica dedicata alle storie di spionaggio.
Una collana presa per completezza ma che non mi entusiasmava particolarmente
nella lista dei volumi pubblicati. Entusiasmo che si è mantenuto alquanto basso
anche con questa prima uscita. Una lettura filologica, se vogliamo, ma assai
datata e quasi scevra di spunti interessanti.
L’unico
è il recupero di un autore assai noto e prolifico all’epoca, ma abbastanza
presto caduto nel dimenticatoio. William Tuffnel Le Queux (un nome che sembra
quasi uno pseudonimo) era un londinese, nato nel 1864, che dopo un iniziale
interesse per il giornalismo, si dedicò alla scrittura. Ma fu anche un pioniere
dell’aviazione e delle trasmissioni radio. Fu anche assai prolifico, scrivendo
circa 170 libri, nella maggior parte dei quali descriveva come i cattivi
tedeschi si stessero infiltrando in Inghilterra per invaderla. Era anche un
patito di pettegolezzi, il cui massimo raggiunse sostenendo di aver visto un
manoscritto francese scritto da Rasputin dove si affermava che Jack lo
Squartatore era un medico russo di nome Alexander Pedachenko, che aveva
commesso gli omicidi per confondere e ridicolizzare Scotland Yard.
Tra
l’altro, un’altra particolarità del nostro è di aver inventato il personaggio
di Duckworth Drew, membro dei servizi segreti inglesi, bello, solitario, amante
delle belle donne, e pieno di gadget all’avanguardia per il suo tempo, come uno
spillo con il quale mette fuori combattimento il nemico, o un sigaro che
contiene una droga speciale per addormentare l’avversario. Insomma, se non
fosse stato scritto da Le Queux nel 1903 sarebbe un perfetto James Bond. O
forse Fleming ne ha preso anche degli spunti?
Per
venire al romanzo, collocato temporalmente all’inizio della Grande Guerra, come
tutti i più triti romanzi di spionaggio comincia in modo molto flebile. Ronald
Ewart è un giovane avvocato inglese che, iniziata la guerra, pensa di
arruolarsi. Prima però vuole concedersi una breve vacanza andando a salutare la
sua fidanzata Myra, che vive in Scozia, nei pressi di un bellissimo golfo
marino. Vive con il padre, che vede di buon occhio Ronald, e ha un bel cane.
La quiete marina è solo disturbata da uno
strano americano che ha affittato una casa dalla parte opposta del golfo.
Americano fino all’osso, con la presupponenza e l’invadenza che gli europei ritengono
(e non a torto) sia un tratto distintivo dei cugini d’oltreoceano.
Tutto sembra tranquillo e pacifico, se non
che, durante una passeggiata con Ronald, Myra diventa improvvisamente cieca.
Vengono chiamati i più illustri luminari che si occupano di oculistica, ma
nessuno trova motivi plausibili all’incidente accaduto a Myra. Ritengono possa
essere un fenomeno naturale, tanto che sostengono che da lì a breve, Myra potrà
rivedere.
Ronald è poco convinto, anche perché anche
il cane di Myra diventa improvvisamente cieco. Un fatto è casuale, due sono un
indizio. Tre diventano una prova, che il cane viene misteriosamente rapito.
Altri due fatti si aggiungono ai misteri. Myra sostiene di aver visto una luce
verde prima di diventare cieca. L’americano va e viene per il golfo, a
sincerarsi delle condizioni di Myra, ma comportandosi in modo che l’autore non
esita a farci subodorare sospetto.
Ai misteri si aggiungono barchette alla
deriva, piccoli natanti che si aggirano per il golfo, guidati da personaggi con
accenti improbabili. Perfino con marinai che non sembra capiscano l’inglese.
Alla fine, comunque i buoni capiscono chi siano realmente i cattivi, ovviamente
tedeschi che vogliono invadere l’Inghilterra. Nelle pagine finali Le Queux si
lancia in un’astrusa spiegazione sulla nascita di questo famoso raggio verde,
sulle sue proprietà al limite del fantascientifico, quando non proprio al di
là. Come la capacità di deossigenare l’aria, di funzionare come un enorme
telescopio naturale ed altre invenzioni che sarebbero potute diventare
plausibili se manipolate da un bravo scrittore, alla Giulio Verne, ma che in
mano al nostro diventano soltanto risibili.
Di passaggio, ricordo che Verne scrisse
realmente un libro intitolato “Il raggio verde”, ma si trattava di un fenomeno
naturale che accade al tramontar del sole. La particolarità è che Verne
sostiene sia maggiormente visibile in Scozia. Il libro fu scritto nel 1883, e
dato che Le Queux era bilingue (padre francese, madre inglese) di sicuro ne
avrà avuto notizia, onde collocare la sua vicenda proprio in Scozia. Partendo
per la tangente, ricordo poi che dal libro, venne tratto nel 1986 un bellissimo
film con la regia di Eric Rohmer.
Lettura quindi filologica, ma trama
assolutamente inconsistente con un autore forse abbastanza giustamente
dimenticato.
Laura
Lippman “La donna del lago” Bollati Boringhieri s.p. (Prestito di Fako)
[A: 07/09/2021
– I: 10/11/2021 – T: 14/11/2021] &&
e ½
[titolo:
Lady in the Lake; lingua: inglese; pagine: 374;
anno: 2019]
In
realtà, stavo per mandare maledizioni apotropaiche al mio carissimo amico
odioso, che l’inizio di questo ennesimo prestito (sempre gradito, comunque) mi
sembrava non portare da nessuna parte. Invece, ad un certo punto, il meccanismo
ingrana. Non sarà un capolavoro, ma funziona, con alcuni pezzi di bravura e con
risvolti non sempre scontati.
Anche
perché la scrittrice, pur non essendo sempre nelle mie corde, sa districarsi,
nella trama e nel mondo che descrive. Laura Lippman è infatti figlia di un
giornalista (e le domande che fa sul mestiere ne risentono positivamente) e di
una libraia (da dove apprese l’amore per la scrittura), oltre ad essere lei
stessa passata per il giornale, ed averne sposato un redattore. In realtà, è
meglio conosciuta per un personaggio seriale, Tess Monaghan, cui dal ’97 in poi
ha dedicato 12 romanzi. Qui, invece, abbiamo un giallo a sé.
Anche
se, oltre la trama gialla, affronta altri temi scottanti: il ruolo della donna
in una società maschile (o maschilista?), data anche l’ambientazione nella
Baltimora del 1966; o anche il significato di essere giornalisti, oggi, quando
la protagonista prende in mano la storia poliziesca di un’altra persona, ci si
getta a capofitto, fino a farla diventare la sua storia e non più quella della
“Donna del Lago” (che non era così chiamata finché Maddie non la battezza così
nei suoi articoli).
Altro
elemento di interesse, ma anche dio difficoltà di lettura, soprattutto nei
primi capitoli, è il fatto che la narrazione avviene in terza persona quando
seguiamo direttamente Maddie, intervallata da capitoli in prima persona dove
seguiamo vari personaggi di contorno che, con le loro riflessioni, alla fine,
riescono a darci il quadro complessivo. Uno di questi “intarsi” poi è
corsivato, con elaborazioni e pensieri della persona scomparsa.
Ma
andiamo con ordine. Infatti, si inizia quasi con un tono altro. Vediamo una
cena organizzata a casa Schwartz, dove Maddie incontra un suo vecchio
conoscente, a suo tempo di scarse capacità, ma ora presentatore di successo.
Maddie, invece, era al vertice (reginetta del ballo, giornalista in erba). Ora
lei è solo la moglie di e la madre di. Da qui, nasce la sua “ribellione”.
Si
separa, va a vivere da sola, con evidenti difficoltà economiche, per inseguire
il suo sogno: entrare nel giornalismo. In un mondo in cui l’uomo detta legge
(allora come ora) lei entra dalla porta di servizio, si occupa più o meno di
fotocopie. Saranno le storie di due donne che le spalancheranno, a poco a poco,
altri orizzonti.
La
prima è una ragazzina, Tessie Fine, scomparsa. Partecipando alla sua ricerca, seguendo per
istinto delle vie poco battute, sarà proprio lei ad imbattersi nel suo cadavere.
Questo le fa fare il primo salto di qualità.
Il secondo avviene per la sua caparbietà, che
Maddie comincia a seguire un caso che non interessa a nessuna: la scomparsa,
avvenuta due mesi prima, di Cleo Sherwood, una bellissima afroamericana. Se
fosse stata una donna bianca, tutti avrebbero voluto scriverne. Ma è di colore,
ed oltre tutto, non di grande moralità. Ma Maddie si intestardisce.
Affronta entrambi gli omicidi con una
sensibilità tutta femminile (uno dei tratti migliori che ci fa vedere la
scrittrice). Indaga sui possibili moventi, frequenta i familiari delle vittime,
ne ricostruisce le mosse, si aggira nei luoghi dove le due donne hanno passato
gli ultimi giorni della loro esistenza. E dopo Tessie, trova anche un corpo,
nel lago (la donna del titolo) per chiudere il cerchio anche su Cleo.
Non basta però trovare dei corpi, e Maddie
continua il suo giornalismo investigativo, per scoprire come si sono svolti i
fatti, chi è l’assassino. Arrivando ad una soluzione che fa salire il tono del
romanzo ed il suo gradimento.
La
complessa scrittura dell’autrice, alla fine ci porta ai noccioli delle
questioni: la scissione tra quello che le donne del romanzo (ed in particolare
Maddie) volevano essere e quello che gli uomini volevano che fossero. Un
sussulto di femminismo, vivacizzato dalla voglia di emancipazione. Ma anche dei
bei colpi al razzismo neanche tanto nascosto del tempo del racconto (e
Baltimora due anni dopo l’epoca del racconto sarà uno dei più violenti centri
delle rivolte successive all’assassinio di Martin Luther King).
Un
ultimo cenno, ad un momento che mi ha divertito: quando parla della cena che
sta preparando per i suoi ospiti, ad inizio libro, Maddie confessa di preparare
il suo stufato di manzo con molto vino (che ne copre il sapore) e due lattine
di zuppa Campbell. Non so voi, ma io ne mangiai di queste lattine. Erano
orrende. Buona lettura, in ogni caso.
Eric Ambler
“Epitaffio per una spia” Repubblica Spy 4 euro 7,90
[A: 04/02/2019 – I: 31/01/2022 – T: 01/02/2022]
- &&&-
[tit. or.: Epitaph for a Spy; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 1938]
Secondo
appuntamento con le spy stories di Repubblica, dove facciamo un discreto balzo
in avanti nel gradimento, in gran parte dovuto all’autore. Eric Ambler è
infatti considerato il maestro del genere, cui faranno sincero omaggio le
storie di spionaggio di Graham Greene e di Ian Fleming, anche se spesso le sue
storie sono tinte di giallo. Non sempre per la presenza di morti, quanto per
l’intrico che viene imbastito e per la sua soluzione. Per me, infatti, rimarrà
per sempre legato a “La luce del giorno”, da noi meglio conosciuto con il nome
del film che ne fu tratto: “Topkapı”, anche se devo riconoscere che la sua
miglior prova di spionaggio è il suo quinto libro “La maschera di Dimitrios”.
Questo
è il suo terzo libro, pubblicato verso i suoi trent’anni, ancora pieno di un
sentimento di sinistra che lo accompagnerà fino alla disillusione del patto
Stalin – von Ribbentrop del ’39. Qui si gustano in pieno i due tratti
distintivi della sua prima produzione: l’utilizzo di personaggi ordinari, venutisi
a trovare in situazioni più grandi di loro, dei veri antieroi, ed il sentimento
di ribellione verso il baratro verso cui correva l’Europa in quegli anni. Non a
caso, in questo libro le spie, che pur ci sono, sono legate agli ambienti
fascisti italiani. Non a caso vengono stigmatizzate le iniziative tedesche
avvenute dopo il ’33, con un accenno, sicuramente ante-litteram ai campi di
concentramento per chi si oppone a quel regime. Non a caso, per bocca di un
rifugiato antinazista sentiamo una bella tirata sulla socialdemocrazia tedesca
di Weimar, degna quasi di un libro di storia ma pronunciata con ritegno da un
personaggio costretto a giustificare la propria doppia identità.
Qui,
il nostro antieroe è una specie di apolide: Josef Vadassy, nativo di Szabadka,
ora meglio nota con il nome di Subotica. Alla nascita, era una città ungherese,
poi per il trattato di Trianon che dissolse il vecchio Impero Austro-Ungarico,
venne data alla Jugoslavia (ed ora è cittadina della Serbia). Per questi motivi
Vadassy non ha un passaporto regolare, e vive in Francia, precariamente, come
insegnante di lingue. Dato che conosce ungherese, tedesco, francese, inglese ed
italiano.
Vadassy
si concede ogni anno una piccola vacanza nel sud della Francia, questa volta a
La Ciotat, piccola cittadina tra Tolone e Marsiglia. È un appassionato
fotografo naturalista, con una costosa macchina fotografica al seguito. Tutto
comincia quando, inviando un rullino allo sviluppo, si scopre che contiene foto
delle difese navali di Tolone. Accusato di spionaggio, ci si accorge ben presto
che ci deve essere stato uno scambio di macchine. I Servizi Segreti francesi,
allora, lo incastrano: deve trovare la spia, altrimenti verrà espulso, cosa che
dato il suo stato incerto, potrebbe costargli la vita.
Si
capisce allora che, più che un romanzo di spie, è un giallo dove l’antieroe
Vadassy deve risolvere il rebus: chi degli ospiti del suo hotel può essere la
spia? Ambler ha qui il modo di sviluppare la descrizione dei diversi personaggi
presenti sulla scena, e di farci ammirare le peripezie del nostro sfigato alla
ricerca di risolvere il mistero. Vadassy prende sempre le decisioni sbagliate,
mettendo sé stesso anche in pericolo. Ovvio che essendo un eroe per caso, alla
fine troverà il modo di dare un suggerimento giusto alla polizia, che
provvederà non tanto all’arresto della spia (l’investigatore francese sapeva
sin dall’inizio il nome della spia) quanto, attraverso la spia, allo
smantellamento della piccola rete spionistica antifrancese.
Vediamo
allora chi sono i possibili colpevoli. I coniugi Vogel, svizzeri di lingua
tedesca, sempre pronti al pettegolezzo. Gli americani Skeleton, forse fratelli,
forse cugini, forse amanti, di sicuro hanno segreti. La coppietta fintamente
innamorata, lei, Odette, sciacquetta e inconsistente, lui, André Roux,
presupponente e decisamente antipatico. Il signor Duclos, che si finge
industriale, ma che è solo un piccolo impiegato molto sopra le righe. I coniugi
inglesi Clandon-Hartley, lui ex-maggiore e lei italiana, mascherati da
benestanti ma realmente squattrinati. Poi c’è Emil Schimler, l’unico che
escludiamo subito in quanto rifugiato antinazista.
A
parte il divertimento dell’uso dei nomi (dalle varie lingue abbiamo Uccello,
Scheletro, Ruggine, Clandestino, quasi a voler ogni volta indirizzare la
colpevolezza attraverso nomi che possono essere inventati; nonché il
protagonista, non a caso “Schiavo”), Ambler si muove a suo e nostro agio
attraverso una trama leggera, ben scritta, forse un tantino scontata alla fine,
ma ancora di gradevole lettura.
“Non
è naturale che un uomo parli perfettamente più di una lingua.” (136) [e
perché?]
Robert
Harris “Enigma” Repubblica Spy 13 euro 7,90
[A:
10/04/2019 – I: 05/02/2022 – T: 08/02/2022] - &&
[tit.
or.: Enigma; ling. or.: inglese; pagine: 412; anno 1995]
Una
trentina di anni fa lessi il primo libro di Harris, “Fatherland”, che trovai
interessante nel suo dipingere una ucronia ben delineata, anche se ben lontana
dal capolavoro del genere, “La svastica sul sole” di Philip K. Dick. Poi,
Harris è sempre stato ai margini, uno di quegli autori che forse si poteva leggere,
ma che non trovavo occasione per farlo.
Ecco
quindi, che, nella collana delle storie di spionaggio di Repubblica, ho modo di
leggere il suo secondo romanzo, che, tuttavia, non solo risente il peso dei 28
anni trascorsi, ma è appesantito anche da una storia spionistica anch’essa
leggermente ucronica, e purtroppo, mal rappresentata. Cioè, Harris parte da un
fatto reale, il lavoro di crittografi alleati per decifrare codici segreti
nazisti, ma ne inventa contorni, personaggi, trame abbastanza poco credibili,
anche perché si scontrano con dati di fatto acclarati.
Il
retroterra storico, quello reale, è più o meno ben noto: i tedeschi, sulla base
di un progetto iniziato nel 1918 e successivamente modificato ed ampliato,
costruiscono un apparecchio di codifica abbastanza complicato. Ci sono dei
rotori con elementi alfabetici, che vengono innescati secondo codici
prestabiliti, e che, in base al modo di innesco, forniscono, per ogni lettera
una lettera alternativa. Il ricevente del messaggio, sapendo il codice d’innesco,
fa il lavoro inverso e ricostruisce il messaggio. Questa macchina venne
chiamata “Enigma”.
Già
nel ’32, tuttavia, un’equipe di matematici polacchi riuscì a capirne il
meccanismo, e progettò un elaboratore di intercetto, chiamato “Bomba”. Allo scoppio
della guerra, i tedeschi usarono diversi tipi di “Enigma” per le varie
trasmissioni, sia terrestri che navali. Gli inglesi misero su una squadra di
analisti e matematici in località Bletchley Park, sotto la guida del
grandissimo Alan Turing, che, facendo fronte alle modifiche tedesche, progetto
una nuova macchina e riuscì a trovare il bandolo definitivo per decrittare i
messaggi nemici. Elemento che portò notevole beneficio alla vittoria finale
degli Alleati, soprattutto nel campo navale.
Ora
su questa storia, dove sicuramente in Bletchley Park ci saranno stati elementi
di spionaggio (siamo in guerra, che diamine), Harris costruisce il suo scenario
fantastico. Pur citando Turing, fa recitare la parte del decifratore massimo al
suo protagonista Tom Jericho. Poi inserisce una vicenda di spionaggio che mette
in pericolo tutta la strategia alleata, per arrivare ad una soluzione che rende
(quasi) tutti felici del successo. Meno ovviamente i cattivi.
Tom
effettua una prima decifrazione dei codici, poi si innamora di Clair, una delle
signorine presenti nel luogo, e quando questa lo schizza, lui, tra problemi di
cuore e stress lavorativo, ha un collasso nervoso. Viene allontanato, ma poi,
ad inizio romanzo, richiamato che gli analisti della squadra si trovano davanti
ad un grande problema: i tedeschi, misteriosamente, cambino il codice di
cifratura iniziale, quindi i messaggi non sono decodificabili, e si avvicinano
importanti missioni transatlantiche con reali pericoli che i sommergibili
tedeschi abbiano la meglio.
Tom
torna, cerca Claire che però misteriosamente scompare. Abbiamo quindi due
livelli di racconto: Tom ed i suoi che cercano di trovare il modo di risolvere
il rompicapo cifrato e Tom con Hester, un’amica di Claire, che cerca di capire
che fine abbia fatto la ragazza.
Per
complicare il tutto, Harris ci fa a lungo credere che Claire sia una spia
tedesca che passi informazioni al nemico. Tom, inoltre, essendo matematico è
notoriamente per il folklore popolare una persona un po’ fuori di testa, così i
suoi tentativi nelle due direzioni, vengono tenute sotto controllo di Servizi
Segreti alleati, come se fosse possibile sia lui la spia.
Harris
cerca di creare mistero, ma allunga solo il brodo, lasciando poi poche decine
di pagine a reggere la vera suspense. Tom, in base ad intuiti ed aiuti da parte
di Hester, decifra parte dei messaggi, capisce che si riferiscono a problemi
tra polacchi e russi, ipotizza che Claire sia in combutta con il polacco
presente a Bletchley Park, e si fa un film in testa.
Alla
fine, sia i Servizi che Tom arrivano alla soluzione completa del problema, con
Tom che ci porta anche ad una soluzione avanzata, che forse qualcuno sapeva, ma
che è l’unico momento di reale interesse di tutto il libro. Perché, come non si
dovrebbe fare, tutte le soluzioni vengono al fine trovate senza che il lettore
abbia avuto indizi di possibili fatti che a loro portano. Come conigli che
escono da cilindri.
Insomma,
certo uno scrittore che sa scrivere, ma che traviso molto. Primo, Tom dovrebbe
essere una specie di Turing mascherato, visto che gli si attribuisce la
soluzione del mistero. Tuttavia, non è credibile che un Tom-Turing cada in
depressione per una qualsivoglia Claire, visto che il buon Turing era gay.
Secondo, uno degli elementi cardine della soluzione è la decodifica di un
messaggio che narra del massacro di Katyn (l’esecuzione di 22.000 polacchi
militari e non da parte dell’esercito staliniano). Ora, tutta la storia si
svolge ai primi di marzo del ’43. Le prime notizie sul massacro di Katyn furono
date solo dopo metà aprile dello stesso anno.
Ci
sono anche altre piccole imprecisioni, ma la scrittura è già troppo lunga, per
cui ne riporto solo una, che forse è anche dovuta alla cattiva stampante usata.
Tra i libri di Tom che si porta a Cambridge, ne viene citato uno di “George
Shoobridge Garr”. È un libro esistente, che fornì la base istruttiva per il
grande matematico indiano Ramanujan. Peccato che l’autore si chiamasse “Carr”,
con la “C”!
Come
ormai dovreste sapere la quarta settimana è dedicata ad una trama di passaggio,
senza altre aggiunte. Mi piace comunque ricordare una frase di un’autrice a me
assai cara, la francese Fred
Vargas che nel suo “Dans les bois éternels” sostiene “en amour, mieux vaut
regretter ce qu’on a fait que regretter ce qu’on n’a pas fait” (162). Cioè, “in
amore, è meglio rimpiangere qualcosa che abbiamo fatto, piuttosto che qualcosa
che non abbiamo fatto”.
Per il resto, sembra che, nonostante il clima pesante di guerre e pandemie, qualcosa si stia muovendo. Forse si accumulano altre adesioni all’Islanda estiva. E si avvicinano altri interessanti week-end di riposo e di cultura. Speriamo che tutto si riesca ad appianare, anche se le notizia, intorno al globo, non sono delle migliori. Ma io, lo sapete, sono sempre portato all’ottimismo della volontà. Per cui vi abbraccio di nuovo.
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